Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2282-667X
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In tema di metodo nel diritto commerciale* (di Carlo Angelici, Professore emerito, Università degli Studi di Roma La Sapienza)


* Il presente lavoro riproduce, con alcune integrazioni, la relazione svolta nel corso della tavola rotonda “Il metodo nel diritto commerciale”, tenutasi il 22 febbraio 2019 nell’ambito del X Convegno annuale dell'Associazione "Orizzonti del diritto commerciale".

Il paper inizia rilevando criticamente l’attuale tendenza a emarginare dal centro degli interessi degli studiosi di diritto commerciale l’area dei contratti, proprio quella in cui più significativa può essere una distinzione fra diritto civile e commerciale. Si chiede poi se e in che senso si ponga oggi una qualche esigenza di specificità per il metodo degli studiosi del secondo, rilevando che esso non può consistere semplicemente in una maggiore considerazione dei dati della realtà: poiché in effetti ogni metodo ritiene di essere più «realistico» degli altri e la distinzione riguarda invece il modo di concepire la «realtà». Viene quindi osservato che, trattandosi di far riferimento alla «prassi degli affari», la tematica si caratterizza essenzialmente per i tempi dei suoi mutamenti: con la conseguenza che chi ne fa oggetto di studio è indotto a operare sulla base di modelli approssimativi, con particolare valenza della prospettiva della Typuslehre, e utilizzando più che in altri settori lo strumento dell’analogia.

* This article is an expanded version of the talk given at the roundtable on “Il metodo nel diritto commerciale” that was held on 22 February 2019 at the Tenth Annual Conference of the ODC Association.

 

On method in business law

The paper begins by critically noting the current tendency to marginalize from the center of the interests of commercial law scholars the area of contracts, the one where the most significant distinction can be made between civil and commercial law. It raises then the question whether and in what sense there is today some need for specificity for the method for studying the second, and it is noted that it cannot consist simply in a greater consideration of the data of reality: since in fact each method believes to be more «realistic» than the others and the distinction instead concerns the way of conceiving «reality». It is therefore noted that, since it is a matter of referring to «business practice», the subject is essentially characterized by the timing of its changes: with the consequence that those who study it are led to operate on the basis of approximative models, with particular value of the perspective of the Typuslehre, and using more than in other sectors the instrument of analogy.

Keywords: business law – contract law – legal method

Sommario/Summary:

1. L'inquietudine del giuscommercialista. - 2. L'analisi economica del diritto e i suoi modelli. - 3. Il significato del riferimento alla prassi degli affari. - 4. Il ruolo della Typuslehre e dell'analogia. - 5. La tecnica della comparazione. - 6. Il diritto commerciale e la revisione dei paradigmi del diritto privato.


1. L'inquietudine del giuscommercialista.

Penso che, imponendomi l’ordine alfabetico di prendere per primo la parola (un po’ come spesso mi accadeva a scuola), sia giustificato che io mi interroghi e vi interroghi riguardo alle ragioni e al senso di questa tavola rotonda. E credo anche di poter rispondere che essi debbano rinvenirsi al fondo in un dato in certo modo costante, direi di lunga durata, per gli studiosi di diritto commerciale, ma rispetto al quale ci si deve ora chiedere se e per quali aspetti si presentino elementi di novità in grado da renderlo nuovamente attuale.

Il dato costante è un senso di inquietudine degli studiosi del diritto commerciale in merito alla propria identità e all’identità della materia che studiano: un senso di inquietudine che in certi periodi è rimosso e in altri riemerge e viene proposto al pubblico dibattito.

E credo non vi sia dubbio che siamo ora in una di queste fasi. Basta ricordare i recenti interventi di Mario Libertini, che rappresentano la base di partenza necessaria per la discussione attuale, e che pochi mesi fa si è tenuto un incontro, con la partecipazione di parte dei presenti nell’attuale tavola rotonda, che in un certo modo introduce quello di oggi.

Interpreto quindi l’invito a parteciparvi come quello a interrogarsi se e in che termini la tradizionale inquietudine dei commercialisti in merito al proprio essere possa ritenersi giustificata e, soprattutto, se questa nuova attualità del tema abbia ragioni diverse oppure no rispetto a quando il problema si è posto nel passato.

In proposito darei per scontato che certamente non si tratti più, come alle origini, di un problema di affermare la dignità scientifica della materia e così, in definitiva, il prestigio di coloro che la studiano. Da questo punto di vista credo da tempo conclusa la lunga battaglia iniziata nell’ottocento. Non avrebbe ora più senso, evidentemente, un complesso di inferiorità del commercialista nei confronti dei civilisti e la situazione potrebbe in un certo senso ritenersi ribaltata: i civilisti, in effetti, tendono per lo più a trascurare temi tipicamente di loro pertinenza (si pensi al secondo libro del codice civile, ma anche, in buona misura, al primo e al terzo) e a dedicarsi soprattutto al diritto degli affari.

Mi verrebbe da dire che i civilisti tendono oggi a presentarsi (e aggiungerei con una punta di malignità: forse anche per motivi professionali) come commercialisti.

Escluderei anche che svolga oggi un ruolo per il dibattito sul diritto commerciale il sistema delle fonti: come avvenne invece, per ragioni del tutto comprensibili, all’indomani della codificazione del 1942. Credo in effetti si possa dare ormai per acquisito che l’incognita del «diritto commerciale» prescinde in certo modo nel suo porsi, non necessariamente nella sua caratterizzazione, dall’esistenza di un autonomo corpo normativo a esso dedicato: come è dimostrato dalla circostanza che esso si pone anche in ordinamenti che conoscono un codice di commercio (come avviene in Francia, Germania e, per certi aspetti peculiari, in Spagna) e continua a porsi anche dopo un’unificazione dei codici, come avvenuto in maniera singolare in Argentina.

Mi sentirei allora di osservare che forse la peculiarità, rispetto ai modi in cui nel passato si è posto il tema, è ora rinvenibile in un diffuso atteggiamento dei «commercialisti», per tali intendendo coloro che burocraticamente vengono classificati con riferimento al settore IUS/04. Non sorprendentemente del resto, se si condivide la (mia) sensazione che il «diritto commerciale» non esiste in natura, ma in quanto e se esistono i «commercialisti» (con la conseguenza, fra l’altro, che mi sembra vano, e forse ispirato a motivazioni ideologiche non sempre del tutto sincere e consapevoli, ricercare il primo anche quando dei secondi non vi è sicuramente alcuna traccia).

E per questo aspetto mi sembra particolarmente adeguata la sede di questa tavola rotonda: una sorta di autoanalisi della categoria, perciò affidata a chi, per ragioni di anzianità, è ormai ai suoi margini, se non addirittura al suo esterno.

Mi riferisco in particolare a un atteggiamento già da molto tempo segnalato da Floriano d’Alessandro: quello che ha visto un sempre più accentuato specialismo di settore, per certi aspetti sembrando quasi il diritto commerciale (se si guarda a ciò che in concreto studiano coloro che si autodefiniscono «commercialisti») ridursi a quello delle società, anzi, mi sentirei di dire sulla base di un approccio empirico all’attuale produzione scientifica, quasi delle sole società di capitali. Il che, penso, presenta dei costi non trascurabili: si pensi ad alcune recenti soluzioni del c.d. codice della crisi di impresa, che si spiegano anche per una tendenza, pure da quell’atteggiamento derivata, a trascurare le peculiarità degli altri tipi sociali. E in ogni caso riduce la plausibilità di un discorso generale in punto di diritto degli affari, come forse dovremmo ormai chiamare la nostra materia.

Mi limito a segnalare due aspetti, fra i tanti, che possono spiegare come da tale atteggiamento possa originare quello che ho chiamato senso di inquietudine, e potrebbe anche chiamarsi di disagio, di noi «commercialisti» in questo periodo.

Ricordo per esempio, e penso di non violare alcun vincolo di confidenzialità, un’affermazione che mi ha fatto qualche giorno fa Mario Libertini, quando ci chiedevamo quale compito dovessimo assolvere oggi: che è largamente paradossale, in presenza di un’ampia condivisione dell’opinione che pone al centro della nostra materia l’impresa capitalistica (sicché, aggiungerei a illustrazione di un precedente spunto, parlare di «diritto commerciale» per altre epoche significa ritenere che essa sia un dato astorico e, come tale, permanente nell’esperienza umana, con buona pace, per esempio di Marcel Mauss), quindi quella che opera in un mercato, intendere poi la disciplina antitrust come una materia rigorosamente specialistica, allora non più oggetto di studio da parte del «comune» commercialista.

Ma allo stesso modo mi sembra paradossale, seppur forse meno evidente, che la materia dei contratti, certamente centrale per gli affari e per il relativo diritto, sia ormai ai margini degli studi che si presentano come di «diritto commerciale»: al punto che, per riferire una mia esperienza personale, temi come quelli concernenti i derivati hanno fin qui interessato molto più i civilisti che i commercialisti. Ciò mi sembra paradossale se non altro in quanto in altri ordinamenti, culturalmente contigui con il nostro e che hanno conservato una distinzione fra diritto commerciale e civile in termini di fonti, anche di cognizione come risultanti dalla presenza di un codice di commercio, è proprio per la materia dei contratti che tale distinzione viene politicamente discussa: ponendosi un problema che già Angelo Sraffa si poneva nella sua celebre prolusione, se e quando sia giustificato imporre al comune cittadino soluzioni elaborate dai commercianti nel proprio interesse e poi, in maniera più o meno diretta, recepite dall’ordinamento.

In effetti, che il diritto delle società possa presentarsi con caratteristiche proprie e meriti di essere interrogato anche chiedendosi se e come le prospettive dell’organizzazione e dell’attività sono in grado di agevolarne la comprensione mi pare del tutto evidente e ben poco aggiungere a quanto già intuitivamente si può condividere. Ben diverso, e molto più pregnante, mi sembra chiedersi se e quando la «commercialità» di un atto può giustificarne un diverso trattamento rispetto a quello «civile».


2. L'analisi economica del diritto e i suoi modelli.

Ma se questi aspetti riguardano essenzialmente il sistema, come cioè l’in­terprete ritiene opportuno costruirlo e così anche delimitarlo, non possono non riguardare anche il metodo di cui avvalersi per tale opera di costruzione e, poi, per la concreta ricerca delle singole soluzioni applicative. Da ciò l’inter­ro­gativo che oggi ci viene posto, se lo studio di quello che chiamiamo «diritto commerciale» richiede o comunque di fatto utilizza un metodo dotato di una qualche particolarità rispetto a quello praticato per altri ambiti dell’esperienza giuridica.

Del resto, non credo vi sia bisogno di ricordare che anche, se non soprattutto, sul piano del metodo volevano caratterizzarsi i commercialisti che operarono in quella che possiamo chiamare la fase della fondazione: basta pensare, per tutti, a Cesare Vivante.

E ancora oggi, come sappiamo, è diffusa l’immagine di un «commercialista» che vuole essere vicino, più o meno rozzamente, alla realtà e contrapposta, a volte con un qualche compiacimento nell’autorappresentazione, a quella di un civilista che opererebbe invece con i concetti e le astrazioni.

Si tratta però di un’immagine che a me pare evidentemente fuorviante e della quale credo necessario sbarazzarci il più presto possibile. Mi limito a giustificare questa mia osservazione con alcune considerazioni, fra le tante e ben più impegnative, che nella loro banalità mi sembrano inequivocabili.

Si può osservare in primo luogo che tale affermazione di aderenza alla realtà, e la critica come astratte delle metodologie che non si vogliono seguire, è una costante assoluta di ogni nuova proposta di metodo. Non conosco in effetti studiosi i quali abbiano addotto a proprio sostegno il fatto di essere astratti e distanti dalla realtà.

Ogni metodologia, a ben guardare, si presenta come strumento per meglio comprendere la realtà: sicché, in definitiva, la questione riguarda soprattutto la «realtà» che si vuole comprendere, il tema, mi verrebbe da dire con un esempio impressionistico, se siano più reali le idee platoniche o la loro ombra nelle caverne.

Il punto potrebbe essere illustrato con riferimento a temi per noi giuristi ben più attuali considerando il ruolo che attualmente sembra svolgere l’analisi economica del diritto. Prescindo dai significati che potrebbe assumere per la nostra specifica materia, potendo osservare che di essa non sarebbe in ogni caso esclusiva, venendo invece utilizzata in molti altri settori, con una tendenza anche in certo modo imperialista per l’intero ordinamento giuridico (si pensi soltanto a quella che potremmo chiamare la sua versione costituzionalistica nella forma di public choice). Mi sembra in ogni caso che, a differenza di quanto a volte si dice e si scrive, fra i suoi meriti sarebbe assolutamente superficiale annoverare quello di una maggiore aderenza alla realtà rispetto a quanto avviene con altre metodologie: nella mia visione il «teorema di Coase» è astratto almeno quanto, se non di più, la figura sistematica del negozio giuridico.

Osserverei anzi che anche, certamente non soltanto, proprio per questa astrattezza di fondo l’analisi economica del diritto ha avuto un particolare successo per l’insegnamento del diritto in un sistema quale quello statunitense, il quale è caratterizzato, come era la Germania dell’epoca di Savigny, da una pluralità di ordinamenti statali e, da un altro punto di vista, privo di un’ela­borazione dogmatica in grado, al di là delle differenze dei singoli diritti scritti, di consentire una didattica e una elaborazione scientifica fondamentalmente comuni.

E farei ancora un’altra osservazione, pur essa banale, ma forse non del tutto priva di significato per l’oggetto del mio intervento: che metodi come quello dell’analisi economica del diritto rendono esplicita una caratteristica in effetti presente in ogni metodo, quello della costruzione di un modello, in quanto tale «astratto», con cui confrontare i dati empirici. Così avviene, per limitarsi a due esempi fra i più facili e notissimi, non solo con il «teorema di Coase», ma anche con la «ipotesi del mercato efficiente»: entrambi i modelli, pure il secondo, non intendono certo descrivere una realtà empirica, ma fornire uno strumento di analisi per verificare quanto essa si distacca dal modello medesimo.

Riterrei anche evidente che questa costruzione di modelli, in un modo o nell’altro presente nelle diverse metodologie, sia inevitabilmente ispirata, in via diretta o indiretta, da una valutazione politica di ciò che si vuole disciplinare ed è oggetto della disciplina che si vuole interpretare.

Direi cioè che la scelta del metodo contiene in sé, inevitabilmente, anche un momento «normativo», non solo positivo. Sicché è ben plausibile l’assunto di Francesco Denozza, quando ci avverte che l’analisi economica del diritto costruisce i suoi modelli basandosi in effetti su una visione dell’uomo, il c.d. REMM, che è quella postulata dal sistema neoliberale: rivelandosi allora la prima anche funzionale ai suoi obiettivi politici.


3. Il significato del riferimento alla prassi degli affari.

Se così è, e se la ricerca delle peculiarità di un settore dell’esperienza giuridica come quello che chiamiamo «diritto commerciale» non può prescindere da, ma anzi si concentra su, l’esperienza culturale dei suoi studiosi; se ciò può avere un senso in quanto sia possibile riconoscere una qualche continuità di tale esperienza nel tempo e pur mutando il diritto positivo, poiché in mancanza di tale continuità non vi sarebbe motivo per parlare ancora di «diritto commerciale» (salvo negarne la storicità e intenderlo, ma con implicazioni ideologiche che mi paiono di particolare gravità, come una categoria permanente del pensiero umano); se tutto ciò si condivide, parlare del metodo nel diritto com­merciale non può iniziare se non con una valutazione, come quella di recente avviata proprio da Mario Libertini, del metodo con cui la categoria è stata storicamente fondata, quello che nella fase della fondazione veniva in certo modo rivendicato per caratterizzarla. In certo modo era proprio con il metodo che si voleva definire il diritto commerciale che si stava creando.

Non vi è bisogno di dire che mi sto riferendo a Cesare Vivante e al c.d. «metodo dell’economia». E penso in proposito, al fine di valutarne in estrema sintesi le implicazioni politiche, di potermi avvalere di alcune belle pagine di Giuseppe Terranova, destinate a far parte di un più ampio saggio la cui redazione è ancora in corso di completamento e che l’amico mi ha consentito di leggere.

Il punto che qui mi interessa è quello ove viene operato un confronto fra le due linee di pensiero che hanno segnato la prima storia della nostra materia, quella appunto di Cesare Vivante e l’altra contrapposta di Alfredo Rocco: que­sta che si collocava in una scelta di fondo nazionalista e statalista; e quella che, seppur non certamente giusnaturalistica come le si voleva imputare, sottolineava soprattutto il ruolo nella materia della prassi degli affari, e allora anche la sua dimensione cosmopolita.

Ciò che credo meriti di essere sottolineato, e mi pare poter assumere significato dal punto di vista propriamente metodologico, non è il riferimento alla prassi: esso, a ben guardare, senza dubbio non è esclusivo dell’ambiente com­mercia­listico (e per convincersi di ciò potrebbe bastare una considerazione del ruolo, da certi punti di vista ancora più importante per l’interprete, che si deve riconoscere alle prassi parlamentari o a quelle amministrative). Ciò che rileva sono, invece, le specifiche caratteristiche di quella degli affari: che definirei in termini di spiccata dinamicità, conseguente alla ricerca dell’innovazione in certo modo implicita nell’attività imprenditoriale.

A differenza di quanto avviene in altri ambienti, e si pensi di nuovo a quelli parlamentare o amministrativo, il riferimento alla prassi non è strumentale per un fine di stabilità e continuità; serve invece, appunto, ad aprire lo spazio per l’inno­vazione.

Il che, in effetti, corrisponde al Vorreiterrolle che Levin Goldschimidt e poi in definitiva lo stesso Cesare Vivante riconoscevano, ma in realtà assegnavano, al diritto commerciale per l’evoluzione dell’intero sistema privatistico.


4. Il ruolo della Typuslehre e dell'analogia.

Da questa impronta originaria, pur qui richiamata in modo insopportabilmente generico e approssimativo, derivano a mio modo di vedere significative implicazioni metodologiche che vorrei tentare di sintetizzare con alcuni, pur essi inevitabilmente generici, cenni.

Mi pare in primo luogo che questo guardare a prassi in cui è fisiologica l’emersione di novità, ponendosi allora l’esigenza di confrontarle con le scelte normative dell’ordinamento (in certo modo per definizione alle prime preesistenti), comporta inevitabilmente un più accentuato ricorso allo strumento dell’analogia e comporta inoltre, per l’esigenza appunto di confrontare prassi nuove con regole che loro preesistono, un altrettanto inevitabile grado di approssimazione.

Perciò mi è sempre sembrata significativa per lo studio del diritto commerciale, anche se di essa certo non esclusiva, la Typuslehre, quella in particolare elaborata e discussa da Karl Larenz e dalla sua scuola, in particolare Claus-Wilhelm Canaris e Detlef Leenen: l’esigenza di distinguere fra due modi di ragionare, quello che si avvale di «concetti», che definiscono una classe, allora rigidamente determinando i requisiti per appartenervi, ovvero di «tipi», che non sono definiti ma descritti, e la sussunzione nei quali avviene non verificando analiticamente la presenza in concreto di singoli requisiti, bensì alla luce di un complessivo Erscheinigungsbild.

E del resto, se la materia contrattuale costituisce il più importante e significativo banco di prova della «commercialità», è anche significativo che l’utiliz­zazione e la sperimentazione di nuovi modelli di contratto per un verso sia uno degli aspetti in cui concretamente più si manifesta la ricerca dell’innovazione nella prassi degli affari, per un altro verso rappresenti uno dei campi applicativi privilegiati della Typuslehre.

Il punto è notissimo e non mi soffermo ulteriormente. Vorrei solo sottolineare, a scanso di non infrequenti equivoci, che il «tipo» cui mi riferisco, seppur alla sua costruzione non sono certamente estranei i dati empirici che possono derivarsi dalla realtà effettuale (e in questo senso presenta non irrilevanti punti di contatto con la «tipologia della realtà» di cui discorreva Tullio Ascarelli) è soprattutto uno strumento ermeneutico, come tale al vertice riferibile alla tecnica analogica, e comunque da costruire nella dimensione della normativa e adottando di essa la prospettiva.


5. La tecnica della comparazione.

Questo ruolo della Typuslehre e dell’analogia rappresentano, come evidente, non tanto delle specificità dello studio del diritto commerciale, quanto una più spiccata accentuazione di strumenti in effetti utilizzati e utilizzabili pure in altri settori dell’ordinamento: accentuazione che consegue alla caratteristica della prassi degli affari di tendere permanentemente all’innovazione.

Ma si tratta di una prassi che si presenta in gran parte anche con un’ulte­riore caratteristica, quella di svolgersi in una dimensione che un tempo veniva chiamata cosmopolita e ora transnazionale: con riferimento alla quale, osserverei incidentalmente, ancor più oggi possono comprendersi i timori presenti nella posizione di Alfredo Rocco, che il suo ruolo potesse servire ai ceti interessati per sottrarsi alle scelte politiche dell’ordinamento.

Perciò nello studio del diritto commerciale, di nuovo in maniera certo non esclusiva, ma in termini più accentuati rispetto a quanto avviene per altre materie e ambiti disciplinari, è tradizionale l’uso della tecnica della comparazione (la quale, osserverei incidentalmente, più o meno consciamente opera con «tipi» e con forme di pensiero analogico). Essa risulta in effetti ben più che utile, ma necessaria, quando si devono considerare prassi formatesi in contesti stranieri ovvero transnazionali: di esse è necessario comprendere il senso e ciò non può avvenire se non in un’attenta considerazione del ruolo svolto da tali contesti, quindi anche del relativo assetto ordinamentale, per la loro formazione.

Sicché per noi la comparazione non ha solo un pur importante ruolo conoscitivo e non si esaurisce nel confronto fra soluzioni normative di ordinamenti differenti, ma contribuisce in maniera essenziale alla comprensione della prassi che si deve regolare e a chiedersi quale può essere il suo significato per il nostro ordinamento, alla luce perciò delle sue caratteristiche complessive e delle scelte politiche che lo ispirano.

Per questo motivo mi preme sottolineare che la comparazione di cui discorro, e che mi sembra di fondamentale rilievo per lo studio del diritto commerciale, non può certo essere confusa né con la mera conoscenza né con la ricezione del diritto straniero all’interno dell’ordinamento. Non con la prima, che è pur un importante fatto conoscitivo, ma non contribuisce di per sé alla ricerca della soluzione applicativa nel nostro ordinamento; e tanto meno la seconda, fenomeno che si pone su un diverso piano e che in maniera a mio parere del tutto evidente è il risultato di rapporti di forza politici oltre che, in particolare nel nostro campo specifico, di interessi professionali.

Da questo punto di vista mi permetterei di osservare che nel momento attuale, se certamente è aumentata la conoscenza dei diritti stranieri, ciò è avvenuto in maniera unilaterale, nel senso che, certamente in conseguenza dei rapporti di forza politici e professionali cui alludevo, l’attenzione è stata dedicata soprattutto a singoli ordinamenti, venendo progressivamente trascurati sistemi come quello francese e tedesco storicamente (ancora) decisivi per comprendere il nostro e comunque centrali per l’evoluzione del contesto europeo cui partecipiamo. Ma è avvenuto anche non mediante un affinamento dell’analisi comparatistica, ma se del caso mediante la ricezione, più o meno imposta politicamente, di soluzioni e prospettive di altri ordinamenti.

Mi limito a due esempi che da tempo mi hanno colpito:

Il primo riguarda il modo in cui è stato per lo più accolto il lavoro di Grant Gilmore sulla «morte del contratto». Si trattava in effetti di un lavoro sull’evo­luzione della figura del contratto nella common law e specifica di essa; essendo allora singolare che sia stato inteso e spesso in tal modo citato senza tener conto della diversa estensione in quel sistema dell’area contrattuale e dei suoi rapporti con la figura contrapposta dell’illecito; sicché esso si avvale di dati operativi i quali in altri ordinamenti potrebbero essere agevolmente intesi come manifestazione di una tendenza espansiva del contratto nel sistema.

Il secondo riguarda un tema specifico per la nostra materia, il dibattito sul c.d. solvency test. Mi pare singolare, in effetti, che con esso si sia soprattutto discusso del ruolo del capitale sociale e del netto patrimoniale, ma si sia largamente trascurato il collegamento funzionale fra tale soluzione tecnica e la competenza degli amministratori a decidere in merito alla distribuzione degli utili, l’utilizzabilità quindi in proposito della c.d. business judgment rule.


6. Il diritto commerciale e la revisione dei paradigmi del diritto privato.

Vorrei concludere infine queste approssimative e disordinate considerazioni evocando un tema che non so se possa ritenersi propriamente metodologico, ma mi è molto caro. Vorrei cioè osservare che, se lo studio del diritto degli affari richiede la disponibilità a considerare prassi in mutamento a volte anche rapido, secondo i tempi che Fernand Braudel chiamava quelli dei «giuochi dello scambio», e la disponibilità quindi a operare avvalendosi di «tipi», in termini approssimativi e privi del rigore dei «concetti», forse non è eccessivo richiedere anche una disponibilità alla revisione dei paradigmi generali del sistema privatistico.

E del resto nel Vorreiterrolle di cui discorrevano Levin Goldschmidt e Cesare Vivante vi era anche l’ambizione di contribuire all’evoluzione, non solo tecnica, ma anche concettuale, dell’intero diritto privato: ambizione cui a volte, forse anche per il loro richiudersi in settori specialistici come quello delle società, buona parte degli attuali studiosi del diritto commerciale sembra aver rinunciato (con danno anche, mi sentirei di aggiungere, dei civilisti in senso stretto).

A mio modo di vedere, infatti, si tratta di paradigmi i quali, seppur certamente aspirano alla «lunga durata», sono anche essi, inevitabilmente, dotati del requisito della storicità. Nulla di strano allora, per riprendere ancora la prospettiva di Fernand Braudel, che diversi siano i tempi della loro evoluzione nei diversi settori dell’ordinamento: più lenti in alcune aree ove si manifesta la struttura e l’antropologia dell’uomo, e per le quali la storia potrebbe apparire «immobile» (e si potrebbe pensare, per limitarsi a un facile esempio, al tentativo di Giovanni Pugliese di utilizzare lo schema del diritto soggettivo per la comprensione del diritto romano e alla sua conseguente polemica con Michel Villey); molto più veloci nell’area che qui interessa dei «giuochi dello scambio».

Anche se, a ben guardare, i paradigmi ora in discussione sono storicamente emersi da ormai due secoli: il che, osserverei, rende meno sorprendente che proprio dallo studio del diritto commerciale possano derivare tendenze al loro superamento e sostituzione con altri.

Mi limito, e così finalmente concludo, a due esempi, uno generalissimo e un altro che potrebbe riguardare proprio la tematica al centro del convegno in cui si svolge questa tavola rotonda.

Si può così osservare, per il primo aspetto, che se un secolo fa Andreas v. Tuhr definiva il diritto privato come l’area dei diritti soggettivi, ponendoli perciò al centro dell’intero sistema, potrebbe non essere privo di rilievo che oggi persino con riferimento alla proprietà, quello che modernamente è stato l’archetipo per costruire la figura generale, svolgano un ruolo centrale proposte come quelle di Shalev Ginossar e Frédéric Zenati che vogliono escludere il suo significato di diritto soggettivo.

D’altra parte, se per la costruzione ormai tradizionale del sistema è ancora più centrale lo schema del soggetto, non è forse privo di rilievo, al fine di evidenziarne le aporie nei settori più nuovi, quelli in cui l’innovazione più velocemente si manifesta, che un autore come Gunther Teubner si veda costretto in un recentissimo saggio, pubblicato nel 2018 nel Archiv für die civilistiche Praxis, a cercare plausibili soluzioni applicative tramite il riconoscimento al sistema informatico del ruolo appunto di «soggetto di diritto»: un esempio estremo, riterrei, delle conseguenze ultime cui può condurre l’esigenza di avvalersi dei consueti paradigmi, ma forse anche dell’opportunità di chiedersi se non sia ormai possibile o addirittura necessario elaborarne di nuovi.