Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeISSN 2282-667X
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo pdf fascicolo


Economia sociale di mercato e responsabilità sociale dell'impresa (di Mario Libertini)


La dottrina attuale dellaCorporate Social Responsibility(CSR) nasce negli U.S.A., negli anni Ottanta del sec. XX, come reazione all'affermarsi di quellamainstream theoryche esalta loshareholder valuecome unico obiettivo dell'impresa e la supremazia dei mercati finanziari. La dottrina della CSR riprende temi già largamente presenti nel dibattito precedente ed utilizza anche gli apporti delle critiche alla unilateralità e inadeguatezza delle ricostruzioni dell'impresa con il metodo dell'analisi economica del diritto. Un profilo relativamente nuovo è stato tuttavia quello della proposizione di argomenti di tipo efficientistico (le scelte di responsabilità sociale come investimenti reputazionale dell'impresa), oltre che quello legato all'elaborazione del nuovo concetto distakeholder(i.e. portatori di interessi, diversi da quelli degli investitori, ma stabilmente connessi alle sorti dell'impresa).

Dagli anni Ottanta a tutt'oggi si è assistito ad una prepotente e continua crescita di consensi (ed anche di riconoscimenti normativi) in ordine alla dottrina dellaCSR.Anche in Italia, mentre la riforma societaria del 2003 era incentrata sul primato delloshareholder value,interventi successivi (influenzati anche dalle prese di posizione della Commissione europea), come la l. 180/2011, hanno dato rilievo normativo alla CSR.

Resta tuttavia insuperata l'obiezione dei critici della dottrina della CSR, secondo cui, in un'economia effettivamente concorrenziale, il perseguimento di obiettivi socialmente responsabili deve necessariamente cedere al vincolo della ricerca del massimo profitto. Si deve dunque riconoscere che l'attuazione dei principi della CSR avrà tanta più consistenza quanto più sarà accompagnata da norme di incentivazione, anziché essere affidata allo spontaneismo (e ad una supposta, e improbabile, lungimiranza delle imprese), come è nella teoria ufficiale della CSR.

L'a. si chiede poi se la dottrina della CSR sia parte integrante della tutela della "economia sociale di mercato altamente competitiva", di cui parla l'art. 3 T.U.E.

A tal fine la dottrina dell'Economia Sociale di Mercato (ESM) viene ricostruita come evoluzione delle teorie liberali, intesa ad  esaltare la complementarietà fra pubblico e privato, muovendo dalla convinzione che l'ordine spontaneo del mercato non sia possibile né auspicabile, che il processo concorrenziale debba essere sostenuto da un'autorità pubblica indipendente, e che il potere pubblico debba supplire, con la propria azione, alle insufficienza del mercato.

In questa prospettiva, la dottrina dell'ESM non pone un preciso vincolo, a carico delle imprese, di perseguire obiettivi socialmente responsabili. La socialità del sistema dev'essere piuttosto garantita dall'azione regolatoria e, all'occorrenza, suppletiva dello Stato, mentre il compito essenziale delle imprese è quello di farsi lealmente concorrenza nel rispetto delle leggi.

The current doctrine of Corporate Social Responsibility (CSR ) was born in the USA, in the eighties of the twentieth century, as a reaction to the mainstream theory that emphasizes the role of shareholder value as the sole objective of the company and the financial markets' supremacy. The doctrine of CSR includes themes that were widely present in the previous debate, and also utilizes the contributions of the criticism to the one-sided and inadequacy of the reconstructions of the company by the method of economic analysis of law. What is relatively new, however, is the proposition of arguments based on efficiency (the enterprise's policies oriented to social responsibility as an investment in the enterprise's reputation), as well as the development of the new concept of stakeholders (i.e. people, other than investors in equity or company's creditors, who are firmly connected to the fortunes of the company) .

Since the eighties of the last century the CSR doctrine has been continuously growing in importance, not only as a philosophical point of view, but also as a regulatory tool. In Italy, there has been a quite recent development (see Law no. 180 of 2011), also influenced by the positions taken by the European Commission, while previously the corporation law reform of 2003 was centred on the primacy of shareholder value.

However, the objection of the critics to the CSR doctrine remains unsurpassed: in an effectively competitive economic system, they say, the pursuit of socially responsible goals must necessarily give way to the pursuit of profit maximization. It follows that the implementation of CSR principles is not going to be possible if it is not incentivized by the law or by public interventions; in other words, it is not realistic to rely only on spontaneity (and supposed  far-sightedness of companies) , as the official CSR doctrine declares.

The author then considers whether the doctrine of CSR is connected with the objective of enhancing a  "highly competitive social market economy ", as  mentioned in article 3 EU Treaty.

He describes the doctrine of the Social Market Economy (SME) as an evolution of liberal theories, which aims at enhancing the complementarity between public and private, moving from the assumptions that the spontaneous order of the market is neither possible nor desirable, the competitive process should be supported by a public independent authority and that the public power should be able to make up for market failures.

In this perspective, we cannot say that, according to the SME doctrine, companies are obliged to pursue socially responsible objectives. This is a task for public regulation, while enterprises are basically requested to compete fairly according to the legal framework.

Sommario/Summary:

1. Premessa - 2. La riemersione della Corporate Social Responsibility nella teoria dell’impresa negli Stati Uniti, a temperamento dell’affermazione delle teorie finanziarie dell’impresa. - 3. Le diverse giustificazioni della CSR e il crescente consenso su tale teoria - 4. Le posizioni critiche sulla teoria della CSR nel dibattito americano - 5. L’accoglienza ricevuta dalla teoria nell’ambiente europeo ed italiano. L’atteggiamento prevalentemente negativo dei giuristi italiani. - 6. La responsabilità sociale dell’impresa come problema di diritto positivo. Diverse forme di riconoscimento e tendenziale crescita delle stesse. La legge 180/2011 sullo “statuto delle imprese” - 7. La costituzione economica europea dopo il Trattato di Lisbona: la libertà d’impresa nell’art. 16 della Carta dei Diritti e il principio della “economia sociale di mercato altamente competitiva”. - 8. Una difesa della dottrina dell’economia sociale di mercato - 9. Mancanza di una corrispondenza necessaria fra economia sociale di mercato e responsabilità sociale dell’impresa, ma possibile (e tendenziale) confluenza ideale delle due linee di pensiero - 10. Conclusioni - NOTE


1. Premessa

Questo intervento sarà diviso in due parti: (i) nella prima (più lunga) si tenterà di esporre una sintesi dello stato attuale del dibattito sulla "responsabilità sociale dell'impresa", che oggi prosegue vivacemente in diverse sedi, politiche e scientifiche; questa parte riprende, con qualche aggiornamento e approfondimento, uno scritto da me pubblicato nel 2009; (ii) nella seconda parte si cercherà di verificare se e in quale misura la teoria della responsabilità sociale d'impresa è fatta propria, o è almeno compatibile, con i principi dettati dal Trattato di Lisbona.


2. La riemersione della Corporate Social Responsibility nella teoria dell’impresa negli Stati Uniti, a temperamento dell’affermazione delle teorie finanziarie dell’impresa.

L'attuale dibattito in materia diCorporate Social Responsibilityha una matrice prettamente statunitense: è nato come un capitolo importante all'interno dellaCorporate Law(cioè, potrebbe dirsi, del "diritto delle grandi imprese"), con scarsa attenzione verso i contributi che, sugli stessi temi, potevano essere forniti della storia delle istituzioni e del pensiero politico ed economico europeo.             In questa sede preferisco evitare un allargamento della prospettiva e concentrare l'attenzione sui punti salienti della teoria americana della CSR. Nella storia delle dottrine diCorporate Lawda lungo tempo si sono abbandonate le prospettive formali, incentrate sull'idea di proprietà dell'impresa o su quella di personalità dellacorporation,e si è studiata quest'ultima come forma di organizzazione giuridica dell'impresa, intesa come formazione sociale ed economica (donde la generalizzata definizione del tema come "corporate governance",cioè teoria del governo dell'impresa: prospettiva evidentemente più ampia di quella definibile in termini di "diritto societario"). In questa prospettiva, l'idea che i comportamenti delle imprese siano di norma ispirati non solo a criteri di massimizzazione del profitto, ma anche a criteri di responsabilità sociale, nel senso della esigenza di costruire - al di là del rispetto dei doveri elementari di legge - un clima di fiducia reciproca (all'interno dell'impresa e nei rapporti esterni alla stessa), e la considerazione di questa fiducia come capitale collettivo, è radicata nella cultura economica e giuridica statunitense[1]. La prima, grande stagione del filone di studi ispirato a questo ordine di idee si caratterizzò con l'affermazione delle teorie manageriali dell'impresa, emblematicamente rappresentate dal libro di Berle e Means del 1932. In esse la grande impresa è vista essenzialmente come organismo produttivo stabile, caratterizzato da un patrimonio di conoscenze proprio, da una gerarchia interna, dalla necessità di una direzione strategica volta a mantenere e rafforzare la propria posizione nei mercati. In questa prospettiva, è visto come centrale il ruolo dei manager ed appare inevitabile che essi godano di ampia autonomia nei confronti degli investitori, proprietari formali dell'impresa[2]. Questa autonomia deve essere esercitata dai manager stessi, [...]


3. Le diverse giustificazioni della CSR e il crescente consenso su tale teoria

Passando dal piano filosofico-politico generale a quello più propriamente economico-aziendale, la contraddizione fra i due orientamenti di fondo non solo permane ma si accentua. Per cercare di approfondirne i possibili esiti, giova osservare che, mentre la teoria dell'impresa come "centrale di investimento" può dirsi ben radicata nell'esperienza e nei diversi contesti normativi, la teoria della CSR non ha un fondamento razionale altrettanto sicuro, e oscilla fra esortazioni etiche, affermazioni efficientistiche, e proposte di politica legislativa.             In un importante articolo del 2006 (di cui non avevo tenuto conto nel mio precedente scritto in argomento), M.E. Porter e M.K. Kramer[18] classificano le ragioni giustificatrici avanzate dai fautori della CSR in quattro diverse categorie: (i)                 le ragioni puramente etiche[19]; (ii)               il principio dello sviluppo sostenibile, inteso come principio fondante dell'attività di tutti i soggetti, pubblici e privati; (iii)             le teorie contrattualistiche (in senso lato)[20], per cui l'impresa non potrebbe normalmente svolgere la sua attività senza una"social licence to operate",cioè senza un accordo, espresso o tacito, con tutte le realtà coinvolte nell'attività dell'impresa stessa (in questa categoria si inquadrano lateam production theorye alcune varianti dellanexus of contracts theory); (iv)             le teorie dell'investimento reputazionale, secondo cui adottare criteri di CSR rafforzerebbe la reputazione dell'impresa e quindi la sua capacità di fare profitti nel lungo periodo. Gli aa. criticano tutte queste giustificazioni[21], come inidonee a fondare una regola di comportamento vincolante per le imprese, e denunciano il rischio che l'affermarsi di tali  giustificazioni porti solo ad un miscuglio di iniziative scoordinate e di facciata[22]. Questi rilievi non conducono però al risultato di rifiutare l'intera dottrina come infondata, bensì al tentativo di dare alla stessa un migliore fondamento razionale, che viene ancorato alla nota teoria dei vantaggi [...]


4. Le posizioni critiche sulla teoria della CSR nel dibattito americano

A questo punto, prima di accogliere la conclusione della "inevitabilità della CSR"[30] si deve riflettere sulle ragioni degli oppositori. Sempre rimanendo fermi al dibattito di matrice americana, può dirsi che le voci critiche principali sono costituite, in primo luogo, dai fautori dell'ortodossia capitalistica, secondo cui l'affermarsi di principi di CSR rischia di ridurre l'efficienza imprenditoriale e così, indirettamente, lo stesso benessere complessivo. Queste voci sono però sempre meno frequenti e meno convinte[31]: è agevole infatti osservare che una gestione aziendale che, senza perdere di vista la finalità lucrativa, riesca a ridurre le esternalità negative - qual è, in ultima analisi, quella auspicata dai fautori della CSR - non può che incrementare il benessere collettivo (e quindi l'efficienza allocativa a livello globale). La critica più forte alla teoria della CSR, come viene da più parti riconosciuto, è quella formulata da D. Vogel[32] e - soprattutto (per la diffusione mediatica) - da R. Reich[33]: questa critica non esprime alcuna contrarietà di principio alla CSR, ma rileva una contraddizione insuperabile nell'affermazione contemporanea di una sempre maggiore tutela della concorrenza fra imprese, da un lato, e di una sempre maggiore responsabilità sociale delle stesse, dall'altro. Il rafforzamento della concorrenza pone sempre più l'impresa nella "logica della necessità" (di cui parlava tanti anni fa K. Marx): se un'impresa rinuncia ad un'occasione di profitto, giuridicamente consentita, per ragioni di responsabilità sociale, questa stessa occasione sarà colta da un'impresa concorrente, che così acquisterà un vantaggio competitivo, che potrà poi sfruttare su altri terreni, migliorando ulteriormente la propria posizione nel mercato, a danno del concorrente socialmente responsabile[34]. Sul punto Reich ha scritto incisivamente: "Da anni ormai vado sostenendo che la responsabilità sociale e la redditività nel lungo termine convergono. Questo perché un'azienda che rispetta e valorizza i suoi dipendenti, la comunità in cui opera e l'ambiente alla fine ottiene il rispetto e la gratitudine dei suoi dipendenti, della comunità e dell'intera società, che si traducono poi in maggiori profitti. Ma non sono mai riuscito a dimostrare [...]


5. L’accoglienza ricevuta dalla teoria nell’ambiente europeo ed italiano. L’atteggiamento prevalentemente negativo dei giuristi italiani.

Credo che valga perciò la pena di approfondire il tema della CSR, affrontando il profilo della sua traduzione in termini di diritto positivo.             Prima di fare ciò, mi sembra però opportuno aprire una parentesi per richiamare le reazioni che la teoria americana recente della CSR ha avuto in ambito europeo ed italiano.             La reazione europea è stata non entusiastica, almeno in un primo tempo[40]. C'era una differenza di fondo, derivante dall'ispirazione panprivatistica della teoria della CSR e dalla conseguente svalutazione del ruolo dell'intervento pubblico nella vita economica. La tradizione culturale europea si era nutrita di fiducia (eccessiva, ma questo è un altro discorso) nell'intervento pubblico e di forte protezione sindacale dei lavoratori[41] e, tradizionalmente, non aveva ridotto i problemi di corporate governance a problemi di agency nei rapporti fra investitori ed amministratori e di buon funzionamento dei mercati finanziari[42]. D'altra parte, le differenze fra Stati Uniti ed Europa, in termini di modelli dicorporate governance (che, secondo la schematizzazione corrente, caratterizzano l'Europa in termini di minore peso dei mercati finanziari, di controllo proprietario stabile delle imprese, di forte protezione sindacale dei lavoratori), facevano apparire meno urgente e non troppo realistico un approccio, come quello della teoria della CSR, fondato su un'esigenza di controllo della discrezionalità gestionale degli amministratori[43]. Non stupisce, pertanto, che l'attenzione verso la teoria della CSR sia stata importata, in Europa, con qualche anno di ritardo, e di pari passo proprio con l'affermazione delle teorie finanziarie dell'impresa, ed anche come contrappeso verso le stesse. E' interessante notare che il fenomeno si è presentato in forma di dipendenza culturale dagli Stati Uniti, senza un impegno di riflessione sulla potenziale continuità con le vecchie teorie istituzionalistiche dell'impresa, di matrice europea. In ogni caso, ciò che in ultima analisi rendeva non difficile la recezione della teoria della CSR in Europa era la consonanza nei contenuti normativi della teoria, che andava dal rispetto degli interessi dei lavoratori e dei consumatori fino all'inclusione dei temi ambientali (principio dello sviluppo [...]


6. La responsabilità sociale dell’impresa come problema di diritto positivo. Diverse forme di riconoscimento e tendenziale crescita delle stesse. La legge 180/2011 sullo “statuto delle imprese”

Sul piano delle norme di diritto positivo, gli ordinamenti attuali sono stati classificati (B. Horrigan), per quanto riguarda la CSR, in diverse categorie: a)      ordinamenti che non contengono norme che autorizzino gli amministratori a prendersi cura di interessi diversi da quelli degli azionisti (probabilmente ancora la maggioranza); b)      ordinamenti che contengono norme che autorizzano (ma non obbligano) espressamente gli amministratori a prendersi cura di interessi diversi da quelli degli azionisti (così leCorporate Constituency and Anti-takeover lawsdi una ventina di stati americani); c)        ordinamenti che contengono norme di soft law che pongono il dovere per gli amministratori di prendersi cura degli interessi degli stakeholder (per es. il codice tedesco di corporate governance del 2009[53]; in modo più sfumato, le stesse raccomandazioni della Commissione Europea degli anni 2001-2002, confermate a più riprese nel corso dell'ultimo decennio[54] e da ultimo rafforzate con la Comunicazione del 25 ottobre 2011[55]); d)      ordinamenti che contengono norme regolamentari che pongono il dovere per gli amministratori di prendersi cura degli interessi deglistakeholder(per es. i principi di governo delle società quotate dettati nel 2002 dall'autorità di regolazione della Nuova Zelanda); e)       ordinamenti in cui il dovereper gli amministratori di prendersi cura degli interessi deglistakeholderè stato affermato in precedenti vincolanti della Corte Suprema (Canada); f)        ordinamenti in cui il dovereper gli amministratori di prendersi cura degli interessi degli stakeholder è stato affermato in norme di legge espressa (Art. 172 Companies Act inglese)[56]. Ciò che più colpisce, in un panorama apparentemente così differenziato, è però la convergenza di tutti gli ordinamenti verso una soluzione sostanzialmente comune, che è quella per cui la cura degli interessi degli stakeholders rientra nella discrezionalità gestionale degli amministratori e non può essere censurata da quegli azionisti che pretenderebbero di avere, nell'immediato, dividendi più elevati[57]; ma, contemporaneamente, nessun ordinamento (neanche quello [...]


7. La costituzione economica europea dopo il Trattato di Lisbona: la libertà d’impresa nell’art. 16 della Carta dei Diritti e il principio della “economia sociale di mercato altamente competitiva”.

A questo punto, resta da chiedersi se e in che misura la teoria della CSR sia penetrata nelle norme del Trattato di Lisbona, con ciò creando qualche "vincolo derivante dal diritto comunitario",come tale rilevante ai sensi dell'art. 117, comma 1, Cost.             A tale proposito non può fornire spunti significativi l'art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell'U.E. (che, ai sensi dell'art. 6 del T.U.E., ha "lo stesso valore giuridico dei Trattati"), per il quale"èriconosciuta la libertà d'impresa, conformemente al diritto dell'Unione e alle legislazioni e prassi nazionali".Questa formula del "riconoscimento (condizionato) della libertà d'impresa", che riecheggia sinteticamente il tono dell'art. 41 Cost., non ci dice nulla sul tipo di impresa che l'Unione europea vuole tutelare; ci dice però, chiaramente, che la libertà d'impresa è comunque una libertà regolata (ciò che pochi hanno ricordato, nel superficiale dibattito sulla riforma dell'art. 41 animatosi per qualche tempo, a cominciare dalla primavera del 2010, per iniziativa del Governo allora in carica). Inoltre, l'art. 16 della C.D.F.U.E. tutela chiaramente l'impresa come formazione sociale, e non pone l'impresa come oggetto di un diritto fondamentale della persona (basta confrontare il dato testuale dell'art. 16 con quello di altre disposizioni, a cominciare dallo stesso art. 17, riguardante il diritto di proprietà).             Il fatto che la libertà d'impresa sia riconosciuta, nel Trattato di Lisbona come nell'art. 41 Cost., come una libertà non tutelata come diritto fondamentale della persona, e sia necessariamente circondata da limiti e regolazioni, nonché destinata a cedere nel bilanciamento con valori costituzionali di rango superiore, non significa però che, nei principi della costituzione economica in vigore, vi sia già un implicito riconoscimento della dottrina della responsabilità sociale d'impresa[66]: l'art. 41 Cost. afferma - secondo un'attendibile interpretazione del comma 2° - la cedevolezza della libertà d'impresa in caso di conflitti con diritti fondamentali della persona umana, ma ciò è ben lungi dall'imporre all'impresa di perseguire scelte "socialmente responsabili" in situazioni [...]


8. Una difesa della dottrina dell’economia sociale di mercato

Chi scrive ritiene che la teoria dell'ESM fornisca una ideologia chiara, forte ed eticamente fondata, su cui - anche a seguito dell'espresso riconoscimento ad essa dato dal Trattato di Lisbona - sarebbe doveroso impegnarsi, come giuristi, in un approfondito lavoro critico e costruttivo. In effetti, ciò che sta avvenendo attorno a noi non sembra affatto riflettere questo scenario. Da un lato, riemergono, dall'osservazione della crisi e dall'osservazione della crescita economica di paesi ad economia dirigistica (in primo luogo, ovviamente, la Cina) rivalutazioni dell'efficienza dei sistemi di "capitalismo di Stato"[73]; ciò che, peraltro, è sempre stato per le fasi di crescita originaria dei sistemi economici, ma non può riproporsi come modello per le situazioni di capitalismo maturo. Dall'altro, e più significativamente, la teoria dell'ESM appare a molti più un retaggio del passato che un'ideologia valida per il futuro. In Germania (cioè nella patria della dottrina dell'ESM), c'è chi parla di "crisi di fiducia"[74], o anche di "fine" dell'ESM[75]. Le ragioni delle critiche stanno, in primo luogo, in una sensazione di inadeguatezza della dottrina dell'ESM (in quanto costruita avendo in mente la presenza di Stati nazionali sovrani) ad affrontare i problemi che nascono in un mondo globalizzato[76]; e, in secondo luogo, da una sensazione di inadeguatezza della dottrina a realizzare effettivamente i suoi scopi dichiarati. Inoltre, alcuni rimproverano alla teoria una pretesa contraddittorietà, o comunque elevata vaghezza, dei suoi contenuti: ciò che la renderebbe sostanzialmente priva di valore[77]. Queste critiche mi lasciano molto perplesso, per le seguenti ragioni: I)                   La dottrina dell'ESM, come tutte le dottrine, se riguardate al livello dell'indicazione di principi, presenta ampi profili di indeterminatezza (qual è il tipo di concorrenza che dev'essere protetto dalle autorità antitrust? Quali sono i servizi essenziali ai quali lo Stato deve provvedere, in attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale? e via discorrendo); ma questa non è una buona ragione di critica, perché potrebbe valere per qualsiasi testo costituzionale; e penso che nessuno, al giorno d'oggi, voglia proporre l'abolizione del - o [...]


9. Mancanza di una corrispondenza necessaria fra economia sociale di mercato e responsabilità sociale dell’impresa, ma possibile (e tendenziale) confluenza ideale delle due linee di pensiero

Se si accetta la ricostruzione della dottrina dell'ESM esposta nel § 7, deve giungersi alla conclusione che essa non pone un preciso vincolo, a carico delle imprese, di perseguire obiettivi socialmente responsabili. La socialità del sistema dev'essere piuttosto garantita dall'azione regolatoria e, all'occorrenza, suppletiva dello Stato, mentre il compito essenziale delle imprese è quello di farsi lealmente concorrenza nel rispetto delle leggi.           In altri termini, potrebbe confermarsi che, nel Trattato di Lisbona, non c'è una scelta espressa a favore di un certo tipo di impresa, né di una qualche forma di responsabilità d'impresa. Per contro, il riferimento alla dottrina dell'ESM potrebbe leggersi piuttosto nella direzione della diversità e complementarietà di ruoli fra pubblico e privato.           Questa conclusione però dev'essere subito ridimensionata dalla circostanza che la disposizione di principio dell'art. 3 del Trattato UE richiama la dottrina dell'ESM come base per la realizzazione di uno "sviluppo sostenibile", così richiamando un principio di tutela ambientale che, per quanto ormai da tempo inglobato nella dottrina dell'ESM, è sorto in un contesto culturale diverso, costituente anche terreno di coltura della teoria della responsabilità sociale d'impresa.           D'altra parte, non può dimenticarsi che il pensiero ordoliberale, che sta alla radice della dottrina dell'ESM, è stato costruito da autori generalmente molto sensibili ai profili etico-religiosi e costantemente volti a sottolineare l'insufficienza delle regole giuridiche a realizzare una "buona società" senza il sostegno di una cultura condivisa, permeata da principi di solidarietà sociale (nella storia del pensiero politico italiano, le affinità con il pensiero ordoliberale possono trovarsi non tanto nel filone di pensiero liberalsocialista, quanto piuttosto in Luigi Einaudi).           La conclusione a cui può giungersi è dunque che le disposizioni di principio del Trattato di Lisbona, se da un lato non impongono nell'immediato alle imprese europee di perseguire obiettivi di CSR, per altro verso certamente non sono ostili a che le imprese si [...]


10. Conclusioni

Quanto detto non deve però fare smarrire il peso relativo dei diversi temi, sui quali si è tentato di riflettere in queste note. Tenterei di riassumere tali temi nelle seguenti conclusioni: a)il problema più grave del nostro tempo è costituito dalla crisi di rappresentatività e di efficienza dei sistemi politici democratici e dal progressivo decadimento delle pubbliche amministrazioni (e non dall'esistenza di regole cattive o inefficienti di governo delle imprese); b)la dottrina dell'economia sociale di mercato - che postula mercati concorrenziali efficienti e poteri pubblici altrettanto efficienti, e indipendenti dai poteri privati - costituisce una valida base per costruire in modo giusto ed efficiente il rapporto fra azione pubblica e sistema delle imprese nel mondo contemporaneo; inoltre, questa scelta corrisponde alle indicazioni di principio contenute nei Trattati dell'Unione Europea; c)l'idea che la responsabilità sociale delle imprese possa supplire alle carenze crescenti dell'azione pubblica costituisce un gravissimo errore; d)l'affermazione di criteri di gestione socialmente responsabili da parte delle imprese è comunque auspicabile, come strumento complementare per il raggiungimento di obiettivi di giustizia sociale e per la tutela di valori condivisi; e) l'affermazione di criteri di gestione socialmente responsabili da parte delle imprese sarà tanto più efficace quanto più sarà sostenuta da adeguati incentivi di carattere normativo ed istituzionale[82].


NOTE