* Il presente lavoro riproduce, con alcune integrazioni, la relazione svolta nel corso della tavola rotonda “Il metodo nel diritto commerciale”, tenutasi il 22 febbraio 2019 nell’ambito del X Convegno annuale dell'Associazione "Orizzonti del diritto commerciale".
Nel linguaggio giuridico italiano «diritto commerciale» designa un campo tematico delimitato dalla storia delle istituzioni economiche, politiche e normative di alcune aree del continente europeo. La storicità ne condiziona necessariamente ogni approccio conoscitivo. Metodologicamente, la prospettiva ineludibile della ricerca giuridica è quella della controversia, reale o potenziale: l’oggetto ne sono le regole di comportamento, i loro presupposti d’applicazione ed i loro destinatari; l’obiettivo è quello di validare la decisione della controversia. Questione metodologica distinta è quella dell’insegnamento, dell’addestramento alla prevenzione, alla gestione ed alla composizione della controversia. Insegnamento che esige lo sviluppo di una sensibilità funzionale nell’uso delle regole di comportamento.
* This article is an expanded version of the talk given at the roundtable on “Il metodo nel diritto commerciale” that was held on 22 February 2019 at the Tenth Annual Conference of the ODC Association.
Historicity, dispute and teaching: three words for some reflections on the method of commercial law.
In the Italian legal language, «diritto commerciale» designates a thematic field delimited by the history of the economic, political and regulatory institutions of certain areas of the European continent. Historical character necessarily influences any cognitive approach. Methodologically, the unavoidable perspective of legal research is that of every actual or potential dispute: the subject matter are the rules of conduct, their prerequisites and their addressees; the objective is to validate the settlement of the dispute. A separate methodological issue is that of teaching, i.e. training in prevention, management and dispute settlement. Primarily, teaching requires the development of a functional sensitivity in the use of the rules of behaviour.
Keywords: historicity – dispute – teaching
CONTENUTI CORRELATI: storicità - controversia - insegnamento
1. Premessa. - 2. Storicità. - 3. Controversia. - 4. Insegnamento.
Il tema su cui verte questa Tavola Rotonda (Il metodo nel diritto commerciale) si presta, ovviamente, ad una serie aperta di declinazioni – come gli interventi che hanno preceduto questo mio stanno a testimoniare. Intendo qui condividere con gli astanti qualche divagazione del mio pensiero che compendierei in tre parole: «storicità», «controversia» e «insegnamento»; parole la prima delle quali è spesso circolata trai partecipanti alla Tavola Rotonda, laddove latitanti mi sono sembrate le ultime due. Mentre poco, forse nulla, potrò aggiungere sulla storicità del diritto commerciale – tanto questo connotato ne è evidente – di una qualche enfasi sulla relazione tra metodo e controversia, da un lato, e tra metodo e insegnamento, dall’altro, avverto l’opportunità per contribuire al dibattito.
Quanto alla «storicità», ricordo a me stesso che le materie (o discipline) nelle quali si articolano la ricerca, l’insegnamento e il reclutamento dei docenti sono campi tematici dell’esperienza giuridica perimetrati dalla storia: talora il perimetro è tracciato da una innovazione delle regole aventi vigore in un prescelto contesto storico; talaltra sono gli studiosi a disegnarlo per rispondere ad esigenze di specializzazione della conoscenza e dell’insegnamento (come è a dirsi per il diritto industriale, il diritto del lavoro ecc.).
Il diritto commerciale risale – io credo con i più – ad un’innovazione del materiale regolatorio che si profila soprattutto in Italia a partire dal secolo XII e si sviluppa con l’affermarsi della civiltà comunale, progressivamente affiancando e rimpiazzando il diritto romano, il diritto canonico e gli atti normativi dei regni altomedievali. L’innovazione, secondo un’interpretazione storiografica condivisa, è innescata dalla crisi dell’economia feudale; crisi a sua volta dovuta a una crescita demografica delineatasi nel passaggio dal primo al secondo millennio che avrebbe portato all’abbandono delle campagne, alla creazione dei borghi e all’affermarsi di un’economia fondata sulla manifattura e sugli scambi (la storiografia parla, come tutti sanno, di rivoluzione commerciale).
Le istituzioni economiche mobiliari, che si consolidano nella «forma» politica dei Comuni e delle Repubbliche Marinare, producono materiali normativi a servizio degli interessi dei mercanti; materiali autonomi nel senso che i produttori delle nuove regole coincidono con i destinatari, perciò che scaturiscano dalla consuetudine, dagli statuti comunali, delle organizzazioni delle arti e dei mestieri e dalla giurisprudenza delle magistrature mercantili.
Nell’arco di quattro secoli, si profilano gli istituti giuridici che tuttora si aggiudicano al diritto commerciale: come la contabilità a partita doppia, la rappresentanza commerciale, il fallimento, le forme dell’iniziativa collettiva (la compagnia; la commenda, e solo più tardi – secolo XVII – e in altro contesto la società per azioni o anonima), i documenti di pretese pecuniarie – tardivamente ammessi a circolare, come la litera cambi – e via dicendo.
Questo materiale normativo in via di formazione viene per così dire ereditato dagli stati nazionali (dalla Francia, soprattutto) e da questi riversato, come diritto scritto e organico, in testi, il più noto dei quali è l’Ordinanza Generale di Commercio del 1673, (detta anche Code Colbert dal Ministro di Luigi XIV che ne promosse la redazione o Code Savary dal giurista che la curò): lo Stato nazionale afferma sé stesso appropriandosi di un lascito regolamentare che altri ha concepito e prodotto.
Il sopravvento della rivoluzione francese dà l’avvio ad una nuova fase dell’esperienza che chiamiamo diritto commerciale, una fase nella quale campeggia – almeno nell’Europa continentale – il fenomeno della codificazione e che trova nella libertà del commercio e delle industrie il suo principio costituente, principio riflesso dalla nozione di «atto di commercio».
Insomma, la storicità del diritto commerciale è dalle origini al Code Napoléon una storicità istituzionale (delle istituzioni economiche e politiche), piuttosto che culturale (cioè risalente agli studiosi di questa esperienza): la componente culturale, nella perimetrazione del «nostro» campo tematico, si profila in concomitanza con e dopo le codificazioni del secolo XIX; e naturalmente persiste oggi – congiurando con i fattori innovativi della nomogenesi nella contemporaneità (alludo, tra l’altro, alla fioritura di legislazione extracodicistica e penso, soprattutto, all’apporto dei diritti sovra– e internazionali).
Venendo alla seconda delle parole che orientano questa mia riflessione, cioè alla parola «controversia», l’approccio per me indefettibile all’intelligenza dell’esperienza normativa che la storia ha – come sommariamente accennato – delimitato (e tuttavia continua a delimitare e ad articolare), sta nella identificazione (i) delle regole vigenti, in un dato tempo ed in dato spazio, (ii) dei presupposti d’applicazione di queste e (iii) dei loro destinatari; l’obiettivo primario dell’analisi giuridica essendo quello di scrutinare – secondo la logica della persuasione – il processo di trasformazione degli enunciati (Costituzioni, Leggi, Regolamenti, Consuetudini, casistica ecc.) dai quali si ricavano le regole vigenti nell’enunciato del dispositivo che definisce una lite (attuale o potenziale). Di scrutinare, in una parola, la motivazione del giudizio. L’analisi giuridica, insomma, deve (prima o poi) essere funzionale alla decisione di una «controversia» (v. art. 12, secondo comma, disp. prel. al codice civile).
È tanto inevitabile quanto doveroso che, nell’attribuzione di significato agli enunciati, lo scrutinio (di chi predispone la motivazione e di chi riflette sulle motivazioni altrui) ponderi gli interessi premiati con quelli penalizzati da ogni alternativa semantica e che, nel farlo, si avvalga di altre prospettive epistemiche – e tra queste è oggi particolarmente rispettata la prospettiva economica. Ma ciò non toglie che l’analisi che non assolva al compito di semantizzare e trasformare retoricamente il giacimento di enunciati precettivi che chiamasi «diritto», per assolvere il compito di decidere motivatamente una lite reale o potenziale, non appartiene, per chi qui vi parla, all’esperienza del pensiero giuridico.
Impone questa conclusione – almeno nell’area giusculturale alla quale appartiene l’esperienza nazionale italiana – l’art. 101, secondo comma, della Costituzione italiana: se della locuzione «i giudici sono soggetti soltanto alla legge» ci si rifiuta di fare un manifesto enfatico e precettivamente tanto ampio da essere vuoto, deve concedersi che, nel suo divenire , la «giustizia … amministrata nel nome del popolo italiano» vincola chi l’amministra ad assolvere l’onere di motivare la decisione (il dispositivo) rispettando la continuità semantica tra questa e gli enunciati precostituiti rispetto alla lite da decidersi (dalla legge in senso formale ai precedenti giurisprudenziali); motivazione da scrutinarsi a stregua della logica della persuasione onde consentire, fino ad un certo punto (che coincide con il passaggio in giudicato in senso formale), la precarietà del dispositivo.
I tre interrogativi che considero coessenziali all’analisi giuridica (quali regole? a quali condizioni applicarle? a chi applicarle?) – e che sono evocati da tre vocaboli correnti nel linguaggio di specialità del diritto: disciplina; fattispecie; imputazione – esigono, insomma, che la prospettiva metodologica nello studio dell’esperienza che diciamo diritto commerciale sia quella della lite (ma io sarei tentato di generalizzare a tutta l’esperienza che postuliamo giuridica questa esigenza).
Se si coglie lo specifico dell’analisi giuridica nello scrutinio della motivazione che, movendo dalla regola, approda ad un dispositivo che conclude una lite, storica o virtuale, coerenza vuole che ci si astenga dal prendere posizione, per esempio, in un dibattito, che si è pochi anni fa (ri)acceso tra Colleghi che siedono a questo Tavolo (Denozza e Libertini), sulla «concezione» della società per azioni, dibattito che sembra deviante al fine dichiarato.
Deviante mi appare la «concezione» se in questa volesse compendiarsi la «realtà comportamentale» e questa realtà si facesse arbitra dello strumento concettuale appropriato all’attribuzione di significato agli enunciati normativi. Coessenziale all’idea stessa di «diritto» (nelle coesistenze civili, almeno) è la contro-fattualità, l’istanza che il diritto non debba asservirsi alla realtà del potere degli uni e della soggezione degli altri (in una parola: alla forza), bensì debba modulare gli interessi premiati e penalizzati secondo un dichiarato progetto precostituito rispetto a ciascuno ed a tutti i giudizi – salvo il problema politico-culturale (enorme, ovviamente) della validazione del progetto. Sicché non è consentito optare per il «contrattualismo» soltanto perché il negoziato permanente tra quanti sono implicati – a variegato titolo giuridico – nell’impresa azionaria è il modello che più somiglia a quanto succede «in fabbrica» e – soprattutto – nei mercati. Se, nella sequenza argomentativa sviluppata o sviluppabile in una motivazione, risulta convincente, a stregua di una dichiarata e motivata precomprensione dei torti e delle ragioni (degli interessi da penalizzare o da premiare), attingere agli strumenti concettuali del processo amministrativo (parlando, per esempio, di eccesso di potere [Libertini] nel decidere se una deliberazione assembleare sia o non invalida) anziché a quelli del contratto (che raccomanderebbe il linguaggio dello scrutinio della conformità alla buona fede esecutiva della deliberazione), lo si faccia pure, senza temere l’addebito di «istituzionalista»; importante e decisivo essendo soltanto che agli enunciati in vigore siano attribuiti significati con gli stessi compatibili, che la trasformazione degli enunciati normativi nell’enunciato del dispositivo sia retoricamente plausibile, che l’analisi degli interessi litigiosi (imprescindibile al primo come al secondo dei fini or ora detti) sia, a stregua delle allegazioni e delle prove, esauriente e coerente.
Pletorica, per converso, mi appare la «concezione» se in questa si compendiasse la «realtà normativa», costruita movendo dagli enunciati in vigore: in tal caso a stento si distinguerebbe la «concezione» dall’«istituto» di dogmatica memoria, questo essendo stato edificato e usato all’esito di un processo di astrazione dagli enunciati testuali, di concettualizzazione e di nomenclatura di costanti semantiche attribuite agli enunciati – talora avvalendosi del lessico legislativo (come può dirsi per la parola «contratto»), talaltra prescindendone (come da noi può dirsi a proposito di «negozio»). E dell’istituto – per chi adotta la prospettiva della controversia nell’analisi dell’esperienza giuridica – si può fare serenamente a meno; come lo si può (e, per me lo si deve) di ogni medio concettuale del quale non si legittimi l’adozione per dichiarate finalità di semplificazione argomentativa.
L’ultima parola delle tre prescelte per presentare le mie divagazioni è «insegnamento». Ragionare di metodo del diritto commerciale significa anche ragionare di come lo si insegna. Prospettiva, questa, che non mi sembra sia stata qui coltivata.
Solo inoculando in un giurista in formazione il germe della relatività del linguaggio (convenzionalità, storicità, funzionalità ecc. di parole e proposizioni) lo si addestra ad argomentare, a trasformare le parole del diritto preesistenti alla controversia (testi legislativi, giudiziali, dottrinali, contrattuali ecc.) in plausibili regole di giudizio.
Ora, nel tentativo di familiarizzare il lettore con la disciplina, sembra consigliabile astenersi dal progredire seguendo l’ordine di un testo legislativo, e segnatamente del codice civile – testo normativo per antonomasia (nonostante la perdita di centralità culturale e precettiva di questo testo, da tempo denunciata ricorrendo ad un termine – un po’ abusato – coniato da Natalino Irti: «decodificazione»). Ciò che, invece, la manualistica corrente – anche quella di ottimo livello – non esita a fare quando, per limitarmi ad un esempio banale, prima illustra lo «statuto» dell’impresa (cominciando dalla capacità, per poi soffermarsi sulla pubblicità, la contabilità, la rappresentanza; e, ancora, di solito, su azienda, segni distintivi, proprietà intellettuale ecc. e, qualche volta, sul fallimento); quindi, passa, alle società, presentate sempre secondo l’ordine del codice (partendo dalla società semplice per approdare alle cooperative); e, rispettando sempre l’ordine del codice, si impegna, infine, nella rassegna, più o meno dettagliata, dei cc.dd. contratti commerciali e nello sviluppo della teoria dei titoli di credito.
Questa progressione espositiva, «naturale» per informare, rischia di avere un valore formativo molto basso, per ciò che essa, anziché favorire, contrasta l’acquisizione nel discente della sensibilità ai collegamenti ed alla funzione delle regole che gli sono presentate (alla idoneità delle regole a premiare certi interessi ed a penalizzarne altri): mentre gli si parla in continuo di «sistema» – da intendersi, grosso modo, come un ordine funzionale, stante che oggi pochi penserebbero il sistema come ordine strutturale, come architettura – lo si istruisce in modo asistematico, facendogli, per esempio, credere che solo l’impresa esercitata da una società sia dotata di un «capitale» ovvero che i creditori personali del socio «ci siano» solo nelle società di persone (perché il codice parla di «creditori particolari del socio» solo disciplinando le società di persone – cfr. art. 2270 c.c.) e non in quelle di capitali, sicché il creditore dell’azionista non avrebbe modo per avvalersi della «ricchezza», rappresentata dalle azioni del suo debitore, per soddisfare le proprie ragioni. Il discente, in sintesi grossolana, sa le regole ma non le sa applicare e quindi il suo addestramento è fallito.
C’è però un’altra progressione espositiva che potrebbe dirsi immune da questo difetto (almeno per chi ravvisi un difetto nella impotenza ad applicare regole note a situazioni ignote): isolato un fenomeno empirico, lo si scomponga nei segmenti ritenuti (con una buona dose di arbitrio) indefettibili o notevoli; e si presentino, quindi, i regimi (le regole) suscettibili di applicazione a ciascun segmento, regimi da selezionarsi ricorrendo a criteri funzionali (cioè scegliendo e illustrando le regole «partendo» dai bisogni che «chiedono» di essere appagati).
Mi provo a dar qui concretezza a quanto precede. Sia il fenomeno prescelto l’iniziativa economica professionale. Orbene, non c’è iniziativa che possa svilupparsi senza destinare risorse al suo servizio, senza investire; svolgere l’iniziativa esige, poi, decisioni, innanzi tutto sull’impiego delle risorse; ed esige, ancora, che le decisioni si traducano in dichiarazioni capaci di instaurare rapporti azionabili tra chi adotta l’iniziativa e la realizza ed i terzi; e, normalmente, il ricorso all’indebitamento finanziario; nello svolgersi, infine, l’iniziativa genera contrattazione; si confronta con altre iniziative; può esser fatta oggetto di circolazione; e, sempre e comunque, comporta un rischio.
Ora non c’è tra cose da farsi, vicende possibili (come indebitamento finanziario o circolazione della ricchezza imprenditoriale), stati ineluttabili (come il rischio e, tendenzialmente, la concorrenza) nulla che sfugga all’analisi giuridica, nella misura nella quale il diritto risponde diversamente alle cose da farsi a seconda di come le si fa, offre percorsi alternativi alle vicende, atteggia diversamente gli stati nei quali chi adotta e sviluppa l’iniziativa versa.
Scegliere questa progressione, nella convinzione di un suo plusvalore formativo, comporta, però, un costo certo: il costo della (in)completezza. Non ogni tema, tra quelli che la tradizione ha iscritto nel «diritto commerciale» può essere trattato; e spesso neppure segnalato. Perché inseguire la completezza indebolirebbe la tensione formativa, la sfida, che questa progressione vuol lanciare al discente, a trovare il materiale precettivo più acconcio alla situazione che empiricamente gli si proporrà o gli sarà proposta da altri (perché decida una lite che ne scaturisce – come fa il Giudice – o persuada altri a deciderla in uno piuttosto che in altro modo – come fa l’Avvocato). Molto sarà amputato, perché si apprenda non già a tesaurizzare (memoria permettendo – ma oggi l’informatica perdona tante amnesie) dati (testi di legge, casistica, opinioni ecc.), ma a ricombinare i dati noti ed andare alla ricerca di quelli ignoti per decidere – in modo argomentativamente corretto e sperabilmente giusto – una controversia.