Il lavoro analizza le principali modifiche apportate dal codice della crisi d’impresa, recentemente approvato, a disposizioni del codice civile.
This article aims at analyzing the changes recently made by the Bankruptcy Code (legislative decree n° 14/2019) in some provisions of the Civil Code.
Keywords: bankruptcy Code – changes in the Civil Code
CONTENUTI CORRELATI: codice della crisi d’impresa - modifiche al codice civile
1. Premessa. - 2. L'abrogazione dell'art. 2221 c.c. - 3. Le prescrizioni sugli assetti organizzativi. - 4. Mutamenti di disciplina concernenti la s.r.l.: a) la competenza esclusiva degli amministratori in materia di gestione. - 4.1. Segue: b) l'applicabilità dell'art. 2381. - 4.2. Segue: c) la previsione dell'azione di responsabilità dei creditori sociali. - 4.3. Segue: d) la previsione del controllo giudiziario. - 4.4. Segue: la disciplina dell'obbligatorietà dell'organo di controllo. - 5. I criteri di quantificazione del danno risarcibile in caso di violazione del dovere di gestione conservativa in presenza di una causa di scioglimento. - NOTE
Il titolo promette sicuramente troppo. Non intendo infatti riflettere in termini generali sul rapporto tra le due fonti normative in esso richiamate, né cimentarmi in un’analisi dei riflessi sistematici che l’approvazione del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza avrà o potrà avere sulla materia regolata nel codice civile.
Vorrei invece occuparmi solamente di alcune delle modifiche apportate dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 a disposizioni del codice civile; più precisamente, di quelle fra esse che sono contenute negli artt. 375 ss. – ossia nella parte seconda del codice della crisi, intitolata appunto “Modifiche al codice civile” – e che sono entrate in vigore, salvo una di cui dirò subito, il 16 marzo 2019 [1].
In questa prospettiva il riferimento del titolo al codice civile, invece che più restrittivamente al diritto societario, consente di includere nel discorso anche una modifica che esula dal diritto delle società, collocandosi più propriamente nel diritto dell’impresa; con l’ultima avvertenza che in ogni caso si tratterà – su questo punto come su quelli che toccherò nelle pagine che seguiranno – di una serie di impressioni a prima lettura o poco più.
Per comprendere il senso di questa – come vedremo, in verità modesta – innovazione, non è necessario ripercorrere per intero l’interminabile querelle sul rapporto fra la nozione di piccolo imprenditore contenuta nell’art. 2083 c.c., rimasta immutata dal 1942, e quella contenuta nell’art. 1 legge fall., che è stata invece modificata a più riprese [2].
È sufficiente muovere dalla riforma della legge fallimentare del 2006-2007 (articolata nel d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5; e nel d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169), nell’ambito della quale il decreto correttivo, volendo troncare i persistenti contrasti interpretativi sul rapporto fra art. 1 legge fall. e art. 2083 c.c., aveva sganciato l’esonero dal fallimento dalla nozione di piccolo imprenditore, ricollegandolo unicamente al rispetto dei parametri quantitativi che conosciamo, che sono quelli tuttora vigenti. A partire (almeno) da quel momento – questo era il senso della modifica allora introdotta [3] – l’esenzione dal fallimento prevista dall’art. 1 non riguardava più i (soggetti definiti come) piccoli imprenditori ma qualunque soggetto che rispettasse quei parametri; e la nozione di piccolo imprenditore contenuta nell’art. 2083 non operava più ai fini delle procedure concorsuali (anche perché lo scopo della modifica risiedeva proprio nell’evitare le incertezze giurisprudenziali connesse all’applicazione di un criterio identificativo così aleatorio e opinabile quale quello della prevalenza del lavoro proprio e dei familiari rispetto agli altri fattori produttivi impiegati, consacrato nell’art. 2083).
La seconda conclusione era però ostacolata dall’art. 2221 c.c., il cui enunciato continuava a escludere dal fallimento i piccoli imprenditori; e su di esso facevano leva alcuni autori per sostenere che chi poteva dirsi piccolo imprenditore ai sensi dell’art. 2083 era in quanto tale esonerato dal fallimento, a prescindere dal rispetto dei parametri dell’art. 1 l. fall. Si trattava di argomentazioni a mio avviso non convincenti, perché fra le due norme – art. 2221 c.c. e art. 1 l. fall. – vi era un’evidente antinomia, in quanto esse regolavano la stessa materia in due modi fra loro non compatibili (per la prima il piccolo imprenditore era esonerato dal fallimento, per la seconda no); e nel conflitto la seconda prevale sulla prima, non perché speciale (la specialità non è un dato topografico, attinente cioè alla collocazione della norma in una legge speciale invece che nel codice civile, bensì di rapporto tra le rispettive fattispecie), ma perché ad essa posteriore (e fondata sulla ratio che ho ricordato, che confermava la volontà di superamento dell’esonero accordato alla categoria dei piccoli imprenditori).
Questa lettura, diffusa in dottrina e consolidatasi poi anche nella giurisprudenza di legittimità [4], è ora confermata dal codice della crisi. Nell’art. 384 d.lgs. 14/2019 leggiamo infatti che “dalla data di entrata in vigore del presente codice, l’articolo 2221 del codice civile è abrogato”: l’esplicita abrogazione della norma, dunque, pone fine a ogni ulteriore discussione sul fatto che dalla liquidazione giudiziale è esonerata solamente quella che ora viene chiamata “impresa minore” (artt. 2, 1° co., lett. d; e 121 d.lgs. 14/2019), la cui nozione ripropone i parametri dell’art. 1 legge fall., e non anche la piccola impresa ex art. 2083 c.c.
E, per quanto detto, benché l’abrogazione operi a partire dal 15 agosto 2020 [5], essa si limita a rendere ancor più esplicita e certa la soluzione alla quale già oggi è corretto e doveroso pervenire. In conclusione, dunque, chi esercita un’impresa basata prevalentemente sul lavoro familiare (ed è dunque piccolo imprenditore ai sensi dell’art. 2083 c.c.) ma ha, ad es., ricavi annui superiori a 200.000 euro, è soggetto oggi al fallimento e sarà soggetto domani alla liquidazione giudiziale.
Al diritto dell’impresa attiene altresì, per la sua trasversalità, la materia degli assetti organizzativi, pur declinandosi essa anche in alcune prescrizioni – peraltro, come vedremo, non tutte particolarmente felici – di diritto societario.
Ad essa è dedicato l’art. 14 della legge-delega (l. 19 ottobre 2017, n. 155) là dove, nella lett. b, impone di prevedere “il dovere dell’imprenditore e degli organi sociali di istituire assetti organizzativi adeguati per la rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi per l’adozione tempestiva di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”.
A questa previsione – che si rivolge per un verso all’imprenditore tout court, per un altro agli organi sociali – fa riscontro, nella legge delegata, una vera e propria escalation di prescrizioni che ruotano intorno al medesimo concetto.
Mi riferisco innanzi tutto all’art. 3 [6], rubricato “doveri del debitore”, che distingue fra imprenditore individuale e collettivo, imponendo al primo di “adottare misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e assumere senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte” e al secondo di “adottare un assetto organizzativo adeguato ai sensi dell’articolo 2086 del codice civile, ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di idonee iniziative”.
Non è chiarissimo in che cosa il contenuto precettivo delle due prescrizioni si diversifichi (salvo ipotizzare che gli assetti organizzativi adeguati richiesti dalla seconda implichino una complessità maggiore delle misure idonee previste dalla prima [7]). È chiaro invece che entrambe sono strumentali rispetto alla tempestività della rilevazione della crisi e dell’adozione delle opportune iniziative.
La prospettiva pare invece allargarsi nell’art. 375, che, intervenendo sul richiamato art. 2086 c.c., ne modifica la rubrica (da “Direzione e gerarchia nella impresa” a “Assetti organizzativi dell’impresa”) e inserisce un secondo comma che ribadisce per “l’imprenditore che operi in forma societaria o collettiva” [8] “il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa” [9] (nonché quello di “attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”), e ciò “anche” – e dunque, parrebbe, non solo – “in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale”.
Ma non basta. Perché il legislatore delegato ha altresì sentito il bisogno di inserire nella disciplina dei singoli tipi societari la norma secondo cui “la gestione dell’impresa si svolge nel rispetto della disposizione di cui all’articolo 2086, secondo comma” [10]. La previsione sarebbe meramente ripetitiva di quelle già passate in rassegna [11] se non fosse che qui il precetto è riferito alla gestione dell’impresa tout court, senza alcuna apparente connessione con l’esigenza di rilevare le crisi e attivarsi per il loro superamento; dopo di che, come vedremo, aggiunge qualcos’altro di molto “invasivo”, su cui dovremo soffermarci più avanti.
Al di là dell’eccessiva insistenza del legislatore, il significato complessivo delle prescrizioni sin qui osservate è chiaro e condivisibile: se l’impresa è attività organizzata, la predisposizione di una appropriata struttura organizzativa è sempre doverosa [12] (tanto che i doveri organizzativi di cui si parla, a ben vedere, almeno nell’ambito delle società di capitali potevano essere ritenuti “già immanenti al sistema”, desumibili com’erano dai principi di corretta amministrazione e dal dovere di diligenza [13]).
Può anzi dirsi che la predisposizione di un’appropriata struttura organizzativa fa parte essa stessa dell’attività gestoria intesa in senso lato [14] o quanto meno – anche a volere tener ferma la distinzione fra “organizzazione” e “gestione” dell’impresa – che i due profili sono sempre più connessi per “l’accrescersi di regole organizzative concepite come funzionali al perseguimento di obiettivi di corretta gestione” [15].
Diverso problema è quello di valutare i possibili riflessi di queste prescrizioni sul piano della responsabilità. Aver esplicitato il dovere di dotare l’impresa di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato – semplificando le cose, questo mi pare il quesito di fondo – rende quel dovere un dovere specifico, come tale non coperto dalla business judgement rule? A me francamente non sembra, se non altro perché in ordine al suo adempimento restano ampi margini di discrezionalità relativi al livello organizzativo appropriato per il singolo caso concreto [16].
Innumerevoli sono infatti i livelli organizzativi che possono ipotizzarsi ed il cui grado di complessità (e di onerosità) varia considerevolmente, sicché occorre di volta in volta valutare quale sia in concreto il livello appropriato in relazione alla natura e alle dimensioni dell’impresa e provvedere di conseguenza, sulla base di decisioni che sono espressione di scelte imprenditoriali [17]. Né può pensarsi semplicisticamente di considerare sempre doveroso, fra più livelli organizzativi astrattamente ipotizzabili, quello più elevato: una determinata struttura organizzativa può risultare “non adeguata” sia perché insufficiente sia perché sovradimensionata, e dunque antieconomica, rispetto a una realtà societaria e aziendale di modesta entità. Vengono alla mente taluni esempi di medicina “difensiva”, con la prescrizione di esami sofisticatissimi non necessari e volti solo a mettere il medico al riparo da qualunque contestazione futura. Allo stesso modo, e con analoghe finalità, gli amministratori potrebbero istituire assetti organizzativi sovradimensionati, addossando così alla società oneri eccessivi; fenomeno certo da non incoraggiare anche perché, in una situazione di risorse limitate, spendere di più negli assetti organizzativi interni significa poter spendere meno in operazioni gestorie in senso proprio.
Insomma, può ben esservi inadeguatezza (degli assetti organizzativi) per eccesso e non solo per difetto, sicché gli amministratori sono chiamati a decidere quale sia, nel caso concreto, il livello organizzativo per il quale è corretto optare. Ritengo quindi che possa configurarsi una responsabilità degli amministratori solamente là dove, in ordine all’istituzione dell’assetto organizzativo appropriato, essi non abbiano svolto un’adeguata istruttoria ovvero abbiano compiuto scelte non coerenti con il risultato dell’istruttoria stessa [18].
Occorre inoltre considerare, in tale eventualità, che la violazione del dovere in questione non configura un evento in sé dannoso, potendo costituire piuttosto il presupposto di un successivo evento dannoso. Ciò comporta che per ricollegare il danno alla violazione dell’art. 2086 (e delle norme che lo richiamano) occorrerà dimostrare che il danno si è verificato perché l’assetto organizzativo non era adeguato (ovvero che non si sarebbe verificato in presenza di un assetto organizzativo diverso).
Se quel che precede è esatto, riterrei che l’enunciazione dei doveri organizzativi di cui si parla costituisca una enunciazione di principio sicuramente apprezzabile ma che – correttamente ragionando – non dovrebbe avere risvolti applicativi particolarmente significativi sul piano della responsabilità; pur se non può escludersi il rischio che in giurisprudenza tenda ad affermarsi un automatismo che induca a desumere dal verificarsi di un’insolvenza l’inadeguatezza dell’assetto organizzativo e da questa la responsabilità degli amministratori.
Alla luce di quanto precede, la novità di maggior impatto introdotta dall’art. 377 non risiede, a mio avviso, nelle prescrizioni sugli assetti organizzativi societari di cui si è detto bensì nel precetto che immediatamente le segue, secondo cui “la gestione dell’impresa” – che deve svolgersi nel rispetto dell’art. 2086 c.c. – “spetta esclusivamente agli amministratori [19], i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale”; precetto che, com’è noto, la riforma societaria ha dettato per le sole società per azioni e che ora viene testualmente riprodotto per tutti i tipi societari [20], con esiti a prima lettura dirompenti nell’ambito delle s.r.l. – sulle quali concentrerò la mia attenzione – e delle società di persone.
Al riguardo, certamente “non può essere ignorata la […] totale coincidenza (anche lessicale) con il principio dettato per le s.p.a.” [21]. Non direi però che ciò legittimi la conclusione secondo cui “la norma […] non può che avere nella s.r.l. il significato che ad essa è attribuito nelle s.p.a.” [22], dovendo la sua interpretazione tener conto del contesto normativo in cui essa è inserita [23]. Direi anzi – anticipando i risultati cui mi sembrerà corretto pervenire – che l’esame del problema conferma che il medesimo enunciato, in ambienti normativi diversi, assume o può assumere significati diversi [24].
Entrando nel dettaglio, riguardo alle società di persone la nuova regola parrebbe difficilmente conciliabile con quella secondo cui, in regime di amministrazione disgiuntiva, qualora un amministratore si opponga al compimento di un atto gestorio, sull’opposizione decidono i soci (art. 2257, ult. co.) [25].
Quanto alle società a responsabilità limitata, dalla riforma societaria in poi in tutte le università italiane si è sempre insegnato che in questo tipo societario, diversamente che nella s.p.a., sono consentiti interventi dei soci in materia di gestione, sia individualmente sia collettivamente. Soluzione, questa, del tutto coerente con il principio della centralità del socio enunciato nella legge-delega [26]; fondata positivamente, in termini generali, sulla norma che consente all’atto costitutivo di attribuire a singoli soci diritti particolari inerenti l’amministrazione (art. 2468, 3° co.) e su quella secondo cui la collettività dei soci può decidere su argomenti di competenza degli amministratori (fatta eccezione per alcuni riservati alla competenza dell’organo amministrativo: artt. 2479, 1° co., e 2475, ult. co.); e completata dalla previsione della responsabilità dei soci che abbiano deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi (art. 2476, penult. co.) [27].
Il quadro normativo anteriore al codice della crisi, dunque, è ben lontano da quello proprio della s.p.a., imperniato sulla regola della competenza gestoria esclusiva degli amministratori, contenuta nell’art. 2380-bis e non a caso non riproposta – prima del d.lgs. 14/2019 – per la s.r.l. Ecco perché ho parlato di effetti dirompenti: perché la nuova norma, almeno se intesa nel suo tenore testuale, entra in stridente conflitto con l’intero sistema di governance della s.r.l. che ho sommariamente descritto [28].
Ma davvero il legislatore del codice della crisi ha voluto smantellare quel sistema? Se sì, aveva la delega per farlo? Anticipo che risponderò di no a entrambe le domande e provo a passare in rassegna, preliminarmente, le soluzioni del conflitto – fra le preesistenti disposizioni richiamate poco sopra e il nuovo testo dell’art. 2475, 1° co., nella parte in cui afferma che la gestione compete esclusivamente agli amministratori – che si possono astrattamente ipotizzare.
a) Una prima soluzione discende dalla (meccanica) applicazione del principio secondo cuilex posterior derogat priori. Preso alla lettera l’enunciato dell’art. 2475, 1° co., ne discenderebbe l’abrogazione implicita di tutte le norme del codice civile con esso incompatibili. Non più, quindi, diritti particolari in materia di amministrazione, non più la possibilità di devolvere ai soci decisioni originariamente di competenza degli amministratori[29]. Si tratta però di una soluzione estrema e a mio avviso certamente da scartare, se non altro perché – come vedremo fra breve – non si rinvengono nella legge-delega previsioni che possano legittimare una soluzione del genere, con il radicale superamento di un assetto organizzativo che costituisce uno dei punti qualificanti della riforma societaria del 2003 con riferimento al tipo s.r.l.; e d’altra parte, pur tenendo ferma la prevalenza della norma posteriore, sono possibili soluzioni meno drastiche.
b) In particolare, è possibile adottare una prospettiva dicoordinamento, e non diabrogazione, delle norme anteriori, attraverso una loro interpretazione adeguatrice che permetta di evitare il conflitto. Si tratterebbe in sostanza di dare di quelle norme, per effetto del sopravvenire del nuovo art. 2475 c.c., un’interpretazione riduttiva [30].
Entrando nel dettaglio, per ciò che riguarda i diritti particolari riguardanti l’amministrazione, occorre preliminarmente considerare che alcuni di essi (quali il diritto di essere nominato amministratore o di nominare uno o più amministratori) incidono sul meccanismo di investitura nella carica di amministratore ma non contraddicono la competenza gestoria degli amministratori, sicché la loro attribuzione resterebbe sicuramente ammissibile. Per i diritti che incidono direttamente sulla gestione in senso proprio, invece, occorre distinguere: potrà ammettersi la previsione di pareri anche obbligatori ma non vincolanti, o il riconoscimento di diritti di consultazione o di poteri istruttori, ma non più il riconoscimento di diritti particolari “a ingerenza forte”, tali cioè da attribuire al socio poteri decisori vincolanti, sia positivi che negativi (veto).
Quanto agli spostamenti di competenza (dagli amministratori ai soci) previsti dall’art. 2479, 1° co., possono individuarsi alcune decisioni che si collocano al di fuori della materia gestoria, nel qual caso non si pongono problemi (penso ad esempio all’avocazione ai soci di una delibera di esclusione statutariamente rimessa agli amministratori); ove invece si tratti di argomenti rientranti nella gestione in senso proprio, eventuali decisioni dei soci saranno ammissibili ma non vincolanti per gli amministratori; avranno cioè il valore di pareri o semplici autorizzazioni, che lasciano gli amministratori liberi di autodeterminarsi.
In questa prospettiva [31] resterebbe in verità da spiegare il riferimento – nell’art. 2476, penult. co., c.c. – ai soci che hanno “deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi”, dal momento che sulla base della lettura appena illustrata i soci potrebbero solo autorizzare e non anche, propriamente, “decidere” [32].
c) C’è poi la possibilità di giungere a un coordinamento fra la disposizione contenuta nel nuovo primo comma dell’art. 2475 e le disposizioni anteriori con le quali essa entra in conflitto mediante interpretazione riduttiva (non delle seconde, bensì)della prima; più precisamente, ritenendo che la competenza esclusiva degli amministratorinon riguardi l’intera gestione ma solo ciò che attiene all’adeguatezza degli assetti organizzativi [33].
Si tratta, evidentemente, di un’interpretazione correttiva, perché l’enunciato dell’art. 2475 si riferisce genericamente alla gestione dell’impresa, ma non per questo da rifiutare a priori. Un primo spunto a suo favore può trarsi dal richiamo, contenuto in quell’enunciato, dell’art. 2086, 2° co., ossia della norma che ha codificato i doveri relativi alla predisposizione degli assetti organizzativi dell’impresa; un secondo dalla circostanza che è appunto agli “assetti organizzativi” – rispettivamente: “dell’impresa” e “societari” – che fa riferimento la rubrica degli artt. 375 e 377 d.lgs. 14/2019, ai quali si deve la modifica dell’art. 2086 e (fra gli altri) dell’art. 2475 c.c.
Ma, soprattutto, l’interpretazione correttiva di cui parlo mi pare si giustifichi perché necessaria a rendere la norma conforme ai precetti della legge-delega, scongiurando il rischio di una illegittimità costituzionale per eccesso di delega altrimenti evidente.
Rileggiamo infatti l’art. 14 l. 155/2017 (che enuncia le modifiche al codice civile strumentali all’attuazione della delega concernente il codice della crisi), e in particolare la lett. b, già riportata sopra [34]: i suoi precetti non attengono affatto all’esclusività della competenza gestoria e non riguardano la gestione tout court, ma hanno ad oggetto solo l’istituzione di assetti organizzativi adeguati ed anzi, ancor più restrittivamente, solo l’istituzione di assetti organizzativi adeguati in funzione strumentale rispetto alla rilevazione della crisi e all’adozione degli strumenti per il suo superamento [35]. Solo entro questo ambito, dunque, possono ritenersi legittime, perché coperte dalla delega, le modifiche di cui discutiamo [36].
Conseguentemente – anche ad ammettere che vi sia un nesso fra adeguatezza dell’assetto organizzativo ed esclusività della competenza gestoria in capo agli amministratori, nel senso che la prima richieda o presupponga la seconda (il che è tutto da dimostrare) –, la regola dell’esclusività della competenza può essere salvata solo se la si legge con riferimento a quell’aspetto della gestione che consiste nella predisposizione degli assetti organizzativi più appropriati al fine della rilevazione e del superamento della crisi, e non se la si considera estesa – come pure il tenore testuale della norma consentirebbe – ad ogni altro aspetto della gestione.
In questa prospettiva potrà dirsi, ad esempio, che compete esclusivamente agli amministratori decidere se assumere un Direttore commerciale o se istituire un ufficio di controllo interno che collabori con l’organo di controllo [37] nel monitorare la situazione aziendale, mentre continua a poter essere demandata ai soci, nei modi già consentiti dal codice civile, la decisione sul compimento di un singolo atto gestorio o il veto sulla decisione stessa.
d) Questa lettura è stata criticata[38]per un verso evidenziando l’estrema difficoltà di separare l’attività organizzativa da quella propriamente gestoria, al fine di individuare l’area riservata agli amministratori e quella aperta al contributo dei soci; per un altro rilevando che escludere ogni competenza dei soci riguardo all’organizzazione dell’impresa sarebbe soluzione poco congrua oltre che contrastante con la previsione di cui all’art. 2479, 2° co., n. 5, la quale riserva ai soci una decisione che eccede l’ambito strettamente gestorio e si colloca sul piano organizzativo.
Da ciò la proposta di ricercare la soluzione del conflitto fra norme, e una soddisfacente “regolazione dei confini” tra amministratori e soci, non già ipotizzando l’esistenza di diverse sfere di competenza, bensì facendo leva sulla diversa situazione soggettiva nella quale amministratori e soci si trovano rispetto a sfere di competenza fra loro (almeno in parte) sovrapponibili [39]: (potere-)dovere per gli amministratori, semplice potere per i soci, generale il primo, “speciale” (vale a dire sussistente nei limiti in cui la legge lo preveda o lo consenta) il secondo.
Da questo angolo visuale, in presenza di fattispecie in cui emergano poteri decisionali dei soci (che potrebbero concernere anche l’area della gestione organizzativa), gli amministratori, sui quali grava – in via esclusiva – il dovere di gestione, dovrebbero svolgere una funzione di stimolo, monitoraggio e attuazione (o non attuazione [40]) delle decisioni, ovvero di intervento sostitutivo in caso di inerzia da parte dei soci. Sarebbe così possibile conciliare i poteri decisionali dei soci con il dovere di gestione esclusiva degli amministratori [41].
Ora, la distinzione fra dovere gestorio degli amministratori e poteri decisionali dei soci in materia di gestione è certamente corretta e condivisibile, né di essa si è mai dubitato – credo – nel contesto normativo anteriore al codice della crisi; proprio per questo, tuttavia, ritenere che il nuovo art. 2475 c.c. abbia inteso richiamarla mi pare equivalga a decretare la sostanziale superfluità della norma.
Non pare inoltre che possa esaurirsi nel richiamo (per di più, implicito) di quella distinzione il senso di un enunciato – quello di cui si discute – nel quale si legge che “la gestione dell’impresa […] spetta esclusivamente agli amministratori”.
Pur in una situazione normativa oggettivamente di grande incertezza, dunque, e pur riconoscendo la difficoltà di distinguere in concreto quel che attiene alla “gestione organizzativa” e quel che attiene alla “gestione operativa”, riterrei maggiormente attendibile l’ipotesi interpretativa secondo cui è solo la prima, e non anche la seconda, a rientrare nella competenza esclusiva degli amministratori.
Certo è comunque che l’incertezza di cui dicevo, ponendo agli operatori numerosi dubbi (ad esempio, sulla validità delle clausole attributive di diritti particolari in materia di gestione o delle delibere prese in materia gestoria ex art. 2479, 1° co.; ovvero sulle conseguenze dell’atto posto in essere dagli amministratori ignorando il veto del socio investito di tale diritto particolare; ovvero ancora sulla sorte delle limitazioni di altri diritti causalmente collegate all’investitura in un diritto di veto ritenuto, in ipotesi, non più valido), rischia, poco apprezzabilmente, di incentivare il contenzioso.
Ulteriore modifica apportata dall’art. 377 d.lgs. 14/2019 all’art. 2475 è costituita dall’inserimento di un ultimo comma secondo cui “si applica, in quanto compatibile, l’articolo 2381”, le cui disposizioni regolano, nelle società per azioni, i poteri del Presidente del consiglio di amministrazione, l’istituto della delega e i rapporti fra delegante e delegato.
A dire il vero anche questa modifica appare sostanzialmente al di fuori della delega conferita dalla l. 155/2017: per sostenere il contrario occorrerebbe dimostrare che le disposizioni contenute nell’art. 2381 c.c. siano essenziali ai fini dell’adeguatezza dell’assetto organizzativo (una sorta di presunzione assoluta peraltro di assai dubbio fondamento).
In ogni caso, l’ammissibilità dell’istituto della delega di poteri nella s.r.l. era già data per certa pur nel silenzio della legge, sicché il richiamo dell’art. 2381 ha il senso di precisare quali siano – anche nella s.r.l. – i rapporti fra delegante e delegato e quali i poteri del Presidente. Potrebbe comunque essere opportuno, ove si voglia rimuovere ogni possibile dubbio futuro in proposito, recepire le disposizioni in questione nello statuto [42].
Verosimilmente non applicabile per incompatibilità è la previsione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 2381, relativo all’obbligo di agire informati, nella parte in cui sembra individuare nelle sole riunioni consiliari la sede d’informazione degli amministratori privi di delega; regola, questa, che parrebbe “fuori sistema” nell’ambito della s.r.l., ove anche il singolo socio non amministratore ha – ai sensi dell’art. 2476, 2° co. – diritti d’informazione e di controllo ben maggiori [43].
Com’è noto, dopo la riforma societaria del 2003 nella disciplina della s.r.l. non era più regolata, né con norma autonoma né mediante rinvio alla disciplina della s.p.a. e in particolare all’art. 2394 c.c., l’azione di responsabilità dei creditori sociali nei confronti degli amministratori; e il silenzio normativo aveva generato dei dubbi sull’ammissibilità di tale azione, pur generalmente risolti in senso affermativo [44].
Il codice della crisi elimina ogni residua incertezza sul punto inserendo nell’art. 2476 c.c. – per effetto dell’art. 378, 1° co. – un nuovo sesto comma, che riproduce integralmente gli enunciati dell’art. 2394 c.c. [45].
Il riavvicinamento alla disciplina della s.p.a., e la propensione ad un maggior rigore nella disciplina dei controlli, si manifestano anche nella previsione che reintroduce a pieno titolo nella disciplina della s.r.l. il controllo giudiziario [46].
Anche in questo caso si tratta di un ritorno alla situazione anteriore alla riforma societaria, che pone fine a un ricchissimo dibattito dottrinale e giurisprudenziale nel quale era andata sempre più affermandosi la tesi – argomentata dal combinato disposto degli artt. 2477, 4° co., e 2409, ult. co., c.c. – dell’ammissibilità del controllo giudiziario nelle sole s.r.l. [47] provviste dell’organo di controllo.
Ciò spiega il tenore testuale della disposizione inserita [48] quale ultimo comma dell’art. 2477, nella parte in cui dispone l’applicazione dell’art. 2409 “anche se la società è priva di organo di controllo”.
Rispetto alla situazione successiva alla riforma societaria, dunque, l’operatività del controllo giudiziario si riespande pienamente, riguardando ora tutte le s.r.l. e venendo ripristinata la legittimazione dei soci che rappresentino almeno un decimo del capitale (ex art. 2409, 1° co.).
La soluzione può del resto considerarsi espressione di un principio ormai sempre più generale, se si considera la recente estensione del controllo giudiziario [49] alle associazioni e fondazioni del terzo settore (cfr. l’art. 29 d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117, con la previsione della legittimazione alla presentazione della denunzia di gravi irregolarità anche del pubblico ministero); e trova un antecedente per le s.r.l. a controllo pubblico nell’art. 13 d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, ove però la legittimazione attiva è riconosciuta, almeno esplicitamente, solo ai soci pubblici ed a prescindere dall’aliquota di capitale posseduta.
Fra i principi e criteri direttivi la legge-delega enunciava quello volto ad estendere i casi in cui le s.r.l. sono obbligate alla nomina dell’organo di controllo o del revisore, indicando altresì nel dettaglio i nuovi limiti, i criteri del loro operare e i rimedi in caso di mancata nomina (art. 14, lett g, h, i, l. 155/2017).
Conformandosi integralmente a queste disposizioni, con l’art. 379 cod. crisi il legislatore delegato ha perciò modificato i commi 2, 3 e 5 dell’art. 2477 c.c.:
a) abbassando drasticamente i limiti in precedenza stabiliti dall’art. 2477, 2° co., lett.c,fissandoli in 2 milioni di euro (invece di 4.400.000) per il totale dell’attivo dello stato patrimoniale; 2 milioni di euro (invece di 8.800.000) per i ricavi delle vendite e delle prestazioni; 10 unità (invece di 50) per il numero di dipendenti mediamente occupati nell’esercizio (2° co.);
b) rendendo sufficiente il superamento per due esercizi consecutivi anche di uno solo (anziché di due, com’era in precedenza) dei predetti limiti (2° co.);
c) stabilendo che l’obbligo cessa quando per tre esercizi consecutivi (in precedenza: due) non è superato alcuno dei limiti (3° co.);
d) stabilendo altresì che in caso di inerzia dell’assemblea alla nomina provveda il tribunale, oltre che su richiesta di qualunque interessato, anche “su segnalazione del conservatore del registro delle imprese”; segnalazione che parrebbe assumere i connotati della doverosità, là dove dai bilanci depositati risulti il superamento dei limiti e non sia stata chiesta nei termini la nomina.
Una norma di diritto transitorio, contenuta nell’art. 379, 3° co., e applicabile alle s.r.l. già esistenti alla data di entrata in vigore dell’entrata in vigore delle modifiche, consente di procedere alla nomina e agli eventuali adeguamenti statutari entro nove mesi da tale data [50] (e ciò, alla luce della formulazione della norma, dovrebbe valere non solo per le s.r.l. il cui statuto riproduca i vecchi limiti ma anche per quelle il cui statuto rinvii alla disciplina legale) [51], dovendosi effettuare la verifica dei presupposti sulla base dei bilanci degli ultimi due esercizi anteriori alla scadenza indicata, oltre la quale le clausole statutarie non conformi alla legge diventeranno inefficaci (verificandosi una loro sostituzione automatica ex art. 1339 c.c.).
Va infine segnalato che recentissimamente le soglie indicate sub a sono state elevate rispettivamente a 4 milioni di euro, sia per il totale dell’attivo dello stato patrimoniale che per i ricavi delle vendite e delle prestazioni, ed a 20 unità per il personale occupato (così l’art. 2-bis d.l. 18 aprile 2019, n. 32, inserito in sede di conversione dalla l. 14 giugno 2019, n. 55).
Per effetto di ciò – secondo stime apparse sulla stampa economica, peraltro non sempre concordanti – il numero delle s.r.l. obbligate alla nomina dell’organo di controllo scenderebbe da circa 150.000/180.000 a circa 80.000. Per le s.r.l. non più tenute alla nomina che, in quanto obbligate sulla base del testo originario dell’art. 379 cod. crisi, vi avessero già provveduto si profila la possibilità di procedere a una revoca per giusta causa degli organi così nominati, estendendo al caso in esame la regola secondo cui “la sopravvenuta insussistenza dell’obbligo di nomina dell’organo di controllo o del revisore costituisce giusta causa di revoca” (art. 20, 8° co., d.l. 24 giugno 2014, n. 91, come modificato in sede di conversione dall’art. 1, 1° co., l. 11 agosto 2014, n. 116).
Allargando infine lo sguardo a una modifica incidente sulla disciplina di tutte le società di capitali, la legge-delega, all’art. 14, lett. e, prescriveva di definire “i criteri di quantificazione del danno risarcibile nell’azione di responsabilità promossa contro l’organo di amministrazione della società fondata sulla violazione di quanto previsto dall’articolo 2486”; ossia del danno che consiste nell’aggravamento del passivo conseguente alla prosecuzione dell’attività nonostante il verificarsi di una causa di scioglimento.
Com’è noto, il punto aveva dato luogo a un nutrito dibattito dottrinale e giurisprudenziale, nel quale un punto di riferimento importante è rappresentato dall’intervento delle Sezioni Unite, la cui decisione [52] è riassumibile in due massime.
Secondo la prima, “nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa, l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile deve essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento”. Si sancisce, dunque, in sostanza, il rigetto del così detto criterio differenziale, consistente nell’individuare il danno nella differenza fra attivo e passivo della procedura fallimentare; criterio semplicistico, oltre che semplificatorio, seguito da svariati Tribunali ma oggettivamente privo di qualunque giustificazione razionale.
In base alla seconda, “nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pure se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto”. Si ammette, dunque, la possibile adozione del criterio differenziale ma solo come criterio sussidiario, subordinato ad alcune condizioni e nell’ambito di una valutazione equitativa del danno.
Il legislatore ha attuato la delega inserendo nell’art. 2486, dopo i primi due commi, un terzo comma [53], nel quale pure sono dettati due distinti criteri di quantificazione del danno, uno principale ed uno sussidiario, che in più punti si distaccano dalle soluzioni accolte dalle Sezioni Unite e rappresentano, purtroppo, un passo indietro [54].
Il primo di essi – testualmente applicabile anche ad azioni di responsabilità esercitate al di fuori di una procedura concorsuale – è quello così detto dei netti patrimoniali. Costruito come una presunzione semplice, stabilisce che il danno risarcibile si presume pari alla differenza di valore del patrimonio netto fra la data in cui si è verificata la causa di scioglimento e la data dell’apertura di una procedura concorsuale (ovvero la data della cessazione dalla carica), “detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione”.
La norma, dunque, prescinde dalla prova di specifici inadempimenti degli amministratori cui sia legato, con un nesso di causalità, il danno, addossando loro in sostanza, salvo prova contraria, qualunque perdita verificatasi a seguito della prosecuzione dell’attività, detratti i costi normali. Con ciò alleggerisce l’onere probatorio dell’attore e aggrava sensibilmente quello dei convenuti, essendo prevedibilmente difficile la dimostrazione che il danno sia inferiore a quello presunto; raramente, tuttavia, consentirà di fare a meno di una consulenza tecnica d’ufficio, necessaria se non altro per accertare il momento in cui deve considerarsi verificata la causa di scioglimento e per determinare i costi normali da detrarre [55].
Ma quali sono i presupposti in presenza dei quali opera la presunzione? È sufficiente a farla scattare il fatto che, in presenza di una causa di scioglimento, gli amministratori non l’abbiano accertata e pubblicizzata o non abbiano convocato l’assemblea per la nomina dei liquidatori, come prescrivono di fare gli artt. 2485 e 2487 c.c.?
A mio avviso no, giacché la norma è testualmente destinata ad applicarsi “quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo” (è questo l’incipit del terzo comma inserito nell’art. 2486), ossia quella che discende dalla violazione del precetto secondo cui – nel periodo che va dal verificarsi della causa di scioglimento alla passaggio di consegne con i liquidatori – gli amministratori “conservano il potere [che è poi un potere-dovere] di gestire la società [e, direi, l’impresa], ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale”. È dunque questo specifico potere-dovere che deve essere stato violato affinché possa dirsi accertata la responsabilità che fa scattare la presunzione [56]; e a tal fine occorre accertare, con una valutazione ex ante, se in quella determinata situazione concreta fosse corretto proseguire l’attività o interromperla e, nel primo caso, se la prosecuzione sia stata improntata ai criteri conservativi imposti dalla legge.
Se è così, dunque, la presunzione potrà operare solamente là dove si possa imputare agli amministratori la prosecuzione indebita di un’attività che doveva cessare o una prosecuzione non improntata a criteri conservativi. Potrebbe perciò accadere che una prosecuzione dell’attività correttamente decisa e condotta dagli amministratori dia luogo, per circostanze ad essi non imputabili, a risultati negativi, nel qual caso la presunzione non dovrebbe operare; resterebbe, certo, la possibilità di far valere la responsabilità per la violazione di altri doveri (inclusi quelli derivanti dagli artt. 2485 e 2487), ma in tal caso l’attore non potrebbe avvalersi della presunzione e dovrebbe dunque provare lo specifico inadempimento, il nesso causale e il danno.
Venendo ora al criterio sussidiario, esso è applicabile “se è stata aperta una procedura concorsuale e mancano le scritture contabili o se a causa dell’irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati” e consiste nel liquidare il danno “in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura” (così l’ultimo periodo del comma aggiunto all’art. 2486). Qui la norma non pone dunque una presunzione ma enuncia un criterio rigido e automatico, non mediato da una valutazione equitativa o da correttivi di sorta; criterio che opera quando il criterio principale non può applicarsi non solo a causa della mancanza o dell’irregolarità delle scritture contabili (circostanze in qualche modo imputabili agli amministratori) [57] ma altresì per non meglio identificate “altre ragioni”, eventualmente non riconducibili agli amministratori, e che fra l’altro pone a carico dei convenuti anche gli esiti negativi di scelte compiute dal curatore nel corso della procedura fallimentare, alle quali essi sono del tutto estranei. Da ciò le autorevoli e condivisibili critiche rinvenibili nei primi commenti [58].
Le disposizioni contenute nel nuovo terzo comma dell’art. 2486 pongono anche un problema di diritto transitorio, relativo alla loro applicabilità sia nelle azioni di responsabilità pendenti al 16 marzo 2019, data di entrata in vigore della norma, sia in quelle promosse o che si promuoveranno a partire da tale data ma per fatti accaduti prima. Potranno i tribunali investiti di queste azioni applicare quelle disposizioni?
Verosimilmente i legali degli attori propenderanno per la soluzione affermativa, sostenendo che si tratta di norme processuali in quanto regolatrici dell’onere della prova, rette dunque dal principio secondo cui tempus regit actum [59], ovvero che esse in sostanza non fanno che recepire soluzioni giurisprudenziali già consolidate.
Nessuna delle due argomentazioni mi convince. Non la prima se non altro perché in realtà, come abbiamo visto, le disposizioni in esame non regolano solo l’onere della prova (ciò è chiarissimo per il criterio sussidiario ma a ben vedere vale anche per quello principale, se è vero che esso, oltre a presumere un certo ammontare del danno, a ben vedere rimuove dalla fattispecie “responsabilità” il nesso causale tra la violazione dell’art. 2486 e il danno stesso [60]): si tratta (anche) di disposizioni a carattere sostanziale, dunque in linea di principio non retroattive ex art. 11 disp. prel. c.c. E non la seconda, posto che il contenuto precettivo del terzo comma dell’art. 2486 è in più punti innovativo rispetto alla giurisprudenza delle Sezioni Unite ed a quella successiva, che vi si era conformata [61].
Aggiungo che per quanto precede, sulla base dei criteri adottati dalla norma, a carico degli amministratori può essere liquidato un danno anche notevolmente superiore rispetto a quello effettivamente causato, ciò che fa emergere il suo carattere sanzionatorio e non meramente compensativo. Ora, come sappiamo la compatibilità con il nostro ordinamento di rimedi civili con funzione punitiva è stata di recente ammessa dalle Sezioni Unite [62], chiarendo però, fra l’altro, che essa presuppone il rispetto del principio inderogabile di irretroattività della legge sancito dall’art. 25, co. 2, Cost., che opera non solo in campo penale ma anche in materia civile per tutte le disposizioni a carattere sanzionatorio [63].
Tutto ciò induce quindi a concludere nel senso dell’inapplicabilità delle disposizioni contenute nell’art. 2486, 3° co., sia alle azioni di responsabilità già pendenti alla data del 16 marzo 2019 [64] sia a quelle promosse dopo ma con riferimento a fatti avvenuti prima della loro entrata in vigore.
[1] Ciò per effetto dell’art. 389, 2° co., d.lgs. 14/2019. Restano fuori dal discorso, pertanto, gli interventi normativi che entreranno in vigore, con il codice della crisi, decorsi diciotto mesi dalla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del predetto decreto legislativo (art. 389, co. 1), vale a dire la nuova disciplina dei finanziamenti dei soci (artt. 383 e 164, 2° e 3° co., d.lgs. 14/2019), la (re)introduzione della liquidazione giudiziale e della liquidazione controllata fra le cause di scioglimento delle società di capitali (art. 380 d.lgs. 14/2019), la disciplina della sospensione della causa di scioglimento consistente nella riduzione al di sotto del minimo legale e dei doveri degli organi sociali in caso di riduzione per perdite e riduzione al di sotto del minimo durante il procedimento di composizione assistita della crisi (art. 20, 4° co., d.lgs. 14/2019) e la riformulazione della disciplina della medesima sospensione fra il deposito della domanda e l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione o del concordato preventivo (artt. 64 e 89 d.lgs. 14/2019).
[2] Per alcuni cenni riassuntivi mi permetto di rinviare a C. IBBA, Fallimento, piccola impresa e forma societaria (nota a Cass. 28 settembre-22 ottobre 2004 n. 20640), in Giur. comm., 2005, II, 237 ss.
[3] Consistente, sul piano testuale, nel non designare più come “piccoli imprenditori” i soggetti esonerati dal fallimento.
[4] Cfr. Cass. 28 maggio 2010, n. 13086; e Cass. 20 marzo 2015, n. 5685; in dottrina, fra gli altri, C. IBBA, Sul presupposto soggettivo del fallimento, in Riv. dir. civ., 2007, I, 800 ss. e 820 s.; ID., Il presupposto soggettivo del fallimento dopo il decreto correttivo, in Profili della nuova legge fallimentare, a cura di C. Ibba, Torino, 2009, 4 ss.; G.P. ALLECA, I presupposti soggettivi delle procedure concorsuali alla luce del decreto correttivo 12 settembre 2007, n. 169, ivi, 31 ss.; e nella manualistica Diritto fallimentare – Manuale breve3, a cura di L. Calvosa, G. Giannelli, F. Guerrera, A. Paciello, R. Rosapepe, Milano, 2017, 85 s., 88; diverso iter argomentativo ma stessa conclusione in A. NIGRO-D. VATTERMOLI, Diritto della crisi delle imprese – Le procedure concorsuali4, Bologna, 2017, in 63 ss.; per un quadro riassuntivo delle varie tesi cfr. da ultimo M. SCIUTO, in Diritto commerciale, II, Diritto della crisi d’impresa, a cura di M. Cian, Torino, 2018, 25 ss.
[5] V. infatti il già cit. art. 389, 1° e 2° co., d.lgs. 14/2019.
[6] Che entrerà in vigore (ex art. 389 d.lgs. 14/2019) il 15 agosto 2020.
[7] Così V. DI CATALDO-S. ROSSI, Nuove regole generali per l’impresa nel nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza, in RDS, 2018, 750; e v. anche M.S. SPOLIDORO, Note critiche sulla “gestione dell’impresa” nel nuovo art. 2086 c.c. (con una postilla sul ruolo dei soci), in Riv. soc., 2019, 260 ss.
[8] La ratio della norma fa ritenere plausibile che essa debba applicarsi, oltre che alle imprese costituite in forma societaria, a qualunque impresa imputata a figure soggettive diverse dalle persone fisiche (e nello stesso senso interpreterei, nell’art. 1 d.lgs. 14/2019, il riferimento a chi operi “quale persona fisica, persona giuridica o altro ente collettivo”), senza che sia possibile argomentare esclusioni dalla natura eventualmente non associativa (si pensi a una fondazione) dell’ente titolare dell’impresa; analogamente M.S. SPOLIDORO, op. cit., specie 262. Sul punto anche V. DI CATALDO-S. ROSSI, op. cit., 750; e N. RICCARDELLI, Il sistema di amministrazione nelle s.r.l. dopo il codice della crisi e dell’insolvenza, in NDS, 7/2019, specie 993 s., testo e nt. 4.
[9] Con ciò replicando il precetto che nell’art. 2381, 5° co., c.c. è rivolto agli organi delegati delle società per azioni.
[10] La norma è ora richiamata – per effetto dell’art. 377 cod. crisi – in materia di società di persone (dall’art. 2257), di s.p.a. (dall’art. 2380-bis), di s.p.a. con sistema dualistico (dall’art. 2409-novies), di s.r.l. (dall’art. 2475), ed è applicabile – per effetto di rinvii già presenti nel codice civile – anche alle s.p.a. con sistema monistico, alle accomandite per azioni e alle cooperative.
[11] Non mi pare infatti che essa possa avere il senso di chiarire che i doveri cui fa riferimento operano anche nei confronti degli amministratori di società non esercenti attività d’impresa (come ipotizzano N. ABRIANI-A. ROSSI, Nuova disciplina della crisi d’impresa e modificazioni del codice civile: prime letture, in Società, 2019, 396); soluzione che ha una sua logica ma che non può fondarsi sul tenore testuale della norma richiamata (l’art. 2086) né su quello delle norme che la richiamano (i citati artt. 2257, 2380-bis, 2409-novies e 2475), nei quali sono presenti espliciti riferimenti all’“imprenditore”, alla natura e alle dimensioni “dell’impresa”, alla gestione “dell’impresa”.
[12] L’attenzione del legislatore per la configurazione della struttura organizzativa di società ed altri enti è del resto risalente ed è andata via via crescendo nel corso degli anni: fra gli antecedenti delle norme in discussione possono ricordarsi per le società quotate l’art. 149, 1° co., d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58; per gli enti in genere l’art. 6 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231; per le società a controllo pubblico l’art. 6 d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175.
[13] Così fra gli altri, argomentando dagli artt. 2403 e 2392, 1° co. (oltre che dall’obbligo di conservazione dell’integrità del capitale sociale ex artt. 2394 e 2486 c.c.), N. ABRIANI-A. ROSSI, op. cit., 396.
[14] Come lo stesso mutamento della rubrica dell’art. 2086 c.c., del resto, lascerebbe intendere: ancora N. ABRIANI-A. ROSSI, op. cit., 395.
[15] V. DI CATALDO-S. ROSSI, op. cit., 749.
[16] Per la riconducibilità delle decisioni organizzative entro l’ambito applicativo della business judgement rule, dopo accurata analisi comparatistica e con ampio resoconto critico della discussione apertasi da noi all’indomani della riforma societaria, si pronuncia L. BENEDETTI, L’applicabilità della business judgement rule alle decisioni organizzative degli amministratori, in Riv. soc., 2019, 414 ss., al quale rinvio anche per l’informazione bibliografica (cui adde R. SACCHI, Sul così detto diritto societario della crisi: una categoria concettuale inutile o dannosa?, in Nuove leggi civ., 2018, 1287 ss.; e M.S. SPOLIDORO, op. cit., 265 ss.).
[17] Diffusa argomentazione sul punto in L. BENEDETTI, op. cit., 429 ss.
[18] Analogamente N. ABRIANI-A. ROSSI, op. cit., 396 s.; e L. BENEDETTI, op. cit., 448 ss.; diversamente P. MONTALENTI, da ultimo in Diritto dell’impresa in crisi, diritto societario concorsuale, diritto societario della crisi: appunti, in Giur. comm., 2018, I, specie 76, per il quale le decisioni organizzative sono “scrutinabili alla luce di parametri di correttezza […], da ricercarsi sulla base di valutazioni tecniche e di best practice condivise, ma non assimilabili al giudizio sulle decisioni di merito”; sul punto v. anche O. CAGNASSO, Diritto societario e mercati finanziari, in NDS, 5/2018, § 4.
[19] Ovvero, nelle s.p.a. con modello dualistico, al consiglio di gestione.
[20] V. sopra, testo e nt. 10.
[21] L. CALVOSA, Gestione dell’impresa e della società alla luce dei nuovi artt. 2086 e 2475 c.c., in Società, 2019, 800.
[22] Così ancora L. CALVOSA op. cit., 800; e v. anche G.D. MOSCO, Funzione amministrativa e sistemi di amministrazione, in Le società a responsabilità limitata, diretto da C. Ibba e G. Marasà, di prossima pubblicazione, sez. I, § 1.1.
[23] E v. infatti G. RESCIO, Brevi note sulla “gestione esclusiva dell’impresa” da parte degli amministratori di s.r.l.: distribuzione del potere decisionale e doveri gestori, in ilsocietario.it (16 luglio 2019), § 1, in fine, il quale osserva che “l’interazione, nei due tipi, di disposizioni identiche quanto alle competenze degli amministratori con disposizioni innegabilmente diverse concernenti le competenze dei soci conduce ad un quadro nel quale il governo societario, in punto di articolazione delle funzioni decisorie, nei due tipi continua a non coincidere”.
[24] Come già constatato, di recente, in C. IBBA, Codice del terzo settore e diritto societario, in Riv. soc., 2019, 69 ss.
[25] Pur se il contrasto potrebbe attenuarsi valorizzando la tesi, del resto maggioritaria, secondo cui la collettività dei soci è chiamata a decidere non sul compimento dell’operazione bensì sulla fondatezza dell’opposizione, senza dunque che vi sia un diretto esercizio di potere gestorio da parte dei soci non amministratori (cfr. per tutti F. FERRARA jr.-F. CORSI, Gli imprenditori e le società15, Milano, 2011, 219 s., testo e nt. 3; D. REGOLI, in Diritto delle società – Manuale breve5, Milano, 2012, 52; L. PISANI, in Diritto commerciale, II, a cura di M. Cian, Torino, 2014, 95).
[26] Art. 3, 1° co., lett. a, l. 3 ottobre 2001, n. 366; e v. per tutti G. ZANARONE, Introduzione alla nuova società a responsabilità limitata, in Riv. soc., 2003, specie 75 ss.
[27] A ciò si aggiunga la possibilità di adottare il sistema di amministrazione disgiuntiva (art. 2475, 3° co., ultimo periodo), con conseguente applicazione dell’art. 2257 (e v. sopra, in questo §, testo e nt. 25).
[28] Lo nega con decisione, con riferimento all’istituto dei diritti particolari riguardanti l’amministrazione, E. BARCELLONA, “Control enhancing mechanisms” e “governance” della società a responsabilità limitata: quali limiti all’autonomia statutaria, in questa Rivista, 1/2019, nel § 3, là dove afferma che “la circostanza che il legislatore [nel nuovo art. 2475 c.c.] abbia voluto esplicitare la “esclusività” dei poteri di gestione in capo agli amministratori può, a tutto voler concedere, avere effetti sui criteri generali di riparto di competenze interne fra «soci» in quanto tali (o assemblea) e «amministratori» in quanto tali (organo di amministrazione); ma appare del tutto insuscettibile di incidere sulla intensità dei «diritti particolari»”.
[29] In tal senso L. DE ANGELIS, L’influenza della nuova disciplina dell’insolvenza sul diritto dell’impresa e delle società, con particolare riferimento alla s.r.l., in questa Rivista, 1/2019, § 3; e, almeno come affermazione di principio, L. CALVOSA, op. cit., 800 ss., pur ammettendo il persistere in capo ai soci di s.r.l. di competenze gestorie previste a loro favore da specifiche norme di legge, quali in particolare il voto in caso di opposizione nell’amministrazione disgiuntiva (art. 2257, ult. co.) e la decisione sulle operazioni comportanti sostanziali modifiche dell’oggetto sociale o rilevanti modifiche dei diritti dei soci (art. 2479, 2° co., n. 5); nonché, nel caso di competenze previste da disposizioni di carattere generale (sia ex art. 2468, 3° co., sia ex art. 2479, 1° co.), il loro attenuarsi in prerogative di tipo autorizzatorio (e non più anche decisorio).
[30] Cfr. V. DI CATALDO-S. ROSSI, op. cit., 758 ss.
[31] Che è quella di V. DONATIVI, I diritti particolari, in Le società a responsabilità limitata, diretto da C. Ibba e G. Marasà, di prossima pubblicazione, specie sez. I, § 4; sez. II, § 3.4, cui si deve anche la terminologia riportata sopra fra virgolette; e in parte – per le ragioni esposte nella nt. 29 – quella di L. CALVOSA, op. cit., 799 ss.; come pure di G.D. Mosco, op. cit., sez. I, specie §§ 1.1, 4.2, 5, per il quale il nuovo primo comma dell’art. 2475 attribuisce agli amministratori una competenza esclusiva normativamente residuale, destinata a venir meno solamente là dove altre disposizioni di legge assegnino in via espressa competenze gestionali ai soci (come nella fattispecie di cui all’art. 2479, 2° co., n. 5) e tale da comprimere l’autonomia statutaria prima riconosciuta, potendo questa ora attribuire ai soci (ex art. 2468, 3° co., o ex art. 2479, 1° co.) solo poteri a carattere meramente autorizzatorio e non anche decisionale.
[32] E v. infatti L. CALVOSA, op. cit., 802; in questa prospettiva la responsabilità ex art. 2476, penult. co., potrebbe tutt’al più essere ricollegata a ingerenze “di fatto” dei soci (così M.S. SPOLIDORO, op. cit., 271).
[33] Orientamento, questo, sul quale convergono nella sostanza numerosi interpreti e che può considerarsi, al momento, maggioritario: cfr. N. ABRIANI-A. ROSSI, op. cit., specie 399 ss.; N. RICCARDELLI, op. cit., specie 1001 ss.; N. ATLANTE-M. MALTONI-A. RUOTOLO, Il nuovo art. 2475 c.c. Prima lettura, Studio del Consiglio del Notariato n. 58-2019/I; P. BENAZZO, Il Codice della crisi di impresa e l’organizzazione dell’imprenditore ai fini dell’allerta: diritto societario della crisi o crisi del diritto societario?, in Riv. soc., 2019, specie 302 ss.; M. COSSU, La società a responsabilità limitata nella riforma del diritto concorsuale, in NDS, 7/2019, §§ 4.1 e 5; almeno in parte M.S. SPOLIDORO, op. cit., 270 ss., sul cui pensiero si v. però anche la nt. 39; pur dubitativamente G. RIOLFO, Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza e le modifiche al codice civile: il diritto societario tra “rivisitazione” e “restaurazione”, in Contr. e impr., 2019, 407 s.; v. inoltre gli spunti già presenti in O. CAGNASSO, op. cit., § 3; ed in P. MONTALENTI, Gestione dell’impresa, assetti organizzativi e procedure di allerta nella riforma Rordorf, in NDS, 6/2018, § 4.
[34] In apertura del § 3.
[35] Pur se condivisibilmente V. DI CATALDO-S. ROSSI, op. cit., 751 ss., evidenziano la valenza generale, e non meramente circoscritta alla previsione e gestione delle crisi, di una adeguata strutturazione degli assetti organizzativi.
[36] E v. N. RICCARDELLI, op. cit., 999 ss., che dopo ampio richiamo della giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di eccesso di delega, conclude nel senso dell’illegittimità costituzionale della previsione della competenza gestoria esclusiva in capo agli amministratori di s.r.l. in quanto non contemplata dalla legge di delegazione, non coessenziale né strumentale rispetto al principio dell’adeguatezza degli assetti ed in contrasto con la disciplina previgente del tipo s.r.l.
[37] Sulla falsariga di quanto previsto per le società a controllo pubblico dall’art. 6, 3° co., lett. b, d.lgs. 175/2016.
[38] Da G. RESCIO, op. cit., § 2 s.
[39] Non molto distante da quella di Rescio, se ben vedo, è forse la posizione di M.S. SPOLIDORO, op. cit., 270 ss., là dove l’a. manifesta perplessità circa la separazione, all’interno dell’attività amministrativa, del settore organizzativo da quello operativo, e qualifica l’organo amministrativo quale “responsabile necessario dell’organizzazione e titolare di una posizione di garanzia”.
[40] Là dove l’esecuzione si riveli pregiudizievole per la società, i creditori sociali, i singoli soci o i terzi.
[41] G. RESCIO, op. cit., § 4.
[42] Magari, come suggeriscono V. DI CATALDO-S. ROSSI, op. cit., 760 ss., attenuando alcune rigidità inopportune nelle s.r.l. o in alcune s.r.l.
[43] Analogamente N. ABRIANI-A. ROSSI, op. cit., 404; G.D. MOSCO, op. cit., sez. I, § 8.1.
[44] Cfr., anche per un quadro critico delle varie posizioni, M. RESCIGNO, Il problema dell’azione dei creditori, in S.r.l. – Commentario dedicato a G.B. Portale, Milano, 2011, 707 ss.
[45] Ciò in attuazione dell’art. 14, lett. a, l. 155/2017.
[46] A seguito della quale il legislatore ha altresì provveduto all’adeguamento del testo dell’art. 92 disp. att. c.c. (cfr. l’art. 379, ult. co., d.lgs. 14/2019).
[47] Com’è noto, una ristretta minoranza.
[48] Dall’art. 379, 2° co., parte finale, d.lgs. 14/2019, in attuazione dell’art. 14, lett. f, della legge-delega.
[49] “In quanto compatibile”: e v. C. IBBA, Codice del terzo settore e diritto societario, cit., 77 s.
[50] Ossia, per quanto detto sopra, nella nt. 1, entro il 16 dicembre 2019.
[51] Nello stesso senso sono orientati N. ABRIANI-A. ROSSI, op. cit., 407.
[52] Cass., S.U., 6 maggio 2015, n. 9100, che può leggersi fra l’altro in Giur. comm., 2015, II, 643 ss., con commenti di A. BASSI, G. CABRAS, M. CIAN, S. FORTUNATO, D. GALLETTI, A. JORIO, P. MONTALENTI, R. SACCHI.
[53] Così l’art. 378, 2° co., d.lgs. 14/2019.
[54] Come pure rappresentano un passo indietro rispetto al progetto elaborato dalla Commissione Rordorf (“Proposta di decreto legislativo recante modifiche al codice civile, in attuazione della legge delega 30 ottobre 2017, n. 155, per la riforma delle discipline delle crisi d’impresa e dell’insolvenza”), che al fine della liquidazione del “pregiudizio arrecato dai singoli atti compiuti in violazione” del dovere previsto dall’art. 2486, 1° co., richiamava innanzi tutto, sia pure nei limiti della compatibilità, le regole generali degli artt. 1223, 1225, 1226 e 1227 c.c., per poi prevedere un criterio speciale di quantificazione (quello dei netti patrimoniali, adottato quale presunzione semplice) per il solo caso di mancanza o inattendibilità delle scritture contabili; e v., con toni fortemente critici in ordine alle disposizioni introdotte sul punto dal codice della crisi, V. DI CATALDO-S. ROSSI, op. cit., 762 ss.; nonché N. ABRIANI-A. ROSSI, op. cit., 407 ss.
[55] E v. N. ABRIANI-A. ROSSI, op. cit., 409.
[56] Anche la legge-delega, del resto, nella cit. lett. e dell’art. 14, fa riferimento all’azione di responsabilità “fondata sulla violazione di quanto previsto dall’articolo 2486”; e v. N. ABRIANI-A. ROSSI, op. cit., 408 s.; V. DI CATALDO-S. ROSSI, op. cit., 763.
[57] Ma v. le considerazioni di V. DI CATALDO-S. ROSSI, op. cit., 765.
[58] Mi riferisco ancora, in particolare, agli scritti di N. ABRIANI-A. ROSSI, op. cit., 411; e di V. DI CATALDO-S. ROSSI, op. cit., 764 ss.
[59] Argomentazione peraltro semplicistica, alla luce delle considerazioni svolte da C. MANDRIOLI-E. CARRATTA, Diritto processuale civile24, II, Torino, 2015, 184 s., testo e nt. 21; e v. anche, per la configurazione delle norme contenute negli artt. 2697 ss. c.c. quali regole di diritto sostanziale, Cass. 18 marzo 2004, n. 3486.
[60] È vero infatti che la presunzione opera solamente là dove siano stati violati i precetti contenuti nell’art. 2486, ma la prova contraria ammessa è solo quella di un “diverso ammontare” del danno, non anche quella della non riconducibilità del danno a uno specifico comportamento inadempiente; e v. N. ABRIANI-A. ROSSI, op. cit., 409 e 411.
[61] Cfr. Cass. 3 gennaio 2017, n. 38; e da ultimo Cass. 1° febbraio 2018, n. 2500, in Giur. comm., 2019, II, 544 ss., con nota di G. RACUGNO, Le discrasie della Cassazione: a margine dell’art. 146 l. fall. (il quale peraltro ravvisa un non perfetto allineamento della pronuncia rispetto alla decisione delle Sezioni Unite).
[62] Cass., S.U., 5 luglio 2017, n. 16601.
[63] Così fra gli altri M. SESTA, Risarcimenti punitivi e legalità costituzionale, in Riv. dir. civ., 2018, 311.
[64] Conff. N. ABRIANI-A. ROSSI, op. cit., 411 s.