Il lavoro analizza i più recenti sviluppi del diritto societario, soffermandosi in particolare sul rapporto fra diritto societario generale e diritto societario della crisi e sul rapporto fra giurisprudenza "Centros" e criteri d'individuazione della disciplina delle insolvenze transfrontaliere, cercando di coglierne le principali linee evolutive.
The paper analyzes the most recent developments in Italian corporate law, focusing, on the one hand, on the link between general corporate law and corporate law provisions included in the bankruptcy legislation, and, on the other hand, on the link existing between the "Centros" decision and the legal regime of transnational insolvencies, aiming at understanding the main developing trends.
Il testo riproduce, con pochi adattamenti formali, la relazione svolta al Convegno su "I modelli di impresa societaria fra tradizione e innovazione nel contesto europeo" (Courmayeur, 18-19 settembre 2015).
1. Un nuovo diritto societario? - 2. Il così detto diritto societario della crisi fra specialità e autonomia. - 3. Diritto societario e diritto delle procedure d’insolvenza nella prospettiva europea. - 4. Il “diritto societario della ripresa” - 5. Alcune linee di tendenza: indebolimento del ruolo del capitale, attenuazione del principio capitalistico-plutocratico, semplificazione e riduzione di costi e di controlli. - 6. Diritto societario quo vadis?
Nel titolo della mia relazione si fa riferimento al "nuovo" diritto societario. Mi sono chiesto subito se parlare di nuovo diritto societario equivale a dire che quello uscito dalla così detta riforma organica è già vecchio. Forse sì, se è vero che si sente il bisogno di un nuovo diritto societario; anzi, non solo se ne sente il bisogno, ma già se ne parla apertamente, e se ne parla, se colgo bene il senso del titolo, deiure conditoe non solo deiure condendo, quindi alludendo a innovazioni già prodottesi e non solo a innovazioni da progettare e realizzare.
Tuttavia, parlare di un nuovo diritto societario dovrebbe significare che si allude non a ritocchi o aggiustamenti di contorno, ma al subentrare di unsistema di regolenuovo, fondato quindi su basi e principi significativamente diversi da quelli ispiratori della riforma del 2004; e francamente non so se un fenomeno del genere possa dirsi realizzato nel caso del nostro diritto societario. Forse è ancora troppo presto per chiederselo, o forse è giusto iniziare a chiederselo anche se è troppo presto per dare una risposta attendibile; del resto, quando ci si chiede, come ci si è chiesti, "Capitale,quo vadis?" o "Principio capitalistico,quo vadis?", è appunto questo che si sta facendo.
Quindi, dovendo parlare oggi del nuovo diritto societario, inevitabilmente anch'io dovrò pormi una domanda di questo tipo (e proverò a farlo in una fase più avanzata della relazione); dovrò chiedermi, cioè, se gli interventi legislativi degli ultimi anni abbiano determinato o stiano determinando, magari non quale esito di un disegno consapevole ma per effetto del combinarsi di più innovazioni più o meno convergenti, il superamento di interi istituti intorno ai quali ruotava il nostro diritto societario e forse ora non ruota più o fra poco non ruoterà più.
Prima di entrare nel vivo del discorso non posso fare a meno di rimarcare ancora una volta lo scadimento ormai davvero insostenibile della qualità della nostra produzione normativa. Da questo punto di vista, purtroppo, il nuovo diritto societario non è diverso da quello che l'ha preceduto e da tutta la legislazione degli ultimi anni, denotando evidenti trascuratezze e una tecnica scadentissima, in un affastellarsi disordinato di norme mal scritte e mal coordinate fra loro.
So di dire una cosa particolarmente banale, ma per favorire la ripresa o l'uscita dalla crisi è intuitivo che occorrerebbe per prima cosa (lo dico nel modo più brutale)scrivere le norme decentemente; viceversa, da noi di questo non ci si preoccupa affatto, come se la cattiva legislazione non producesse costi e guasti di enorme portata. E come se la tanto decantata concorrenza fra ordinamenti si facesse solosui contenutie non anchesulla qualitàdelle norme, mentre è chiaro che la cattiva qualità genera incertezza sui contenuti, con conseguente dissuasione dall'utilizzo degli istituti che si vanno introducendo o regolando, e, in caso di loro utilizzo, con incremento del contenzioso; un contenzioso che poi la nostra giustizia civile, come sappiamo, è tutt'altro che sollecita nel risolvere.
Insomma, si parla tanto di "buona scuola", "buona università", "buona giustizia" e via dicendo, ma non ci si rende conto che, senza unabuona legislazione, tutti questi obiettivi non saranno mai raggiunti e si resterà sul terreno deglisloganfini a se stessi.
Seguendo il filo della relazione scritta dovrei ora, per prima cosa, prendere in considerazione tutta una serie di interventi che abbiamo avuto negli ultimi anni sulla legge fallimentare e che, attraverso un percorso normativo non certo lineare, ma anzi alquanto frastagliato e forse non ancora concluso, hanno riscritto in sostanza una sorta di statuto del finanziamento delle imprese in crisi, con l'obiettivo di favorire il buon esito di soluzioni negoziali delle crisi.
Gli addetti ai lavori hanno già in mente gli artt. 182quater,quinquiesesexiesdella legge fallimentare nelle parti in cui hanno introdotto norme derogatorie rispetto al diritto societario comune in materia di finanziamento soci (182quatere forse, pur non considerando esplicitamente la fattispecie, 182quinquies), riduzione del capitale, azzeramento del capitale e causa di scioglimento conseguente (182sexies).
L'analisi di queste norme è sicuramente importante e, a dire il vero, è stata la parte della relazione sulla quale mi sono affaticato maggiormente, salvo poi rendermi conto che si presta pochissimo all'esposizione orale. Il fatto è che le nostre leggi ormainon si interpretano, si decifrano(o meglio, si cerca di decifrarle), e per far questo è tutto un andare dal commabisdell'articoloteralla modifica introdotta e poi sostituita…; un lavoro che è già difficile seguire avendo le norme sott'occhio, pressoché impossibile per il semplice ascoltatore. Anche per questo motivo, quindi, dovendo anche per ragioni di tempo tagliare qualcosa, ho tagliato tutta questa parte.
Nelle pagine della relazione che prima o poi verranno alla luce come testo scritto, per chi fosse eventualmente interessato, si incontra spesso, nella parte cui accennavo, l'espressione "diritto societario della crisi", che io adopero in senso puramente descrittivo, ma che invece viene frequentemente utilizzata per designare un sistema di normeautonomo e tendenzialmente autosufficiente; tale, in particolare, da esigere che eventuali lacune degli enunciati normativi siano colmate al suo interno e non ricorrendo all'applicazione di norme ad esso estranee, quali quelle del diritto societario o fallimentare. A ciò si è contrapposta la tesi di chi, negando la fondatezza di questa costruzione, è pervenuto a soluzioni diverse e talvolta opposte.
La discussione mi ha richiamato alla mente il dibattito aperto da Natalino Irti qualche decennio fa - ma la cui attualità non mi pare venuta meno nei suoi termini di fondo - sulla cosiddetta "età della decodificazione". Non ho qui la possibilità di dedicare alla questione il tempo che essa meriterebbe. Dico solo che l'estensione a fattispecie non regolate - o non regolate esplicitamente - di alcune norme speciali (tratte cioè da un microsistema, se vogliamo utilizzare questa terminologia, invece che dal sistema generale) è una soluzione alla quale credo che si possa giungere anche senza invocare una supposta autonomia o specialità in senso forte del microsistema. Perché è vero che la norma speciale riduce il campo di applicazione della norma generale, sicché, ove non possa applicarsi la prima, si riespande la sfera applicativa della seconda, però la norma speciale, al pari di quella generale, è suscettibilenon solo di applicazione diretta ma anche di applicazione analogica, sempre che, naturalmente, ne sussistano i presupposti; il che apre comunque la strada alla cosiddettaautointegrazione.
In questo senso, dunque, non mi pare necessario pensare al diritto societario della crisi in termini di marcata contrapposizione rispetto al diritto societario comune, essendo perfettamente logico che la gestione dell'impresa segua regole diverse a seconda del diverso momento che l'impresa sta attraversando; circostanza che, secondo me, legittima ipotesi di autointegrazione senza peraltro escludere che, residualmente, il microsistema vada a integrarsi nel sistema generale.
Aggiungo comunque che la diversità fra le due costruzioni probabilmente è frutto delle diverse sensibilità degli interpreti e forse di un diverso modo di intendere le nozioni di autonomia e di specialità, più che di effettive divergenze sostanziali, com'è dimostrato dal fatto che le conclusioni di merito dei due orientamenti - quello del diritto societario della crisi e quello che ho appena prospettato, che risolve i problemi in termini di specialità - spesso coincidono, come emerge dalla parte di relazione che ho omesso.
Il diritto societario, nuovo o vecchio che sia, ha da tempo una forte connotazione europea, come ha ricordato anche Paolo Montalenti poc'anzi e come emerge già dal titolo del nostro convegno. Di questa connotazione voglio ora tenere conto per un profilo particolare relativo alla crisi dell'impresa e quindi anche dell'impresa societaria.
Mi riferisco al regolamento sulle procedure di insolvenza recentemente approvato, che, in relazione alle procedure di insolvenza con implicazioni transfrontaliere, affida l'individuazione della competenza giurisdizionale e della legge applicabile al criterio degli interessi principali del debitore; una scelta in astratto senz'altro ragionevole, ma che non coincide con quella concernente l'individuazione del diritto societario applicabile, ai cui fini, come sappiamo, rileva l'ordinamento ai sensi del quale l'ente è stato costituito, perché entra in gioco la libertà di stabilimento così come intesa dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (giurisprudenza che alcuni reputano alquanto creativa, ma è un discorso nel quale non possiamo entrare ora). Quindi: da una parte il criterio dellasede realeper selezionare la disciplina delle procedure di insolvenza, dall'altra il criterio dell'incorporazioneper selezionare il diritto societario applicabile.
Ora, al di là della preferibilità dell'uno o dell'altro criterio e della possibilità di reprimerne l'utilizzo eventualmente strumentale, a mio avviso c'è da chiedersi se sia ragionevole e razionalela loro diversità; e personalmente sarei portato a rispondere negativamente. Mi pare infatti che l'adozione di due criteri diversi, consentendo di scegliere il diritto societario di uno Stato e il diritto concorsuale di un altro, per un verso incentivi fenomeni diforum shoppingcon finalità elusive, per un altro dia luogo a enormi incertezze applicative.
Sotto il primo profilo, è chiaro che la libertà di manovra al fine di operazioni più o meno fraudolente sarebbe molto minore se, fatta una determinata scelta in ordine al luogo dell'incorporazione oppure al luogo della sede reale, da questa scelta dipendesse la selezione sia dellalex concursussia dellalex societatis, escludendo la possibilità di combinazioni che assicurino al debitore su entrambi i fronti il regime a lui più favorevole.
Sotto il secondo profilo, credo sia a tutti evidente la difficoltà di etichettare una determinata disposizione (pensiamo, in particolare, a quelle del così detto diritto societario della crisi) come societaria o come concorsuale. Ciò almeno se si esclude, come io sono convinto si debba escludere, che l'appartenenza di una regola all'uno o all'altro sistema dipenda dalla formale collocazione di quella regola e dell'enunciato che lo esprime in un corpo di norme piuttosto che in un altro. Perché la collocazione di una regola può ben variare da un ordinamento all'altro, o anche all'interno dello stesso ordinamento, senza che mutino il contenuto e la natura delle disposizioni di cui si tratta. Basti pensare alla disciplina della postergazione del finanziamento soci, da noi topograficamente inserita nel diritto societario e in Germania collocata da qualche anno in ambito concorsuale.
La stessa regola, insomma, può essere inserita indifferentemente (penso ora al nostro sistema) nel codice civile o nella legge fallimentare, ma èdal suo contenuto precettivo e non dalla sua collocazioneche dovrebbe desumersene la natura al fine di individuare la legge applicabile; con tutte le difficoltà che valutazioni del genere comportano. Ad esempio, è di diritto societario la disciplina dei finanziamenti contenuta nell'art. 2467 c.c.? In caso affermativo, ciò vale anche per il precetto secondo cui il rimborso avvenuto nell'anno anteriore al fallimento deve essere restituito? Ed è di diritto societario o concorsuale la disciplina derogatoria di questi precetti? E cambierebbe qualcosa, se questa disciplina derogatoria fosse inserita nel codice civile, magari come ultimo comma dell'art. 2467?
Di tutto ciò il regolamento comunitario ha probabilmente avuto percezione e forse ha voluto tener conto enunciando il principio secondo cui "non si dovrebbero considerare disciplinate dalla norme in materia di insolvenza le procedure che sono disciplinate dal diritto societario generale non destinato esclusivamente alle situazioni di insolvenza" (così si legge nel 16°Considerando). Ora, anche al di là della difficoltà interpretativa, mi pare che questo principio non sia idoneo a risolvere i problemi applicativi che possono presentarsi per via della stretta, talvolta strettissima connessione fra regole societarie e regole concorsuali; connessione che rende non di rado opinabilissima, oltre che spesso arbitraria, la loro riconduzione all'uno piuttosto che all'altro sistema. Ne risulta una situazione assai scomoda soprattutto per i creditori, che spesso sono imprenditori come quelli in crisi con cui hanno a che fare, se non altro per l'estrema incertezza sulla disciplina che regolerà le loro posizioni in caso di insolvenza; incertezza che certo non incoraggia gli scambi con imprese che presentino profili transfrontalieri. Sicché, in definitiva, non mi pare che l'assetto normativo che ho descritto sia coerente con gli obiettivi comunitari di creazione di un mercato interno e di garanzia del suo corretto funzionamento.
Dovrei ora occuparmi di quello che nella relazione ho chiamato, del tutto stipulativamente, "diritto societario della ripresa", alludendo a quella serie di interventi volti a introdurre regole societarie che dovrebbero in qualche modo favorire la ripresa complessiva dell'economia.
Il discorso dovrebbe così toccare le discipline concernenti lestart-upinnovative, le piccole e medie imprese innovative, le s.r.l. semplificate o comunque a capitale ribassato e, uscendo dal terreno strettamente societario, tutti i temi affrontati nelle relazioni che seguono, nonché, sul versante europeo, le tipologie societarie alle quali sono dedicate le relazioni della sessione pomeridiana del nostro convegno. Ora, a dire il vero, l'idea che la ripresa economica sia in qualche modo favorita dalla diffusione di società dotate di un capitale meramente simbolico, come altri hanno già osservato, fa sorridere, non solo perché senza capitali l'impresa può anche nascere ma non può operare (e infatti la percentuale di queste società che sono inattive o che non hanno nessun dipendente è elevatissima), ma anche perché moltiplicare le imprese la cui responsabilità è limitata a un patrimonio inconsistente, senza alcuna reale garanzia per i terzi, significa scaricare su questi (che sono spesso anche loro imprenditori) il rischio d'impresa e quindi, in sostanza, far pagare ai secondi il rischio da cui si esentano i primi. Comunque, per ragioni di tempo, inserisco un omissis anche su questa parte della relazione e passo a delle considerazioni d'insieme per evidenziare alcune linee evolutive che nel testo scritto dovrebbero scaturire dall'analisi che ivi è contenuta, mentre qui soffrono di una certa apoditticità che vi prego di scusare.
La prima linea di tendenza sicuramente percepibile (come del resto può facilmente intuirsi) è costituita dall'attenuazione della centralità del ruolo del capitalenel sistema di protezione degli interessi dei creditori; tema notissimo, che si inserisce in un dibattito ormai anche da noi più che decennale nel quale naturalmente non posso entrare in questa sede.
Mi limito a sottolineare che - sia nel diritto societario della crisi, sia in quello che ho chiamato diritto societario della ripresa - sono presenti ulteriori tasselli di un processo normativo complessivamente orientato nel senso dell'attenuazione della rilevanza e della rigidità del sistema di capitale. Basti pensare che l'abbassamento sino a valori simbolici della soglia minima del capitale ritarda l'attivazione del cosiddetto meccanismo "ricapitalizza o liquida" e che l'operare di quel meccanismo è ulteriormente differito per lestart-upinnovative ed è sospeso per le società in crisi che attivino meccanismi di soluzione negoziale della stessa, tanto da indurre a prospettare il superamento dell'alternativa secca "ricapitalizza o liquida" a beneficio di quella, meno drastica, "risana, ricapitalizza o liquida".
Ulteriori spinte in questa direzione potrebbero venire dalla per ora progettata introduzione dellasocietas unius personae, con capitale minimo di un euro, nessuna imposizione di una riserva legale e distribuzioni ai soci subordinate al superamento di requisiti di bilancio e dichiarazioni di solvibilità da parte degli amministratori.
In definitiva, credo che da questo punto di vista non si possa parlare di un tramonto dell'impianto normativo basato sul capitale ma certo, almeno in questo momento storico, di una fase discendente della sua parabola.
Lo stesso può forse dirsi, allargando lo sguardo ad altre innovazioni legislative, a proposito del cosiddettoprincipio capitalistico-plutocratico, che vuole o vorrebbe il potere proporzionalmente correlato al rischio. Già l'attuazione della direttiva sui diritti degli azionisti, con l'introduzione del meccanismo dellarecord date, aveva sicuramente messo in discussione quel principio, ma è stato poi il cosiddetto "decreto crescita" dello scorso anno, con l'introduzione delle azioni a voto maggiorato e soprattutto di quelle a voto plurimo - il cui utilizzo può determinare un drastico abbassamento della soglia del controllo e quindi lo spostamento del punto di equilibrio fra potere e rischio - a determinare un ulteriore passo in quella direzione, consentendo di ottenere maggior potere con minori rischi.
La terza linea di tendenza, a mio avviso, è quella che mira allasemplificazionee allariduzione dei costi amministrativi, obiettivi in nome dei quali si registra con grande frequenza, nel panorama normativo degli ultimi anni, la svalutazione di requisiti di forma e di controlli fino a poco tempo prima ritenuti irrinunciabili.
Ora, il giudizio su operazioni del genere, a mio avviso, non può che essere dato caso per caso, attraverso una valutazione comparativa di tutti gli interessi coinvolti, dunque non solo di quelli protetti ma anche di quelli sacrificati dalla norma semplificatrice. Qui posso solo esprimere la sensazione, o il timore, che talvolta sull'altare della semplificazione vengano immolate istanze di tutela e di garanzia dei terzi e del mercato che forse avrebbero meritato, almeno in qualche occasione, maggiore considerazione e migliore sorte.
Ma, al di là di questo, quello che più è anomalo, a mio avviso, è che in più di un'occasione la strada della semplificazione non è stata percorsa con convinzione e sino in fondo, affrancando cioè il perfezionamento di una determinata fattispecie da controlli e oneri formali ritenuti, evidentemente, non più necessari. L'anomalia sta nel fatto che i controlli e gli oneri vengono mantenuti (il che può far pensare che la loro superfluità non sia poi così sicura), ma si consente agli interessati di sottrarsene.
Tornando un po' indietro nel tempo, questo è successo, di fatto, a proposito della cessione di quote di s.r.l., che, se fatta in forma digitale, è dispensata dall'onere dell'autentica della sottoscrizione; onere che invece permane, a questo punto inspiegabilmente, ove l'atto sia perfezionato altrimenti. Si creano così i presupposti perché si abbiano acquisti più o meno sicuri a seconda della strada prescelta, con possibili ripercussioni anche sui terzi subacquirenti, magari ignari di questo doppio regime circolatorio. E tutto questo come se nella circolazione delle quote non fossero coinvolti anche interessi che vanno al di là di quelli delle parti; interessi in nome dei quali, fra l'altro, la riforma societaria ha affidato all'iscrizione nel registro delle imprese, sia pure con la discutibile complicazione dell'elemento della buona fede, la soluzione dei conflitti circolatori.
Analogo discorso si può fare,mutatis mutandis, riguardo alla disciplina dei conferimenti in natura nelle s.p.a. introdotta nel 2008. Anche qui si riscontrano un regime più severo, che continua a imporre la relazione giurata di stima con tutti i crismi, e un regime più blando, che si accontenta di una perizia fatta con minori cautele e assistita da minori garanzie. Già sul piano logico è strano che sia possibile raggiungere il medesimo risultato, cioè la stima di un bene con effetti sull'imputazione a capitale, attraverso una procedura più rigorosa ed una meno rigorosa; ancora più strano, poi, è che la scelta fra l'una e l'altra sia rimessa, in sostanza, al socio conferente, ossia a colui che dovrebbe subire i rigori della disciplina ove non optasse per il regime piùsoft.
Qualcosa del genere è accaduto più recentemente per le reti di imprese, o meglio per una delle diverse tipologie di rete di imprese, quelle con attività esterna sprovviste di soggettività (io le chiamo così, ma già il fatto che ci si debba accordare su come chiamarle fa capire che razza di istituto complicato è stato messo in piedi). Queste reti - che svolgono attività con i terzi e sono dotate di fondo patrimoniale, organo comune, ecc., ma sono appunto prive di soggettività - possono costituirsi senza che sia richiesto il previo controllo di legalità e autenticità del contratto. A seguito dell'ultima delle tante, sicuramente troppe stesure succedutesi a breve distanza l'una dall'altra, infatti, il decreto-legge 5 del 2009 si accontenta dell'atto con firma digitale semplice, diversamente da quello che accade là dove la rete intenda acquistare la soggettività, nel qual caso è richiesto che l'eventuale firma digitale sia autenticata. Una diversità di trattamento in sé incongrua, a mio avviso, e di cui non si scorge alcuna plausibile ragione anche perché, per una curiosa scelta del legislatore, le reti del primo tipo, quelle cioè dichiarate prive di soggettività, al pari di quelle soggettivizzate sono dotate dell'autonomia patrimoniale perfetta. Quindi, anche qui, due risultati sostanzialmente identici che si possono raggiungere attraverso una strada più rigorosa e una meno rigorosa.
Un altro passo nella stessa direzione (che, come si è capito, è per me una direzione sbagliata) è stato compiuto nell'ambito della disciplina delle piccole e medie imprese innovative, perché il decreto-legge 3 del 2015 ha stabilito fra l'altro che l'atto costitutivo e le successive modificazioni distart-upinnovative (che hanno la forma giuridica di società di capitali o di cooperative) sono redatti per atto pubblicoovveroper atto sottoscritto con le modalità previste dall'art. 24 del Codice dell'amministrazione digitale; e queste modalità sono appunto, ancora una volta, quelle della cosiddetta firma digitale semplice e non autenticata. Anche qui, dunque, al di là del merito o del demerito della semplificazione (i cui pericoli mi sembrano però abbastanza evidenti e sono sembrati evidenti, se non ricordo male, anche a Portale e Spolidoro), si riscontra un'incomprensibile alternativa fra due regimi i cui costi e benefici sono assolutamente diversi e incomparabili. La stessa alternatività in futuro potrebbe caratterizzare anche la societas unius personae, posto che l'art. 14 della proposta di direttiva lascia agli Stati membri la facoltà - una semplice facoltà! - di stabilire norme per verificare l'identità del membro fondatore e di qualunque altra persona che effettui la registrazione.
Concludo. La sensazione di fondo è che, nell'intento di favorire l'uscita dalla crisi e l'avvio della ripresa, fra l'interesse al libero esercizio dell'attività economica e l'esigenza di protezione degli interessi più generali che quell'esercizio coinvolge, l'orientamento attuale sia decisamente quello di privilegiare il primo.
Credo di non esagerare se dico che, negli sviluppi normativi attuati o progettati negli ultimi anni, a livello italiano come a livello europeo, gli interessi dei creditori sociali e dei terzi in genere sembrano essere passati in secondo piano rispetto a quello di favorire comunque la costituzione di nuove imprese e il loro mantenimento in vita.
Il tutto, per di più, senza che si colga sempre una logica precisa e una coerente visione d'insieme, qualche volta inseguendo mode, altre volte cimentandosi in una concorrenza al ribasso, altre volte ancora dettando o progettando regole non bene in sintonia con le enunciazioni di principio cui dovrebbero ispirarsi (mi riferisco anche al testo provvisorio della direttiva relativa all'impegno dei soci di lungo periodo e alla trasparenza, che Francesco Denozza ha di recente criticato per l'ambiguità e le oscillazioni che lo caratterizzano).
Così, se abbiamo iniziato col domandarci "Capitale,quo vadis?" o "Principio capitalistico,quo vadis?", non vorrei che dovessimo presto chiederci: "Diritto societario,quo vadis?". E non vorrei che questa domanda esprimesse non tanto l'incertezza sulla direzione intrapresa quanto, più pessimisticamente, la sconsolata consapevolezza della mancanza di una direzione precisa.