Lo scritto si propone di esaminare criticamente le varie tecniche utilizzabili per aggredire il patrimonio della società capogruppo, nel caso di sottoposizione delle società eterodirette a procedure concorsuali e di insufficienza del loro patrimonio attivo, che sia riconducibile agli abusi nell'eterogestione, a soddisfare i rispettivi creditori.
Dopo aver rilevato come sul piano comparatistico sussistono molte resistenze all'adozione di tecniche di consolidazione sostanziale delle masse attive e passive delle società coinvolte nella crisi, si evidenzia come la soluzione prevalentemente accolta risulta essere quella del ricorso ad istituti facenti leva sulla responsabilità risarcitoria della capogruppo nei confronti dei creditori per gli abusi di eterogestione.
Questa soluzione, sancita nel nostro ordinamento dagli artt. 2497 ss. c.c., si trova tuttavia affiancata da altre tecniche, da tempo elaborate dalla dottrina o applicate dalla giurisprudenza, fondate sulla sottoposizione a fallimento della stessa società capogruppo, in via autonoma o in estensione di quello delle società eterodirette, ai sensi dell'art. 147 l. fall., e che quindi sono configurabili in termini di responsabilità patrimoniale.
Tali tecniche presentano caratteristiche assolutamente peculiari e pertanto non possono essere utilizzate, come tuttavia talora la giurisprudenza è stata indotta a fare, per ravvisare automaticamente, a seguito del fallimento della società capogruppo, le condizioni per l'accertamento e la quantificazione del danno da eterodirezione abusiva: con la conseguenza di ammettere al passivo del fallimento della capogruppo l'importo cosi genericamente quantificato a prescindere da ogni accertamento della effettiva ricorrenza di un'eterodirezione abusiva e dell'effettiva incidenza svolta dall'attività di direzione e coordinamento esercitata dalla capogruppo, e quindi anche senza tenere conto dei possibili vantaggi compensativi.
1. Delimitazione dell’ambito della trattazione: le tecniche per affrontare la crisi dei gruppi di società nel panorama comparatistico, tra coordinamento delle procedure concorsuali e consolidamento sostanziale. - 2. L’approccio nel nostro ordinamento: il gruppo insolvente nelle procedure concorsuali speciali ed i riflessi in sede fallimentare della responsabilità da direzione e coordinamento. - 3. Responsabilità risarcitoria v. responsabilità patrimoniale per eterogestione abusiva degli «pseudogruppi» alla luce dei consolidati filoni interpretativi: a) il fallimento in estensione ai sensi dell’art. 147 l. fall. - 4. (Segue): Fallimento della «super-società» ed eterodirezione abusiva. - 5. b) Il fallimento «autonomo» della holding individuale o società di fatto. - 6. Le applicazioni «congiunte» di responsabilità risarcitoria e patrimoniale da eterodirezione abusiva. - 7. (Segue): l’incongruenza dell’utilizzazione della responsabilità da direzione e coordinamento per raggiungere risultati analoghi al fallimento in estensione ex art. 147 l. fall. La distinzione tra i due rimedi ed il rischio di svalutare la portata dell’introduzione degli artt. 2497 ss. c.c. - 8. Precisazioni in ordine all’individuazione dell’eterogestione abusiva nella crisi del gruppo. - NOTE
Il tema, sin troppo ambizioso, di questo contributo si colloca all'intersezione tra due ampi settori del diritto dell'impresa quali sono, da un lato, la disciplina della direzione e coordinamento di società e, dall'altro, quella delle procedure concorsuali che coinvolgono in senso lato le imprese in forma societaria, e quindi a prescindere dalla ricorrenza di legami di gruppo tra di esse.
Ed infatti, la responsabilità da eterodirezione è chiaramente destinata ad operare, nell'intenzione del legislatore, anche e soprattutto a prescindere dall'apertura di una procedura concorsuale che coinvolga una o più delle società del gruppo. Questo in quanto l'obiettivo è di colpire gli abusi di direzione e coordinamento che vengono posti in essere dalla capogruppo nei confronti delle società eterodirettein bonisnel corso del normale svolgimento dell'attività di impresa, al fine di prevenire ed evitare che le manifestazioni patologiche dell'eterodirezione siano addirittura capaci di condurre alla crisi le società che vi siano sottoposte.
Così come, al contrario, è indubbio che, quanto meno in linea teorica, il più ampio tema delle modalità con cui vanno affrontate le situazioni di stato di insolvenza, e prima ancora di stato di crisi, in cui in vario modo si trovino coinvolte più società appartenenti ad uno stesso gruppo - che si presenta da tempo all'attenzione dei giuristi secondo una varietà di prospettive - prescinde dalla ricorrenza in concreto anche degli estremi di una responsabilità da eterogestione.
Non è certo ignoto che, in sede di interpretazione o di prassi operative, si ritenga in tali circostanze quanto meno di operare alcuni adeguamenti o correttivi, a seconda dei casi, alla disciplina di diritto comune, al fine non solo di realizzare il migliore funzionamento delle varie tipologie di procedure, sia più strettamente liquidatorie, sia e soprattutto con funzioni di risanamento, che vengono applicate in tali circostanze, ma anche di governare la fase, per certi versi ancora più delicata, che precede la formale apertura di una procedura.
Tuttavia, l'opportunità e gli stessi contenuti di un intervento normativo in materia, per quanto riguarda i profili ed i termini secondo cui esso dovrebbe differenziarsi rispetto al diritto comune applicabile alle società atomisticamente considerate, sono stati a lungo discussi, il che ha rallentato l'effettiva adozione di tali discipline[1]. E questo in considerazione del fatto che, proprio in occasione di procedure concorsuali che coinvolgono le società appartenenti ad un gruppo emerge con maggiore evidenza, rispetto a quanto in termini generali suggeriscono le esigenze di disciplina specifica dei gruppi di società, la questione della configurazione del gruppo in termini unitari.
Si tratta, in sostanza, di superare i rischi di frammentazione delle procedure che derivano dal principio, ritenuto tuttora vigente e di generalizzata applicazione, che si sostanzia nella formula «one company, one insolvency, one proceeding»[2] - facente leva sulla distinta personalità giuridica delle singole entità che compongono il gruppo e che postula in primo luogo un accertamento dello stato di insolvenza condotto separatamente rispetto alle singole società - e di privilegiare la configurazione di un «gruppo insolvente» o quella, ancora più radicale, di un'«insolvenza di gruppo».
L'approccio sul piano giuridico alle questioni attinenti alla crisi che coinvolge un gruppo di società è a sua volta variegato, ed oscilla tra tecniche di unificazione sul piano procedurale, volte a consentire in modo più efficiente lo svolgimento e gli esiti delle procedure, con riduzione dei costi - da realizzare sul piano dell'accentramento dell'autorità giudiziaria competente, del coordinamento delle procedure riguardanti le distinte società e della cooperazione tra i relativi organi, o addirittura della loro unificazione, con risvolti significativi sul piano delle procedure di risanamento[3] - e modalità più significative di unificazione sul piano sostanziale delle masse patrimoniali attive e passive delle varie società coinvolte.
Non è un mistero che soprattutto le tecniche di consolidamento procedurale abbiano trovato un diffuso riscontro qualora si tratti di procedure di insolvenza riguardanti gruppi cross-border, stante l'esigenza di realizzare un coordinamento tra procedure sottoposte a diversi ordinamenti in considerazione della differente nazionalità delle società componenti il gruppo, onde affrontare in modo coordinato e più efficiente il dissesto che coinvolge un'impresa economicamente unitaria, e ciò in specie in presenza di obiettivi di risanamento e salvataggio [4]. Non sono mancati i contrasti sulle effettive modalità con cui questi interventi possono dispiegarsi, in considerazione delle difficoltà nel rinvenire un giusto equilibrio tra le esigenze di un approccio coordinato sul piano procedurale alla crisi delle varie entità, secondo un modello universalistico, e le spinte delle singole legislazioni nazionali a sottoporre alla propria rispettiva giurisdizione le società coinvolte seguendo un principio di territorialità [5].
Sicuramente, hanno ricevuto una minore attenzione in Europa le tecniche di substantive consolidation, a differenza degli Stati Uniti, dove comunque esse subiscono estese restrizioni da parte dei giudici attraverso la fissazione di criteri tesi ad applicarle solo a situazioni patologiche, quali l'impossibilità di ricostruire il patrimonio delle singole società rispetto alle quali opera il consolidamento, e viceversa ad escluderne l'applicazione, qualora esse non risultino a vantaggio di tutti i creditori[6]. Questo atteggiamento è dovuto soprattutto alla considerazione secondo cui in sede concorsuale possono realizzarsi analoghi risultati, in termini di riequilibrio patrimoniale tra le varie società del gruppo colpite da manifestazioni di eterogestione abusiva a beneficio anche, ma non solo, dei relativi creditori, senza pervenire all'unificazione delle masse attive e passive, bensì esperendo altri rimedi quali quelli risarcitori o revocatori [7].
Questa impostazione si trova pienamente confermata nel nostro ordinamento, a partire dall'introduzione della disciplina sull'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (d.l. 95/79: c.d. legge Prodi), a giusta ragione individuata come la prima espressione del riconoscimento da parte del legislatore delle esigenze del «gruppo insolvente»[8], ed il cui tratto caratterizzante consisteva nell'utilizzare la direzione unitaria quale giustificazione teorica dell'obiettivo di realizzare, attraverso l'estensione della procedura alle altre società insolventi del gruppo, la «gestione unitaria dell'insolvenza». In sostanza, si tende a sfruttare i collegamenti di natura economica e produttiva intercorrenti tra le società per effetto della direzione unitaria per procedere ad un risanamento nell'ambito del gruppo, anche se non necessariamente a favore di tutte le società che lo compongono[9], e dunque per realizzare forme di unificazione del gruppo sul piano procedurale. Questa impostazione è stata poi sostanzialmente confermata dalla successiva evoluzione legislativa, a partire come è noto dalla completa risistemazione dell'istituto intervenuta con il d.lgs. n. 270/1999, sino al decreto c.d. Marzano (d.lgs. n. 347/2004), e dalle ulteriori discipline del gruppo insolvente contenute nella legislazione speciale[10].
In quelle procedure trovavano per la prima volta elaborazione nel nostro ordinamento la categoria della direzione unitaria e la previsione di una responsabilità per il suo abuso, pure se limitatamente agli organi gestori della capogruppo e in collegamento all'apertura dell'amministrazione straordinaria, e dunque quale disciplina speciale del gruppo insolvente, che poi troverà generale riconoscimento nella riforma del diritto societario.
Di fronte a questa impostazione, confinata alle imprese di grandi dimensioni ovvero appartenenti a settori speciali, spicca maggiormente l'opposta soluzione adottata dalla legge fallimentare, nella quale anche a seguito della riforma non si è ritenuto di introdurre alcuna specifica disciplina relativa al gruppo insolvente, nel quadro di un'attenzione ridotta riguardo lo stesso fallimento delle società, risultando la disciplina del fallimento ricostruita essenzialmente intorno alla figura dell'imprenditore individuale[11], e nonostante le accentuate esigenze della gestione unitaria e del coinvolgimento delle varie società del gruppo che emergono in specie con riferimento alle soluzioni negoziate della crisi di impresa.
Tuttavia, le spinte, che già in passato avevano condotto la prassi a rinvenire taluni contemperamenti finalizzati a realizzare un risanamento in grado di investire l'intero gruppo[12], hanno ricevuto un significativo sviluppo a seguito della riforma del diritto fallimentare[13], favorite in questo anche da alcuni dati normativi[14].
Soprattutto, all'assenza nella legge fallimentare di previsioni concernenti la crisi e l'insolvenza delle società facenti parte di un gruppo occorre affiancare la disciplina dell'attività di direzione e coordinamento quale introdotta dalla riforma del diritto societario, i cui risvolti applicativi rappresentano oramai il modello di riferimento non solo ai fini dell'interpretazione e dell'integrazione delle discipline speciali che fanno riferimento al gruppo insolvente[15], ma anche della disciplina di diritto comune della crisi di impresa, nel caso di sua applicazione a procedure che coinvolgono un gruppo di società.[16].
Il che conferma che si tratta di una disciplina che riguarda in prima battuta il gruppo di società in bonise dunque si preoccupa di disciplinare le condizioni di lecito svolgimento dell'eterogestione, onde prevenirne le manifestazioni patologiche, fissando le conseguenze sanzionatorie che gli operatori accorti avranno cura di evitare: con il che può anche contrapporsi la responsabilità da eterodirezione che si manifesta nel gruppo in bonised il suo atteggiarsi in costanza di procedure concorsuali. Basti pensare, senza ovviamente svolgere in questa sede qualsiasi approfondimento sul punto, alla enunciazione dei principi di corretta gestione imprenditoriale e societaria, cui la direzione e coordinamento deve essere conformata al meccanismo dei vantaggi compensativi, attraverso il quale si fissano le condizioni per il perseguimento di un «interesse di gruppo» garantendone l'equilibrio rispetto a quello delle singole società, ai meccanismi di pubblicità e di informazione, attraverso i quali possono sottoporsi a verifica le modalità di svolgimento della direzione e coordinamento. A questo quadro generale si affiancano i doveri, riconducibili alla corretta gestione imprenditoriale e societaria, di prevenire ed accertare la crisi o l'insolvenza delle società del gruppo, adottando le misure atte ad impedire il peggioramento della situazione ed a ridurre i rischi di propagazione della crisi [17].
Pure trattandosi di una disciplina del funzionamento di un gruppo di società in bonis, può ritenersi che solo nel caso dell'insolvenza e del conseguente fallimento della società eterodiretta risulti implicito l'esito negativo dell'azione esecutiva esercitata nei suoi confronti in qualità di obbligato diretto al risarcimento del danno, quale condizione, prevista dall'art. 2497, comma 3, c.c., per l'operatività in via sussidiaria della responsabilità da direzione e coordinamento della capogruppo [18]. Nella disciplina dell'attività di direzione e coordinamento è rinvenibile solamente una norma di diritto societario della crisi, anzi, a rigore, di diritto societario della crisi dei gruppi, vale a dire, l'art. 2497, comma 4, c.c., che disciplina l'esercizio da parte degli organi della procedura concorsuale dell'«azione spettante ai creditori della società eterodiretta per la lesione all'integrità del patrimonio della società», ma non di quella spettante ai soci di minoranza per il pregiudizio «alla redditività ed al valore della partecipazione sociale», stante la sua natura di azione individuale e non di massa[19]. Essa si pone sullo stesso piano dell'azione di responsabilità nei confronti degli organi gestori e di controllo che è affidata al curatore dall'art. 146 l. fall., con riferimento a società atomisticamente considerate, pure se si differenzia da quest'ultima per il fatto che non esclude in parallelo un'azione di responsabilità introdotta da un singolo socio[20], mentre resta dubbio se il curatore sia legittimato all'esercizio, sulla base di principi generali, dell'azione risarcitoria eventualmente spettante alla stessa società eterodiretta nei confronti della capogruppo [21].
Dall'inquadramento sistematico di questa norma si deduce che non può certo ricostruirsi, attraverso di essa, il ruolo svolto dalla responsabilità da direzione e coordinamento nelle procedure concorsuali. Essa si limita a precisare le modalità con cui può essere fatta valere nel fallimento della società eterodiretta una responsabilità da abuso di direzione e coordinamento, i cui fatti costitutivi si siano verificati precedentemente alla crisi, ma che comunque la hanno provocato o quanto meno hanno concorso a provocarla, in modo da svolgere una evidente funzione deterrente [22]. Dunque, la responsabilità da eterogestione può essere configurata in relazione a condotte (o omissioni) che hanno provocato o accentuato la crisi, con la conseguenza che in caso di sottoposizione della società eterodiretta a procedura concorsuale non cambia il regime sanzionatorio dell'abuso di eterogestione. Si tratta sempre di un rimedio di natura risarcitorio, mentre non è previsto il fallimento della società esercente direzione e coordinamento, tanto meno in via di estensione, salvo che esso non discendamotu proprio, vale a dire per cause proprie e quindi in particolare per la ricorrenza di uno stato di insolvenza.
Più specificamente, ed a maggiore ragione, la disciplina della direzione e coordinamento non comporta, nel caso di apertura di procedure concorsuali, alcuna forma di consolidamento sostanziale attraverso l'unificazione delle masse attive e passive.
Questo vale in particolare per quanto riguarda il ruolo della direzione e coordinamento a proposito dell'ambito di ammissibilità degli effetti del concordato preventivo di gruppo, nonché dei piani di ristrutturazione di gruppo. In questi casi le finalità di semplificazione e la ricerca di sinergie, che favoriscano il perseguimento in un ambito di gruppo degli obiettivi di risanamento, risultano raggiunte attraverso forme di unificazione a vario livello sul piano procedurale, ma senza che a ciò possa ricollegarsi un significativo stravolgimento dei principi.
E ciò vale sia nel caso di presentazione da parte di ciascuna delle società coinvolte di una distinta domanda di concordato preventivo accompagnata da un autonomo piano [23], con la conseguenza che si realizza un mero coordinamento di procedure che rimangono formalmente distinte, e che tuttavia risultano condizionate l'una dall'altra in quanto dipendenti dall'ammissione alla procedure e dall'omologazione che intervengano per ciascuna delle società coinvolte[24]; sia qualora si giunga ad ammettere la presentazione con un unico ricorso di una domanda unitaria per tutte le società coinvolte, accompagnata da un piano unitario redatto alla luce della situazione complessiva del gruppo e dunque espressione della direzione e coordinamento [25], e dalla nomina di un unico commissario; sia, infine, allorché si sia in presenza di una pluralità di domande presentate attraverso un unico ricorso sottoscritto dal legale rappresentante delle società [26]. Ma in ogni caso, con netta distinzione tra i creditori e con distinte votazioni per le singole società, pure se in una unica adunanza, senza pervenire alla unificazione delle masse sul piano attivo e passivo [27], né alla formazione di classi uniformi di creditori con riferimento non alle singole società, ma all'intero gruppo [28]. E questo a prescindere dall'eventuale coinvolgimento nel piano di risanamento di società in bonis del gruppo [29].
Anzi, l'introduzione della disciplina dell'attività di direzione e coordinamento costituisce un'evidente indicazione della scelta dell'ordinamento di risolvere le questioni poste dai trasferimenti intragruppo al di fuori della tecnica del consolidamento sostanziale.
Ovviamente, si pone l'esigenza di verificare in pieno la portata alternativa di questa disciplina rispetto alle esigenze di repressione dei fenomeni di eterogestione abusiva che si intendono affrontare. Questo in quanto non vi può essere in assoluto coincidenza tra l'unificazione e la responsabilità gravante sul patrimonio di una società distinta da quella sottoposta a procedura concorsuale, in presenza di un abuso nell'attività di direzione e coordinamento che è ritenuta di per sé dall'ordinamento un fenomeno lecito. Le interferenze tra le due fattispecie emergono, viceversa, in pieno, qualora si sia in presenza di situazioni patologiche, quale sono quelle in cui l'abuso di direzione e coordinamento abbia condotto a forme di lesione dell'integrità patrimoniale delle società eterodirette.
In queste circostanze, prevedere una responsabilità della capogruppo nei confronti dei creditori delle società eterodirette, di ammontare pari all'ammontare del patrimonio attivo di queste ultime di cui si sia arricchita la capogruppo - e lo stesso può dirsi per quanto riguarda il compimento di ulteriori atti per esse pregiudizievoli e riconducibili all'influenza della capogruppo, quali l'assunzione di debiti conseguente alla concessione di finanziamenti intragruppo - equivale all'effetto che si produrrebbe attraverso il consolidamento, vale a dire il concorso dei creditori della società eterodiretta, per la parte non soddisfatta, anche sul patrimonio della capogruppo che si sia accresciuto per effetto di tali operazioni.
Non diversamente avviene nel caso in cui gli effetti della direzione e coordinamento consistano in un vantaggio ottenuto dalla società eterodiretta a scapito della capogruppo. Anche in questo caso, la ricostruzione di forme di tutela dei soci di minoranza e dei creditori della capogruppo si rivela alternativa al soddisfacimento ottenuto da questi ultimi sul patrimonio della eterodiretta che risulti indebitamente accresciuto, quale scaturirebbe dal meccanismo del consolidamento sostanziale.
Anche in sede fallimentare il legislatore considera, pertanto, pienamente operante la soluzione dell'eterogestione abusiva accolta dall'art. 2497 c.c., e fondata su un rimedio di natura risarcitoria, in contrapposizione ai rimedi societari, fondati su tecniche di responsabilità patrimoniale realizzate attraverso il superamento della personalità giuridica e della limitazione di responsabilità, e conducenti al consolidamento delle masse attive e passive. Tutto questo sul presupposto di una piena equiparazione, sul piano degli effetti, tra le due tipologie di responsabilità da eterogestione, come è dimostrato dal fatto che, anche a prescindere dai rimedi di natura risarcitoria, l'intreccio di relazioni finanziarie rinvenibile tra società del gruppo risulta in grado di realizzare forme di affidamento dei creditori esterni facenti leva sulla solvibilità del gruppo nel suo insieme pienamente alternative a quanto realizzabile ex post attraverso il consolidamento sostanziale. Basti pensare alle ipotesi di cross-guarantees tra le società del gruppo che consentono di ottenere l'adempimento dei debiti contratti da ciascuna delle società, usufruendo di garanzie azionabili sui patrimoni di tutte le società del gruppo [30]. Ed ulteriori correttivi sono rappresentati dalla repressione degli abusi, realizzabile anche nei finanziamenti intragruppo attraverso il regime di postergazione (art. 2497-quinquiesc.c.), onde evitare il fenomeno della discriminazione tra creditori forti e deboli, che è posto tra gli argomenti a favore del superamento della personalità giuridica.
Occorre a questo punto tenere conto dei diversi meccanismi da lungo tempo presenti nel nostro ordinamento e rivolti a colpire gli abusi da eterogestione, al punto che la mancata introduzione nella legge fallimentare di una specifica disciplina relativa al gruppo insolvente, piuttosto che il riconoscimento dei risvolti applicativi che la disciplina della direzione e coordinamento presenta anche in sede fallimentare, risulta la conferma di una contrapposizione che si è andata gradualmente sviluppando nel nostro ordinamento tra due modelli attraverso cui affrontare la crisi che coinvolge un gruppo di società: vale a dire, da un lato, la responsabilità risarcitoria da abuso di direzione e coordinamento e, dall'altro, la responsabilità patrimoniale da eterogestione abusiva. Si allude alle ben note ricostruzioni volte a consentire di aggredire, mediante la sottoposizione a fallimento, il patrimonio dei soggetti a cui siano imputabili fenomeni di eterodirezione abusiva dell'altrui impresa, facendo scaturire una responsabilità illimitata a carico di soci c.d. «tiranni» originariamente a responsabilità limitata, sul presupposto dell'abuso dello strumento societario così perpetrato.
Non è certo, tuttavia, intenzione di questo scritto ripercorrere, nemmeno in minima parte, la vasta e cangiante serie di tecniche che si sono offerte nel corso di decenni al ruolo creativo della giurisprudenza, unificate dallo specifico obiettivo di colpire, mediante la sottoposizione a fallimento dei soggetti cui sia imputabile l'eterogestione abusiva, fenomeni di artificioso frazionamento dell'attività di impresa riconducibile ad una stessa o alle stesse persone fisiche, e dunque dietro cui si cela un'unica impresa ed un unico imprenditore, tali da realizzare situazioni di vero e proprio abuso della persona giuridica [31] e di confusione dei relativi patrimoni: dunque, in una parola, qualificabili in termini di «pseudogruppi», che appaiono avulsi dall'elaborazione di un'organizzazione di gruppo funzionale alla ripartizione del rischio di impresa tra le varie entità, e piuttosto tali da integrare essenzialmente fenomeni di interposizione reale nell'esercizio dell'impresa [32].
Le finalità perseguite sono ben più limitate e specifiche, pure se presentano ugualmente una valenza sistematica ed applicativa di un qualche rilievo, alla luce dell'evoluzione normativa. Si tratta di verificare quale impatto abbiano avuto le riforme del diritto societario e fallimentare, nel delimitare l'impiego delle tecniche di responsabilità da eterogestione di natura patrimoniale: e ciò soprattutto in relazione all'introduzione di una disciplina legislativa dell'eterodirezione abusiva di tenore risarcitorio. Ed in stretta derivazione da ciò, se e quale portata possa avere, sul piano sistematico e della scelta dei rimedi normativi, l'eventuale (conservazione di una) distinzione tra gruppi veri e «pseudogruppi».
Volendo riassumere già ora quanto emergerà dalla sintetica indagine che si svolgerà di seguito, da un lato sussistono dei ridimensionamenti, impliciti o espliciti, di tali tecniche, in favore dei rimedi di natura risarcitoria, sullo sfondo dell'intento di rafforzare la distinta personalità giuridica delle società e di scongiurarne il superamento, rispetto alle quali si rinvengano manifestazioni di dominio abusivo [33]; ma dall'altro, permangono indubbi spazi di operatività, anche per la persistente tendenza della giurisprudenza all'allargamento dell'area della responsabilità patrimoniale, in specie mediante il fallimento in estensione, per sopperire a procedure concorsuali con attivo insufficiente; sino a giungere a situazioni di ingiustificata sovrapposizione e «confusione» tra le tecniche offerte dall'ordinamento rispetto ai fenomeni di eterogestione abusiva [34].
Sicuramente appaiono degne di rilievo le conseguenze della riforma del diritto fallimentare sulla delimitazione dell'ambito di applicazione del fallimento in estensione, ai sensi dell'art. 147 l. fall.[35] E' indubbio che la fattispecie delineata da questa norma presenti dei vantaggi sul piano delle modalità di svolgimento delle procedure concorsuali: pur senza realizzare almeno formalmente l'unificazione delle masse attive e passive [36], e pur rimanendo distinte le singole procedure, essa consente un sia pure minimo coordinamento delle stesse, al punto che può configurarsi come un prototipo delle tecniche miranti a tale risultato [37].
Pertanto, è comprensibile la sua utilizzazione per colpire forme di eterodirezione abusiva, a partire dalla ben nota teoria del socio tiranno quale imprenditore occulto, che a seguito della riforma del diritto societario hanno trovato potenzialmente spazi nuovi, pure se di meno immediata applicazione, attraverso la ben nota teoria della «super-società» mirante ad individuare ed a dichiarare il fallimento di molteplici fattispecie di società di fatto intercorrenti tra società di capitali, o tra questa ed uno o più dei suoi soci, in modo da procedere al loro fallimento in estensione in quanto soci illimitatamente responsabili.
L'espresso riconoscimento, effettuato dalla riforma del diritto societario nell'art. 2361 c.c., dell'ammissibilità dell'assunzione di partecipazioni di società per azioni - e probabilmente anche di s.r.l. - (anche) in società di persone ha da un lato eliminato gli ostacoli che in via di principio si frapponevano alla configurazione di una società di capitali socia di una società di persone. Dall'altro, la disciplina in questione risulta circondare tale partecipazione di una serie di requisiti formali, che sembrerebbero limitarne l'utilizzabilità ai gruppi strutturati, e non certo alla diversa situazione che vede la ricostruzione in via successiva da parte dei giudici fallimentari di una società di fatto partecipata anche (o solo) da società di capitali.
Sono stati numerosi i tentativi della giurisprudenza di superare gli ostacoli rappresentati dal trattarsi in questi casi a tutti gli effetti di una società di fatto, e come tale non iscritta nel registro delle imprese: ne discendono i limiti all'applicabilità dell'art. 2361, comma 2, c. c, alla partecipazione in società di fatto, anche in caso di mancanza dei requisiti formali e quindi di una delibera assembleare di autorizzazione all'assunzione della partecipazione e, ma in termini meno convincenti, in mancanza dell'informazione sulla partecipazione in questione da fornire nella nota integrativa al bilancio, richiesta dall'art. 111-duodecies disp. att. [38].
E così, si è sostenuto che l'assenza di una formale delibera assembleare che autorizzi l'assunzione della partecipazione costituisce fonte di responsabilità degli amministratori, ma non essendo previsto espressamente la nullità della stessa e comunque dovendo da essa scaturire effetti solo ex nunc, non si impedisce che la partecipazione sociale sia comunque produttiva di effetti; il tutto secondo un principio di effettività, che conduce ad attribuire rilevanza all'attività di impresa effettivamente svolta e quindi al suo fallimento (anche) in estensione, in parallelo a quanto sostenuto in tema di impresa illecita, pure se con il rischio di sconfinare nella non coincidente figura della società apparente: in altri termini, sarebbe rinvenibile una partecipazione assunta non mediante una delibera espressa, ma per fatti concludenti, che in sostanza sarebbe l'unica ammissibile, ad onta dell'art. 2361, comma 2, c.c., quando si tratti di società di persone costituite a loro volta per fatti concludenti [39].
A queste argomentazioni può, tuttavia, contrapporsi la difficoltà, stante le caratteristiche della situazione, di rinvenire una ratifica tacita dell'assunzione della partecipazione in società di fatto da parte della società di capitali, oltre all'irrilevanza della coincidenza in tali circostanze tra amministratori e soci [40], e la necessità che la qualità di socio, ai sensi dell'art. 2361, comma 2, c.c., sia ricavata formalmente e non per fatti concludenti [41].
Altro argomento proposto al fine di ammettere la sottoposizione a fallimento della c.d. supersocietà, nonostante la mancata ricorrenza delle condizioni fissate dall'art. 2361, comma 2, c.c., è costituito dal generale potere di rappresentanza attribuito agli amministratori dall'art. 2384, comma 1, c.c., a seguito della riforma del diritto societario, ed alla conseguente inopponibilità ai terzi delle limitazioni ai loro poteri di fonte statutaria o discendenti da una decisione degli organi competenti: questo consentirebbe di ammettere la piena validità ed efficacia nei confronti dei terzi dell'acquisto o sottoscrizione delle partecipazioni in società di fatto effettuato da costoro, anche in mancanza di una delibera assembleare di autorizzazione: infatti, non può ritenersi attribuita all'assemblea, anche per l'assenza di conseguenze per tali violazioni, una competenza gestoria in materia destinata ad incidere sulla ripartizione di competenze tra gli organi della società e tale da precludere in radice ogni effetto rispetto ai terzi degli atti concernenti la partecipazione in questione posti in essere dagli amministratori[42].
L'argomento non può, tuttavia, essere condiviso, qualora si ritenga che la previsione dell'art. 2361, comma 2, c.c., nel subordinare all'autorizzazione dell'assemblea l'assunzione di partecipazioni in società con responsabilità illimitata dei soci, fissi un limite legale al potere altrimenti «generale» di rappresentanza e, prima ancora, di amministrazione degli amministratori, a tutela dall'aggravamento del rischio assunto dai soci rispetto al loro investimento iniziale, al di fuori della loro volontà, la cui violazione, con la conseguente inefficacia delle operazioni poste in essere, pertanto, potrà essere sempre opposta ai terzi e quindi sarà dotata di una rilevanza reale, e non solo obbligatoria [43]. A maggior ragione questo assunto vale nel caso di s.r.l., nella quale deve essere riconosciuta l'inammissibilità di deroghe alle competenze gestorie dei soci stabilite dall'art. 2479, comma 2, n. 5, c.c., a tutela del loro affidamento, per le operazioni che comportino una sostanziale modificazione dell'oggetto sociale o una rilevante modificazione dei loro diritti, come potrebbe scaturire dall'assunzione della partecipazione in questione [44].
Pertanto, deve affermarsi l'inammissibilità dell'acquisizione, da parte di una società di capitali, dello statusdi società soggetta ad (estensione) del fallimento per uno stato di insolvenza non proprio, senza il consenso e ad insaputa dei soci e dei creditori, i quali, altrimenti, si troverebbero in concorso con i creditori della società di fatto in assenza di qualsiasi informazione in proposito [45]. Dal che sembrerebbe trovare conferma che, in tali circostanze, in luogo della responsabilità patrimoniale debba trovare spazio di applicazione la responsabilità risarcitoria di cui all'art. 2497 c.c., per gli abusi di eterogestione di cui la società di fatto ed i suoi creditori siano stati destinatari [46].
Non sono mancati i tentativi facenti leva sull'interpretazione, se non analogica, trattandosi di norma eccezionale, quanto meno estensiva, della disciplina del fallimento della società occulta introdotta dal comma 5 dell'art. 147 l. fall., sullo sfondo di un principio generale di soggezione a responsabilità patrimoniale di coloro che gestiscono l'impresa pur senza spenderne il nome, in modo da affrontare secondo una differente prospettiva la medesima problematica a fondamento del fallimento della «super-società» di fatto. In sostanza, come l'ordinamento ammette con questa norma l'estensione del fallimento da un imprenditore individuale ad una società occulta cui sia riferibile la stessa attività di impresa, la medesima soluzione, invocando una supposta incompletezza del dato letterale, dovrebbe valere nel caso di estensione del fallimento da una società di capitali ad una società di fatto tra la società originariamente dichiarata fallita ed altri soci di fatto, siano essi società di capitali e persone fisiche [47], e lo stesso vale nel caso di estensione del fallimento ad una holding individuale che tuttavia, in mancanza della spendita del nome, sia configurabile a tutti gli effetti quale imprenditore occulto [48], con la conseguenza che in entrambi i casi non si richiederebbe un nuovo accertamento dello stato di insolvenza del soggetto a cui il fallimento viene esteso.
Tuttavia, emerge a monte e con chiarezza la preclusione sancita dalla riforma del diritto fallimentare ad un'interpretazione analogica dell'art. 147 l. fall. finalizzata a consentire il fallimento in estensione anche da società di capitali ad holdingindividuali o società di fatto, a soci tiranni o sovrani, ad amministratori di fatto, ecc., il tutto sulla scia della ben nota teoria dell'imprenditore occulto [49]. Infatti, viene espressamente previsto il fallimento in estensione nei confronti dei soci di s.n.c., di s.a.s. e di s.a.p.a., e quindi solo nei confronti di società ab origine con soci a responsabilità illimitata [50], pena altrimenti la conseguenza di una consolidazione sostanziale delle masse attive e passive di società ab origine caratterizzate da autonomia patrimoniale perfetta, in assenza di qualsivoglia accertamento dell'esistenza di uno stato di insolvenza in ciascuna di esse [51]. Con il che potrebbe ritenersi che il legislatore abbia inteso, almeno sotto il profilo del fallimento in estensione, sottoporre le società di capitali a forme di responsabilità da eterogestione di natura risarcitoria [52].
Ne consegue che nel caso di società di fatto e di persone fisiche quali soci tiranni, la sottoposizione al fallimento non potrà derivare dall'estensione del fallimento delle società di capitali strumentali, ma sarà sempre necessario dichiarare il fallimento in via autonoma di una società di fatto, con conseguente necessità di accertamento dei relativi presupposti, tra cui, in particolare, lo svolgimento di un'impresa commerciale e l'affectio societatis tra i soggetti che la esercitano [53].
Per questo, possono comprendersi, anche se non condividersi, gli ulteriori sforzi di correggere il tiro ripristinando più ampi margini di operatività dell'art. 147, comma 5, l. fall., attraverso la questione di incostituzionalità dello stesso per contrasto ai principi di uguaglianza e parità di trattamento (artt. 3 e 24 Cost.), che è stata sollevata, nella parte in cui la norma non prevede l'estensione del fallimento alla società occulta, qualora l'imprenditore palese sia una società di capitali e non un imprenditore individuale, e dunque quando una società di capitali sia socia di una società di fatto (occulta) intercorrente tra la prima ed i suoi soci. In sostanza, si è in presenza di rinnovare censure al nostro ordinamento, perché non riconosce né pertanto consente il fallimento in estensione del socio tiranno, anzi, più in generale, non consente il fallimento in estensione di soggetti diversi dalla società di persone (e di s.a.p.a.), con regime di responsabilità illimitata dei soci [54].
D'altro canto, e proprio in considerazione dei limiti posti nel nostro ordinamento al fallimento in estensione, gli spazi per configurare una responsabilità da eterogestione di tipo patrimoniale continuano a presentarsi attraverso la soggezione a fallimento in via principale del dominus a cui gli abusi di eterogestione siano imputabili. E' il caso della sottoposizione a fallimento del dominuspersona fisica [55], in quantoholding individuale, utilizzata per colpire condotte simmetriche a quelle consistenti nell'abuso nell'attività di direzione e coordinamento, alle quali si riferisce la responsabilità di cui all'art. 2497 c.c.
L'esigenza di ricorrere alla dichiarazione di fallimento dellaholdingindividuale in quanto esercente un'autonoma impresa commerciale, a seconda dei casi di sola direzione e coordinamento (holdingpura) o anche di natura industriale o finanziaria (holdingoperativa), deriva dalla formale limitazione dell'ambito di applicazione dell'art. 2497 c.c. alle sole società o enti, limitazione che, come è noto, ha suscitato notevoli riserve, anche in relazione al percorso che ha condotto all'introduzione della controversa sottrazione della persona fisica dalla responsabilità da direzione e coordinamento. In sostanza, a prescindere dalla ricerca delle cause e dallaratiodi questa esclusione, può ritenersi che il legislatore abbia fatto di tutto per non affrontare e risolvere, attraverso la disciplina della direzione e coordinamento, il problema del «socio tiranno» persona fisica.
Non sorprende, pertanto, che si sia cercato in vario modo di sottoporre comunque ad una responsabilità di tipo risarcitorio la persona fisica in conseguenza dell'esercizio professionale e con stabile organizzazione dell'attività di direzione e coordinamento delle società partecipate, magari sul presupposto che sia comunque configurabile una holding, e quindi senza che possa giungersi a configurare tout courtuna responsabilità del socio di controllo [56].
In particolare, si è fatto leva sulla responsabilità «aggiuntiva» di cui all'art. 2497, comma 2, c.c., per chiamare a rispondere in via solidale «chi», e quindi anche le persone fisiche, abbia concorso nel fatto lesivo scaturente dall'attività di direzione e coordinamento, o ne abbia consapevolmente tratto beneficio, nei limiti del vantaggio ricevuto dai poteri esercitati [57]: questo, tuttavia, sull'imprescindibile presupposto che, trattandosi di responsabilità solidale, questa scaturisca comunque in via diretta da un'attività di direzione coordinamento, non essendo altrimenti nemmeno astrattamente configurabile la prima in assenza della seconda.
E così, può altresì essere configurata l'incostituzionalità dell'art. 2497 c.c., per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., stante la disparità di trattamento riservata ai creditori delle società eterodirette in conseguenza dell'esonero della persona fisica dal regime di responsabilità per eterogestione, pure se a parità delle condizioni di esercizio della direzione e coordinamento rispetto a quanto avviene nel caso di società od enti [58].
Anche in questo caso, tuttavia, deve tenersi conto dei correttivi elaborati dalla giurisprudenza, volti a favorire il fallimento della holdingpersona fisica. Ci si riferisce, in particolare, al progressivo allontanamento dal principio della spendita del nome, elaborato a partire dal ben noto caso Caltagirone, per sancire lo svolgimento di un'autonoma impresa commerciale da parte della persona fisica holding [59].
Sempre in argomento, occorre tenere conto della portata delle ulteriori delimitazioni all'applicazione dell'art. 2497 c.c., scaturenti ad es. dall'art. 19, comma 6, del d. l. 78/2009, a mente del quale, «l''articolo 2497, primo comma, del codice civile, si interpreta nel senso che per enti si intendono i soggetti giuridici collettivi, diversi dallo Stato, che detengono la partecipazione sociale nell'ambito della propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di natura economica o finanziaria» [60].
La norma è chiaramente inspirata a porre rimedio alle possibili responsabilità scaturenti a carico dello Stato in conseguenza della crisi e dello stato di insolvenza dell'Alitalia: ma a questa finalità immediata consegue anche una precisazione di carattere sistematico di non scarso rilievo, che è quella del collegamento della responsabilità da direzione e coordinamento, nel caso in particolare di enti pubblici differenti dalla Stato, con un'attività imprenditoriale o comunque con finalità di natura economica o finanziaria.
Ne discende l'esclusione dalla sottoposizione a responsabilità dell'ente pubblico che agisce per finalità sociali o in senso lato pubblicistiche, come è il caso in particolare in cui esso eserciti un «controllo analogo» sulle società c.d. in housesvolgenti servizi pubblici essenziali sostanzialmente equiparabile all'attività di direzione e coordinamento, in quanto la società risulta espressione di finalità pubbliche e non imprenditoriali, e può considerarsi un puro schermo dell'ente pubblico [61].
A questo punto, volendo tracciare un bilancio del tutto provvisorio, può rilevarsi come le recenti riforme abbiano in qualche modo contribuito a meglio delimitare e precisare l'ambito di operatività di una responsabilità patrimoniale da eterodirezione abusiva finalizzata a condurre al fallimento il soggetto cui essa viene imputata; tuttavia, l'introduzione della responsabilità da direzione e coordinamento non ha per nulla eliminato tale approccio, anzi, sotto certi aspetti, le lacune e le incertezze applicative di tale normativa lo hanno conservato in vigore e sotto certi aspetti rafforzato. Rimane comunque confermato, alla luce di quanto sin qui osservato, che si tratta di percorsi normativi ed interpretativi, volti a sanzionare i fenomeni di eterogestione abusiva, del tutto indipendenti tra di loro.
Rompendo questo consolidato schema, di natura teorica prima ancora che interpretativa, alcune soluzioni giurisprudenziali diverse e più incisive, emerse sulla scia delle suggestioni avanzate da una recente dottrina [62], hanno fatto leva proprio sull'introduzione della responsabilità da direzione e coordinamento di cui all'art. 2497 c.c., utilizzandone gli elementi costitutivi al fine di facilitare, come conseguenza ulteriore dell'eterogestione abusiva, lo scaturire di una responsabilità patrimoniale per effetto dell'accertamento di unaholding individuale o società di fatto e del suo conseguente fallimento.
In sostanza, si mira a ricostruire sotto varie intensità e modalità una sorta di collegamento tra i requisiti richiesti per l'individuazione di un'attività di direzione e coordinamento, ai sensi dell'art. 2497 c.c., e quelli richiesti per l'individuazione dellaholdingindividuale o società di fatto, al punto che la responsabilità da direzione e coordinamento giunga a costituire ilpriusda cui ricavare la presenza anche dei secondi e farne pertanto scaturire, attraverso la dichiarazione di fallimento, la soggezione a responsabilità patrimoniale.
A tale fine, si parte dall'affermazione secondo cui l'eterodirezione abusiva - o, come anche è stata definita, in linea con l'impostazione accolta, la «direzione tirannica» - si caratterizza, in contrapposizione alle teorie del fallimento in estensione fondate sull'art. 147 l. fall., per tracciare una linea netta di demarcazione fondata sulla responsabilità risarcitoria, ai sensi dell'art. 2497 c.c. [63]. Tuttavia, non ci si accontenta di ciò, in quanto non risulta precluso anche lo scaturire di una responsabilità patrimoniale in caso di insolvenza della holding [64], il cui accertamento, di regola discendente dall'attività imprenditoriale da essa svolta con il conseguente fallimento, è in qualche modo semplificato o, più correttamente, sostituito e assorbito, da quello a sua volta condotto rispetto al fallimento della società eterodiretta. Questo avviene allorché l'insieme dei debiti ammessi al passivo della società eterodiretta venga tout court imputato alla società che si asserisce avere esercitato l'eterodirezione abusiva, in quanto ritenuto automaticamente e per l'intero conseguenza della stessa e quindi tale da dare luogo ad un obbligo di risarcimento del danno ai sensi dell'art. 2497 c.c., a carico della società che eterogestisce, e da provocarne di per sé lo stato di insolvenza e quindi il fallimento [65].
Il risultato più significativo, ed in qualche misura maggiormente eccentrico della ricostruzione in questione, è che essa consente di pervenire alla dichiarazione di fallimento dellaholdingsenza dover accertare la sussistenza dei relativi presupposti, e comunque riducendo significativamente la portata dell'accorgimento richiesto. Si tratta, nel suo insieme, di un'interpretazione della responsabilità da direzione e coordinamento e del suo ambito applicativo del tutto irrituale, utile esclusivamente per consentire di pervenire alla dichiarazione di fallimento, a prescindere almeno in parte dalla ricorrenza dei suoi presupposti giustificativi. Questo vale in particolar modo in relazione al presupposto soggettivo, e dunque all'accertamento degli elementi costitutivi di un imprenditore commerciale, tra cui la spendita del nome.
Occorre, per comprendere la portata di questo assunto, ripercorrere gli orientamenti della giurisprudenza precedentemente alla riforma, per giungere alla configurazione di una holdingpersonale. A partire dal caso Caltagirone, i criteri di individuazione dell'impresa hanno fatto riferimento al concetto di ingerenza nella gestione, che prescinde dalla sussistenza di un rapporto di controllo e dalla natura di soggetto controllante, per concentrarsi sui requisiti di professionalità, di organizzazione e di economicità che l'attività svolta deve presentare. In particolare, l'economicità della holdingdeve essere intesa come ricerca di vantaggi economici ad essa direttamente riferibili e che altrimenti non sarebbero ottenuti, e quindi autonomi rispetto a quelli raggiungibili attraverso l'attività delle società eterodirette, e deve mirare non solo alla valorizzazione delle partecipazioni detenute, ma anche all'utilizzazione del loro patrimonio per ottenere ricavi in grado quanto meno di coprire i costi [66].
E soprattutto, l'impostazione in termini di impresa «fiancheggiatrice» richiede la spendita del nome, con la conseguenza che la holdingsarà chiamata a rispondere per le sole obbligazioni assunte in proprio nome, a tutela esclusivamente dei creditori, in genere forti, che con essa hanno direttamente contrattato, in particolare con l'ottenimento di garanzie, e non viceversa di quelli delle società eterodirette [67].
Deve registrarsi un successivo affievolimento della portata di questo requisito, attraverso il riconoscimento della sufficienza del compimento di un'attività negoziale posta in essere in nome proprio da uno qualsiasi dei «soci di fatto», purché essa sia chiaramente percepibile dai terzi come riferita alla società di fatto, come avviene ad esempio quando sia accertato il coordinamento e l'intesa tra i familiari [68]. La spendita del nome viene pertanto degradata ad «esteriorizzazione»: quello che conta è la riferibilità al dominus dell'attività posta in essere da società eterodirette [69]. Questo corrisponde alla finalità delle ricostruzioni anche normative del dominio abusivo, quale attività complessivamente intesa: vale a dire, rinvenire tecniche di imputazione della responsabilità che prescindono dalla spendita del nome rispetto ai singoli atti in cui essa si esplica [70]. Il che deriva, in sostanza, dalla circostanza che la giurisprudenza si trova a qualificare come holding «individuale» o società di fatto fattispecie maggiormente riconducibili, se non addirittura identificabili con il «socio tiranno» [71].
L'obiettivo è di attenuare uno dei principali ostacoli - accanto a quello della discriminazione arrecata tra creditori «forti», in grado di precostituirsi titoli per aggredire il patrimonio del dominus, e creditori «deboli» - che si presentano nell'utilizzare, onde sanzionare gli abusi di eterogestione, le tecniche di responsabilità patrimoniale che richiedono, per la loro stessa natura, la sussistenza dei requisiti dello svolgimento dell'attività di impresa da parte del gestore interposto [72].
Tuttavia, al di sotto di questo minimo requisito non è ragionevole scendere. Viceversa, la formula dell'attività di «direzione tirannica» tende a pervenire al fallimento del soggetto che la esercita - persona fisica o società di fatto - attraverso l'accertamento e la conseguente imputazione dello svolgimento, anche di fatto, di un'attività abusiva di gestione dell'altrui impresa, in quanto condotta in violazione dei principi di corretta gestione imprenditoriale e societaria: attività che viene configurata come imprenditoriale, ove professionalmente organizzata, e pertanto suscettibile di generare una responsabilità patrimoniale, pure se non sia intervenuta l'esteriorizzazione della stessa attraverso la spendita del nome e, dunque, in mancanza dell'imputazione diretta o indiretta degli atti di impresa al dominus [73]. Questo in quanto l'eterodirezione per sua natura non richiede lo svolgimento di un'attività negoziale, né la spendita del nome, dato che si esplica attraverso direttive che vengono eseguite esclusivamente dagli organi gestori delle società eterodirette [74]; ed ancora, non è necessario il perseguimento di un autonomo scopo di lucro, potendo questo coincidere con i vantaggi economici ricevuti, grazie alla direzione e coordinamento, dal gruppo nel suo insieme e dalle sue singole entità.
In sostanza, i titolari di pretese creditorie nei confronti delle società eterodirette sono legittimati ad agire nei confronti del dominus grazie allo scaturire, in conseguenza della direzione abusiva ed in quanto costituente essa di per sé - pure non essendo richiesta l'esteriorizzazione dell'attività di eterodirezione - attività di impresa, di una responsabilità non solo risarcitoria, ma anche patrimoniale, per le obbligazioni assunte dalle singole società del gruppo [75]. Ulteriore corollario è che, qualora la società che eterogestisce sia divenuta insolvente, si potrà procedere alla sua dichiarazione di fallimento: il che giustifica a sua volta l'ammissione al suo passivo di tutti i crediti già ammessi al passivo della società eterodiretta, che «rappresentino le pretese rimaste insoddisfatte a causa della lesione dell'integrità del patrimonio sociale cagionata dal dominio abusivo» [76]
Questa soluzione, fondata su di una discutibile equiparazione sul piano sostanziale tra responsabilità risarcitoria e responsabilità patrimoniale, che non è prevista dalla legge [77], è ancora meno convincente, laddove si passi a considerare le modalità attraverso cui la giurisprudenza procede in concreto ad operare il collegamento tra le due figure, al fine di pervenire alla dichiarazione di fallimento.
In effetti, la responsabilità da direzione e coordinamento implica che il soggetto che eterogestisce sia chiamato a rispondere, nei confronti dei creditori delle società eterogestite, del pregiudizio patrimoniale arrecato alla società loro debitrice per la violazione dei principi di corretta gestione imprenditoriale che ne abbia reso il patrimonio insufficiente al soddisfacimento delle proprie ragioni: ciò a prescindere da qualsiasi rapporto negoziale intrattenuto in nome proprio con costoro, e quindi anche a prescindere dalla spendita del nome, trattandosi di obbligazioni di natura risarcitoria e quindi non volontarie, oggetto come tali di accertamento e liquidazione giudiziaria [78].
E', dunque, assolutamente corretto asserire che, in sostanza, una parte, anche se non necessariamente l'intero ammontare, del passivo fallimentare della società eterodiretta sia rappresentato da debiti e perdite provocate (anche) dall'abuso di direzione e coordinamento: e pertanto, che i creditori di tale società, qualora il danno conseguente all'eterogestione abusiva sia stato giudizialmente accertato, siano legittimati ad inserire il relativo credito anche al passivo della società che dirige e coordina, ovvero, ove tale azione non sia stata già promossa dai creditori, il curatore sia legittimato a promuovere l'azione di responsabilità ai sensi dell'art. 2497, ult. comma, c.c.[79]. Azione che, peraltro, risulterebbe possibile in quanto l'intervenuto fallimento della società eterodiretta renderebbe automaticamente rispettato il requisito della «sussidiarietà» della responsabilità da direzione e coordinamento della capogruppo, rispetto a quella posta a carico della prima dall'art. 2497, comma 3, c.c., dovendosi considerare dimostrata la sua incapacità ad adempiere [80].
Ma rispetto a questo assunto, è ben altro sostenere che, in conseguenza dell'astratta previsione dell'azione di responsabilità di cui all'art. 2497 c.c., la società che esercita l'eterogestione sia di per sé in stato di insolvenza e quindi sia destinata - come si è detto anche a prescindere dalla ricorrenza del presupposto soggettivo - a fallire[81], dal momento che il riconoscimento in via legislativa della responsabilità da direzione e coordinamento non può ritenersi incida sui requisiti richiesti per individuare nellaholding esercente direzione e coordinamento un'impresa commerciale soggetta a fallimento.
Anche sotto il versante dello stato di insolvenza, la ricostruzione in questione è destinata a tradursi in vere e proprie forzature circa le modalità con cui procedere al relativo accertamento. In sostanza, dall'ammontare dei crediti vantati nei confronti della società che si assume essere stata eterodiretta, anche se si sia in presenza di una mera domanda di ammissione al passivo della stessa e senza che si sia conclusa la fase di verifica, ovvero in presenza di opposizioni al passivo, e comunque prima del completamento del procedimento di accertamento del passivo, si intende non solo ricavare genericamente, ma anche quantificare l'ammontare del danno provocato dallaholdingindividuale o società di fatto che eterogestisce, per il dissesto della società eterodiretta o il suo aggravamento, e del corrispondente diritto al risarcimentoexart. 2497 c.c., con la conseguente sostanziale «estensione» dei crediti vantati nei confronti della società eterodiretta, in modo da essere fatti valere anche nei confronti della società esercente direzione e coordinamento
L'ammontare di questo credito, che viene pertanto a sua volta automaticamente computato nel passivo della società che esercita la direzione e coordinamento come debito, viene utilizzato per accertare in via esclusiva e senza ulteriore istruttoria il suo stato di insolvenza, in modo da fondare la domanda di fallimento da parte del curatore del fallimento della società eterodiretta, in diretta derivazione della legittimazione a costui attribuita dall'art. 2497, ult. comma, c.c. [82]. In sintesi, il danno da eterogestione, per la «lesione cagionata all'integrità del patrimonio della società», ai sensi dell'art. 2497, comma 1, c.c., viene ritenuto equivalente, in virtù di una sorta di presunzione, al passivo della società eterodiretta, e di esso è chiamata a rispondere la società che tale condotta ha tenuto[83]: a voler essere ancora più sintetici e procedere in via di principi, l'avere provocato attraverso l'abusiva eterogestione il fallimento della controllata, ed il non avervi fatto fronte, viene considerato prova del dissesto della capogruppo.
In effetti, la legittimazione all'azione di risarcimento del danno da eterodirezione abusiva attribuita al curatore fallimentare dall'art. 2497, ult. comma, c.c., e pertanto configurata come azione di massa, non può essere di per se solo in alcun modo equiparata ad una legittimazione a richiedere il fallimento: tale azione potrà condurre al fallimento della società convenuta solo qualora, secondo principi generali, sia accertato, in conseguenza del suo esito vittorioso, l'inadempimento della società e l'ammontare del danno che la stessa è condannata a pagare e pertanto il suo stato di insolvenza.
È' indubbio che, ai fini del ricorso per la dichiarazione di fallimento, il credito fatto valere nella domanda non deve essere riconosciuto in via definitiva né deve risultare da un titolo esecutivo, non richiedendosi in tale sede che esso sia certo, liquido ed esigibile, qualora esso, anche se non scaduto o condizionale, risulti accertato come effettivamente esistente nei suoi elementi costitutivi, vale a dire l'aned il quantum, al fine da attribuire una legittimazione al creditore istante, dovendo ogni ulteriore approfondimento essere esperito ai fini della sua ammissione allo stato passivo [84]. Tuttavia, è evidente che non può sostenersi una piena equiparazione tra il credito ammesso al passivo della società eterodiretta e conseguente alle obbligazioni assunte nell'esercizio della propria attività d'impresa - siano o meno esse riconducibili alla eterodirezione abusiva - che appunto non richiede una sentenza definitiva, ed invece il credito da risarcimento del danno sorto nei confronti della società capogruppo, che non risulta quantificato, e la cui stessa fondatezza potrebbe essere dubbia ed oggetto di contestazione [85].
Si giungerebbe, altrimenti, all'assurdo che tutte le azioni di responsabilità che il curatore può esercitare nel corso del fallimento ai sensi dell'art. 146 l. fall., e di cui a ben vedere l'art. 2497, ult. comma, c.c., rappresenta un'estensione, potrebbero condurre alla dichiarazione di fallimento degli amministratori coinvolti a prescindere dall'accertamento dell'esercizio da parte di costoro di un'impresa commerciale. Né la circostanza che, ai sensi dell'art. 2497 c.c., si sia in presenza di una fattispecie di eterogestione, e non della responsabilità conseguente alla violazione degli obblighi connessi alla funzione gestoria, può condurre a soluzioni differenti.
Il credito da risarcimento del danno all'integrità patrimoniale della società debitrice provocato dall'eterogestione abusiva, al pari di qualsiasi altro credito vantato da terzi e posto a sostegno della domanda di fallimento, deve essere invece appositamente accertato, non essendo sufficiente a tale fine una mera delibazione del Tribunale fallimentare sull'esistenza del fumus boni juris: viceversa, la legittimazione del curatore della società fallita al promovimento di un'azione risarcitoria non equivale alla titolarità di un credito definito nei suoi elementi costitutivi, a meno di non volere impropriamente fondare ed assimilare, in primo luogo sul piano dell'ammontare, il credito vantato da terzi verso la società fallita e l'azione di responsabilità verso colui che ha provocato il sorgere o quanto meno l'inadempimento di tale credito da parte della società debitrice [86].
L'obiettivo della costruzione qui esaminate è, dunque, di pervenire alla dichiarazione di fallimento della società che eterogestisce, attraverso l'esperimento dell'azioneexart. 2497 c.c., prima dell'accertamento e quindi anche prima dell'esatta quantificazione del danno conseguente all'influenza pregiudizievole esercitata con la relativa condanna al pagamento della somma liquidata, fasi che vengono del tutto pretermesse ritenendosi in sostanza sufficiente, ai fini dell'accertamento dello stato di insolvenza, la mera prospettazione della curatela, avanzata in sede di esercizio dell'azioneexart. 2497, ult. comma, c.c., della titolarità di un credito corrispondente all'ammontare ipotizzabile del risarcimento del danno. Ci si accontenta, quindi, di un accertamento sommario che tende, da un lato, a sostituire la liquidazione giudiziale del danno con una liquidazione commisurata all'ammontare del passivo: dall'altro, ad omettere di verificare se il passivo della società fallita sia di per sé e per l'intero il frutto di operazioni di depauperamento del patrimonio conseguenti all'eterogestione abusiva, e dunque ricorrono gli estremi della «lesione cagionata all'integrità del patrimonio sociale» richiesta dall'art. 2497, comma 1, c.c. Accertamento a cui, di regola, deve farsi luogo attraverso apposite consulenze tecniche e che non potrebbe essere sostituito da meri processi deduttivi.
E quindi, ad esempio, alla qualificazione del credito risarcitorio si perviene in questo modo senza tenere conto del se ed in quale misura in conseguenza dell'eterodirezione, come accenneremo in seguito, siano intervenuti, anche per effetto delle operazioni da cui scaturisce il debito invocato, anche incrementi patrimoniali, a titolo di corrispettivo o di vantaggi compensativi [87].
In sostanza, la soluzione in esame ha l'effetto di provocare un incremento a dismisura dei poteri di accertamento del credito da parte del Tribunale, in collegamento alle caratteristiche dell'attività di direzione e coordinamento, superando le griglie costituite dalla spendita del nome e così via, che si pongono nel caso in cui si debba pervenire ad un fallimento in via autonoma, e giungendo ad un risultato paragonabile a quello proprio del fallimento in estensione, ma senza i limiti previsti dal nostro ordinamento per tale figura.
Per comprendere la peculiarità di questa impostazione basti pensare, ad altri fini, all'attenzione che viene prestata nel quantificare il danno da ritardo nella dichiarazione di fallimento, a seguito del superamento del criterio dell'intero deficitfallimentare ed all'imputazione del solo aggravamento del passivo effettivamente provocato dal ritardo, detratti gli eventuali incrementi di attivo registratisi nel frattempo [88].
Il risultato cui conduce la costruzione sin qui esposta comporta inevitabilmente un improprio superamento della distinzione tra rimedi risarcitori e rimedi fondati sulla responsabilità patrimoniale, in particolare scaturente dal superamento della personalità giuridica, che l'art. 2497 c.c. intende tenere assolutamente distinti e che, invece, vengono di fatto cumulati, una volta che l'ammontare del credito da risarcimento posto a carico della società esercente la direzione e coordinamento, e corrispondente in sostanza al suo passivo, viene commisurato sommariamente all'intero ammontare del passivo della società eterodiretta,ed è pertanto, a sua volta, in grado di provocare automaticamente il fallimento della prima [89].
Nonostante, dunque, si prendano le mosse dal riconosciuto superamento delle tecniche giurisprudenziali di reazione all'abuso della personalità giuridica, in conseguenza dell'introduzione dei rimedi risarcitori connessi alla disciplina dell'attività di direzione e coordinamento, si raggiunge in sostanza ed indirettamente un risultato analogo alle prime, ed in particolare al fallimento in estensione, dalla società ai soci limitatamente responsabili, in quanto soci tiranni, sovrani, ecc. Infatti, l'aprioristica equiparazione dell'indebitamento della società eterodiretta al passivo di quella che dirige e coordina, a titolo di debito da risarcimento nei confronti della prima, produce un risultato sostanzialmente analogo a quello del consolidamento delle masse passive delle rispettive società, realizzando il travaso del passivo da una di esse all'altra [90]. Effetto che è previsto dall'art. 147 l. fall., pure se entro precisi limiti, come si è già rilevato, ed è, viceversa, escluso che sia realizzabile nel caso di società con soci a responsabilità limitata. In ogni caso, tale costruzione non sarebbea priori utilizzabile in caso di eterodirezione svolta da unaholding individuale, posto che la mancata ricomprensione di tale figura nel novero dei soggetti ricompresi nella fattispecie della direzione e coordinamento, di cui all'art. 2497 c.c., impedirebbe di utilizzare la responsabilità che ne scaturisce per evitare l'accertamento dei requisiti dell'attività di impresa, al fine di procedere alla dichiarazione di fallimento.
La questione di fondo sottesa alla costruzione interpretativa qui esposta concerne la necessità di pervenire sempre e comunque al fallimento, per fare valere la responsabilità da eterodirezione abusiva e per raggiungerne nel modo migliore e più spedito i relativi effetti. Se, infatti, le possibilità di soddisfacimento dei creditori sociali conseguibili attraverso le due differenti tecniche appaiono assolutamente corrispondenti, risultando in sostanza il ricorso al fallimento il procedimento utilizzato per ottenere le somme dovute dal «dominus» a titolo di risarcimento del danno per eterodirezione abusiva, occorre chiedersi se non sia in astratto sufficiente a tale scopo l'esecuzione condotta sul patrimonio della società cui tale eterodirezione viene individuata, attraverso azioni di diritto comune.
E' il caso della richiesta e dell'ottenimento di apposite misure cautelari, quali il sequestro conservativo del patrimonio del dominusche esercita l'eterogestione, attraverso le quali si accerti la sussistenza di specifiche ipotesi di responsabilità da mala gestio, da coltivare attraverso l'azione risarcitoria [91]. Si tratta di stabilire se rispetto a tali rimedi di diritto comune, anche a costo di forzare l'accertamento dei presupposti e della ricorrenza o meno di una legittimazione del creditore a richiedere il fallimento, la scelta della procedura concorsuale aggiunga o meno maggiori cautele, ovvero esprima essenzialmente una maggiore consuetudine e l'abitus mentale dei nostri giudici, poco sensibili secondo una classica logica di path dependance ad esplorare i nuovi percorsi offerti da una riforma legislativa [92]. Ma, allora, può ritenersi che l'innovazione offerta dalla disciplina dell'attività di direzione e coordinamento sia stata, questa volta si, «fallimentare».
Sullo sfondo campeggia la netta differenza tra i due istituti espressi dagli artt. 2497 c.c. e 147 l. fall.: gli indici della direzione e coordinamento non sono equiparabili a quello richiesti per individuare una società di fatto e per pervenire al suo fallimento: infatti, l'accentramento di funzioni direttive è fenomeno lecito, quando rispetta i principi di corretta gestione imprenditoriale e societaria. Soprattutto, la direzione ed il coordinamento non richiede che vi sia svolgimento di attività di impresa: anzi, il vantaggio dell'introduzione della disciplina della direzione e coordinamento di società di cui all'art. 2497 c.c. è costituito dalla perdita di centralità dell'individuazione di un'attività di impresa: è sufficiente in proposito la ricorrenza di un interesse imprenditoriale, proprio o altrui, e dunque va distinta la finalizzazione «imprenditoriale» dell'attività dalla natura di impresa della stessa e quindi dall'attribuzione della qualità di imprenditore [93].
La società di fatto richiede di essere individuata differentemente: l'insolvenza non può essere ricavata dal fallimento della società eterodiretta; viceversa, è necessario accertare autonomamente lo squilibrio finanziario e gli indici di decozione. In sostanza, l'accertamento dalla società di fatto prescinde ed è un prius rispetto all'attività di direzione e coordinamento. Inoltre, più a monte, si pone la questione se la società di fatto possa essere considerata come soggetto esercente direzione e coordinamento: mancano, infatti, i meccanismi di pubblicità di cui all'art. 2497-bis c.c., pure se a rigore può ritenersi che la responsabilità sia destinata a scaturire a prescindere dal rispetto delle formalità pubblicitarie [94]; mancano, infatti, forme di esteriorizzazione e manca, addirittura, un contratto[95]. In ogni caso, l'attività di direzione e coordinamento deve collegarsi ad un interesse imprenditoriale, proprio o altrui, ma occorre distinguere tra finalità imprenditoriali e natura del soggetto che le persegue. Solo se si tratta di interesse imprenditoriale proprio, allora vi deve essere attività di impresa, ed anche spendita del proprio nome.
Le tendenze rinvenibili nella prassi, sin qui ricostruite, sono indicative delle difficoltà ad abbandonare, nonostante l'introduzione della disciplina della attività di direzione e coordinamento di società, soluzioni del tutto peculiari destinate ad affrontare i fenomeni di eterogestione abusiva in situazioni di crisi concernenti gli «pseudogruppi». In effetti, il percorso argomentativo che accoglie in via di principio, e quindi anche per questi ultimi, l'istituto della responsabilità risarcitoria introdotto dall'art. 2497 c.c., depone in favore di una complessiva tendenza al superamento, per effetto della riforma, delle tecniche fondate sulla responsabilità di tipo patrimoniale: tuttavia, ciò avviene solo in prima battuta, in quanto l'accertamento della responsabilità risarcitoria appare strumentale al risultato finale dell'«estensione»» del fallimento della società che eterogestisce, combinazione questa che, nel suo insieme, è paragonabile ad un sostanziale superamento della personalità giuridica.
E' spontaneo porsi il dubbio se questa combinazione rappresenti uno sviluppo razionale delle tecniche di repressione degli abusi da eterogestione, o non costituisca piuttosto un'impropria eterogenesi delle finalità originarie del legislatore. Nel quadro di questa più ampia cornice si pone poi la questione se la distinzione tra gruppi veri e gruppi finti, con tutte le sue problematicità, ma anche con il bagaglio di situazioni e di schemi organizzativi che la prassi ha contribuito ad elaborare nel corso di decenni e con la sua incidenza anche nell'individuazione della tipologia di soluzione da adottare in concreto, sia destinata a rimanere inalterata a seguito della riforma, o piuttosto uno degli scopi della stessa, a questo punto rimasti irrealizzati, fosse proprio di pervenire ad una complessiva unificazione, attraverso la categoria della direzione e coordinamento di società, delle tecniche utilizzabili a tale fine.
E' difficile rispondere approfonditamente a queste complesse e stratificate tematiche. Si può solo, in sintesi, tentare di svolgere alcune riflessioni di principio sul ruolo, tutto da approfondire, della direzione e coordinamento nella crisi dei gruppi e della sua capacità di fare sorgere una responsabilità risarcitoria da eterogestione, specie ove questa venga intesa nella pienezza dei suoi contenuti e funzioni, che non sono limitabili al ruolo di tecnica per trasferire sulla capogruppo il passivo delle società eterodirette. E questo soprattutto tenendo conto che il presupposto da cui muovono le costruzioni in termini di responsabilità risarcitoria combinata con quella patrimoniale, vale a dire che la disciplina della responsabilità da direzione e coordinamento trova applicazione in prima battuta anche agli «pseudogruppi», impone la piena utilizzazione, anche in tali circostanze, delle elaborazioni proposte in ordine alle modalità di accertamento delle violazioni dei principi di corretta gestione imprenditoriale e societaria a cui il sorgere di tale responsabilità è, tra l'altro, subordinato.
Vengono in considerazione in questa prospettiva, in primo luogo, i doveri di prevenzione e di gestione della crisi che coinvolge le società del gruppo: si allude all'esigenza di tempestiva rilevazione dei segnali di crisi, in particolare attraverso l'adozione da parte della capogruppo di assetti organizzativi e di flussi informativi al livello di gruppo [96] e della scelta dei rimedi più idonei, in relazione alla situazione concreta ed all'evoluzione prevedibile, ad eliminare gli squilibri finanziari ed a ripristinare la regolare gestione: in entrambi i casi trattandosi di scelte gestorie, concernenti la regolamentazione convenzionale dell'attività d'impresa, riconducibili all'attività di direzione e coordinamento. Occorre, inoltre, tenere conto che la responsabilità da eterogestione costituisce un'eccezione ed è sottoposta a precise limitazioni che discendono in via di principio dalla sfera riconosciuta di liceità - e di conseguente irresponsabilità - della direzione e coordinamento: questa è delineata, per un verso, dai principi di corretta gestione imprenditoriale e societaria [97]; per un altro, dall'ampliamento della sfera di discrezionalità gestoria e della conseguente insindacabilità delle decisioni, rispetto alle società atomisticamente considerate, che sono offerti dalla regola dei vantaggi compensativi[98], che consentono, alla stregua di una business judgment rule di gruppo, di delimitare gli spazi offerti al legittimo perseguimento di un interesse di gruppo[99].
Va subito sottolineato come i vantaggi compensativi, e prima ancora la discrezionalità gestoria di cui essi rappresentano il completamento, sono destinati a rivestirsi di ulteriori e specifici contenuti ed implicazioni in presenza di situazioni di crisi[100], in quanto è alla loro stregua che andranno valutate le varie tipologie di misure predisposte dalla capogruppo a favore delle società in crisi sottoposte a direzione e coordinamento, tenendo conto di quelle più idonee in considerazione della situazione concreta di ciascuna società, ivi compresi gli ausilii realizzati tramite l'intervento di società in bonis [101], nell'ambito di un piano di risanamento che coinvolga l'intero gruppo e che quindi consenta a queste ultime di non risultare travolte dall'insolvenza che colpisca le altre società[102].
Posto, quindi, che l'intervento della capogruppo deve essere ricondotto a questi parametri, non può configurarsi in assoluto un dovere di risanare le società in crisi o, più in specifico, di ripianare l'indebitamento o di ripristinare la loro liquidità, quanto, più in generale, un dovere di non aggravare la crisi e favorirne la propagazione, secondo le modalità che le circostanze del caso concreto suggeriscono [103]. Ed è su questo sfondo che andrà valutata l'intensificazione dei profili di sindacabilità circa il rispetto, da parte degli organi gestori, dei principi di corretta amministrazione e dei doveri di adeguata istruttoria, informazione e motivazione, che sono alla base delle decisioni assunte per fronteggiare la crisi.
Occorrerà, piuttosto, verificare attentamente, al fine di accertare i presupposti per il sorgere di una responsabilità exart. 2497 c.c., ed anche in vista delle potenziali implicazioni in ordine al fallimento della società che ha esercitato la direzione e coordinamento, l'idoneità delle decisioni e la tempestività dell'intervento, sia sul piano gestorio che, più specificamente, della scelta ed adozione di soluzioni negoziate, a porre rimedio a situazioni di crisi in considerazione dei vantaggi compensativi che possono discendere dalla conservazione in vita della società [104]. In questo senso, il ruolo della capogruppo nella presentazione del piano di concordato, ed anche negli interventi di sostegno, finanziari o di altro tipo, a carico suo o di altre società in bonis del gruppo, lungi dal dare luogo a forme di unificazione della masse attive e soprattutto di quelle passive, deve essere riconducibile al compimento di atti idonei all'integrale eliminazione del danno da direzione e coordinamento, anche attraverso operazioni a ciò dirette [105].
Al contrario, occorre considerare le conseguenze che il mancato intervento, o la non adeguata scelta nelle modalità di intervento - in particolare qualora attraverso la cessione di cespiti attivi a favore delle società del gruppo in crisi si produca l'impoverimento delle società in bonische vengono coinvolte nell'intervento di salvataggio - possono avere nel provocare o nel favorire la propagazione della crisi all'interno del gruppo, o comunque il suo mancato contenimento [106]: è il caso, per un verso, dell'omesso intervento in favore di società del gruppo che vengono isolate e poste, pertanto, tempestivamente in liquidazione e/o lasciate fallire, perché non è rinvenibile alcun interesse, nemmeno in termini di vantaggio compensativo, a giustificare un intervento per consentirne la sopravvivenza; ed, al contrario, degli interventi di salvataggio, in particolare attraverso la prestazione di assistenza finanziaria, completamente sproporzionati rispetto alla capacità della società che li effettua di farvi fronte, e quindi pregiudizievoli anche per essa e tali da condurla verso la crisi.
Chi scrive ha in altra occasione approfondito i criteri di individuazione della responsabilità gravante sulla capogruppo, in ordine all'effettuazione di finanziamenti, sia upstreame cross-stream, sia downstream, in grado rispettivamente di pregiudicare la società finanziatrice eterodiretta, ove non recuperabili, ovvero la stessa capogruppo e quindi i loro soci di minoranza e creditori, laddove in grado di provocare uno squilibrio finanziario: il che può realizzarsi, in particolare, in caso di assenza di vantaggi compensativi od, al contrario, di responsabilità per violazione di un dovere di effettuare l'afflusso di nuove risorse, finalizzate ad evitare la propagazione dell'insolvenza, che impedisca di usufruire dei vantaggi compensativi, viceversa suscettibili di scaturire dalla conservazione in vita delle società in crisi [107].
Considerazioni analoghe possono essere svolte, più in generale, con riguardo all'adozione di piani di risanamento ed all'accertamento della conformità ai principi di corretta gestione imprenditoriale e societaria delle decisioni circa i tempi e le modalità del piano di risanamento, e viceversa di una responsabilità da direzione e coordinamento da esse scaturente.
Deve, infatti, ritenersi che la capogruppo rivesta un ruolo significativo nella presentazione di una proposta di concordato preventivo o di accordo di ristrutturazione, o nella predisposizione di un piano di risanamento concernenti le società del gruppo, giustificato in primo luogo dalla disponibilità dei dati attinenti alla situazione finanziaria e patrimoniale delle società eterodirette necessari ai fini della loro elaborazione, e ciò a prescindere dalla configurazione nella fattispecie di un concordato di gruppo o di un accordo di ristrutturazione di gruppo [108].
A questa conclusione può pervenirsi, in primo luogo, tenendo conto della competenza alla presentazione della domanda attribuita dall'art. 152 l. fall. all'organo gestorio della società. Questa decisione, configurandosi a tutti gli effetti quale atto di gestione, deve essere intesa, nel caso di gruppo di società, come potenzialmente riferibile anche alla società esercente attività di direzione e coordinamento, quanto meno sotto forma di impulso alla presentazione della domanda da parte dei competenti organi gestori della società da sottoporre alla procedura [109].
A questo si aggiunge che le ulteriori cautele da cui tale concordato è assistito, grazie all'intervento obbligatorio del professionista, spianano la strada all'intervento della capogruppo, eliminando il rischio che il voto sia falsato da conflitto di interessi. Non è da escludere, inoltre, che la legittimazione alla proposta di concordato da parte della capogruppo sia prevista in statuto, ed addirittura che il dovere di avanzare tale proposta costituisca oggetto di un vero e proprio obbligo previsto in uncovenant.
1) Non è priva di significati la circostanza che anche gli ordinamenti con una più lunga tradizione di disciplina dei gruppi di società sul piano del diritto societario, quale quello tedesco, non abbiano provveduto a regolamentare le situazioni di crisi che coinvolgono questi ultimi, pure a fronte di un ampio dibattito in sede scientifica, e solo di recente sia iniziato un iter legislativo rivolto a colmare questa lacuna : Si allude alla approvazione il 28.8.2013 di un Gesetzentwurf eines Gesetzes zur Erleichterung der Bewältigung von Konzerninsolvenzen, il quale allo stato non ha ancora concluso l'iter legislativo: cfr. di recente, Beck, Perspektiven eines Konzerninsolvenzrecht, in DWIR, 2014, 381 ss.; per una ricognizione delle principali questioni, v. gli AA. cit. in M. Miola, Attività di direzione e coordinamento e crisi di impresa nei gruppi di società, in Società, banche e crisi di impresa. Liber amicorum Pietro Abbadessa, Torino, 2014, vol. III, 2693 ss., spec. nt. 1 e 2, cui adde, A. Van Hoe, Enterprise Groups and their Insolvency: It's the (Common) Interest, Stupid!, in ECFR, 2014, 200 ss.