Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2282-667X
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La danza del realismo e della critica: riflessioni sul metodo giuridico* (di Francesco Denozza, Già Professore emerito di diritto commerciale, Università degli Studi di Milano)


* Il presente lavoro riproduce, con alcune integrazioni, la relazione svolta nel corso della tavola rotonda “Il metodo nel diritto commerciale”, tenutasi il 22 febbraio 2019 nell’ambito del X Convegno annuale dell'Associazione "Orizzonti del diritto commerciale".

Il lavoro prende anzitutto posizione a favore delle concezioni strumentali del diritto. Una visione strumentale del diritto ne enfatizza la natura di fenomeno sociale, destinato a produrre effetti socialmente rilevanti, e considera perciò la razionalità sostanziale (intesa come ricerca consapevole e coerente di fini estrinseci al sistema giuridico, quali, ad esempio, obiettivi etici, utilitaristici o politici) molto più importante della razionalità formale (intesa come l’uso di criteri di decisione intrinseci al sistema giuridico, costruiti da un pensiero giuridico specializzato).

In questa prospettiva, la razionalità del sistema giuridico dipende non tanto dalle sue caratteristiche intrinseche (sistematizzazione logica, coerenza interna, completezza, ecc.) ma dalla sua capacità di guidare una data realtà sociale in una direzione appropriata. L’inter­pretazione giuridica richiede perciò un’adeguata conoscenza dell’effettivo funzionamento delle norme giuridiche nei contesti sociali che esse regolano, e un metodo basato su concetti critici e dialettici (anziché statici), in grado di interpretare la continua evoluzione del sistema legale, imposta da circostanze sociali in rapido cambiamento. In definitiva, il ragionamento giuridico ha bisogno di concetti in grado di danzare allo stesso ritmo della realtà regolata.

* This article is an expanded version of the talk given at the roundtable on “Il metodo nel diritto commerciale” that was held on 22 February 2019 at the Tenth Annual Conference of the ODC Association.

Dance of realism and critique: the legal method reconsidered.

The paper begins by taking a stand in favour of instrumentalist legal reasoning. An instrumental view emphasizes law as a social phenomenon, with social impact, and considers substantial rationality (understood as the conscious and consistent pursuit of ends extrinsic to the legal system, such as ethical, utilitarian or political goals) much more important than formal rationality (understood as the use of criteria of decision intrinsic to the legal system, construed by specialized modes of legal thought).

In this view, the rationality of the legal system depends not so much on its intrinsic features (logical systematization, internal consistency, completeness, etc.) but on its ability of steering a given social reality in an appropriate direction. Therefore, legal interpretation requires adequate knowledge of the actual operation of legal rules in the social settings they regulate, and a method based on critical and dialectical (instead of static) concepts, able to interpret the continuous evolution of the legal system, imposed by rapidly changing social circumstances. Ultimately, legal reasoning needs concepts able to dance at the same rhythm of the regulated reality.

Keywordslegal method – realism – critical thought

CONTENUTI CORRELATI: metodo legale - realismo - teoria critica

Sommario/Summary:

1. Introduzione. - 2. Razionalità formale v. razionalità sostanziale. - 3. La totalità fatti-norme. - 4. Logica sistematica v. logica dialettica. - 5. Astrazione come generalizzazione e astrazione come separazione. - 6. Razionalità strumentale e ragione critica. - 7. Conclusioni: interpretare, spiegare, trasformare. - NOTE


1. Introduzione.

Lo scienziato sociale studia una realtà (la società) che è in continuo movimento e che egli osserva non dall’esterno, ma dall’interno, in quanto parte di ciò che studia (è come un signore che tenta di salire su un’auto in corsa [1]).

Egli studia non cose, ma processi e relazioni, in continua evoluzione, che legano le parti tra loro e con il tutto di cui fanno parte. Il metodo di cui ha bisogno deve perciò assicurare al suo pensiero la capacità di danzare con lo stesso ritmo con cui si muove la realtà che studia.

Premesse queste personali, e metodologicamente alquanto impegnative, convinzioni di carattere generale, che dire di specifico sul metodo nell’ambito della scienza sociale diritto?

Io credo che per uno studioso della mia età, un utile modo di avvicinare il problema possa essere quello di riformulare la domanda chiedendo: «quale metodo pensi di avere usato e quali sono i giuristi dai quali ti sembra di avere imparato di più»? [2]

La domanda diventa allora per me molto facile e non ho difficoltà a rispondere con sicurezza. Gli autori da cui credo di avere imparato di più sono una lunga teoria che parte dal secondo Jhering, prosegue con l’Interessenjurispru­denz (l’importanza del cui messaggio è il primo insegnamento che mi trasmise tanti anni fa il mio maestro Pier Giusto Jaeger) prosegue con i realisti americani e giunge ai nostri giorni con l’analisi economica del diritto (EAL).

Come si vede, si tratta di un gruppo che da un certo punto di vista appare a tutta prima alquanto male assortito. Jhering era un liberale quasi classico (anche se con idee fortemente originali: mi capita sempre più spesso di riflettere sull’importanza della sua tesi per cui esiste un dovere di esercitare i propri diritti [3]). Philip Heck, il grande teorico della giurisprudenza degli interessi, finì per appoggiare il partito Nazionalsocialista; molti realisti americani passarono parte della loro vita a difendere i diritti degli Amerindi, degli Afroamericani e delle minoranze, cosa che interessa ben poco alla maggior parte dei teorici dell’EAL, alcuni dei quali teorizzano, come è noto, la liceità delle discriminazioni efficienti.

Eppure è facile mettere insieme questi pensatori se si considera, per dirla in maniera brutale e forse anche un po’ banale, che tutti concepiscono il diritto come un insieme di regole che ha lo scopo preciso di assicurare un certo assetto dei conflitti di interesse che esistono nella società. Insomma si può dire che, in un modo o nell’altro, condividono una concezione strumentale del diritto [4].

In questa visione un diritto razionale è un diritto che disciplina la realtà che ha di fronte in maniera ragionevole. La razionalità non è perciò un potenziale attributo del sistema di regole in sé considerato. La razionalità è una qualità che può essere riconosciuta solo alla totalità costituita dall’insieme regole-realtà.


2. Razionalità formale v. razionalità sostanziale.

A questo modo di vedere il diritto se ne contrappone un altro, il cui cantore è Max Weber. Come è ben noto, uno dei capisaldi del pensiero di Weber è l’analisi della razionalizzazione della società (considerata caratteristica della modernità in generale, e del capitalismo in particolare) accompagnata dalla distinzione tra i diversi tipi di razionalità. Ovviamente qui non si può neanche accennare alla grandiosa, complessa costruzione del pensiero weberiano. Basterà per quanto ci interessa ricordare che la principale (e più meritoria) qualità che Weber attribuisce agli ordinamenti occidentali moderni (e, in particolare, a quello tedesco, modellato dalla Pandettistica) è la c.d. razionalità formale, qualità che, tralasciando il tema dell’irrazionalità (anch’essa distinta in formale e sostanziale), Weber contrappone alla razionalità sostanziale del diritto [5].

Semplificando, si può dire che nel linguaggio di Weber un diritto sostanzialmente razionale è un diritto che persegue dei fini, fini che possono essere di varia natura, morali o religiosi, ma anche politici, pratici o di altro genere. Un diritto formalmente razionale è invece un diritto preoccupato esclusivamente della sua coerenza interna, e della possibilità di acquisire, grazie a questa coerenza logica, qualità come la certezza, la prevedibilità e, in definitiva, una sorta di calcolabilità.

In questa prospettiva il diritto occidentale moderno diventa un importante tassello nel mosaico della razionalizzazione della società e del sistema capitalistico. Come la separazione dell’attività economica dall’attività familiare, insieme alla partita doppia e allo sviluppo delle altre tecniche contabili, hanno reso calcolabili i fatti interni all’impresa; come i mercati concorrenziali, e la legge della domanda e dell’offerta, hanno reso calcolabile l’ambiente economico in cui l’impresa opera, così il diritto formalmente razionale, e una burocrazia professionale separata dai familiari e cortigiani del sovrano, rendono prevedibile e calcolabile anche l’ambiente istituzionale in cui l’imprenditore capitalista si muove. In questa visione è però essenziale che giudici e burocrati non si lascino vincere dalla tentazione di perseguire qualche specifico fine materiale e si limitino invece ad applicare (meccanicamente) le regole presenti in un sistema formalmente neutrale, basato su una rigida gerarchia di principi astratti e reso completo dalla sua capacità di svilupparsi in base ad operazioni puramente logiche.

L’esclusione di ogni riferimento alla razionalità sostanziale diventa un ele­mento necessario al buon funzionamento di un simile sistema. Un ordinamento che dichiari di perseguire un qualsiasi fine diverso dalla sua razionalizzazione formale, finisce inevitabilmente per sollecitare i giudici a fare quello che non dovrebbero, e cioè procedere ad una valutazione in ogni singolo caso della congruenza tra il fine dichiaratamente perseguito dall’ordinamento e gli effetti che in quel caso produce una certa applicazione delle norme, con conseguente disponibilità ad orientare le applicazioni non in base a regole logiche, ma in base alla loro congruenza con il fine sostanziale perseguito.

Questa rigorosa concezione della razionalità formale, che auspica un giudizio non solo imparziale ma addirittura «meccanico», anch’essa variamente presente in una serie di movimenti di pensiero (politicamente altrettanto eterogenei) in cui potremmo collocare i già menzionati Pandettisti (che erano come si è detto, il principale riferimento intellettuale di Weber) e quello che gli americani chiamano il Classical Legal Thought, appare oggi difficilmente proponibile e ancor più difficilmente realizzabile. Ciò non esclude che concezioni in cui prevale un’idea in fondo formalistica del diritto siano in qualche modo presenti e teorizzate anche in chiavi e linguaggi più moderni [6], e soprattutto che una tendenza al formalismo sia sempre incombente, come una sorta di spinta inconscia, non teorizzata, ma influente, nell’atteggiamento dei giuristi anche contemporanei.

Al di là delle molte discussioni filosofiche che potrebbero farsi su questa contrapposizione [7], un elemento banalmente evidente, ma importantissimo, che vorrei sottolineare è la diversa attenzione che nei due atteggiamenti (sostanzialistico e formalistico) riceve la realtà regolata. Quando si lascia influenzare dalla passione per la razionalità formale, il giurista finisce in genere per dimenticare che la calcolabilità a livello operativo di un ordinamento non dipende solo dalla coerenza del sistema di norme, ma dipende anche dalla natura della realtà regolata (e dalle finalità perseguite, finalità che Weber relega nel livello «inferiore» dove opera la razionalità sostanziale, e che però non possono essere esorcizzate oltre un certo limite [8]).

Ricorrendo ad un banale esempio, ben si può immaginare un ordinamento in cui l’omicidio è regolato da una sola norma che commina la pena di morte a tutti gli assassini, senza tante storie su omicidi colposi, stradali, preterintenzionali, commessi con dolo eventuale, in stato di legittima difesa ecc. È probabile che questo sistema con una sola norma generale sarebbe più «calcolabile» del nostro, in quanto evita la necessità di distinguere tutte le diverse fattispecie legali e previene, al massimo grado possibile, ogni tentazione giudiziale di articolare obiettivi sostanziali di politica del diritto in materia di omicidi. Si tratta, però, di un sistema che può funzionare (forse!) solo in una società che abbia determinate, specifiche, caratteristiche, prima di tutte la compattezza nel­l’accettare l’idea che possa essere punita con la massima pena anche la più piccola disattenzione che abbia causato la morte di qualcuno. Cosa che probabilmente presuppone una società relativamente arcaica, con minime occasioni d’interferenza involontaria nelle relazioni tra i suoi membri, in cui esista un alto grado di facile prevedibilità degli effetti delle azioni di ciascuno, e così via.

Mi sembra più che legittimo il dubbio che un simile semplicistico modo di disciplinare gli omicidi non reggerebbe in una società complessa e ad altissima interattività come la nostra, che ha invece bisogno di molte sottili distinzioni che rendono il diritto oggettivo meno calcolabile, ma socialmente molto più accettabile.

L’esempio credo aiuti a chiarire la semplice considerazione con cui avevo aperto questa discussione, e cioè che un ordinamento giuridico non va studiato come un insieme di regole collegate da vincoli logici, ma come una totalità di fatti e di norme che interagiscono ed evolvono in base ad esigenze strettamente pratiche.


3. La totalità fatti-norme.

Sia chiaro che non intendo affatto sollecitare un’acritica adesione alle concezioni strumentali del diritto, che sono, come ho già detto, tra loro assolutamente eterogenee (e la principale delle quali – l’EAL – ho io stesso passato la vita a criticare). La contrapposizione tra concezioni formali e concezioni stru­mentali non serve a schierarsi, ma a ricavare insegnamenti.

Il primo insegnamento di questa discussione è, come ho detto, l’indicazio­ne in favore di uno studio del diritto concepito come una realtà composta da fatti e da norme, cosa che implica un evidente corollario: per applicare correttamente le norme bisogna tenere conto della realtà fattuale cui le norme si applicano, e averne adeguata conoscenza. Il senso di un sistema giuridico, o di una specifica disciplina, può essere colto solo osservando l’interazione tra nor­me e fatti, concepita come un fenomeno unitario.

Faccio un esempio. Chi legge l’art. 2380 bis del nostro codice civile o, adesso, l’art. 376 del codice della crisi, ne ricava l’impressione che nelle società italiane comandano gli amministratori [9]. Poi lo stesso lettore legge la disciplina della società benefit (in cui si dice che spetta agli amministratori il compito di bilanciare i diversi interessi) e conclude che in Italia viviamo in un capitalismo manageriale e che abbiamo risolto i problemi della responsabilizzazione sociale delle imprese grazie alla creazione di una forma di società in cui gli amministratori operano come gerarchi disinteressati, che mediano tra gli interessi degli investitori e quelli degli altri stakeholder [10].

Una disincantata osservazione della realtà fattuale ci dice però immediatamente che le cose non stanno affatto così. Come osservava già Galgano [11] quasi mezzo secolo fa «L’autonomia dell’organo amministrativo rispetto al­l’as­semblea degli azionisti … non è una autonomia effettiva, e non è traducibile in termini sociologici di separazione del potere economico dalla proprietà della ricchezza. Essa è una autonomia funzionale: è una autonomia strumentale rispetto agli interessi del gruppo assembleare di controllo della società. Gli amministratori se non ricevono più direttive dall’assemblea, obbediscono pur sempre alle direttive del gruppo di comando, al quale debbono la propria elezione e la determinazione del proprio compenso e dal quale potrebbero non es­sere riconfermati alla scadenza della carica. Il fatto che l’assemblea non possa più, come in passato, dare ordini agli amministratori produce questa sola differenza rispetto al passato: il gruppo di comando dà oggi ordini agli amministratori al di fuori dell’assemblea e quindi al di fuori di ogni controllo della minoranza».

Per dirla in termini brutali, nelle imprese di un sistema capitalistico coman­dano alla fine coloro che mettono i soldi e che possono anche toglierli. Ogni disciplina della società e dell’impresa, e ogni interpretazione di questa disciplina, deve fare i conti con questa elementare realtà.

Ne deriva che il senso sistematico delle norme che attribuiscono poteri agli amministratori non può essere quello di togliere potere ai fornitori di capitale per attribuirlo ai tecnici. La funzione di queste norme è sicuramente diversa e ben più complessa. Oltre alla funzione, sottolineata da Galgano, di estromissione della minoranza dal processo decisionale, abbiamo la funzione di ancorare la responsabilità saldamente in capo a chi riveste la qualità formale di amministratore (come nel caso di omissione degli accorgimenti organizzativi necessari per scoprire tempestivamente le crisi); quella (rilevante specialmente nelle società a capitale molto diffuso) di garantire il singolo socio (che comun­que non sarebbe in grado di partecipare al processo decisionale) contro occasionali follie di occasionali maggioranze o, altrove, come nel caso della società benefit, quella di attribuire agli amministratori un ruolo di pur ambigui (in quanto di fatto pur sempre dipendenti in ultima istanza dal gruppo di soci che li ha nominati) gestori dei conflitti, protetti dalla scarsa sindacabilità giudiziale dei loro poteri discrezionali, ecc.

Ciò che è certo è che il confronto con i fatti ci dà un quadro ben diverso da quello che appare dalla semplice lettura delle norme: niente a che fare con l’immagine di un capitalismo reso manageriale o socialmente responsabile per semplice decreto.


4. Logica sistematica v. logica dialettica.

L’insieme fatti-norme cambia continuamente e il suo studio necessita di strumenti teorici adeguati. Premesso che ogni teorizzazione procede ovviamente attraverso la costruzione di concetti, ciò che intendo qui mettere in discussione è la tendenza, molto diffusa tra i giuristi, a sopravvalutare la realtà delle norme, e dei concetti che l’interprete costruisce sulle norme, fino a concepire questa come la sola realtà effettiva e rilevante. La mia opinione è che i concetti vanno costruiti non in maniera, per così dire, sistemica (osservando cioè il sistema delle norme e ipostatizzandone il senso) ma in maniera dialettica, tenendo cioè presenti le contraddizioni che nascono nel rapporto con la realtà regolata e nei processi di cambiamento che intervengono in questa, prima ancora che nelle norme.

Un esempio facile può essere quello della nozione di soggetto. Se si ipostatizza la figura del soggetto giuridico ottocentesco, kantianamente dotato di Wille e Willkuer, signore della volontà e degli spazi di autonomia che l’ordi­namento gli garantisce [12], si corre facilmente il rischio di scivolare in anacronismi come capita, secondo me, ad autorevole dottrina quando cerca di accreditare una concettualizzazione che contrappone il diritto civile o dei contratti, quale regno del diritto soggettivo e dell’autonomia [13] (niente obbligazioni senza consenso), al diritto commerciale delle organizzazioni, caratterizzato dalla eteronomia e dal prevalere delle esigenze dell’attività su quelle del soggetto [14]. Questo è secondo me un cattivo uso della nozione di soggetto.

Del soggetto (che resta nozione fondamentale del diritto moderno in cui l’individuo per essere agente di una pratica giuridica deve necessariamente assumere la forma del soggetto) occorre avere una concezione dinamica e dialettica, non una nozione ancorata ad una visione dell’autonomia privata nel senso dell’autonomia del signore della volontà ottocentesco, che, se mai è esistita, non esiste più da nessuna parte. Basta a questo riguardo osservare quello che tradizionalmente è lo strumento principale della concretizzazione di questa autonomia, e cioè il contratto, per rendersi conto del mutamento.

Lo scambio istantaneo in cui le due volontà si incontrano per un momento e poi tornano ciascuna nel suo spazio sovrano, ha cessato da tempo di essere il prototipo del contratto. I problemi di coordinamento creati da una società complessa, e con un alto grado di differenziazione, hanno reso da tempo necessaria l’introduzione di strumenti in grado di piegare, orientare, indirizzare le volontà delle parti sulla base delle esigenze di successo delle singole transazioni (contratti relazionali, obblighi di curare non solo i propri, ma tutti gli interessi concretamente in gioco, generalizzazione di obblighi di buona fede e divieti di abuso, tutto lo strumentario della c.d. governance contrattuale, ecc.).

Il fatto, semplicemente, è che il soggetto attuale non è più il soggetto «forte» immaginato dai giuristi liberali classici, ma è al contrario un soggetto «debole» dotato di razionalità limitata, che non si muove nell’ambiente calcolabile vagheggiato da Weber, ma in un ambiente infestato da trappole di vario tipo, rubricate sotto l’etichetta generale di costi di transazione. Un soggetto che quindi ha bisogno, più che di kantiana autonomia, di un sostegno proporzionato alla difficoltà delle transazioni cui partecipa.

È ovvio allora che le norme costruite per un soggetto concepito in questo modo sono (devono essere) naturalmente diverse da quelle ispirate dall’unico obiettivo di definire le reciproche sfere di libertà che i vari agenti sono supposti in grado di amministrare senza problemi. Ecco allora comparire al loro posto norme che introducono tutele molto più stringenti nei confronti delle controparti (specifiche norme protettive, divieti di abusi, obblighi di buona fede, ecc.) ma anche norme che, in inevitabile correlazione, mostrano un molto minore rispetto per l’autonomia dei soggetti.

Il mondo dell’autonomia del soggetto che opera attraverso atti sovrani di volontà, e specialmente attraverso decisioni unanimi e contratti, contrapposto al mondo del diritto commerciale dominato dalle esigenze dell’attività e del­l’organizzazione, se mai è esistito, è stato da tempo sostituito da un mondo in cui la governance, intesa come la creazione di meccanismi in grado di equilibrare i poteri, di orientare gli incentivi, di bilanciare i conflitti, ecc. è diventata il punto di riferimento generalizzato ad ogni livello, da quello della c.d. globalizzazione, a quello del diritto delle organizzazioni, a quello dei contratti.

Così ritorniamo dalla nozione di soggetto a quella di contratto (tema che evoca le infinite appassionanti discussioni con l’amico Carlo Angelici). Senza ripetere cose già dette, anche qui il richiamo è verso una nozione dialettica di contratto, una nozione in grado di cogliere non l’essenza dell’istituto, ma le relazioni che si muovono al suo interno, e che evocano la necessità di superare complessi problemi, come quelli che nascono dal conflitto tra le esigenze di scorrevole funzionamento del sistema degli scambi, da una parte, e, dall’altra, le difficoltà che individui razionalmente limitati incontrano nell’agire su mercati caratterizzati da elevata divisone del lavoro e specializzazione; o come quelli che nascono dall’esigenza di garantire un certo grado di volontarietà, evitando però le delusioni derivanti da affidamenti incolpevoli, da consensi prestati senza consapevolezza, da imprevedibilità, ecc.; o come quelli che nascono dall’esigenza di consentire innovazione, garantendo però al contempo la standardizzazione necessaria alla velocizzazione delle transazioni, ecc.

In questa prospettiva la posta in gioco mi sembra non tanto il problema «sistematico» se la società per azioni sia una rete di atti qualificabili tecnicamente come contratti, e quindi assoggettati all’applicazione della parte generale dei contratti del codice civile (che, in realtà, e in barba all’art. 1323, oramai non si applica più in maniera generalizzata neppure a molti contratti strettamente civilistici). Si tratta piuttosto di mettere alla prova concezioni generali differenti nella ricerca di ragionevoli soluzioni per problemi oggi particolarmente rilevanti come, ad es.: i soci possono scegliere l’ordinamento che regolerà la società (come si può fare per qualsiasi contratto) stabilendo la sede legale di qui o di là, oppure la legge applicabile deve necessariamente essere quella del paese in cui l’organismo-società esiste e opera [15]? Le società per azioni hanno il diritto di manifestare il pensiero (magari dando quattrini ai partiti che trovano più simpatici) o di professare una religione (magari rifiutando ai loro dipendenti benefici come sussidi per aborti o cure contrarie alla religione della società)? [16] A chi dobbiamo guardare per conoscere pensieri e religione di una società per azioni, alle caratteristiche oggettive e specifiche di quella società concepita come una comunità o un organismo, oppure a ciò che viene professato dagli amministratori, oppure a come la pensano i soci di maggioranza o magari a quanto stabilito nei patti che sono stati stipulati tra i vari soggetti?


5. Astrazione come generalizzazione e astrazione come separazione.

Esiste un altro aspetto dell’astrazione, diverso da quello dell’astrazione co­me cattiva generalizzazione, su cui vorrei ora soffermarmi e che consiste nel­l’astrarre, nel senso di separare, un fenomeno dalla totalità in cui è inserito e analizzarlo come un ente indipendente.

Si tratta di una tendenza perniciosa che è fortemente presente nella frammentata realtà del diritto contemporaneo.

Come mi è capitato di dire altre volte, una delle caratteristiche (fortemente influenzata dall’analisi economica del diritto) di quello che chiamo lo stile giuridico neoliberale [17], è l’idea di poter assumere come oggetto privilegiato di osservazione e di studio la c.d. transazione, intesa come il trasferimento (non necessariamente volontario) di una qualsiasi risorsa, da una ad altra interfaccia [18].

In questa visione, la società è concepita come un gigantesco meccanismo di allocazione dei beni che si concretizza nella somma di una infinità di transazioni interindividuali che a loro volta realizzano un continuo spostamento delle risorse disponibili verso gli usi più efficienti cui possono essere destinate. La singola transazione diventa così l’unità elementare, l’atomo o la cellula, su cui il giurista concentra la sua attenzione con il fine di immaginare e costruire gli accorgimenti istituzionali in grado di assicurare la realizzazione del maggior numero di transazioni efficienti (quelle che, come si è detto, trasferiscono le risorse verso le utilizzazioni in cui producono la maggior quantità di utilità). Di qui l’ossessione per i costi di transazione (tutti i fenomeni che possono ostacolare la realizzazione di transazioni efficienti) e il tentativo di analizzare e classificare da una parte le transazioni, sulla base dei costi che possono renderle non facilmente realizzabili, e dall’altra le regole, sulla base della loro capacità di ridurre questo o quel costo di questa o quell’altra transazione.

Al di là di molti altri difetti, questa impostazione ne implica uno che è quello su cui vorrei richiamare ora l’attenzione. Questo modo di ragionare isola i fenomeni oggetto di studio dalla totalità di cui sono parte e si rende cieco nei confronti di tutti i problemi, le tensioni e le contraddizioni che non compaiono direttamente nel vetrino in cui è rinchiusa la singola transazione, che sono invece ben presenti nel contesto e che in definitiva influenzano gli effetti e la riuscita positiva delle transazioni come e più di quello che si riesce a vedere nel microscopio.

Farò un paio di esempi tratti da ambiti in cui i sostenitori dell’EAL hanno ottenuto i loro (apparentemente) più grandi successi teorici. Il primo esempio riguarda la rivoluzione che il successo dell’EAL comportò nell’impostazione dei problemi della società per azioni. Abbandonata l’ampia visione sociale che aveva caratterizzato la riflessione di Berle & Means, e dei loro contemporanei, l’EAL propugnò, come è ben noto, con successo, l’idea che il problema principale della società per azioni fosse quello di regolare la transazione tra investitori e gestori in maniera efficiente, in maniera cioè da ridurre i costi di transazione derivanti da un rapporto di agenzia in cui bisogna tutelare le esigenze di adeguati rendimenti, proprie del principal, e le esigenze di adeguati compensi, proprie dell’agente, assicurando comunque a quest’ultimo una autonomia gestionale adeguata alle necessità di efficiente gestione dell’impresa. Nascono da qui tutte le ben note implicazioni in termini di massimizzazione dello shareholder value, incentivazione dei manager, mercato del controllo, ecc.

Il vizio principale di questo ragionamento, e dei vari accorgimenti istituzionali messi in piedi sulla base del suo successo, è, come si cercato di dimostrare altrove [19], la totale mancanza degli strumenti teorici necessari per registrare l’importanza di un elementare dato di realtà e cioè che la figura dell’in­vestitore rilevante è progressivamente cambiata nel corso degli anni, evolvendo da quella del risparmiatore individuale c.d. retail, che investe direttamente i suoi risparmi, a quella dell’intermediario professionale, che investe, in competizione con altri intermediari, risorse altrui.

Se si osserva solo la singola transazione poco sembra cambiare rispetto allo schema a suo tempo costruito dai sostenitori dell’EAL. La posizione dei gestori, e le loro esigenze, non sembrano mutate e, guardando le cose dal punto di vista dell’investitore, sembra possibile constatare che questi vuole presumibilmente guadagnare adesso, così come voleva guadagnare prima, e che anche qui nulla di sostanziale è mutato.

Se si allarga la visuale, ci si accorge invece che è cambiato tutto. Il voler trarre un adeguato guadagno dal proprio investimento è per il risparmiatore una naturale e ovvia aspirazione. Per l’intermediario l’esigenza di massimizzare i rendimenti diventa invece un’esigenza di affermazione sul mercato e, a volte, di vera e propria sopravvivenza. La pressione concorrenziale che opera sugli intermediari, e che non operava sugli investitori retail, cambia radicalmente il senso del riferimento allo shareholder value, trasformandolo in un imperativo assoluto orientato ad un obiettivo di massimizzazione che deve essere raggiunto in tutte le maniere (comprese, come si è visto in non pochi casi, quelle disoneste) e mai soddisfatto a sufficienza.

Da un altro punto di vista, mentre i risparmiatori retail possono incidere solo con progressive e non coordinate (tra i vari risparmiatori) liquidazioni dei titoli di società che hanno cominciato a realizzare prestazioni che il singolo risparmiatore abbia a considerare dal suo punto di vista insoddisfacenti, gli intermediari professionali hanno le risorse e le competenze che consentono loro di agire non solo all’interno della società con l’espressione di voti di sfiducia verso il management o verso singole operazioni proposte, ma anche di rendere ben più incisivo e minaccioso l’operare di meccanismi di mercato, come le valutazioni di analisti e broker, o i contatti diretti, pubblici e privati, con i manager delle società in cui investono.

L’incidenza che tutto ciò ha avuto nel provocare la crisi finanziaria è evidente e se ne può trarre un insegnamento che contraddice anche sul piano pratico (oltre che su quello scientifico) la legittimità degli assunti dell’EAL: il fatto è che la somma di transazioni, che risultano apparentemente efficienti quan­do singolarmente valutate, non necessariamente produce un risultato complessivamente efficiente.

Un fenomeno analogo è avvenuto nell’ambito del diritto antitrust dove per molti decenni (e tuttora) si è continuato a pensare che il problema non fosse la struttura complessiva dei mercati, come pensavano invece Mason e Bain e i loro contemporanei, ma l’analisi delle singole «transazioni», cioè delle singole intese o pratiche abusive per vedere se ciascuna in sé considerata fosse in grado di diminuire il benessere dei consumatori, di lasciarlo inalterato o addirittura di accrescerlo [20]. A tacere di tutta una serie di problemi (a cominciare dal fatto che queste analisi danno in genere per scontato che il resto del mercato sia concorrenziale cosa che in realtà spesso non è) l’effetto complessivo di questa astrazione delle singole pratiche dal contesto del mercato in cui hanno luogo, ha indotto a trascurare fenomeni di sfruttamento monopolistico e di concentrazioni incontrollate che hanno concorso a provocare i ben noti fenomeni del c.d. too big to fail e, secondo molti autorevoli commentatori, l’enor­me aumento delle disuguaglianze verificatosi negli ultimi decenni.

Un ultimo esempio può essere offerto dal problema dei derivati. Se si analizza questo contratto come transazione sganciata dal contesto, e si privilegia il punto di vista dei rapporti tra le parti, risultano rilevanti problemi del tipo: si tratta di scommesse? È opportuno che lo stato assista legalmente le pretese di scommettitori? Quale utilità ne può ricavare l’una o l’altra parte? È rilevante distinguere tra derivati c.d. di copertura e derivati c.d. speculativi? Esistono asimmetrie informative? È opportuno riservare l’attività relativa, in tutto o in parte, ad operatori professionali? Ecc. Questo è il tipo di valutazione che ha prevalso e che ha condotto dove tutti sappiamo.

L’alternativa sarebbe stata quella di valutare le caratteristiche di una società che riconosce e tutela giuridicamente i derivati. Ci si sarebbe resi allora conto che una società di questo tipo è, sul piano finanziario, pericolosa come lo sarebbe nella realtà un mondo popolato da kamikaze occulti e legalizzati, che vanno in giro pieni di bombe [21]. Un mondo finanziario in cui, per di più, una unità di rischio reale (un debito) può diventare n volte più rischiosa se fatta oggetto di altrettanti derivati a catena (il che accade quando x, il creditore originario, fa un derivato con y, che a sua volta lo fa con z, e così via al­l’infinito: tutti derivati di copertura, ma rischio di insolvenza moltiplicato lungo tutta la catena).

Se si pensa alle singole transazioni, questi aspetti di pericolosità non vengono colti, perché si immagina che, transazione per transazione, ciascuno sia, e debba essere, capace di stare alla larga dai debitori che, essendo pieni di derivati, possono diventare insolventi.

Il che è tanto assurdo quanto sarebbe il dire, con riferimento al mondo reale, che ciascuno dovrebbe arrangiarsi da sé a stare ben lontano dalle persone che possono esplodere. Se si guarda alla società nel suo insieme, ci si accorge immediatamente che l’aumento del rischio complessivo è di per sé rilevante ed è altresì un evento che non può essere esorcizzato con una sorta di «caveat creditor», perché così si arriva velocemente al terrificante autunno del 2008, quando le banche smisero di farsi credito l’una con l’altra, perché nessuna era in grado di valutare l’entità dei rischi che «avevano in pancia» le altre (e, forse, neppure l’entità dei suoi propri rischi).


6. Razionalità strumentale e ragione critica.

Un’ultima questione, presente in modi diversi sia nelle concezioni formali, sia in quelle strumentali, credo meriti di essere richiamata. Si tratta del ruolo attribuito alla critica.

Non mi riferisco alla critica spicciola di questa o quella norma che nel pensiero giuridico contemporaneo certamente non manca. Criticare il legislatore è diventato spesso addirittura una moda, se non un vezzo. Mi riferisco invece al pensiero critico, inteso come attitudine non disposta ad accettare supinamente l’esistente dominante, e ancor meno disposta ad accettarne abbellenti razionalizzazioni [22].

Che le teorie formali tendano ad emarginare ogni forma di pensiero critico è una naturale conseguenza del modo in cui esse concepiscono il diritto e il ruolo dei giuristi. Il pensiero critico è sostanzialmente incompatibile con il compito che in queste prospettive si auto assegna il giurista, che è quello di costruire architetture concettuali in grado di eliminare ogni contraddizione logica e di occultare ogni contraddizione dialettica.

Il problema riguarda però, sia pure in modo diverso, anche molte concezioni strumentali (mi riferirò, come al solito, soprattutto all’EAL, la più attuale di esse). Una delle implicazioni di queste teorie è infatti la tendenza a concentrare l’attenzione sulla efficienza dei mezzi, più che sull’appropriatezza dei fini. La razionalità strumentale (per tornare alle classificazioni di Max Weber) diventa allora il punto di riferimento centrale. In genere in positivo, nel senso di guida verso la ricerca delle soluzioni strumentalmente più efficaci, ma anche in negativo, quando il giurista si vede costretto a denunciare l’inidoneità degli strumenti di cui dispone a realizzare pienamente gli obiettivi perseguiti (come nel caso della critica realista alla capacità della dottrina dogmatica tradizionale a garantire un adeguato livello di certezza del diritto).

In questa prospettiva, che pone al centro la razionalità strumentale, il fine diventa quasi secondario, o, come nel caso dell’EAL vaghissimo. La massimizzazione del benessere complessivo è infatti un fine così privo di sostanza da diventare quasi auto evidente (chi si dichiara a favore di una diminuzione del benessere di tutti?) e che può essere facilmente e meccanicamente articolato in fini relativamente più specifici come la massimizzazione del benessere dei soci (l’oramai famigerato shareholder value che domina il diritto societario) o la massimizzazione del benessere dei consumatori (il consumer welfare che domina il diritto della concorrenza) o quello dei contraenti nel diritto dei contratti, dei creditori nel diritto delle obbligazioni (come mezzo per rendere il credito meno caro) ecc. ecc.

A questo punto il discorso strumentale (quello che discute dei mezzi senza mettere in discussione i fini) domina incontrastato. La realtà che si ha di fronte cessa di essere problematizzata, e tutto si riduce a cercare gli strumenti che sembrano tecnicamente più adeguati a farla funzionare nel migliore dei modi.

Per fare un esempio banale, prima di concludere tornando al diritto commerciale, basta pensare a come l’EAL imposta i problemi della responsabilità civile, quella automobilistica, ad es. Da decenni la proposta è quella di concentrare l’attenzione sul problema di costruire regole che inducano i soggetti interessati (gli automobilisti e i pedoni) a prendere ciascuno le misure preventive che a lui costano meno e che rendono di più in termini di riduzione degli incidenti. Tutti sanno però che per ridurre i morti per incidenti stradali il livello di azione appropriato (in attesa che il computer si riveli più abile dell’uomo anche nella guida delle automobili) non è quello delle «transazioni» interindividuali (con le conseguenti alchimie nella distribuzione delle responsabilità tra automobilisti e pedoni), ma quello «sistemico», con, ad es., la riduzione della velocità di tutti i veicoli. Non dei limiti legali, che, ovviamente, possono essere violati, ma della capacità fisica. Veicoli strutturalmente incapaci di superare certe velocità causerebbero incidenti in quantità molto minore, mentre veicoli capaci di elevate velocità continueranno a causare molti incidenti, per quanto sofisticata voglia diventare la disciplina delle reciproche responsabilità dei vari soggetti che si muovono sulle strade.

Più in generale, come questo banalissimo esempio illustra, un certo modo di ragionare finisce per dare per scontato e per immutabile il contesto di sistema e per preoccuparsi esclusivamente di trovare le soluzioni strumentalmente più adeguate allo specifico problema nei termini in cui il sistema lo pone. Il risultato è che i rischi inevitabilmente legati al modo in cui è configurato il sistema spariscono sostanzialmente dall’orizzonte, e si afferma l’idea che qualsiasi danno debba necessariamente avere un singolo specifico colpevole, sia esso una persona fisica o una regola (supposta) mal concepita o male applicata. Così si ingenera l’illusione che i problemi possano essere eliminati o minimizzati con interventi locali, senza toccare il sistema che li genera.

Si può allora constatare che la valutazione politica generale (nel nostro esempio, la decisione di consentire o non consentire la circolazione di automobili in grado di raggiungere certe velocità) viene occultata e tutto viene presentato come un semplice esercizio di razionalità strumentale (nel nostro esempio, come minimizzare – nella situazione data in cui le automobili corrono veloci – gli incidenti attraverso un opportuno dosaggio delle responsabilità dei soggetti coinvolti).

Fenomeno analogo si verifica quando si assumono obiettivi come la massimizzazione dello shareholder value o del consumer welfare, cercando di occultare le scelte politiche imposte dal fatto che i soci non hanno tutti gli stessi interessi, che i consumatori hanno spesso esigenze contrastanti, e che perciò non esiste nulla di naturale che possa essere considerato valore per tutti i soci o benessere per tutti i consumatori. Il che implica che la scelta di definire cosa si deve intendere per «valore per gli azionisti» o per «benessere dei consumatori» (e la protezione che ne deriva per certi interessi, anziché per altri) è il frutto di una scelta politica, e non una naturale logica articolazione dell’obiet­tivo di massimizzare il benessere complessivo.

Solo l’emarginazione del pensiero critico cui alludevo pocanzi può spiegare l’incredibile successo che ha avuto a livello mondiale il ricorso a nozioni come quelle ricordate, su cui sono state costruite ponderose teorie ignorando totalmente la palese illegittimità di generalizzazioni (soci, consumatori, risparmiatori, ecc.) operate su insiemi di elementi assolutamente disomogenei, e spesso contrastanti, quali sono gli interessi dei concreti individui che compongono le categorie indicate.

Ciò è particolarmente evidente con riferimento alla concorrenza e allo scempio del diritto antitrust operato dalle teorie di Chicago e quelle del c.d. post-Chicago. La pretesa depoliticizzazione del diritto antitrust (tradottasi in realtà in una sostanziale castrazione dello stesso) non solo è una finzione (non esiste nessun obiettivo apolitico che possa essere assegnato al diritto antitrust), ma è anche inaccettabile.

La concorrenza e il mercato, come notava già tanti anni orsono Karl Polanyi, tendono a trattare come merci alcune risorse (il lavoro, la terra e la moneta) che merci non sono, nel senso che non si tratta di «cose» prodotte per essere vendute. Permettere ad un mercato concorrenziale e ad un diritto antitrust (concepiti come ordini autonomi da lasciare, senza correzioni, a loro stessi) di portare alle estreme conseguenze questa artificiosa mercificazione può avere effetti distruttivi [23], in quanto impedisce di vedere questi beni (lavoro, terra e moneta) per quello che realmente sono, e cioè attività umana, natura e potere di acquisto [24].

L’obiettivo non può perciò essere quello di separare la politica (con il compito di fornire beni e servizi pubblici) dal mercato (con il compito di assicurare lo sviluppo) e di difendere in questa prospettiva l’apoliticità del diritto antitrust. Non solo il mercato si porta dietro i problemi appena illustrati, ma il mercato e la concorrenza non hanno nulla di democratico. Il fatto che le decisioni siano prese da una «giuria» di anonimi consumatori [25] non depone affatto a favore della legittimità democratica del modo di decidere mercantile, modo di decisione in cui le decisioni vengono prese senza dibattito, senza discussione e, soprattutto, senza consapevolezza delle loro conseguenze cumulative, per di più in totale assenza di parità (sia sul piano del peso delle scelte individuali, ovvio essendo che quelle del più ricco contano di più, sia sul piano della possibilità di influenzare le scelte altrui, dove chi è in grado di fare più pubblicità ha sicuramente più potere).

Io credo che la strada non debba essere la separazione, e la rispettiva razionalizzazione, del pubblico e del privato, ciascuno secondo le sue logiche proprie, ma debba essere al contrario quella del riconoscimento che le scelte del diritto incidono su una realtà contradittoria e che si tratta di scelte che sono intrinsecamente e inevitabilmente politiche. L’obiettivo dovrebbe perciò essere quello non di separare l’economia, ma di democratizzarla, svelando criticamente la natura politica delle scelte che vengono compiute, anche nel suo ambito, e accrescendo il controllo democratico diffuso sulle stesse.


7. Conclusioni: interpretare, spiegare, trasformare.

Se mi è consentito chiudere con la citazione di uno studioso da cui ritengo di avere imparato molto, anche sul piano del metodo, vorrei ricordare la celeberrima undicesima tesi di Marx su Feuerbach che nella traduzione più diffusa recita: «I filosofi hanno finora interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo».

Non voglio sostenere che questo aforisma debba applicarsi anche ai giuristi. Penso però che ridurre il compito dello scienziato del diritto all’interpre­tazione della legge sia riduttivo. Io credo che la ricerca deve tendere non solo ad interpretare, ma soprattutto a spiegare. Certamente spiegare il mondo non significa trasformarlo. Sono però convinto che sia ben difficile pensare di potere trasformare il mondo senza avere capito e spiegato i meccanismi che fanno sì che esso si muova in un modo invece che in un altro.


NOTE

[1] B. OLLMAN, Dance of the Dialectic: Steps in Marx’s Method, University of Illinois Press, 2003, 11.

[2] Con ciò ci allontaniamo immediatamente dal tema del diritto commerciale, perché la maggior parte degli autori che tra poco ricorderò non si sono occupati, o comunque non prevalentemente, di diritto commerciale. Personalmente non credo che questo sia un male. Il discorso sulla «commercialità» non mi ha mai appassionato: non credo che la dignità scientifica del nostro lavoro di gius-commercialisti dipenda dall’altezza degli steccati con cui riusciamo a circoscrivere il nostro campicello e non credo a nette contrapposizioni (come tutti sanno, in molti importanti ordinamenti una disciplina chiamata diritto commerciale o non esiste, o ha oggetto diverso da quello che noi consideriamo proprio della nostra disciplina).

Penso in definitiva che le peculiarità di ciò che noi studiamo abbiano a che fare non con la natura delle norme e dei metodi impiegati, ma con le caratteristiche della realtà regolata e, in particolare, con la peculiare importanza che rivestono qui le esigenze di un ottimale funzionamento del mercato. Come ho cercato di sostenere altrove (F. DENOZZA, Sulle tracce di una vecchia talpa: il diritto commerciale nel sistema neoliberale, in Rivista ODC, 2015, III) è proprio l’espansione delle logiche di mercato al di fuori degli ambiti strettamente mercantili che determina l’annacquamento della separazione tra diritto commerciale e diritto civile.

[3] R. JHERING, The Struggle for Law2, tr. inglese dalla quinta edizione tedesca a cura di J. LALOR, Chicago, 1925, 70 ss.

[4] L’affermazione richiederebbe molte precisazioni vista la diversità di orientamenti, anche meritevoli di disapprovazione, che possono essere ingenerati da una concezione del diritto come mezzo ad un fine (e v. al riguardo ad es. B. TAMANAHA, Law as a Means to an End, Cambridge University Press, 2006). Nelle poche righe che seguono nel testo cerco di chiarire quale sia l’aspetto che considero positivo delle concezioni strumentali del diritto.

[5] Il tema è stato recentemente riesaminato da Irti in una serie di saggi raccolti nel volume N. IRTI, Un diritto incalcolabile, Torino, Giappichelli, 2016. Nella dottrina precedente v. almeno l’efficace puntualizzazione di R. MARRA, Max Weber: razionalità formale e razionalità sostanziale del diritto, in Soc. dir., 2005, II-III, 43. Io stesso mi sono già occupato della questione in F. DENOZZA, In viaggio verso un mondo re-incantato? Il crepuscolo della razionalità formale nel diritto neoliberale, in ODCC, 2016, II, 419 ss. e successivamente, da altro punto di vista, in Id., L’“efficienza” dell’aggiudicazione tra razionalità formale ed elasticità evolutiva, ovvero Max Weber contro l’Economic Analysis of Law, in L. AMMANNATI, P. CORRIAS, F. SARTORI, A. SCIARRONE ALIBRANDI (a cura di), I giudici e l’economia, Torino, Giappichelli, 2018, 17 ss.

A questi testi rinvio per le citazioni delle opere di Weber e della vasta bibliografia in argomento.

[6] L’autonomia del sistema giuridico, fino a teorizzarne la «chiusura operativa» è vigorosamente sostenuta per esempio da N. LUHMANN, Operational closure and structural coupling: the differentiation of the legal system, in Cardozo L. Rev., 1991, 1419, il quale come è noto as­segna al diritto un compito puramente formale ed astratto, quale è quello di stabilizzare aspettative (secondo la nota distinzione luhmaniana tra aspettative disposte ed aspettative non disposte ad apprendere). Il tema richiederebbe ovviamente una discussione non breve né semplice. Si può tuttavia osservare che anche questa impostazione altamente astratta non dovrebbe ignorare il fatto che il diritto stabilizza sì alcune aspettative, ma costringe altre a trasformarsi in aspettative «disposte ad apprendere» (come quando uno deve fare i conti con il fatto che un giudice non gli riconosce un diritto che era convinto di avere). Se ciò è vero, sembra difficile immaginare che il merito della scelta in ordine a quali aspettative devono essere, o non essere, stabilizzate possa essere (dal punto di vista della funzione del diritto) del tutto irrilevante. Con il che la sostanza (quali aspettative vengono stabilizzare e quali non) torna ad essere molto più importante della forma (stabilizzo aspettative quali che esse siano).

[7] Ogni accenno al formalismo giuridico moderno dovrebbe necessariamente preoccuparsi di Kelsen, ma sinceramente credo che il suo pensiero sia troppo rilevante e complesso per essere adeguatamente collocato in questi velocissimi cenni.

[8] Su questa questione mi soffermo in particolare nel secondo dei due lavori citati alla nt. 6. Anche LUHMANN, Operational closure, cit. alla nt. 7, deve ammettere (1431) che «At the level of single cases, there may be a choice between giving priority to the urgency of interests or to the purity of legal concepts» anche se poi ritiene che «the system as such cannot choose in this way» e che «In theoretical terms, the ultimate problem always consists of combining external and internal references, and the real operations which produce and reproduce such combinations are always internal operations» In realtà, se i singoli casi sono decisi in base a valutazioni di interessi, la centralità sistemica delle «operazioni interne» si riduce ad una mera finzione.

[9] Nei documenti dell’Unione si legge invece che i soci sono i proprietari della società (v. ad es. la conferenza stampa di presentazione ufficiale del programma di misure reso pubblico in data 9 aprile 2014, dove il commissario Barnier così letteralmente si esprime: «je veux renforcer le pouvoir des propriétaires de l’entreprise que sont les actionnaires». Il riferimento agli azionisti come proprietari è del resto presente anche in documenti ancora più ufficiali (v. ad es. il n. 20 dei considerando della raccomandazione sulla relazione di corporate governance).

[10] Sull’effettivo senso dell’introduzione delle società benefit v. invece F. DENOZZA, A. STABILINI, La società benefit nell’era dell’investor capitalism, in Rivista ODC, 2017, II; F. DENOZZA, La società benefit e le preferenze degli investitori, in Dalla benefit corporation alla società benefit, a cura di DE DONNO, L. VENTURA, Bari, Cacucci Editore, 2018, 33.

[11] F. GALGANO, Le istituzioni dell’economia capitalistica, Bologna, Zanichelli, 1974, 89.

[12] Sulla evoluzione della forma del soggetto nel passaggio dal liberalismo classico al neoliberalismo, v. F. DENOZZA, La frammentazione del soggetto nel pensiero giuridico tardo-libe­rale, in Riv. dir. comm., 2014, I, 13.

[13] V. recentemente F. D’ALESSANDRO, Il fenomeno societario tra contratto e organizzazione, in Giur.comm., 2017, 487, ed ivi altre notizie sull’orientamento in questione.

[14] Tra l’altro dimenticando (come capita anche a M. LIBERTINI, Ancora in tema di contratto, impresa e società. Un commento a Francesco Denozza, in difesa dello “istituzionalismo debole”, in Giur. comm., 2014, I, 669 s.) che fenomeni di eteronomia (subire decisioni di terzi) sono presenti anche in civilissimi istituti come ad es. la comunione (art. 1105 cod. civ.).

[15] Che è il problema che attanaglia l’ordinamento europeo almeno a partire da Centros in poi. V. in particolare M. GELTER, Centros, the Freedom of Establishment for Companies, and the Court’s Accidental Vision for Corporate Law, 2015, il quale sottolinea che la Corte, nel legittimare la libertà delle società di scegliersi la sede legale, mostra di avere della posizione dei creditori una visione molto contrattualista (in cui la protezione principale è affidata alla loro capacità di autotutela sul mercato) e poco istituzionalista (in cui la tutela dei creditori è parte integrante della difesa della comunità di stakeholder che ruota intorno all’impresa). Sui più recenti sviluppi in materia v. A. MUCHA, K. OPLUSTIL, Redefining the Freedom of Establishment under EU Law as the Freedom to Choose the Applicable Company Law: A Discussion after the Judgment of the Court of Justice (Grand Chamber) of 25 October 2017 in Case C –106/16, Polbud, European Company and Financial Law Review, 2018, 270.

[16] Problemi di recente vivacemente discussi dalla dottrina americana specialmente con riferimento ai casi Citizen United v. FEC, 558 U.S. 310 (2010) e Burwell v. Hobby Lobby Stores, Inc,134 S.Ct. 2751 (2014).

[17] Di cui mi sono occupato in F. DENOZZA, Regole e mercato nel diritto neoliberale, in M. RISPOLI FARINA, A. SCIARRONE ALIBRANDI, E. TONELLI (eds.), Regole e mercato (Vol. 2). G Giappichelli Editore, 2017, nonché nell’introduzione (Lo stile giuridico neoliberale) e nelle conclusioni (Conclusioni: lo stile giuridico neoliberale e il suo superamento) raccolte nel volume Esiste uno “stile giuridico” neoliberale? Atti dei seminari per Francesco Denozza, a cura di R. SACCHI, A. TOFFOLETTO, Milano, 2019.

[18] O. WILLIAMSON, The Economics Institutions of Capitalism, Free Press, 1985, definisce la transazione come «… the transfer of a good or service across a technologically separable interface».

[19] F. DENOZZA, A. STABILINI, Principals vs Principals: The Twilight of the Agency Theory, in Italian L J, 2017, 511.

[20] Per una critica delle teorie antitrust dominanti negli ultimi decenni v. F. DENOZZA, The future of antitrust: concern for the real interests at stake, or etiquette for oligopolists?, in Rivista ODC, 2017, I, ed ivi altre citazioni.

[21] F. DENOZZA, La funzione dei derivati nel mercato: tra disciplina del contratto e disciplina dell’impresa, in A. GUACCERO, M. MAUGERI (a cura di), Crisi finanziaria e risposte normative: verso un nuovo diritto dell’eco­nomia?, Milano, Giuffrè, 2011, 147.

[22] M. HORKHEIMER, Traditional and critical theory, in Critical theory: selected essays, 1972, 188 ss.

[23] K. POLANYI, The great transformation: Economic and political origins of our time, Boston, Beacon Press, 1957 (1944), 75 ss.: «To allow the market mechanism to be sole director of the fate of human beings and their natural environment indeed, even of the amount and use of purchasing power, would result in the demolition of society» [corsivo mio].

[24] È in particolare con riferimento al lavoro che è facile illustrare le potenzialità distruttive di questo sganciamento del mercato dal sociale e dal politico. Come è noto, il conclamato maggior pregio del mercato è quello di calibrare la produzione dei beni in rapporto alla domanda pagante che esso mercato registra. Perciò, se la gente si stanca di andare a piedi, e ha i soldi per andare in carrozza, il mercato opportunamente e tempestivamente interviene, creando gli appropriati incentivi affinché venga aumentato l’allevamento dei cavalli da tiro. Quando la gente ha la voglia di (e i soldi per) andare in automobili con l’autista, il mercato velocemente scoraggia l’allevamento dei cavalli e favorisce l’invio al macello di quelli esistenti che non servono più. Il problema è che quando la gente si stanca poi degli autisti (o non ha più i soldi per pagarli) e vuole guidare le automobili da sé, gli autisti esistenti non possono essere dismessi o macellati come i cavalli. O il mercato trova subito per loro altri impieghi, oppure sono guai.

[25] M. LIBERTINI, Competition and social cohesion, in Rivista Italiana di Antitrust, 2014, I, 48.