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Diritto civile e diritto commerciale. Il metodo del diritto commerciale in Italia (II) (di Mario Libertini)


Questo scritto costituisce una seconda edizione, rivista e integrata in qualche punto, di uno scritto già pubblicato in Rivista delle società, 2013, 1 ss. Il testo originario era stato predisposto come relazione al Convegno sul tema "Il diritto civile e gli altri", organizzato dall'Associazione Civilisti Italiani, tenutosi a Roma il 2 dicembre 2011.

Sommario/Summary:

1. La fondazione della moderna dottrina giuscommercialistica nell’Italia della seconda metà del XIX secolo. La costruzione dell’autonomia “giuridica” e “scientifica” del diritto commerciale. - 2. Alcuni punti critici della metodologia giuscommercialistica della generazione dei fondatori: il rapporto con il diritto civile. - 3. La sintesi giuspositivistica e statalistica (Alfredo Rocco). - 4. 4. Gli anni ’30: l’incontro con il diritto corporativo e le altre spinte modernizzatrici. - 5. L’unificazione dei codici e la costruzione di una nuova sintesi “ortodossa”. - 6. Gli anni ’50: il contrasto fra Tullio Ascarelli e Walter Bigiavi. - 7. Dagli anni ’60 in poi: la tendenziale chiusura specialistica del diritto commerciale. - 8. Dagli anni ’70 in poi: tentativi di ripresa e incertezze sull’autonomia del diritto commerciale. - 8. 1 L’idea di autonomia normativa del diritto commerciale come diritto delle imprese e dei mercati. - 8. 2 La teorizzazione del diritto dell’impresa come “sistema ad attività”, contrapposto al “sistema a soggetto” (Ferro Luzzi). - 8. 3 La riscoperta della “lex mercatoria” e di un sistema giuridico caratterizzato da elasticità delle fonti (Galgano). - 9. Conclusioni. La validità del metodo commercialistico e l’unità del diritto. - NOTE


1. La fondazione della moderna dottrina giuscommercialistica nell’Italia della seconda metà del XIX secolo. La costruzione dell’autonomia “giuridica” e “scientifica” del diritto commerciale.

Vorrei ripercorrere, per grandi linee, la storia delle riflessioni che la dottrina commercialistica italiana, dall'Unità ad oggi, ha svolto sulla propria identità e sui propri metodi. Una storia tutt'altro che provinciale, che anzi si è sempre nutrita di un fitto dialogo con le contemporanee elaborazioni delle dottrine giuscommercialistiche francese e tedesca, ma che si caratterizza anche per un orgoglioso atteggiamento di autonomia rispetto ad esse.

Una storia che inizia all'epoca del trionfo della Pandettistica e che avrà sempre, nel confronto con il diritto civile, un passaggio ineludibile delle proprie riflessioni e proposte.

Guardando alla prima stagione di questa storia[1], quella che inizia dopo l'unificazione statale e l'emanazione dei primi codici, ciò che colpisce è l'atteggiamento orgoglioso della nascente dottrina commercialistica, nell'affermare e sviluppare la propria autonomia "giuridica" e "scientifica"[2]. Quella dottrina si dichiara subito sicura di trovarsi sulla via maestra del progresso civile e giuridico, forse anche con un certo atteggiamento di superiorità professionale (è manifesta, negli scrittori di diritto commerciale dell'Ottocento, la sensazione di chi avverte di trovarsi ad affrontare problemi ben più importanti, per lo sviluppo economico e civile del paese, di quelli normalmente affrontati dai giuristi civilisti).

Questo atteggiamento era certamente inserito in una corrente di pensiero presente in tutta Europa, che aveva visto le trattazioni di diritto commerciale emanciparsi, nel sec. XIX, dalla commistione con la semplice tecnica commerciale[3], ed aveva maturato anche la qualificazione della disciplina - da parte dei suoi cultori - come componente più moderna dell'ordinamento. Questa corrente di pensiero aveva trovato la propria espressione più alta nell'opera di Levin Goldschmidt[4], che aveva descritto la storia e i principi del diritto commerciale come diritto di formazione essenzialmente spontanea e tendenzialmente sovranazionale, sempre aperto alle innovazioni rese necessarie dal progresso economico. A questo quadro culturale i giuristi italiani aggiungevano, peraltro, una vena di orgoglio postrisorgimentale, nascente dalla consapevolezza di contribuire, con il loro lavoro di modernizzazione del diritto, alla costruzione di una grande nazione economicamente avanzata[5].

In tale contesto, l'autonomia del diritto commerciale rispetto al diritto civile venne teorizzata, dai giuscommercialisti italiani della seconda metà dell'Ottocento, lungo tre filoni diversi, che hanno lasciato radici più o meno profonde nella dottrina successiva:

I)                   Il primo riguarda la teoria delle fonti. Su questo piano vi erano, com'è noto,  differenze formali tra diritto civile e diritto commerciale, già sancite dall'art. 1 del codice di commercio, che attribuiva valore preminente agli usi commerciali rispetto alle leggi civili. La dottrina giuscommercialistica andava però oltre, individuando una fonte di diritto non scritta nella "natura delle cose"[6]: questa linea, affermata con vigore da Vidari continua, un po' attenuata, con Vivante (che inserirà un capitolo sulla "natura delle cose come fonte di diritto" in tutte le edizioni del suo Trattato), e poi - in un momento storico in cui l'idea era divenuta eterodossa, con Asquini[7] (che però riconosce ormai chiaramente la natura delle cose solo come fonte residuale). Dopo di allora, l'idea di un sistema di fonti proprio del diritto commerciale continuerà, in modo ormai isolato, con Lorenzo Mossa, per poi scomparire del tutto per decenni, dopo l'unificazione dei codici, ed essere infine ripresa, in tempi più recenti, con la riscoperta dellalex mercatoriada parte di Franco Galgano.

II)                Il secondo tratto di autonomia riguarda il metodo di ricerca: la dottrina giuscommercialistica afferma che lo studio attento ed approfondito dei fatti economici costituisce base essenziale di ogni corretta costruzione giuridica. Questa idea, già presente in Vidari, è teorizzata in modo netto da Vivante[8] e condivisa da tutti i giuscommercialisti del tempo.

Questa indicazione di metodo si innesta, nel pensiero della dottrina giuscommercialistica, su una precisa rivendicazione di differenza, rispetto al metodo civilistico. Si afferma l'idea secondo cui il diritto civile può accontentarsi di una visione del mondo fatta di individui proprietari, ciascuno portatore di libere volontà, e su questa base può elaborare le proprie costruzioni formalistiche. Il diritto commerciale no: esso ha bisogno di conoscere a fondo una realtà socioeconomica, in cui esistono asimmetrie e diseguaglianze, e di elaborare costruzioni giuridiche che tengano conto dell'importanza della disparità di interessi e di poteri sociali, nonché dei fenomeni collettivi ed organizzati. E' questo un insegnamento che rimane costante nel tempo e che, tendenzialmente, viene recepito da tutti i cultori della materia (anche se, spesso, più a parole che nei fatti).

A questo insegnamento metodologico si collega, peraltro, un'altra caratteristica del diritto commerciale dell'Italia di fine Ottocento: l'impegno sociale riformistico, il rifiuto dell'accettazione acritica delle consuetudini e del diritto spontaneo e quindi l'impegno per una legislazione sociale avanzata, anche a tutela del consumatore[9]. In tal senso si presta convinta adesione al principio del primato della legge sulla consuetudine (pur attribuendo alla "natura dei fatti" il ruolo sistematico integrativo di cui si è detto)[10].

III)             Il terzo filone di autonomia attiene all'affermazione del diritto commerciale come diritto speciale sì, ma non eccezionale[11], con il conseguente riconoscimento della possibilità che le regole commercialistiche vengano sviluppate analogicamente fino a ricavarne principi generali, derogatori rispetto a quelli del diritto civile. Questa idea rappresenta un filone costante, un vero "filo rosso" della storia del diritto commerciale, anche se non sempre può dirsi adeguatamente sviluppata nelle elaborazioni dottrinali. In ogni caso, su di essa si radicava la convinzione, divenuta luogo comune e mille volte ripetuta (anche da non commercialisti), che faceva del diritto commerciale il "pioniere" del diritto civile (convinzione che è stata, poi, fra le idee fondanti della codificazione del 1942).


2. Alcuni punti critici della metodologia giuscommercialistica della generazione dei fondatori: il rapporto con il diritto civile.

Questa orgogliosa rivendicazione dell'autonomia "giuridica" e "scientifica" del diritto commerciale poneva immediatamente, ai padri fondatori della disciplina, un problema di "regolamento di confini" con la sempre fiorente  e prestigiosa dottrina giuscivilistica[12].

Come si è già ricordato, sono frequenti (e, si può dire, non cesseranno mai neanche in seguito) le accuse di formalismo, rivolte dai cultori del diritto commerciale alla dottrina civilistica. Tuttavia, non si realizza mai, nella dottrina giuscommercialistica italiana del primo Novecento, un attacco frontale alla metodologia giuscivilistica.

In particolare, il Methodenstreit che sconvolge la dottrina giuridica tedesca a cavallo dei due secoli, trova in Italia maggiore attenzione - accompagnata, peraltro, da una risposta molto conservatrice - nei filosofi del diritto e nei giuscivilisti[13], piuttosto che nei giuscommercialisti[14] (salvo che, a cavallo degli anni '30, nel giovane Ascarelli: ma su ciò v.infra,§ 4).

Nella dottrina giuscommercialistica dell'età vivantiana rimangono punti fermi, pienamente approvati malgrado tutte le differenze di metodo sopra segnalate al § 1, i due capisaldi su cui si fondava la metodologia ortodossa civilistica italiana: da un lato la fedeltà alla legge (intesa come pieno rispetto della volontà, anche soggettiva, del legislatore: non accade mai che la "natura delle cose" sia invocata contro un preciso testo di legge); dall'altro la fiducia nella dogmatica concettualistica, intesa come scienza atta a definire ontologicamente gli "istituti" di cui si riteneva composto l'ordinamento giuridico[15], che era inteso come un tutto organico, in cui le norme di legge apparivano come epifenomeni di una "natura giuridica" sottostante degli istituti relativi, di cui il giurista dogmatico si faceva carico di individuare e descrivere l'essenza[16].

Non è qui il caso si soffermarsi sulle aporie che si nascondevano (ma non sono sicuro che sia corretto usare il tempo passato) in questa metodologia ortodossa. Certo è che i giuscommercialisti dell'età vivantiana si professano sempre rispettosi del testo normativo e della definizione dogmatica della "essenza" o "natura giuridica" degli istituti studiati. Questa adesione di massima (non giungerei a dire "di facciata") alla metodologia ortodossa è stata forse anche un espediente per legittimare la dottrina giuscommercialistica come pari grado di quella civilistica, in quanto ormai in grado di sollevarsi dal mero empirismo e di attingere al piano dell'alta dogmatica giuridica (rimaneva poi sempre, in effetti, una prevalente attenzione per la realtà economica dei fenomeni studiati e per le novità normative, con una tendenza a limitare la dogmatica ad un ruolo, ricognitivo, che poi si affermerà nelle generazioni successive[17]: v.infra,§ 6).

In questo clima culturale, la sfida alla metodologia ortodossa, che era implicita nelle posizioni di principio espresse dai principali cultori del diritto commerciale, e sopra riassunte nel § 1, finì per spostarsi su un terreno un po' ambiguo, che era quello della riforma della legislazione. Tema, anche questo, peraltro a quel tempo discusso in tutto il mondo, che vedeva molti fautori di una legislazione unitaria del diritto privato, in chiave di modernizzazione complessiva del sistema[18].

In questa prospettiva, il tema del "codice unico delle obbligazioni", lanciato da Vivante nel 1888, divise la dottrina commercialistica dell'epoca in due partiti contrapposti: da un lato il "progressista" Vivante, dall'altro i (numerosi) "conservatori", fra cui i nomi più importanti furono (in ordine di età) Ercole Vidari ed Alfredo Rocco[19]. La discussione si chiuse (in certo senso) con un revirement di Vivante che, sulla scorta di una riflessione trentennale e dell'esperienza acquisita nelle commissioni governative formate per la riforma del codice di commercio, si convinse anch'egli che "la fusione fra i due codici avrebbe recato un grave pregiudizio al progresso del diritto commerciale"[20].

Riesaminata a distanza di tanto tempo, quella discussione acquista un significato più profondo di quello che può risultare da una lettura esteriore del contenuto della polemica e degli argomenti addotti dalle parti.

Il programma del giovane Vivante era molto ambizioso[21]. Da un lato egli vedeva, nell'unificazione dei codici, la possibilità di emancipare la disciplina di diverse parti del diritto commerciale dal condizionamento, talora iniquo, degli usi e della stessa tradizione; in altre parole, la possibilità di realizzare un migliore equilibrio fra gli interessi delle imprese (i "commercianti") e quelli dei lavoratori e dei consumatori. Dall'altro, egli vedeva nell'unificazione dei codici la premessa per l'unificazione dei metodi di studio del diritto privato, in una sintesi in cui la metodologica giuscommercialistica, della cui superiorità egli era certamente convinto, si sarebbe affermata come metodologia generalmente accettata in tutto il campo del diritto privato[22] (c'era già, in altri termini, l'ambizioso programma di "commercializzazione del diritto privato", di cui tanto si parlerà, anni dopo, a seguito dell'unificazione dei codici nel 1942).

Le ragioni degli oppositori erano soprattutto di carattere pragmatico: ad essi la proposta di Vivante appariva come una fuga in avanti; erano invece convinti che l'unificazione avrebbe portato alla prevalenza di rigide norme di stampo civilistico e all'egemonia dei metodi formalistici del diritto civile anche nello studio dottrinale delle materie di diritto commerciale.

In sostanza, la disputa nascondeva due diverse strategie di espansione del diritto commerciale e della relativa dottrina: per i fautori dell'unificazione, i tempi erano maturi per affermare il primato delle regole e dei metodi del diritto commerciale; per i contrari, l'autonomia legislativa costituiva ancora, e avrebbe continuato a costituire per parecchio tempo, il necessario riparo per consentire alle norme e ai metodi del diritto commerciale di svilupparsi, senza il condizionamento che sarebbe potuto derivare dalla necessità di inquadrare ogni soluzione in regole più ampie di diritto comune; e di svilupparsi autonomamente non solo sul piano dei contenuti, ma anche su quello di continuo contatto con una prospettiva "internazionale", o comunque meno legata ai confini territoriali del diritto statale nazionale, nello studio della materia[23].

La "conversione" dello stesso Vivante a favore della tesi della dualità dei codici è un segno importante della maggiore ragionevolezza, almeno a quel tempo e sul piano strategico, delle opinioni contrarie all'unificazione.

E' notevole peraltro segnalare che, nel dibattito sull'unificazione dei codici, si dava comunque per scontato il superamento della giurisdizione speciale per le materie commerciali.  I Tribunali di commercio furono aboliti nel 1888, quando erano ormai visti, dalla classe dirigente liberale (anche nella sua componente che esprimeva la cultura giuridica), come un residuo di tradizioni localistiche e corporative (gran parte dei giudici erano esperti non togati)[24]; una sopravvivenza che intaccava i principi del primato della legge e dell'unità della giurisdizione. La giurisdizione speciale era vista, dalla stessa dottrina commercialistica, come un residuo di un passato in cui il diritto commerciale era relegato in una dimensione "praticistica", piuttosto che come uno strumento organizzativo potenzialmente decisivo ai fini dell'affermazione di nuove regole e principi[25].

Il fatto che poi la stessa unificazione dei codici sia avvenuta, per una decisione politica avulsa dal dibattito dottrinale sul punto (che, nel 1942, vedeva del tutto minoritaria la tesi dell'unificazione), ma che, una volta avvenuta, sia stata mantenuta con un consenso quasi generale (v.infra,§ 5) conferma che tutta la discussione precedente non coinvolgeva vere ragioni di principio, né vere difficoltà di carattere strutturale (cioè inerenti alla struttura da dare ai testi legislativi). Il problema era (e sarà: l'unificazione del 1942 fornirà un test sperimentale sulla validità delle tesi che si erano battute nei due campi nel mezzo secolo precedente [v.infra,§ 5]) quello della scelta della via migliore per la modernizzazione del diritto privato, nonché del peso relativo di diverse tradizioni culturali e accademiche.


3. La sintesi giuspositivistica e statalistica (Alfredo Rocco).

La chiusura (provvisoria) del dibattito sull'unificazione dei codici e sull'unità del diritto privato si accompagna, sulla soglia degli anni '30, ad una sistemazione dottrinale di sintesi che segna l'inizio della seconda fase del diritto commerciale contemporaneo in Italia. L'autore, a cui si deve questa sintesi e che pose le basi fondative di questa seconda, lunga stagione, è stato Alfredo Rocco[26]. Il contributo storico di questo a. è assai importante perché egli rappresentò il punto di consolidazione e di chiusura della prima stagione della dottrina giuscommercialistica nell'Italia postrisorgimentale.

Nella prospettiva disegnata da Rocco, il monopolio statale nella definizione delle fonti di diritto non è più messo in discussione. Diritto civile e diritto commerciale appaiono dunque accomunati come due materie differenti e complementari, nell'ambito di un diritto statale unitario. Tuttavia, l'autonomia del diritto commerciale viene riaffermata sul piano del metodo.

In particolare, Rocco affermava che "Lo studio scientifico del diritto commerciale implica quattro ordini di ricerche:

1°) lo studiotecnico ed economicodei rapporti sociali regolati dal diritto commerciale;

2°) lo studiostorico-comparativo…per nessun altro ramo del diritto, l'uso del metodo storico-comparativo è più interessante e proficuo..;

3°) lo studioesegeticodelle norme del diritto commerciale positivo italiano;

4°) lo studiosistematicodei principî del diritto commerciale italiano, del loro coordinamento con le norme e i principi generali del diritto civile e coi principî generali del diritto positivo italiano. (…)".

Il metodo del diritto commerciale era dunque incanalato sul terreno dell'ortodossia (esegesi dei testi normativi e successiva sistemazione dogmatica). Contemporaneamente, era però rivendicata una peculiarità metodologica consistente nella riaffermazione della necessità di un previo studio tecnico-economico della materia studiata e della valorizzazione del metodo storico-comparatistico.

Una volta accettata questa impostazione "normalizzatrice", il successivo passaggio era però quello di valorizzare la capacità espansiva di un diritto commerciale, pur così normalizzato: "Chiamiamo ricerca sistematica o dogmatica quella che si propone di colmare le lacune della legge, desumendo, mediante il processo della estensione analogica, dalle norme scritte altre norme più generali non scritte, e stabilendo così principî e regole generali….. il commercialista deve non solo assumere la veste del civilista, ma ha spesso bisogno di andare più in là di quanto non andrebbe lo stesso civilista… il codice civile del 1865 rispecchia condizioni di vita quasi arcaiche… quanto più grande è il distacco tra le norme scritte e i rapporti che esse devono regolare… tanto più necessario diventa allargare l'indagine, fino a trovare principî e regole così generali, da servire anche per i casi non regolati… Il commercialista dunque deve, mediante un paziente lavorìo di induzione, guadagnare concetti e norme generali, non solo nel campo del diritto commerciale propriamente detto, ma anche in quello del diritto civile e giungere perfino alla determinazione di principî generalissimi, comuni a tutto il sistema del diritto".

            Questa sintesi, rigorosamente giuspositivistica, era destinata ad avere successo e a divenire senso comune fra i giuristi, e in particolare fra i giuscommercialisti[27]: essa dava una piena legittimazione di scientificità "normale" al lavoro da essi svolto (con ciò superando definitivamente l'antica accusa di empirismo specialistico), senza però mortificarne l'orgoglio disciplinare, perché continuava ad attribuire al diritto commerciale quel ruolo di "pioniere" del diritto privato, che con entusiasmo era stato tradizionalmente rivendicato, in mille occasioni.

            In questa sintesi l'autonomia scientifica del diritto commerciale era fondata su un metodo (che era, per questo profilo, ancora quello tradizionale dell'età vivantiana) caratterizzato dall'attento studio socio-economico della materia studiata e dall'altrettanto attento studio storico-comparatistico, inteso come strumento di ricerca delle soluzioni più efficienti, sia per il loro contenuto sia per i vantaggi (che oggi descriveremmo in termini di risparmio di costi transattivi) che possono venire dall'adozione di soluzioni tendenzialmente uniformi sul piano internazionale.

            Questa rivendicazione dell'autonomia del metodo del diritto commerciale rimarrà nella tradizione disciplinare, anche se non sarà più teorizzata con convinzione, sopravvivendo quasi come un fiume carsico che riemerge talora, anche a distanza di molto tempo[28].

In sintesi, può dirsi che, per molti cultori della materia, questa ricostruzione dell'autonomia fu uno strumento culturale debole, che non riuscì a conservare un atteggiamento di effettiva autonomia, e tanto meno un programma di egemonia culturale.


4. 4. Gli anni ’30: l’incontro con il diritto corporativo e le altre spinte modernizzatrici.

Le potenzialità di sviluppo autonomo della metodologia giuscommercialistica, pur astrattamente ancora presenti nella sistemazione di A. Rocco, non corrisposero, come si è detto, all'effettiva costruzione di un orientamento dottrinale atto a sfruttarle. In altri termini, gli elementi unificanti, presenti nella sistemazione rocchiana, tendevano a prevalere sugli elementi di autonomia: la dottrina giuscommercialistica tendeva così ad omologarsi a quella civilistica, in un momento storico in cui quest'ultima, peraltro, era prevalentemente ferma ad un metodo dogmatico concettualistico.

Singolarmente, la denunzia forse più appassionata di questa involuzione della dottrina del diritto commerciale si legge nello scritto di un civilista (di grande ingegno): Enrico Finzi[29]. Parlando del diritto commerciale dei suoi tempi, Finzi scriveva: "la codificazione lo ha cristallizzato, e la sistematica lo ha ricondotto verso la grande corrente del diritto civile, nella quale sta già per confluire… La dogmatica.. ne ha precluso ogni forza di espansione dottrinale.. i giuristi.. non hanno saputo fare di meglio che comporlo ordinatamente nel sistema del diritto civile: quasi in una tomba…".

La potenza letteraria di queste frasi segnala un sentimento profondo di delusione: il programma di modernizzazione del diritto privato, che l'ottimismo postrisorgimentale vivantiano affidava ad un protagonismo dottrinale complementare ad un illuminato riformismo legislativo, appariva fallito[30].

Nell'Italia degli anni '30, che sentiva anche lo sconvolgimento provocato dalla crisi economica mondiale, una nuova generazione di giuristi guardò allora a nuovi programmi di modernizzazione del diritto, diversi da quello vivantiano; in questa prospettiva, un diritto commerciale rinnovato apparve a molti la necessaria base per questa modernizzazione, che avrebbe dovuto investire parallelamente il sistema economico e quello giuridico.

Questo programma di rinnovamento si incentrò su due idee-forza[31]:

(i)    quella per cui il diritto commerciale doveva abbandonare l'impostazione individualistica, incentrata sull'atto di scambio, e porre invece come elemento centrale di una moderna disciplina delle attività economiche la figura dell'impresa, concepita come organizzazione produttiva stabile[32];

(ii)  quella per cui il diritto commerciale doveva prendere atto del superamento storico dell'impostazione economica liberista e della correlativa visione di un'economia di mercato in cui lo Stato fosse solo arbitro neutrale, ed accettare invece l'idea di un'economia diretta e controllata dallo Stato, con una tendenziale funzionalizzazione dell'impresa privata.

Questa seconda idea, che in Germania era già maturata da diversi anni, con la teorizzazione dell'autonomia disciplinare del Wirtschaftsrecht (da parte di J.W. Hedemann e altri), nell'Italia fascista degli anni '30 si incentrava sulla scoperta e sulla valorizzazione  del diritto corporativo e portava a concepire un programma di costruzione del nuovo diritto commerciale incentrato sulla figura giuridica dell'impresa e su uno stretto intreccio fra diritto privato e diritto amministrativo[33].

Nell'ambito di questo filone di pensiero, insieme innovatore (per quanto riguarda i metodi) e ortodosso (per quanto riguarda l'adesione convinta al regime corporativo e allo statalismo dominante nell'ideologia del regime), i fermenti dottrinali degli anni '30 vedono emergere - con caratteristiche individuali proprie - anche la personalità forte ed eccentrica di Lorenzo Mossa: questi non si pone ufficialmente come oppositore del regime[34], ma contemporaneamente costruisce una sua visione del diritto commerciale, incentrata sull'idea di impresa e caratterizzata dall'idealizzazione della continuità storica della dottrina giuscommercialistica. In questa visione viene ricuperato - in controtendenza con il giuspositivismo statatalistico - il pluralismo delle fonti, colorato di forti spunti giusliberistici e, contemporaneamente, si esprime un forte impegno sociale (soprattutto a favore di lavoratori e consumatori), erede del vecchio socialismo giuridico[35]. A questa impostazione metodica, molto distante dagli orientamenti correnti della dottrina civilistica del tempo, viene anche dato il nome di "metodo dell'economia". In questa impostazione, la centralità dell'impresa (intesa come organizzazione produttiva stabile) era intesa in senso più forte di quanto poi sia accaduto con il codice del 1942, in quanto essa si estendeva fino allo studio dell'impresa come "comunità di lavoro", allargando l'ambito della disciplina giuscommercialistica fino alla materia del diritto del lavoro (i cui rapporti si proponeva di sottrarre all'inquadramento civilistico tradizionale della locatio operis)[36].

Le idee di Mossa, spesso acute e brillanti[37], si inserivano tuttavia in una discutibile visione "continuistica" del diritto commerciale, che idealizzava una "genuina" scienza giuscommercialistica, sempre uguale a sé stessa ed autosufficiente (e quindi non bisognosa di fusioni con il diritto civile). In questo senso la posizione di Mossa era, peraltro, molto distante da quella vivantiana, che invece propugnava un assiduo dialogo con il diritto civile. Il programma culturale di Mossa finiva invece per essere non tanto un programma di egemonia, ma la premessa di un isolamento, che poi caratterizzò sempre più la posizione di questo studioso, negli anni successivi alla codificazione del 1942[38].

Gli anni '30 vedono anche emergere un'altra grande personalità di studioso del diritto commerciale: Tullio Ascarelli. Questi, fin dai primissimi studi, aveva manifestato una spiccata sensibilità per i problemi giusfilosofici e metodologici, mai disgiunta dalla volontà di mantenere una forte identità di giurista positivo, nonché, in particolare, dalla volontà di affermare la propria continuità con la tradizione giuscommercialistica e, in particolare, con l'insegnamento di Vivante[39]. Ascarelli è il primo giuscommercialista che supera, in relazione al problema del metodo, l'atteggiamento sostanzialmente autoreferenziale della tradizione disciplinare, e si inserisce, con piena dignità, nel dibattito metodologico generale (per di più, con una forte proiezione internazionale).

Il punto di maturazione della metodologia ascarelliana, che poi accompagnerà stabilmente la sua opera successiva, si esprime nella prolusione parmense del 1933[40]. Qui compare già, in termini abbastanza chiari, il tema, fondamentale in A., della inevitabile autonomia del giurista-interprete, a cui consegue la teorizzazione del ruolo del giurista positivo come soggetto che può e deve cooperare allo sviluppo del diritto attraverso l'esercizio responsabile della funzione creativa insita in ogni attività giurisprudenziale. Si propone quindi un modello di giurisprudenza portatrice di propri giudizi di valore e consapevole del proprio ruolo e della propria responsabilità; un modello inconciliabile con quello proprio della metodologia ortodossa del tempo, ancorata all'idea della funzione puramente conoscitiva dell'interpretazione[41]. Della metodologia ortodossa A. rifiuta già allora i due canoni fondamentali: la necessità del rispetto puntuale della volontà del legislatore (anche se, nella metodologia ortodossa, di solito oggettivizzato e spersonalizzato)[42] e il culto del sistema dei concetti giuridici, a cui era attribuito un significato ontologico. Per di più, lo scritto introduce un parallelo - che sarà poi riproposto e sviluppato negli scritti successivi - tra formalismo interpretativo e conservatorismo politico.

Questo scritto proponeva una programma di rinnovamento della dottrina giuridica italiana, che riguardava certo il diritto commerciale, ma che, altrettanto certamente, non si limitava entro i confini disciplinari di questa materia. Il programma vivantiano di egemonia era in certo senso ripreso, ma in una prospettiva culturale più ampia, ed anche più ambiziosa[43].

Com'è noto, le leggi razziali imposero ad Ascarelli di abbandonare, pochi anni dopo (nel 1938), l'Italia. Perciò egli non potè essere protagonista di quella svolta storica che fu rappresentata, subito dopo il suo esilio, dall'unificazione dei codici; anche se, tornato in Italia una decina di anni dopo, divenne immediatamente protagonista del dibattito degli anni '50 (v.infra,§ 6).


5. L’unificazione dei codici e la costruzione di una nuova sintesi “ortodossa”.

Com'è noto, l'unificazione dei codici fu il risultato di una scelta politico-ideologica di vertice, volta ad affermare il ruolo onnicomprensivo dello Stato e dell'ordinamento corporativo[44]. Essa non corrispondeva ai programmi culturali della dottrina giuscommercialistica dell'epoca, che era invece ferma all'idea di una specialità largamente rispettata e normalizzata, garanzia di una riconosciuta autonomia scientifica ed accademica. E' noto, peraltro, che contenuti normativi speciali, relativi all'impresa e all'impresa commerciale in particolare, furono mantenuti nel codice civile unificato, così ponendo le premesse per la conservazione, anche in futuro, di quell'autonomia scientifica ed accademica.

Il dibattito sull'unificazione dei codici fu vivace, immediatamente dopo la caduta del fascismo, e vide intrecciarsi il tema dell'autonomia del diritto commerciale rispetto al diritto civile con il tema della reazione all'unificazione forzata dai codici, voluta dal regime fascista. Quest'ultimo tema si svuotò ben presto di interesse, con l'affermarsi della convinzione che, tolti pochi orpelli di carattere politico, il codice civile del 1942 potesse essere pienamente accettato dall'Italia repubblicana[45]. L'idea di un ritorno alla separazione fra codice civile e codice di commercio rimase così del tutto marginale.

Il dibattito si incentrò, invece, sull'autonomia "giuridica" e "scientifica" del diritto commerciale. Parecchi giuscommercialisti (p.e. Mossa, Valeri, La Lumia) affermarono che l'unificazione dei testi normativi non faceva venir meno un'autonomia di contenuti (per Mossa, anche di principi e di metodi), del diritto commerciale. Ma l'idea apparve ai più (certamente ai giuscivilisti, ma anche alla maggioranza dei giuscommercialisti[46]) antiquata: l'unificazione dei codici appariva piuttosto come un fatto storico irreversibile, che comportava anche la necessità, per giuscivilisti e giuscommercialisti, di riconoscersi come impegnati in un lavoro comune di costruzione del nuovo diritto privato[47], in cui non potevano più riconoscersi principi e metodi diversi fra le due discipline. La sola autonomia riconosciuta al diritto commerciale era quella didattica.

Credo che il sentimento prevalente sia stato espresso, meglio di ogni altro, da Giuseppe Ferri[48], il quale osservò che:

(i)                 l'unificazione dei codici doveva ormai essere vista come un fatto compiuto, ed anche positivamente accettata per alcune modifiche normative che modernizzavano il sistema delle norme di diritto privato (la c.d. "commercializzazione del diritto privato");

(ii)               l'unificazione non faceva tuttavia cessare l'autonomia scientifica della disciplina; anzi, essendo l'unificazione spesso avvenuta in modo artificioso, trascurando le differenze socioeconomiche (soprattutto per ciò che riguarda il tema centrale, costituito dalla disciplina dell'impresa), era compito della dottrina fare riemergere le differenze trascurate dal legislatore e costruire, in via interpretativa, soluzioni più adeguate alla realtà socioeconomica sottostante[49].

Nel programma culturale così delineato, il compito della dottrina giuscommercialistica, ancorché delimitato nel campo di un'autonomia scientifica e didattica, che non rivendicava diversità di principi e di metodi rispetto al diritto civile, rimaneva importante, e non certo confinato alla sola esegesi delle disposizioni del nuovo codice.

Questo programma poteva essere, peraltro, inteso in due modi diversi (e diversamente ambiziosi): da un lato era latente l'idea che la "commercializzazione del diritto privato", derivante dall'unificazione dei codici, non dovesse limitarsi al livello dei testi normativi, ma dovesse portare alla costruzione di una vera e propria comunità dottrinale del diritto privato, in cui i giuscommercialisti avrebbero accettato di perdere parte del loro tradizionale specialismo, per divenire giuristi "generalisti", investiti del ruolo di parte più moderna e propulsiva della dottrina giusprivatisica[50]; dall'altro, la "commercializzazione del diritto privato" poteva essere intesa come semplice aumento del peso relativo delle norme di origine commercialistica, nell'ambito complessivo del diritto privato unificato, ferma restando poi la differenza dell'ambito di competenze di diritto civile e commerciale e la conseguente concezione del diritto commerciale come grande disciplina specialistica, all'interno del diritto privato[51], senza pretese generalizzanti.

Nei decenni successivi, la dottrina giuscommercialistica si è mossa tra questi due poli, ma con una progressiva tendenza alla prevalenza del secondo (v.infra,§ 7).


6. Gli anni ’50: il contrasto fra Tullio Ascarelli e Walter Bigiavi.

Ha scritto elegantemente Natalino Irti che "All'inizio degli anni Cinquanta.. il diritto civile se ne stava in disparte, orgoglioso della propria tecnica e del proprio ingenuo positivismo"[52]. In effetti, dietro questo atteggiamento stava una lunga storia, che occupa circa un secolo di cultura giuridica europea (1850-1950, orientativamente), in cui la dottrina del diritto romano-civile si era mossa nell'orgogliosa certezza del proprio primato culturale, maturato nella vita accademica dei secoli precedenti e rafforzato dal mito ottocentesco della "scientificità" della dottrina giuridica. Nella visione del diritto che sta alla base della dottrina civilistica di questo periodo, la centralità dell'oggetto di studio non sta nella realtà socioeconomica da regolare (come era stato nella tradizione metodica del diritto commerciale), ma nella centralità del testo normativo, che continua ad essere concepito, sostanzialmente, come ratio scripta. Questo ruolo trasmigra, nel tempo e nelle diverse esperienze storiche, dal Corpus Juris al codice civile, ma la centralità del testo (fortemente vissuta in analogia, più o meno consapevole, con le dottrine teologiche della "civiltà del libro"[53] cristiana) rimane. A questa impostazione di base si aggiunge la forte convinzione di potere tradurre tutto il diritto in un sistema concettuale coerente, idoneo a rivelarne l'intima struttura: il compito della dottrina giuridica non è piùars boni et aequima scienza, in senso forte.

Questo programma scientifico richiedeva peraltro, come presupposto ideale, una visione generale del mondo, e questa fu facilmente rinvenuta nell'individualismo proprietario, che aveva radici romanistiche ma rispondeva anche alla cultura dominante dell'Ottocento liberale: il diritto privato era concepito come un insieme di regole di coesistenza fra individui, titolari di diritti soggettivi e portatori di libere volontà; il contratto, come incontro di volontà fra individui volto allo scambio di beni e servizi, era il fulcro della dinamica giuridica.

La grande esperienza dottrinale del diritto civile otto-novecentesco era, in realtà, minata da una profonda incoerenza: la pretesa scienza giuridica affermava contemporaneamente la propria fedeltà alla legge e una parallela fedeltà al sistema concettuale, cioè alla "dogmatica", che era concepita come insieme di concetti generali, scientificamente "costruiti" mediante operazioni logiche, ma aspiranti allo statuto logico di definizioni reali. L'ambivalenza dell'idea di "codice", che era vissuta insieme come simbolo dell'unità nazionale e come carta fondamentale, in cui erano depositati norme e concetti fondamentali scientificamente selezionati, teneva insieme questa costruzione culturale.

Questo "statuto epistemologico" della giuscivilistica ne svelava una intrinseca debolezza, che avrebbe potuto portare al risultato di una marginalizzazione culturale, rispetto agli sviluppi del diritto applicato (come è avvenuto, nell'ultimo mezzo secolo, con il diritto romano).

Tutto ciò non è avvenuto: come si tornerà a dire più avanti, la dottrina civilistica si è affrancata dal rischio di chiudersi nel concettualismo e ha fatto tesoro della sua "cultura generale", riuscendo a rinnovare temi e metodi, e mostrando una notevole vitalità, accompagnata però da uno spinto eclettismo. 

Se però si torna al clima culturale degli anni Cinquanta del secolo scorso, si nota ancora, nella dottrina giuscommercialistica italiana, un'idea forte di superiorità metodologica, o almeno di maggiore modernità, rispetto alla dottrina giuscivilistica. In quella stessa fase storica, la dottrina giuscommercialistica italiana fu dominata da due grandi personalità, Tullio Ascarelli e Walter Bigiavi, in contrasto fra loro ma protagonisti sul fronte più avanzato della riflessione metodologica; quel contrasto certamente esprimeva il forte impegno "generalista" della dottrina giuscommercialistica del tempo (che, almeno per Bigiavi, si tradusse anche in una posizione di centralità nel mondo accademico, in ambedue i campi disciplinari).

Tullio Ascarelli aveva maturato, negli anni dell'esilio, a contatto con ordinamenti e culture diverse, le sue idee di fondo sul ruolo del giurista[54]. Egli confermava l'idea del ruolo creativo dell'attività giurisprudenziale e sottolineava, insieme con il carattere strumentale e storicamente relativo delle categorie dogmatiche, la fecondità delle stesse sul piano dello sviluppo del diritto: da qui la sottolineatura della responsabilità dell'interprete nella scelta dei dati posti a base delle costruzioni dogmatiche, in quanto strumenti fondamentali del successivo sviluppo del diritto[55].

Questa impostazione teorica si inquadrava in una visione del mondo sostanzialmente ottimistica e progressista: al fondo della stessa c'era la fiducia in un programma di sviluppo moderato e costante dell'ordine sociale, in cui i giuristi erano chiamati a svolgere un ruolo responsabilmente attivo. Questo modello ideale fu messo a dura prova, per Ascarelli, con il suo ritorno in Italia[56]. Negli scritti dell'ultimo decennio di vita è trasparente la delusione in lui suscitata da una dottrina giuridica che, di fronte ad una nuova Costituzione e ad un nuovo ordine politico democratico, appariva come chiusa in se stessa, teorizzava il disimpegno politico del giurista, mostrava scarso interesse perfino per l'esame della realtà economica sottostante alle elaborazioni dei giuristi (quello che era stato un punto d'onore della metodologia giuscommercialistica delle generazioni precedenti) e si chiudeva in una sterile alternativa fra la mera esegesi dei testi di legge e l'esercitazione virtuosistica sugli strumenti concettuali ricevuti dalla tradizione.

Di fronte a questa situazione, la reazione di Ascarelli non fu di chiusura pessimistica: egli avvertiva un isolamento culturale, ma reagì a questa situazione con una produzione scientifica quantitativamente enorme, spesso disorganica e ripetitiva, ma ravvivata da un grande spessore culturale e da un altrettanto grande impegno civile (abbinamento che la rendeva sempre affascinante): un punto centrale dell'insegnamento ascarelliano stava nell'esortazione ai giuristi di rendersi consapevoli dei propri giudizi di valore e di esplicitarli nei propri ragionamenti esegetici e nelle proprie costruzioni dogmatiche.

Le idee di Ascarelli divennero un passaggio obbligato nella riflessione metodologica di tutti i giusprivatisti italiani degli anni Cinquanta. Rispetto ed attenzione furono generali, ma la reazione prevalente fu, probabilmente, di diffidenza verso un insegnamento che (in parte riprendendo temi delMethodenstreittedesco di mezzo secolo prima) metteva in discussione la "scientificità" della giurisprudenza e ne evidenziava l'intrinseca "politicità". Per molti giuristi, l'accento portato sulla creatività della giurisprudenza poneva le basi per un movimento centrifugo, che avrebbe minato la certezza del diritto e sminuito il ruolo della dottrina giuridica.

Bigiavi condivideva questa diffidenza e propugnava un metodo incentrato sul rigore esegetico e su costruzioni concettuali molto vigilate, stigmatizzando la "solita contrapposizione della sintesi all'analisi, sulla quale fanno leva ad ogni piè sospinto coloro che non hanno voglia o pazienza o capacità o tempo di fare dell'analisi sul serio, senza la quale non v'è scienza degna di tal nome"[57].Questo appello al rigore nell'analisi esegetica e nella costruzione sistematica si accompagnava ad una concezione altamente meritocratica del lavoro intellettuale accademico, che si traduceva anche nelle severissime recensioni pubblicate sulle riviste da lui dirette e in un impegno accademico assiduo ed efficace nelle vicende della selezione (allora molto elitaria) dei nuovi docenti di diritto civile e di diritto commerciale.

In coerenza con questo programma, Bigiavi polemizzò con Ascarelli solo su temi di diritto positivo più che sul terreno generale del metodo; per contro, Ascarelli allargò talora la prospettiva[58], anche se fu quasi riluttante a polemizzare direttamente con Bigiavi.

In realtà, non erano pochi i punti che accomunavano i due grandi giuristi: una visione ampia e "generalista" del diritto privato (caratterizzata dal superamento degli steccati fra diritto civile e diritto commerciale); il rifiuto di una concezione "ontologica" delle costruzioni dogmatiche e la conseguente concezione delle categorie giuridiche come sintesi comunicative di dati normativi ricostruiti mediante l'interpretazione; un'idea dello sviluppo del diritto che credeva nella centralità del ruolo della dottrina giuridica, più che nella capacità creativa della giurisprudenza[59]; la proposizione di standard molto alti per la produzione dottrinale giuridica[60]. Probabilmente, è anche corretto affermare che i due erano molto vicini pure sul terreno politico-ideologico, accomunati dall'adesione ai "principi del radicalismo politico liberale"[61].

Le divergenze si incentravano sulla teoria dell'interpretazione, che rimaneva un processo cognitivo per Bigiavi, mentre era inevitabilmente creativa per Ascarelli. Sotto questo profilo, la superiorità teorica di Ascarelli appare oggi indiscutibile. Non si deve però pensare che la contrapposizione fosse fra un atteggiamento "conservatore" ed uno "progressista": sul piano delle soluzioni interpretative affermate, Bigiavi, nella polemica sull'imprenditore occulto, sosteneva tesi più moderne e "giuste"; ed Ascarelli fu, anche in altri campi (se pur non in tutti), un giurista "conservatore", poco incline a rompere soluzioni interpretative "consolidate" e prudente anche nelle proposte de iure condendo[62].


7. Dagli anni ’60 in poi: la tendenziale chiusura specialistica del diritto commerciale.

Ascarelli scomparve prematuramente, nel 1959; lo stesso accadde, non molti anni dopo (1968) per Bigiavi. In quello stesso torno di tempo si trasformava radicalmente il mondo culturale in cui essi si erano formati: l'organizzazione del mondo accademico perdeva il carattere elitario che l'aveva caratterizzata per circa un secolo (la libera docenza, il concorso a cattedra periodico con la terna, etc.) e si "democratizzava"; la legislazione - con l'avvio di un processo che, dopo di allora, è continuato senza sosta[63] - era sconvolta da continue novità, con conseguente perdita di centralità del codice civile; si riconosceva sempre più un ruolo centrale alla giurisprudenza, rispetto alla dottrina, nella formazione del diritto.

In tale contesto, il messaggio di Ascarelli e Bigiavi era rapidamente abbandonato. Credo che la generazione successiva della dottrina giuscommercialistica abbia avvertito come un peso insostenibile quel modello altissimo di giurista colto che i due autori - pur con linee non coincidenti - proponevano, ed abbia posto a sé obiettivi meno ambiziosi, abbandonando, fra l'altro, l'idea di potere svolgere un ruolo egemonico nell'ambito degli studi privatistici[64]. Peraltro, l'urgenza degli impegni professionali e delle riforme legislative imposte dalle direttive comunitarie, nonché la continua necessità di aggiornamento sui singoli temi alla luce dei dibattiti, soprattutto di matrice americana, spingevano la dottrina giuscommercialistica a chiudersi soddisfatta nei confini di uno specialismo di alto livello, senza più pretese di proporre metodi e modelli ad altri campi del diritto, e al diritto civile in particolare[65].

Contemporaneamente, il diritto civile italiano, che negli anni Cinquanta era - secondo la descrizione di Irti, sopra ricordata - appartato e fermo al passato, inizia ad essere percorso da fermenti innovatori della più diversa natura. Nel campo della dottrina giuscivilistica si propongono nuovi "paradigmi": l'impiego della filosofia analitica, di cui fu protagonista lo stesso Irti;  la "invenzione" dell'analisi economica del diritto da parte di Pietro Trimarchi (1961); la valorizzazione dello studio della realtà sociale e della storia delle idee, come base per le costruzioni giuridiche (Rescigno); l'affermazione di un "principio di effettività" come fondamento della norma di diritto positivo (Bianca, 1969; tesi che precorre la "riscoperta" della giurisprudenza come fonte di diritto, che avrà diversi sviluppi negli anni seguenti); la valorizzazione dei principi costituzionali e poi, più in generale, dell'argomentazione per principi e delle clausole generali (Rodotà, dal 1964 in poi; successivamente, in una versione ancorata soprattutto alla valorizzazione dei principi costituzionali, Perlingieri); la valorizzazione della filosofia ermeneutica (Mengoni, 1976); infine, l'irruzione del marxismo e delle diverse aspirazioni ad un "uso alternativo del diritto", per fini di giustizia distributiva, di realizzazione del principio di eguaglianza sostanziale e perfino di transizione al socialismo (Pietro Barcellona e altri, soprattutto negli anni Settanta[66]).

Queste diverse proposte hanno dato luogo a spinte differenziate e non sono state sistemate in una nuova sintesi, generalmente accettata, né hanno portato ad un innalzamento generale della qualità della produzione dottrinale civilistica. Tuttavia, è innegabile che esse denotano una notevole vivacità culturale, che ha fatto sì che la successiva dottrina giuscivilistica si sia trovata sempre in prima linea nell'affrontare con impegno le novità legislative e giurisprudenziali, anche quando queste riguardavano temi che, in passato, si sarebbero fatti rientrare nella materia giuscommercialistica (p.e. la disciplina antitrust, l'abuso di dipendenza economica, le pratiche commerciali scorrette).

Ciò ha posto le premesse per un rinnovato orgoglio disciplinare della dottrina civilistica[67], che contemporaneamente, con l'opera di Rodolfo Sacco, conquistava un duraturo primato, rispetto alla dottrina giuscommercialistica, nell'ambito degli studi di diritto privato comparato.

Al confronto, la dottrina giuscommercialistica sembra accogliere tali novità di rimbalzo, e senza duratura incidenza sui propri metodi. Gli spunti che vengono dall'ambiente culturale circostante danno luogo ad interventi di grande interesse, ma piuttosto isolati[68]. Anche l'attenzione per l'analisi economica del diritto (che pur darà luogo a contributi interessanti, soprattutto in materia societaria e fallimentare) è piuttosto ritardata[69], e inficiata da qualche equivoco[70].

Un impatto maggiore ebbe, sulla dottrina giuscommercialistica, la ventata marxista degli anni Settanta[71]. Fra i protagonisti di questo passaggio culturale vi furono esponenti prestigiosi della dottrina giuscommercialistica, come Gastone Cottino e Franco Galgano. Quest'ultimo, anzi, anche per la sua capacità di organizzatore culturale, divenne forse il punto di riferimento principale di tutta la dottrina giuridica privatistica "di sinistra". Nella sua opera il marxismo non solo era dichiaratamente professato come strumento di analisi delle vicende storiche della materia e dei conflitti d'interessi in atto[72], ma diveniva la base per un chiaro programma di politica del diritto, incentrato sull'idea del "governo democratico dell'economia"[73], che avrebbe dovuto investire tanto un profilo di democratizzazione dell'impresa, quanto uno di programmazione democratica dell'intero processo produttivo (idea, peraltro, presente in linea di principio nella legislazione di quei tempi).

Le idee di Galgano suscitarono un ampio dibattito, con diverse variazioni sul tema[74]. Non si può dire, però, che la dottrina giuscommercialisticamainstreamattribuisse ad esse un peso centrale. Anzi, accadde che la polarizzazione in senso direttamente politico della riflessione del giurista, portasse la maggioranza dei cultori della materia ad astenersi da ogni digressione rispetto al "normale" lavoro esegetico-sistematico sui singoli temi trattati, e così ad accentuare la tendenza specialistica, già prevalente nell'esperienza disciplinare.

Un punto di svolta, all'inizio degli anni Ottanta, in concomitanza con l'avvio della rivoluzione neoliberistica nella politica mondiale e nella cultura economica e giuridica, fu costituito dal fatto che Galgano stesso considerò superata l'ideologia del governo democratico dell'economia, modificando radicalmente il proprio programma culturale (e pur rimanendo protagonista del dibattito: v.infra,§  8.3).

In quel momento la svolta della dottrina giuscommercialistica verso un alto e dignitoso specialismo apparve a molti definitiva.

Di questo sentimento si fece interprete, in un lucidissimo intervento, Floriano d'Alessandro[75]. Egli osservò che l'idea di un'autonomia del diritto commerciale, come disciplina unitaria, era minata non solo dalla perdita di un referente normativo unitario (per via del processo di "decodificazione" in atto), ma anche da una scelta interna dei cultori della disciplina, che li portava sempre più a fermarsi su singoli aspetti della stessa (con un processo centrifugo che, partito dalla separazione del diritto marittimo, era proseguito con accentuate tendenze alla trattazione specialistica del diritto societario, di quello dei mercati finanziari, della proprietà industriale, etc.).

In questa situazione, veniva meno non soltanto la figura del cultore dell'intera disciplina, ma anche la possibilità stessa di tenere in vita quella costruzione identitaria forte della disciplina medesima, che in vario modo era stata un punto fermo nelle generazioni precedenti. Si chiudeva un ciclo, avviato nella seconda metà dell'Ottocento, e con esso l'idea di un diritto commerciale "pioniere" del diritto privato, nella costruzione di contenuti normativi e di metodi più moderni.

Suscita rammarico il rilevare che la sfida lanciata da d'Alessandro non abbia aperto, come invece meritava, un dibattito ampio. Le sue considerazioni mi paiono, per quanto riguarda la descrizione dei fenomeni in corso, difficilmente confutabili, anche a distanza di anni. Ciò non significa che esse giustifichino senz'altro una conclusione nel senso che nulla ci sia ormai da tenere vivo della tradizione culturale giuscommercialistica.

Peraltro, l'idea di una qualche autonomia del diritto commerciale, nel complesso della dottrina giuridica italiana, è rimasta ed è presente in diverse correnti di idee, su cui conviene ora soffermare l'attenzione, come momento finale della presente riflessione.


8. Dagli anni ’70 in poi: tentativi di ripresa e incertezze sull’autonomia del diritto commerciale.

Una sintesi delle riflessioni sul tema dell'autonomia del diritto commerciale nella dottrina italiana dell'ultimo (ormai non breve) periodo, può essere opportunamente preceduta da uno sguardo a come lo stesso tema è stato, nello stesso tempo, trattato nei paesi di cultura giuridica a noi più vicina. In proposito, mi sembra interessante notare che il dibattito in materia, che in Italia era stato vivacissimo fino all'unificazione, per poi declinare più di recente, ha avuto invece nello stesso periodo, all'estero, una certa ripresa di attenzione.

In estrema sintesi, mi sembra che le linee portanti della riflessione svoltasi fuori d'Italia siano due[76]:

(i)                 una linea (ben rappresentata soprattutto in Germania) tendente ad evidenziare la specialità contenutistica delle norme (qualificabili come) di diritto commerciale, rispetto alle norme di diritto privato generale, e quindi a mantenere in vita la dicotomia diritto civile / diritto commerciale come dato strutturale dell'attuale sistema normativo del diritto privato[77];

(ii)               una linea (nota come teoria della "nuova lex mercatoria") tendente ad evidenziare la peculiarità dei modi di formazione delle norme di diritto commerciale (spontaneità consuetudinaria, sovranazionalità), in linea con la tradizione originaria del diritto commerciale, che questa linea di pensiero tende a presentare come un modello ancora vitale, riproponendolo come il più efficiente per l'economia sviluppata e "globalizzata" contemporanea[78].

Ambedue queste correnti di pensiero sono state riprese, con varianti, nella dottrina giuscommercialistica italiana recente.

Talora il dibattito si è limitato all'obiettivo di delimitare nuovi confini razionali della disciplina, sulla base di meri criteri di specialità contenutistica[79]. Questo tipo di interventi mi sembra di relativo interesse; non perché una razionale distribuzione delle materie sia di scarso significato, per un'efficiente organizzazione della ricerca e della didattica, ma perché, su questa linea, l'esito più plausibile sembra essere proprio quello indicato da d'Alessandro (cioè la frammentazione specialistica di quella che, per generazioni, era stata invece una disciplina unitaria). In ogni caso, il criterio puramente contenutistico nulla ci dice su ciò che, eventualmente, potrebbe giustificare ancor oggi un'autonomia in senso forte, fondata su peculiari principi o metodi.

Sotto questo profilo si possono però richiamare alcune linee di pensiero, che hanno ravvivato il dibattito sul metodo nella dottrina giuscommercialistica italiana, su basi autonome (cioè non dipendenti dal contemporaneo dibattito civilistico), a cominciare dagli anni Settanta del secolo scorso.


8. 1 L’idea di autonomia normativa del diritto commerciale come diritto delle imprese e dei mercati.

Il primo filone di pensiero, in questa direzione, è quello che, sviluppando il criterio della specialità contenutistica, di cui si è detto poco fa, afferma che la specialità normativa dell'impresa costituisce una struttura portante (e latente) dell'ordinamento, anche dopo l'unificazione dei codici, per cui la sopravvivenza di norme speciali destinate all'attività d'impresa può essere ricostruita, in via interpretativa, anche in quelle materie in cui il legislatore non l'ha evidenziata ed ha invece dettato un testo normativo unitario. Può dunque giungersi ad interpretazioni differenziate di norme sui contratti o di norme sulla responsabilità, senza con questo necessariamente pretendere di sconvolgere il sistema delle fonti. L'idea è quella per cui l'interpretazione sistematica del diritto unificato deve tenere conto del fatto che l'impresa e l'individuo, nel sistema di principi e di valori presenti nell'ordinamento, hanno collocazioni diverse, sicché è legittimo attribuire allo stesso testo normativo valenze diverse a seconda che debba applicarsi, o meno, all'attività d'impresa o all'individuo.

Questo orientamento è stato chiamato, con espressione sgraziata ma efficace, della "ricommercializzazione" del diritto commerciale[80]. L'idea fondamentale è quella di attribuire all'autonomia normativa un valore non soltanto descrittivo di un insieme di disposizioni normative (come nelle opinioni sopra ricordate sub § 8), ma un vero e proprio valore "costruttivo": le norme del c.c., o altre norme generali, devono essere interpretate, ove occorra, in modo differenziato quando di esse siano destinatarie le imprese e quando invece ne siano destinatari individui proprietari non imprenditori. Il diritto commerciale è così configurato come "un diritto speciale in senso 'forte', che equivale a un diritto autonomo rispetto al diritto privato generale e dotato di propri principi, capaci di applicazione analogica"[81].

Viene così ripresa la vecchia idea dellavis expansivadelle norme di diritto commerciale e si propone un programma scientifico di costruzione di principi e norme propri del diritto dell'impresa. Punti di emergenza di questo programma sono la teoria dei contratti d'impresa, quella della responsabilità d'impresa, ma anche la stessa teoria dell'organizzazione d'impresa.

Nell'ultimo importante scritto metodologico sul tema dell'autonomia del diritto commerciale, Giuseppe Portale (che è stato, in certo senso, un primus inter pares nella disciplina accademica, nell'ultimo quarto di secolo), ha affermato orgogliosamente l'ormai maturato riconoscimento di un diritto dell'impresa come diritto speciale autonomo, nel sistema generale del diritto privato italiano[82].

Personalmente, pur essendo in sintonia con questo orientamento, non sono sicuro affatto che il programma di costruzione di un diritto dell'impresa, diverso dal diritto dell'individuo proprietario, sia un dato acquisito, nel diritto italiano applicato[83]. Per esempio, ancora troppe volte accade di vedere ragionare sulla "libertà contrattuale" dell'impresa (che è soltanto una modalità necessaria e quotidiana di articolare l'attività di produzione e offerta) allo stesso modo della libertà dell'individuo proprietario che, occasionalmente, dispone della sua casa o della sua auto o si associa etc. Così si continua spesso ad affermare l'eccezionalità dei limiti di legge alla libertà contrattuale dell'impresa, come se tale "libertà" fosse un valore in sé (come lo è la libertà dell'individuo di disporre dei propri beni personali), e non un semplice strumento dell'attività, da valutare in termini di efficienza produttiva ed allocativa e in termini di equità delle soluzioni[84].

Inoltre, credo che non si possa trascurare la circostanza che, anche sul piano delle prese di posizione dottrinali, la tesi della "autonomia del diritto dell'impresa" - nella formulazione sopra riassunta - non possa dirsi affatto unanimemente condivisa.

Si devono qui richiamare almeno due altri orientamenti dottrinali italiani, che, riflettendo sull'autonomia del diritto commerciale, si muovono in direzioni diverse (almeno in parte).


8. 2 La teorizzazione del diritto dell’impresa come “sistema ad attività”, contrapposto al “sistema a soggetto” (Ferro Luzzi).

Il primo di questi orientamenti si riconduce soprattutto all'opera di Paolo Ferro-Luzzi[85]. In questa linea di pensiero l'autonomia del diritto dell'impresa è riaffermata con forza (e questo è un punto di contatto con l'orientamento precedentemente ricordato), ed è poi enunciato un programma di contrapposizione radicale alla tradizionale dogmatica di stampo civilistico: si sostiene infatti che la comprensione del diritto dell'impresa richiede categorie concettuali completamente diverse da quelle ricevute dalla tradizione[86].
In questa prospettiva, si sottolinea che il sistema tradizionale del diritto civile, incentrato sulla figura del soggetto proprietario e quindi sulla catena concettuale soggetto / diritto soggettivo / oggetto del diritto (sul piano statico) e sulla catena concettuale atto (fattispecie) / effetto giuridico (sul piano dinamico), è inadeguato a comprendere la realtà giuridica dell'impresa. Questa, infatti, è essenzialmente un'attività organizzata: l'attività non si riduce ad una catena di atti di disposizione individuali, e l'organizzazione richiede regole oggettive, che prescindono dall'identità dei singoli soggetti impegnati nell'organizzazione stessa. Per comprendere il diritto dell'impresa occorre dunque costruire un sistema concettuale diverso da quello tradizionale a base proprietaria ("sistema a soggetto"); un diverso sistema che viene definito come "sistema ad attività"; un sistema concettuale, si aggiunge, che supera sia la prospettiva del "soggetto", sia quella della "fattispecie".
Questa proposta teorica ha incontrato molto interesse ed alcune piene adesioni[87]; nella letteratura più recente la coppia dogmatica ("sistema a soggetto" / "sistema ad attività") tende anzi a diventare luogo comune e ad essere utilizzata anche come argomento costruttivo[88].
Credo che questa dottrina abbia il merito di rafforzare, e rendere più suggestivo, con la forza dei concetti ("sistema ad attività"), quello stesso messaggio, fautore della costruzione di regole diverse per l'attività di impresa e, rispettivamente, per l'individuo proprietario, che è presente nelle dottrine "autonomistiche" sopra richiamate (§ 8.1).
Allo stesso tempo, questa dottrina non sembra però condivisibile quando si presenta come radicale novità sul piano sistematico e della ricostruzione normativa. Di per sé, una concezione del diritto commerciale incentrata sull'idea di impresa (intesa come organizzazione produttiva stabile) era presente nella storia del diritto commerciale già dai primi decenni del sec. XX, e l'introduzione di questo modello nel codice del 1942 "recava in sé un aspetto squisitamente funzionale; era, cioè, portatrice di poteri non collegabili alla volontà e agli interessi di un soggetto ma a esigenze oggettive dell'assetto economico"[89].
La valorizzazione dogmatica dell'impresa dovrebbe dunque essere semplicemente vista come sviluppo coerente di scelte presenti nella legislazione, accompagnato da una rinnovata analisi storico-sociologica della materia da ricostruire normativamente. La dottrina esaminata subisce invece la tentazione, propria della vecchia dogmatica concettualistica (che era stata, invece, rifiutata dalle riflessioni metodologiche dei giuscommercialisti italiani della generazione precedente), di formulare definizioni "reali" di "impresa" e di "sistema ad attività", con il rischio conseguente di rilegittimare argomentazioni di tipo concettualistico nei ragionamenti giuridici[90].
Depurata da queste superfetazioni concettuali, la dottrina di F.L. costituisce comunque un valido e importante richiamo all'esigenza di un'elaborazione autonoma delle norme del diritto dell'impresa, non condizionata dal paradigma dell'individuo proprietario (per ciò che riguarda l'attività), né da quello del contratto di scambio, per ciò che riguarda l'organizzazione dell'impresa. Le potenzialità "costruttive" di questa linea teorica sono, a mio avviso, notevoli, e dovrebbero esprimersi soprattutto nella utilizzazione, nella ricostruzione sistematica della disciplina dell'impresa (e soprattutto della grande impresa) di moduli normativi elaborati nel campo del diritto amministrativo (disciplina dei poteri funzionali, procedimento, discrezionalità, ecc.)[91].


8. 3 La riscoperta della “lex mercatoria” e di un sistema giuridico caratterizzato da elasticità delle fonti (Galgano).

Una terza linea di pensiero, che attraversa la dottrina giuscommercialistica dell'ultimo quarto di secolo, vede ancora come protagonista Franco Galgano, che, all'inizio degli anni Ottanta, abbandona il marxismo e riscopre la lex mercatoria e, con essa, una concezione del diritto come insieme di norme di formazione spontanea, fatte soprattutto dall'azione costante della giurisprudenza e dell'autonomia privata, più che dal legislatore statale[92].
Questo filone di pensiero, a differenza dei precedenti (che si muovono in una prospettiva più "domestica") si colloca in un movimento più ampio, di carattere internazionale, che ha portato alla teorizzazione della "nuovalex mercatoria"come diritto spontaneo e sovranazionale (i.e. non statale e non locale), adatto alle esigenze di mercati sempre più globalizzati.
Galgano si collega a questa corrente di pensiero, affermando con convinzione l'ineluttabilità del superamento del monopolio del diritto da parte dello Stato, e la centralità della fonte giurisprudenziale e di quella contrattuale nella formazione delle regole dell'economia globalizzata. Su questa via, egli giunge perfino ad aderire ad   una forma di giusnaturalismo razionalistico[93] (che richiama la vecchia teoria giuscommercialistica della "natura delle cose" come fonte di diritto).
 Un tratto originale del pensiero di Galgano è che, al contrario di quanto può notarsi a livello internazionale, ove la teoria della "nuova lex mercatoria" è solitamente collegata a un'idea di forte autonomia del diritto commerciale (o addirittura ad una riscoperta di tale autonomia, in culture giuridiche che l'avevano superata da tempo), egli afferma decisamente che l'unità del diritto privato è un fatto storicamente acquisito e che non ha più senso coltivare un'autonomia, anche soltanto "scientifica", del diritto commerciale[94].
Galgano è stato talora accusato di avere enunciato in modo troppo assertivo la propria adesione alle teorie "mercatoriste", prestando scarsa attenzione all'accesso dibattito internazionale sul tema, che ha visto la dottrina dividersi in partiti avversi, rispettivamente favorevoli e contrari al riconoscimento della nuova lex mercatoria come autonoma fonte di diritto. Al di là della fondatezza o meno del rilievo[95], certo è che questo orientamento ha messo in luce un grande fenomeno di formazione di diritto  extrastatuale, proprio del diritto contemporaneo. L'entità del fenomeno è innegabile. A fronte di ciò, gli argomenti degli avversari della teoria della lex mercatoria, sia quando affermano il permanente peso della sovranità statale[96], sia quando sottolineano la portata settoriale della lex mercatoria (in quanto tendenzialmente limitata ai grandi contratti internazionali)[97], sia quando sottolineano che la lex mercatoria non è mai stata vera consuetudine ma ha sempre avuto necessità di sostegno da parte del potere giudiziario ufficiale[98], mettono in luce aspetti senz'altro veri, ma lasciano intatto il problema valutativo.  
Questo si incentra su una delle grandi opzioni ideologiche del nostro tempo (spesso ricondotta, in modo semplificato, al contrasto fra Hayek e Keynes): nel campo del diritto si propone il tema della scelta fra il primato del diritto di formazione "spontanea" (quindi anche contrattuale o giurisprudenziale) con un ruolo soltanto correttivo e integrativo della legislazione (oltre che una concezione elastica del sistema delle fonti), e il primato del diritto di formazione "istituzionale", che può riconoscere a sua volta ampi spazi di autonomia all'autonomia privata e alla giurisprudenza, ferma restando però la riserva della decisione di ultima istanza in capo al potere legislativo e la conseguente tassatività del sistema delle fonti.

Il contrasto può riassumersi, a mio avviso, nei termini di un'alternativa fra un giuspositivismo critico e un giusnaturalismo laico/razionale. Personalmente sono favorevole alla prima linea di pensiero, memore dell'antico argomento per cui il primato della legge è uno strumento insuperabile, al fine di garantire la possibilità di modificare consuetudini inique e inefficienti, quando queste si siano formate (ipotesi che non può negarsi in linea di principio, a meno di aderire a ideologie liberistiche estreme)[99].


Inoltre, è difficile negare che l'esperienza di questi ultimi decenni mostri una parallela crescita e del fenomeno della produzione privata di norme (più o meno incisivamente controllate dagli apparati istituzionali) e della regolazione amministrativa delle attività economiche[100]. Oggi il diritto dell'impresa è in larga parte diritto amministrativo e l'affermazione di quel "diritto dell'economia", che era stato teorizzato già nei primi decenni del XX secolo, sembra un fatto compiuto. Questa situazione è difficilmente inquadrabile in un'idea di primato del diritto "spontaneo".
Inoltre, credo che il giuspositivismo critico meriti di essere preferito anche perché rivendicaun ruolo attivo e responsabile della giurisprudenza teorica, intesa non come scopritrice di norme già insite nella natura delle cose, ma come costruttrice di un sistema razionale di principi e regole, in continuità formale e sostanziale con un ordinamento dato, storicamente esistente e politicamente accettato[101].
Queste conclusioni sono in parte diverse da quelle professate da Galgano, ma certamente si pongono sulla stessa linea del suo pensiero nel punto relativo all'impossibilità di costruire oggi un metodo specifico per il solo diritto commerciale. La teoria dellalex mercatoriasi risolve nell'affermazione del primato (ideologico) del diritto di formazione "spontanea" rispetto al diritto di formazione "istituzionale" e perciò "costruito". Questo assunto può non essere condiviso, ma, in ogni caso, la discussione si pone sul piano della concezione generale dell'ordinamento e non della giustificazione di una permanente specialità e autonomia del diritto commerciale.


9. Conclusioni. La validità del metodo commercialistico e l’unità del diritto.

Una valutazione complessiva della validità delle riflessioni metodologiche svoltesi nell'ambito della dottrina giuscommercialistica italiana dell'ultimo mezzo secolo non può prescindere, ancora una volta, dal confronto con l'evoluzione contestualmente verificatasi nell'ambito della dottrina giuscivilistica.

E' difficile tracciare una descrizione di sintesi della dottrina giuscivilistica italiana di oggi, ma se proprio si volesse segnare un filo conduttore, lo si potrebbe trovare forse in una sorta di "architettura impossibile", che tenta di mantenere in vita la tradizione di un concettualismo più o meno modernizzato nei contenuti, e al contempo inclina verso una repentina adesione a concezioni giusrealistiche[102], che erano completamente estranee alla tradizione metodologica del diritto civile.

Si è registrata una sorta di rivoluzione silenziosa, che ha messo in crisi il normativismo, professato da generazioni di giuristi come dato di fondo non discutibile, per sostituirlo con una forma di concezione decisionistica del diritto. Si realizza così una sorta di sintesi "postmoderna", che suscita talora sconcerto ed anche sarcasmo[103], ma viene sostanzialmente accettata dalla corporazione disciplinare, anche perché consente la frammentazione della produzione dottrinale in diverse linee non (o non pienamente) dialoganti fra loro, ma reciprocamente legittimantesi in una sorta di pluralismo giuridico di nuovo genere.

L'eclettismo della dottrina giuscivilistica attuale, raffrontato alla tendenza della dottrina giuscommercialistica verso lo specialismo, determina un fenomeno interessante:

(i)                 la dottrina giuscommercialistica, come abbiamo già notato, restringe i propri interessi, in una spinta verso lo specialismo che comporta un'autoriduzione del campo d'interesse (anche con l'esclusione dai confini disciplinari di settori che un tempo ne costituivano parte essenziale: navigazione, trasporti, assicurazioni ecc.) e tende, nelmainstreamaccademico, a ridursi a diritto delle società di capitali e dei mercati finanziari (con una produzione dottrinale spesso caratterizzata da netta dipendenza dalle elaborazioni statunitensi e, in parte, tedesche);

(ii)               la dottrina giuscivilistica moltiplica invece i propri interessi, impegnandosi su temi un tempo di pertinenza giuscommercialistica (fenomeno inverso a quello che si era verificato al tempo dell'unificazione dei codici), ma, nel fare ciò, non rinuncia ad una sua identità "generalista";

(iii)             pur occupandosi di temi specifici di diritto commerciale e dell'economia (con particolare predilezione per la concorrenza e i mercati finanziari), la dottrina giuscivilistica non presta particolare attenzione alle sfide teoriche pur presenti in alcuni filoni della dottrina giuscomercialistica: in particolare, credo che possa dirsi ignorata la proposta teorica di Ferro-Luzzi e dei suoi seguaci.

A conclusione dei ragionamenti finora svolti, può dirsi che le due tradizioni culturali del diritto civile e del diritto commerciale presentano ancora, in Italia, differenze, ma queste sono sfrangiate in una pluralità di questioni, sicché non può parlarsi, da un lato, di irriducibile diversità, ma neanche di piena comprensione reciproca. Può dirsi, con ogni probabilità, che le differenze sono alimentate soprattutto da una regolazione della vita accademica, che impone procedure di selezione separate sulla base di differenze disciplinari talora arbitrarie.

Rimane dunque da augurarsi (sperando che non si tratti di puro pensiero desiderante) che il dialogo possa rafforzarsi e trovare momenti di discussione razionale sui punti fondamentali; ma, in questa prospettiva, il discorso si dovrebbe ampliare, perché non può concepirsi oggi una teoria generale del diritto degna di questo nome che sia costruita solo in funzione del diritto civile (e, al massimo, del diritto privato e processuale) e non tenga conto di tutta l'evoluzione che gli ordinamenti moderni hanno avuto [dal diritto costituzionale con i suoi principi (oggi "multilivello"), al diritto amministrativo con la sua disciplina dei poteri funzionali, e naturalmente al diritto commerciale con la sua considerazione dell'impresa e dei mercati].

Come sommesso contributo ad una discussione di questo tipo, proporrei le seguenti affermazioni:

I)                   il metodo tradizionale del diritto commerciale, caratterizzato dal dovere di approfondita analisi dei fatti come necessario presupposto di una razionale costruzione delle norme, e dal criterio di tendenziale continuità storico-comparatistica delle soluzioni affermate, rimane valido, ma non ci sono valide ragioni per sostenere che esso debba essere impiegato solo nell'analisi giuridica dei fatti economici; piuttosto, esso dev'essere proposto come metodo di applicazione generale, con il correlativo rifiuto di metodi di tipo concettualistico[104]; in questo senso può parlarsi di una eredità ancora viva dell'insegnamento metodologico di Cesare Vivante;

II)                non c'è dunque più ragione per rivendicare un'autonomia scientifica del diritto commerciale, in quanto tale[105]; né, per altro verso, si giustifica il riconoscimento di una funzione "generale" o "ordinatrice" del diritto civile[106];

III)             la concezione normativistica del diritto dev'essere difesa, perché costituisce il migliore strumento finora escogitato per permettere una discussione razionale sulle decisioni dei giudici; l'adozione del principio di tassatività delle fonti e del dovere di coerenza della singola decisione ad un sistema di fonti formalmente riconosciuto costituisce strumento indispensabile per orientare e rendere razionalmente controllabile quella discrezionalità del giudice-interprete che costituisce un dato realisticamente ineliminabile del funzionamento dei sistemi giuridici; in questo senso può parlarsi di un'eredità ancora viva dell'insegnamento di Tullio Ascarelli;

IV)             la differenza normativa del diritto delle imprese e dei mercati, rispetto al diritto degli individui proprietari, dev'essere accettata come un carattere fondante del diritto contemporaneo; la differenza del referente socioeconomico dev'essere sempre tenuta presente nell'interpretazione di norme che si riferiscono a figure generali (contratto, illecito civile etc.), così come nella costruzione di categorie dogmatiche;

V)                gli specialismi sono inevitabili nell'organizzazione della ricerca scientifica, e al giorno d'oggi il "diritto commerciale" non può configurarsi più come una materia specialistica; se ricostruito come diritto delle imprese e dei mercati, esso costituisce una macropartizione del diritto contemporaneo, solo all'interno della quale possono ipotizzarsi specialismi settoriali (antitrust, mercati finanziari, insolvenza etc.);

VI)             pur riconoscendo la necessità degli specialismi, occorre reagire al pericolo di una frammentazione definitiva della cultura giuridica: il diritto contemporaneo deve mirare alla coerenza nel rispetto di principi e valori, e ciò richiede che le analisi specialistiche possano essere vagliate alla luce di principi generali;

il diritto generale, della cui costruzione abbiamo bisogno, è un insieme di principi e norme generali che traggono alimento sia dal diritto privato sia dal diritto pubblico e devono essere utilizzati con consapevolezza della coerenza complessiva delle soluzioni proposte[107].


NOTE

1) Naturalmente, si potrebbe andare ancora più indietro nel tempo. E' noto che, già fra gli studiosi del diritto comune, si compieva, fra il XVI e il XVII secolo, quella divisione di orientamenti metodologici che doveva portare i giuristi, nel trattare la materia dei traffici commerciali, ad opporsi al "processo di unificazione delle fonti del diritto nelle mani di un principe assoluto", difendendo invece la peculiarità dei modi di produzione della disciplina del commercio, basata sull'esperienza dei mercanti e direttamente sui bisogni economici [cfr. F. CALASSO, Diritto (le basi storiche delle partizioni), in Enc.dir., XII, Giuffrè, Milano, 1964, 836-7]. Il richiamo alla natura delle cose come fonte di diritto, nella dottrina giuscommercialistica italiana della seconda metà dell'Ottocento (v. infra, nel testo), era il naturale retaggio di un atteggiamento culturale variamente diffuso in tutta Europa.

2) La prima manifestazione di autonomia scientifica del diritto commerciale, in Italia può vedersi in G. MONTANELLI,Introduzione filosofica allo studio del diritto commerciale positivo,Pieraccini, Pisa, 1847. In quest'opera l'a. affermava la necessità di superare il metodo "empirico", che fin'allora aveva caratterizzato lo studio e l'insegnamento della disciplina, ed affermava con nettezza (v., in particolare, pp. 71 ss.) l'esigenza di superare la tradizione che attribuiva centralità al diritto romano-comune, trascurando di considerare che il "diritto civile" veniva così ridotto ad un insieme di materie e discipline residuali rispetto a quelle (M. indicava il diritto "pubblico, commerciale, giudiziario"), che erano particolarmente cresciute nel "diritto pratico moderno". Perciò M. auspicava una sintesi scientifica più ampia e moderna, caratterizzata dal superamento della dicotomia fra diritto civile e diritto commerciale (nel Granducato di Toscana, ove il M. viveva, insegnando a Pisa, i Tribunali speciali di commercio erano stati aboliti nel 1838).
Questo tema anticipava l'idea dell'unità del diritto privato, che diventò poi di grande attualità con la prolusione bolognese del 1888 di Cesare VIVANTE (Per un codice unico delle obbligazioni, in Arch. Giur., 1887, 32 ss.). Vivante riconobbe al M. il primato nell'idea dell'unificazione del diritto privato, giudicando però il libro di M. "piuttosto metafisico, ma in questo punto abbastanza preciso ed efficace" (C. VIVANTE, Trattato di diritto commerciale5,Vallardi, Milano, 1929, I, 23). Questo giudizio non era proprio infondato (anche se su di esso può avere influito la insistente professione di ortodossia cattolica, che pervade lo scritto del M.).
In questa prospettiva, il vero "manifesto" di inizio di una dottrina nazionale del diritto commerciale, orgogliosa della sua autonomia, può piuttosto vedersi in E. VIDARI, Rapporti del diritto commerciale colla pubblica economia e col diritto civile, in Arch. Giur., 1870, 92 ss., ove i temi di metodo, riassunti nel testo, vengono enunciati con grande efficacia e con un maggiore spessore culturale (in un contesto che comincia a tenere conto anche degli sviluppi della dottrina tedesca e non solo di quella francese).

3) Vale qui la pena di ricordare che, se pure la formazione di una dottrina giuridica del diritto commerciale, di rango accademico pari a quello del diritto civile, sia fenomeno relativamente tardo, che matura nel XIX secolo, norme giuridiche riguardanti le attività economiche e commerciali sono, però, molto più antiche (v. il recente volume di M. CIAN,Le antiche leggi del commercio. Produzione. Scambi, regole,Il Mulino, Bologna, 2016), così come molto più antico è il formarsi di una giurisprudenza commerciale. Solo che, per lungo tempo, questa esperienza giuridica non è stata accompagnata da una dottrina che se ne occupasse.
Ciò non può particolarmente stupire. In effetti, complesse esperienze giuridiche possono nascere e svilupparsi senza la presenza di una "dottrina" apposita, purché possano fondarsi su una base istituzionale (poteri riconosciuti, forze di polizia ecc.) e su una propria attività giurisdizionale. E' un fenomeno che si verifica ancor oggi (p.e., in Italia, per ciò che riguarda il diritto interno delle singole Regioni).

E' noto che, storicamente, la prima dottrina giuridica [(in senso tipico: come dottrina - o "scienza" - laica, caratterizzata da argomentazione razionale e dalla tendenza alla concettualizzazione) si manifesta storicamente nella civiltà romana (Capogrossi Colognesi, Schiavone)]. Ma è anche noto che quella esperienza si forma su un modello di diritto incentrato sull'idea di coesistenza di una pluralità dipatres familias,ciascuno proprietario del suo patrimonio e portatore di libera volontà. Il fenomeno dell'impresa era estraneo a quell'orizzonte, ampiamente condizionato dall'ideologia aristocratica e antimercantile che orientava la cultura dell'epoca.

Tutto un filone di studi si è impegnato a dimostrare che, nel diritto di Roma, esistevano imprese e commerci e norme riguardanti questi fenomeni Una sintesi aggiornata di questo filone di studi è in P.CERAMI, Diritto commerciale romano3, Giappichelli, Torino, 2010. Gli strumenti giuridici utilizzati furono principalmente la societas (con la variante quasi-capitalistica della societas publicanorum) e il peculium attribuito ad uno schiavo, che funzionalmente assolveva al ruolo di realizzare una responsabilità limitata nell'esercizio di determinate imprese (con possibilità che il "servo-manager" [Di Porto] divenisse anche strumento di gestione associata di determinate attività produttive). Sono ancor oggi aperte le discussioni sulla presenza o meno, nella Roma repubblicana e imperiale, di strutture giuridiche simili alle moderne società aperte al mercato dei capitali. Per la discussione sul punto, con conclusioni negative argomentate in base all'esistenza di ostacoli socioculturali, più che giuridici, v. A.M. FLECKNER, Corporate Law Lessons from Ancient Rome, in 

E' solo nel corso dell'Ottocento che si avverte (come si accenna nel testo) l'insostenibilità culturale di una concezione che relegava ai margini dello scibile giuridico un insieme di istituti (dalla contabilità d'impresa, ai titoli di credito, alle socità di capitali, ecc.) che non avevano precise radici romanistiche ma, al contempo, rappresentavano assi portanti dell'economia del tempo e dell'eccezionale progresso che alla stessa si accompagnava.

4) La fondazione della Zeitschrift für das gesamte Handelsrecht è del 1858. L'inizio della pubblicazione del trattato, con la grande narrazione storica (che fu tradotta anche in italiano) è del 1864.

5) Cfr. P. GROSSI, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Giuffrè, Milano, 2000, 51 ss., 94 ss., ove è correttamente dato risalto alla figura di Cesare Vivante, come protagonista indiscusso di questa stagione culturale, e alla "Rivista del diritto commerciale" (fondata dallo stesso Vivante e da lui diretta insieme con Angelo Sraffa) che, dal 1903 in poi, e per quasi mezzo secolo, svolgerà un ruolo centrale come sede di dibattito della dottrina giuridica italiana.

6) Non è necessario approfondire sul piano analitico, in questa sede, la portata di questa proposta di articolazione delle fonti di diritto. Il punto è stato approfondito da L. PELLICCIOLI, La "natura delle cose" nel diritto commerciale, in Riv.crit.dir.priv., 2013, 601 ss., che mette in luce i limiti teorici dell'insegnamento di Vivante e di Asquini.

7) A. ASQUINI,La natura dei fatti come fonte di diritto,inArch. Giur.,1921, 129 ss.
Si deve però ricordare che una corrente minoritaria della dottrina giuscommercialistica (v. U. MANARA,Sull'odierna importanza del diritto commerciale e sul metodo per istudiarlo,inCircolo giuridico,1889, 83 ss.) sosteneva con vigore (con chiara professione di ideologia giuspositivistica) l'idea del primato della legge e l'importanza del metodo esegetico, diffidando dalle idee - ritenute astruse ed arbitrarie - di quei dottrinari che pretendevano di costruire un "diritto commerciale razionale" sulla base di ragionamenti economici o di richiami a norme di questo o quell'ordinamento straniero.
Questa corrente di pensiero, minoritaria a fine Ottocento, cominciò a prevalere con l'inizio del sec. XX. Notevole influenza ebbe, in proposito, A. SCIALOJA, Le fonti e l'interpretazione del diritto commerciale, in Annali dell'Università di Perugia, 1907, che propugnava, anche per il diritto commerciale, una rigorosa teoria legalistica delle fonti (criticando aspramente, fra l'altro, F. Gény). Questo orientamento diverrà teoria ortodossa, generalmente ricevuta, con l'opera di Alfredo Rocco (infra, § 3).

8) Già sin dalla prima edizione (1893) del suoTrattato.Come si accenna già nel testo, questo orientamento metodologico non si traduceva nel rifiuto delle costruzioni dogmatiche, ma in un programma di costruzione di una dogmatica rinnovata, emancipata dalla subordinazione agli schemi concettuali romanistici ed attenta alla funzione socioeconomica degli istituti ("la prima regola di ogni costruzione giuridica è l'osservazione genuina dei fatti"). L'indicazione di metodo si colorava, in Vivante, anche di forte significato deontologico ("Mi sarebbe sembrata una slealtà scientifica, un difetto di probità dettare la disciplina giuridica di un istituto senza conoscerlo a fondo nella sua struttura commerciale": cfr.Ricordo delle onoranze tributate a Cesare Vivante pel suo 25° anno d'insegnamento in Roma il 2 febbraio 1908,a cura del Comitato, Roma, 1908, 14).
Sull'importanza e l'originalità di questo insegnamento, anche in un contesto storico di grande rinnovamento della cultura giuridica italiana, qual era quello di fine Ottocento e inizio Novecento, v. ancora P. GROSSI (nt. 5), 52 ss. (ove è anche giustamente valorizzato l' "atteggiamento storicistico" di Vivante).

9) Testimonianze fondamentali di questo orientamento sociale e riformistico della dottrina giuscommercialistica dell'epoca sono le due prolusioni romane di Cesare VIVANTE (I difetti sociali del codice di commercio,inLa riforma sociale,1899, 25 ss.;La penetrazione del socialismo nel diritto privato,inCritica sociale,1902, 345 ss.). Di notevole interesse, nella stessa linea di pensiero, anche la prolusione maceratese di Angelo SRAFFA (La lotta commerciale,Spoerri, Pisa, 1894).
Nella ricostruzione storiografica più accreditata (v. P. GROSSI, Il diritto nella storia dell'Italia unita, in www.lincei.it[2011], 9-10) i nomi di Sraffa e Vivante sono inseriti fra i protagonisti del riformismo progressista dell'epoca e la stessa visione eterodossa della teoria delle fonti (con il riconoscimento della "natura dei fatti" come fonte) viene letta come espressione di cultura giuridica progressista. In realtà, penso che fra le due linee di pensiero non vi sia un'ispirazione comune: i programmi del socialismo giuridico invocano interventi legislativi correttivi di situazioni ingiuste esistenti (spesso legittimate anche dagli usi in vigore), mentre la "natura delle cose" è argomento più idoneo a legittimare soluzioni già affermatesi nella prassi degli affari (e quindi, per forza di cose, non sgradite ai maggiori centri d'interessi esistenti) che non a proporre correzioni di ingiusti equilibri già affermati. Anche per quanto riguarda il collegamento della dottrina giuscommercialistica italiana con la corrente del socialismo giuridico, è stato giustamente notato (M. SBRICCOLI, Elementi per una bibliografia del socialismo giuridico italiano, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 1974-75, II, 873 ss.) che esso si esaurisce rapidamente, dopo i primi anni del XX secolo. Da ultimo G. CAZZETTA, Scienza giuridica e trasformazioni sociali. Diritto e lavoro in Italia tra Otto e Novecento, Giuffrè, Milano, 2007, 159, afferma - a mio avviso fondatamente - che "il Vivante più autentico non è tanto il riformista quanto il solidarista che resta comunque convinto dell'essenzialità del tecnicismo".

10) Quest'ultimo atteggiamento appare "datato e discutibile" a M. STELLA RICHTER, Cesare Vivante e il "mito di fondazione" della scienza del diritto commerciale, in Riv.dir.comm., 2014, I, 523 ss., nell'ambito di un saggio, serio e meditato, che bene illustra i meriti dell'opera scientifica di V., senza però condividere l'ammirazione  anche sotto il profilo etico e civile, che la figura di V, ha suscitato in moltissimi cultori della disciplina del diritto commerciale (compreso chi scrive). A prescindere da questo profilo, noto soltanto che la critica che S.R. rivolge a V. (e cioè che la sua visione del diritto è "fortemente statalista e solo apparentemente liberista e pluralista") è una critica che - se fosse fondata (il che è da dimostrare) - dovrebbe essere rivolta a tutta la classe dirigente liberale dell'epoca.

11) L'idea della "eccezionalità" delle norme di diritto commerciale era stata invece diffusa in precedenza, non solo nella dottrina ma anche nella legislazione (dall'Olanda al Regno delle Due Sicilie). Ricorda M. CARAVALE, "Perché mai il diritto privato è diviso in due campi, il civile e il commerciale?". Le polemiche sul Codice di commercio nell'Italia liberale, in C. ANGELICI e aa., Negozianti e imprenditori. 200 anni dal Code de  commerce, Mondadori - Sapienza, Milano, 2008, 82-3, che durante i lavori preparatori del codice di commercio del regno sabaudo, il Consiglio di Stato giudicò la natura eccezionale delle norme di diritto commerciale "talmente ovvia da considerare del tutto superfluo un articolo che la dichiarasse esplicitamente".

12) Per ulteriori informazioni sul punto v. C. ANGELICI,Il diritto commerciale nelle prolusioni,inGiur.comm.,2014, I, 1057 ss.

13) Nella dottrina civilistica, il "manifesto" di chiusura della disputa metodologica, con l'affermazione delle posizioni giuspositivistiche più conservatrici, favorevoli ad una teoria cognitivistica dell'interpretazione giuridica, può leggersi in G. SCADUTO,Sulla tecnica giuridica,inRiv.dir.civ.,1927, 225 ss.
Tra i filosofi del diritto, prevalse invece una "assurda" (così possiamo dire, col senno di poi), ma politicamente significativa, teoria della doppia verità, che riconosceva la creatività della giurisprudenza da un punto di vista filosofico, ma contestualmente proclamava che il giurista positivo doveva continuare a sentirsi vincolato alle sue convenzioni "scientifiche", idonee a dare certezza alle soluzioni affermate (cfr. W. CESARINI SFORZA, Sugli aspetti filosofici della teoria del libero-diritto, in Riv.ital. scienze giuridiche, 1913, 41 ss.; O. CONDORELLI, Il valore della filosofia nella vita e nella scienza del diritto, in Arch. Giur., 1926, 129 ss.). A questa teoria della doppia verità aderì anche il giovane Ascarelli, nel suo scritto sulle lacune dell'ordinamento giuridico (1925), nel quale, peraltro, prendeva le distanze anche dalla teoria (ancora diffusa, a quel tempo, nella dottrina giuscommercialistica) della natura delle cose come fonte di diritto. La fragilità di questa posizione e il rischio che la stessa divenisse la base per l'affermazione di posizioni giusliberistiche fu pienamente avvertita da Scaduto, che non a caso, nel suo scritto di difesa della tradizione metodologica, sopra citato, polemizzava proprio con Ascarelli.

14) Fa eccezione, in parte, Antonio Scialoja (supra,nt. 5), che si poneva su posizioni rigidamente contrarie al giusliberismo. In un intervento successivo (A. SCIALOJA,La sistemazione scientifica del diritto marittimo,inRiv.dir.comm.,1928, I, 1 ss.), egli in qualche modo attenuò la propria opposizione, distinguendo fra "diritto codificato" e "diritto vivente", con una posizione metodologicamente un po' ambigua, simile a quelle teorie della "doppia verità" di cui si è accennato nella nota precedente.
In senso opposto, favorevole al "modernismo giuridico" si dichiarò Lorenzo Mossa (Modernismo giuridico e diritto privato,inArchivio di studi corporativi,1931), la cui posizione è giustamente valorizzata da P. GROSSI (nt. 5), 148 ss.
Diversi anni dopo, L. MOSSA,Scienza e metodi del diritto commerciale,inRiv.dir.comm.,1941, I, 97 ss., tentò di spiegare il silenzio della dottrina giuscommercialistica italiana nella grande discussione sul metodo, svoltasi in Europa nei primi decenni del secolo, asserendo che quella dottrina non aveva sentito il bisogno di teorizzare il proprio metodo, che essa sapeva ben praticare per tradizione ("Quando una scienza giuridica ha bisogno di teorizzare i suoi metodi, è segno che essa non è più all'altezza dei suoi compiti"[p. 99]); affermò anche che la dottrina giuscommercialistica non aveva avvertito il bisogno di impegnarsi nelMethodenstreitperché il  metodo della giurisprudenza degli interessi "era già il metodo del diritto commerciale"[p. 121].
In questi giudizi di M. c'era una doppia forzatura ideologica: non è vero che i giuscommercialisti dell'Ottocento non avessero sentito il bisogno di esplicitare e giustificare i propri metodi; e non è neanche vero che avessero preso chiaramente le distanze dal concettualismo giuridico, contro cui si batteva la corrente metodologica che faceva capo alla "giurisprudenza degli interessi".

15) Peraltro, fin dalle sue prime manifestazioni (sec. XVI), la dottrina italiana aveva cercato di realizzare una "stretta integrazione tra le consuetudini del diritto commerciale e le categorie della dottrina del diritto comune" (A. PADOA SCHIOPPA, Storia del diritto in Europa. Dal medioevo all'età contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2007, 273.

16) Si può notare (col senno di poi), che i risultati di questo processo culturale non sono stati particolarmente brillanti: troppi sforzi vengono dedicati dalla giovane dottrina giuscommercialistica - e in modo non molto coerente con i propri assunti metodologici - a costruzioni dogmatiche fine a se stesse, come quelle in materia di titoli di credito (anche qui mi permetto di rinviare a M.LIBERTINI,Premesse a una revisione della teoria unitaria dei titoli di credito,inBanca borsa e tit.cred.,1972, I, 192 ss.): una interminabile discussione teorica sulla "natura" dell'istituto, con la costruzione di una "teoria unitaria" dello stesso, per lungo tempo rivendicata dai giuscommercialisti italiani come il più originale contributo della loro disciplina allo sviluppo della teoria giuridica generake.
In realtà, l'originalità dell'esperienza giuscommercialistica stava nell'aver creato su base consuetudinaria, nei secoli precedenti, un sistema di deroghe alla tradizione romanistica, non solo in ordine alla cedibilità dei crediti, ma anche in relazione al principio "nemo plus iuris transferre potest etc.";e nell'aver creato, contemporaneamente, un sistema "decentrato" di distribuzione dei rischi della circolazione delle risorse impiegate nei nascenti mercati creditizi e finanziari. Un sistema che oggi può apparirci "primitivo", perché si fondava su una regola che accollava l'intero rischio di momenti di irregolarità nella circolazione dei crediti in capo ad un singolo operatore che, anche incolpevolmente, si fosse trovato con il "cerino acceso in mano" (p.e. avesse emesso una cambiale in pagamento di un'operazione poi non andata a buon fine); ma è difficile negare l'importanza che questo meccanismo ha avuto per lo sviluppo dell'economia capitalistica, così come è difficile negare l'enorme distanza che la costruzione di questa disciplina rappresentava rispetto ai contenuti della tradizione giuridica romanistica, che pur continuava ad essere tendenzialmente considerata, nella cultura giuridica dominante, comeratio scripta.Ma gli sforzi dogmatici della dottrina miravano alla disperata ricerca di una "natura" del titolo di credito, che consentisse di inquadrare il fenomeno negli schemi concettuali di matrice romanistica, piuttosto che all'approfondimento dei profili funzionali della disciplina stessa).
Considerazioni in parte analoghe potrebbero farsi per lo sviluppo di altre discipline fondamentali del diritto commerciale, dalle procedure concorsuali ai contratti di assicurazione fino alle (storicamente più tarde, ma  ormai pienamente affermatesi a metà dell'Ottocento) società di capitali.

17) Un certo distacco dal metodo concettuale-dogmatico è indicato, come segno distintivo costante della dottrina giuscommercialistica italiana rispetto alla dottrina giuscivilistica, anche da R. SACCO, Prospettive della scienza civilistica italiana all'inizio del nuovo secolo, in Riv.dir.civ., 2005, I, 419.

18) V., p.e., D. TALLON, Civil law and commercial law, in International Encyclopedia of Comparative Law, VIII / 2, Mohr, Tübingen, 1976, che, fra gli esponenti di questa corrente di pensiero, all'inizio del sec. XX, cita (nell'ordine) Teixeira de Freitas, Huber, Molengraaff, Endemann e Vivante.

19) La discussione è riassunta in M. ROTONDI, Il progetto di riforma del codice di commercio. La questione del codice unico delle obbligazioni, in Mon. Trib., 1923, 705 ss. (che, negli anni successivi, rimase unico fautore della tesi dell'unificazione). Una accurata e completa ricostruzione recente di quel dibattito può leggersi in M. CARAVALE (nt. 11), 81 ss.

20) C. VIVANTE, L'autonomia del codice di commercio - Introduzione alla V edizione (1929) del Trattato (nt. 1). In questa Introduzione, che V. accostava all'Introduzione "classica" ("L'unità del diritto privato"), che veniva anch'essa ripubblicata, V. affermava che il suo era "un atto di conversione tanto più meritevole d'attenzione, che non è piacevole all'amor proprio di chi lo fa". Una prima versione dello scritto era stata pubblicata sulla "Rivista di diritto commerciale" nel 1925.

21) Come è stato più volte notato, questo programma "egemonico" traspariva fin dal titolo della "Rivista del diritto commercialee del diritto generale delle obbligazioni", fondata da Sraffa e Vivante nel 1903, e divenuta, nei decenni successivi, una delle più prestigiose riviste giuridiche italiane ("la più influente del primo trentennio del Novecento",come scrive P. GROSSI [nt. 5], 57), in cui scrissero molti prestigiosi esponenti di discipline diverse dal diritto commerciale.
V., in proposito, B. LIBONATI e aa., La "Rivista del diritto commerciale" (1903-1922), in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 1987, 343 ss.

22) Nelle pagine finali della sua Introduzione I (L'unità del diritto privato) V. affermava (p. 24) che "ora devonsi avviare sistematicamente gli studi in modo che quella fusione si prepari nella dottrina, rettificando, conciliando le teorie generali delle obbligazioni col diritto nuovo che sale dalla vita operosa dei traffici"e ravvisava un ravvicinamento come già in corso nella più recente dottrina giuscivilistica del tempo.
Ma è ancor più significativo che in una lunga Nota, aggiunta all'Introduzione I dopo la conversione di cui si è detto, V. palesava il senso soltanto "tattico" della sua conversione e la sua fiducia in una futura egemonia del diritto commerciale nell'ambito della dottrina privatistica. Egli affermava infatti (p. 25) che con la modernizzazione economica, più che con le idee della dottrina, "giungeremo ad avere in Italia un Codice che avrà solo il nome di Codice di commercio, con un rigoglioso contenuto di diritto comune raccolto in una sconnessa armatura di diritto professionale… finché il contenuto del Codice di commercio, divenuto un diritto comune, getterà all'aria l'involucro che oppone un ostacolo pernicioso al suo ampio sviluppo".

23) Il grande punto di riferimento di questo ordine di idee era costituito dall'opera di Levin Goldschmidt, il cui primato intellettuale, nella dottrina giuscommercialistica europea, era riconosciuto dallo stesso Vivante, che a lui dedicava il primo volume del suo trattato ("A Levin Goldschmidt che mi educò coll'alto esempio a trarre dall'intimità della storia il sistema del diritto vivente").

24) Cfr. C.CIANCIO, Mercanti in toga. I tribunali di commercio nel Regno d'Italia (1861-1888), Pàtron, Bologna, 2012.

25) Una interessante coincidenza storica si verificò nella quasi contestuale creazione (1889) della giustizia amministrativa. E' perfino banale osservare come l'esistenza di una giurisdizione speciale sia stata la base su cui si è costruita, nel secolo successivo, la serie di norme e principi del diritto amministrativo, in un continuo e proficuo dialogo fra giurisprudenza speciale e dottrina.

26) La strategia "normalizzatrice" era già presente in un impegnato scritto giovanile (A. ROCCO,Intorno al carattere del diritto commerciale obiettivo e ai suoi rapporti col diritto civile,inStudi in onore di Vittorio Scialoja,Hoepli, Milano, 1905, 537 ss.), in cui l'autonomia del diritto commerciale era presentata come espressione di una accentuata specialità di materia, che giustificava la possibilità di espansione delle regole al proprio interno, con una netta differenza di contenuti normativi sul diritto civile, cui si riconosceva però il primato sul piano sistematico. La teorizzazione definitiva dell'autonomia del diritto commerciale, da parte di Rocco, si ebbe nei suoi fondamentaliPrincipi di diritto commerciale(Utet, Torino, 1928). A questo volume si riferiscono (p. 83 ss.) le citazioni contenute nel testo.
L'importanza di R. e dei suoi "Principi"nella storia della dottrina giuridica italiana del XX secolo è sottolineata da P. GROSSI (nt. 5), 247 ss., ove è dato anche giusto risalto alla pretesa dell'a. di contribuire alla costruzione di una scienza unitaria del diritto. G. sottolinea anche ampiamente l'ispirazione pandettistica delle costruzioni dogmatiche di R., ispirate ad una logica di normalizzazione della materia rispetto al diritto civile (definendo i "Principi" come "uno splendido epicedio del dommatismo logico nel campo del diritto commerciale"). A mio avviso, l'insegnamento di R. tendeva a mantenere un'autonomia forte del diritto commerciale, atta a garantirne lo sviluppo interno (egli fu infatti avverso all'unificazione dei codici). In questa prospettiva, la "normalizzazione" dogmatica assumeva un significato ambiguo (forse inquadrabile in un più ampio disegno di commercializzazione del diritto privato, ma certamente esposta al rischio di indebolire la stessa autonomia).
Più in generale, sul ruolo svolto da R. v. anche A. VANZETTI,Alfredo Rocco e l'ideologia giuridica del fascismo,inRiv.dir.civ.,1965, I, 120 ss. (in commento all'omonimo libro di P. Ungari [1963]).

27) Ma non soltanto. Nel suo primo mezzo secolo di vita la "Rivista di diritto commerciale" acquistò un prestigio crescente, e così pure il metodo del diritto commerciale trovò professioni di adesione anche da parte di cultori autorevoli di discipline diverse. V., p.e., R. COSTI, Redenti e il diritto commerciale, in Riv.trim.dir.proc.civ., 2013, 1193 ss.

28) Cito solo due esempi (di un altro, più significativo, riguardante l'opera di G. Santini, si darà contoinfra,nt. 58).
Il primo è P. ABBADESSA,Note sulla doppia circolazione dei titoli di deposito,inBanca borsa tit. cred.,1966, I, 308 ss., che muove - in coerenza con la tradizionale metodologia commercialistica, che richiede il previo studio socioeconomico della materia trattata - da un'accurata ricostruzione della prassi commerciale per giungere alla conclusione di un sostanziale svuotamento e della necessità di un'interpretazione fortemente evolutiva degli artt. 1790-1797 c.c. (evitando di impegnarsi in inutili discussioni dogmatiche sulla "natura giuridica" della fede di deposito e della nota di pegno).
Il secondo, molto più recente, è V. CARIELLO, Sensibilità comuni, uso della comparazione e convergenze interpretative: per unaMethodenlehre unitaria nella riflessione europea sul diritto dei gruppi di società, in Riv. Dir. societario, 2012, I, 255 ss., che riprende (peraltro in modo convincente) il tradizionale argomento giuscommercialistico relativo al valore costruttivo dell'analisi storico-comparatistica.

29) E. FINZI,Verso un nuovo diritto del commercio,inAnnuario del R. Istituto superiore di scienze economiche e commerciali di Firenze,XI (1932/33), 1 ss.
La figura di questo giurista è stata giustamente rivalutata da Paolo Grossi (che lo ebbe come docente). V. P. GROSSI, Nobiltà del diritto, Profili di giuristi, Giuffrè, Milano, 2008, 19 ss. ("Enrico Finzi: un giurista solitario); nonché P. GROSSI, Uno storico del diritto alla ricerca di se stesso, Il Mulino, Bologna, 2008, 25 ss.

30) G. COTTINO, Introduzione al Trattato - Il diritto commerciale tra antichità, medioevo e tempo presente: una riflessione critica, in Trattato di diritto commerciale, a cura di G. Cottino, vol. I, Cedam, Padova, 2001, 349, ha scritto che "fu tutto sommato solitaria la voce critica di Cesare Vivante". Più che "solitaria", direi "minoritaria": malgrado l'indiscusso prestigio di cui V. godeva nella comunità accademica disciplinare, il suo impegno civile riformistico fu seguito solo da una minoranza di studiosi della generazione successiva, anche se, fra questi, vi furono proprio le due personalità di maggiore spicco, cioè Lorenzo Mossa e Tullio Ascarelli (v. infra nel testo).

31) Queste idee sono presenti anche nello scritto di E. Finzi, citato nella nota 29.

32) Questa impostazione, che, nella costruzione dei contenuti del diritto commerciale, portava dalla tradizionale centralità dell'atto di scambio ("atto di commercio") alla nuova centralità dell'impresa come organizzazione produttiva (un vero e proprio "mutamento di paradigma") è associata soprattutto al nome di Karl Wieland (il cui trattato inizia ad essere pubblicato nel 1921).
In realtà, come segnala C. ANGELICI (nt. 12), la proposta di sostituire, nello studio del diritto commerciale, il paradigma dello scambio con quello della "produzione" (e poi, nella stessa linea di pensiero, dell' "impresa"), risale alla seconda metà dell'Ottocento (A. cita in proposito la prolusione di Leone Bolaffio del 1889 e poi ripercorre la storia dell'idea nei decenni successivi). 
In ogni caso, l'idea della centralità dell'impresa trovò nella dottrina italiana, e in particolare nell'opera di Lorenzo Mossa (v.infranel testo), uno sviluppo e un sostegno appassionato, che la posero al centro del dibattito, anche a livello internazionale (basti pensare che Wieland dedicò a Mossa una delle successive edizioni del suo trattato).
Un'interessante ricostruzione del percorso, che va dall'individualismo proprietario ottocentesco (dominante anche nella teoria giuscommercialistica del "commerciante" e degli "atti di commercio"), al superamento dello stesso nel periodo fascista, con l'affermarsi della teoria dell'impresa come istituzione, in un quadro di riconosciuto dominio statale (vicenda in cui l'a. indica come protagonisti Rocco e Mossa), fino alla ripresa di individualismo nel periodo postfascista, con la teorizzazione della libertà di iniziativa economica come libertà individuale e il rafforzamento della tutela di diritti individuali di consumatori ed azionisti, può leggersi in F. MAZZARELLA,Percorsi dell'individualismo giuridico. Dal proprietario all'azionista delle multinazionali,inMateriali per una storia della cultura giuridica,2004, 37 ss.
Per una ricostruzione completa del percorso della dottrina tedesca che, a partire dalla formazione delloHandelsgesetzbuchdel 1897, aveva elaborato le nozioni giuridiche di impresa e di azienda, ponendole poi a fondamento della nuova disciplina delWirtschaftsrechte della nuova concezione del diritto commerciale come diritto dell'impresa, v., dello stesso F. MAZZARELLA,La scoperta di un paradigma complesso. L' "Unternehmen" nel diritto commerciale e nella dottrina austro-tedesca del primo Novecento,inQuaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno,2010, 299 ss. Per curiosità, si può ricordare anche il tentativo (avviatosi in Francia e in Belgio nella seconda metà del XIX secolo, con un seguito in Italia e nei paesi di lingua spagnola) di costruire una nuova partizione disciplinare, incentrata sul concetto di "impresa" o di "azienda", e chiamata "diritto industriale", contrapposta ad un "diritto commerciale", inteso come disciplina legata al paradigma dell'atto di scambio. La proposta (su cui v. M. LIBERTINI, Lezioni di diritto industriale,, [1977], rist., E.S.I., Napoli, 2016, cap. I) non ha avuto successo per varie ragioni, fra cui soprattutto quella consistente nell'assorbimento della propososta di base, e cioè nell'assunzione del paradigma dell'impresa da parte di una disciplina accademicamente ormai affermata, qual era il diritto commerciale.

33) Una bella ricostruzione del clima del tempo, incentrata sulla ricostruzione del profilo intellettuale di alcune grandi personalità (Asquini, Ascarelli, Bigiavi, Mossa) è quella di G. COTTINO,L'impresa nel pensiero dei Maestri degli anni Quaranta,inGiur.comm.,2005, I, 5 ss.
 A mio avviso, la migliore teorizzazione del programma politico-culturale descritto nel testo può leggersi in P. GRECO,Aspetti e tendenze odierne del diritto commerciale,inRiv.dir.comm.,1934, I, 334 ss. (notevole per la sistemazione teorica dell'autonomia normativa delle regole di diritto commerciale e per l'accettazione esplicita di un'economia programmata dallo Stato).
Naturalmente, l'esponente più significativo di questo orientamento fu Alberto Asquini (di cui v., in particolare, A. ASQUINI,Una svolta storica del diritto commerciale,inRiv.dir.comm.,1940, I, 509 ss.). Notevole è anche A. CANDIAN, Lezioni di diritto commerciale, Cedam, Padova, 1928, che teorizza il superamento dell'autonomia tradizionale del diritto commerciale nel quadro di una visione unitaria del diritto, in cui si valorizzano anche  schemi  amministrativistici. L'impiego di schemi giuspubblicistici, nella ricostruzione della disciplina dei poteri funzionali interni all'impresa, fu poi applicato da Candian nel volume Nullità e annullabilità delle delibere di assemblea di società per azioni (Giuffrè, Milano, 1942).

34) La sostanziale indipendenza di Mossa dal regime fascista ebbe modo di manifestarsi peraltro, dopo l'entrata in vigore delle leggi razziali, con una nobile e coraggiosa azione di protezione degli studenti ebrei (v. G. ACERBI, Le leggi antiebraiche e razziali italiane e il ceto dei giuristi, Giuffrè, Milano, 2011, 186-7).

35) Tra gli scritti principali di L. MOSSA, v. (oltre a Scienza e metodi del diritto commerciale [nt. 10]) I problemi fondamentali del diritto commerciale, in Riv.dir.comm., 1926, I, 33 ss.; La nuova scienza del diritto commerciale, in Riv.dir.comm., 1941, I, 439 ss.

36)

Cfr. L. MOSSA,Il diritto del lavoro, il diritto commerciale e il codice sociale,inRiv.dir.comm.,1945, I, 39 ss. (articolo chiaramente scritto, in larga parte, prima della caduta del fascismo). Questa tendenza dei giuscommercialisti di occupare il terreno del nascente diritto del lavoro non riuscì a vincere il confronto (ci si riferisce naturalmente alla fase storica antecedente la compiuta autonomizzazione della disciplina) con la parallela impostazione civilistica, facente capo a L. Barassi e poi a F. Santoro Passarelli. L'ultimo giuscommercialista che coltivò sistematicamente il diritto del lavoro fu Mario Ghidini (il cui corso di diritto del lavoro era ancora molto apprezzato negli anni Sessanta).

L'attenzione della dottrina giuscommercialistica per la materia del lavoro era comunque precedente all'opera di M.: per lunghi anni la "Rivista del diritto commerciale" era stata il principale luogo di svolgimento delle discussioni in materia (cfr. P. GROSSI [nt. 5], 97 ss.).

37) Una giusta rivalutazione della teoria giuridica istituzionalistica dell'impresa di Lorenzo Mossa è stata di recente proposta da A. MAZZONI, L'impresa tra diritto ed economia, in Riv.soc., 2008, 649 ss.

38) Un grande apprezzamento dell'opera di Mossa, accompagnato da un equilibrato giudizio critico sui limiti della stessa, può leggersi in P. GROSSI (nt. 5), 190 ss.

39) Ascarelli tornò spesso, nei suoi scritti, sulla storia del diritto commerciale e della dottrina giuscommercialistica italiana. V., in particolare,La dottrina commercialistica italiana e Francesco Carnelutti,in T. ASCARELLI,Problemi giuridici,Giuffrè, Milano, 1959, II, 983 ss.

40) T. ASCARELLI, La funzione del diritto speciale e le trasformazioni del diritto commerciale, in Riv.dir.comm., 1934, I, 1 ss. (si noti la contemporaneità con lo scritto di P. Greco, sopra citato alla nt. 33, ma anche la diversità di prospettiva: A, è molto meno impegnato su problemi di politica del diritto contingente, non entusiasta del diritto corporativo, più sensibile al dibattito metodologico che si svolge in altri paesi, e attento soprattutto a riflettere, in generale, sulla funzione e sulla responsabilità civica del giurista positivo).

41) Ovviamente, le idee espresse da A. hanno diversi collegamenti con correnti di pensiero in vario modo presenti nella cultura giuridica europea. Da un lato è evidente l'influenza dell'idealismo filosofico (lo stesso A. più volte dichiarò il suo tributo alle idee del filosofo del diritto Max Ascoli), ma, più in generale, può dirsi che l'idea della necessità di conciliare il contributo creativo della giurisprudenza con un'adesione leale e convinta ai principi dell'ordinamento, che trovavano espressione nei codici, era stata ben rappresentata in una corrente, minoritaria ma consistente, del pensiero giuridico italiano, fin dalla metà dell'Ottocento (cfr. A. SPINOSA, "L'economia dei giudici moderni". Legislazione e giurisprudenza nella dottrina italiana dell'Ottocento, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 40/2011, 747 ss.).

42) All'idea della rigida fedeltà alla legge A. sostituì quella della necessaria "continuità" con i testi normativi. Questa idea, che molti osservatori successivi, da Norberto Bobbio a Paolo Grossi, hanno giudicato un punto oscuro e debole della riflessione ascarelliana, rappresenta invece, a mio avviso, una profonda intuizione: quella per cui il "significato" dei testi normativi è sempre storicamente condizionato e non è altro che ciò che di tali testi pensa la comunità dei giuristi, a sua volta bisognosa di legittimazione e consenso da parte dell'ambiente sociale circostante. Questa idea, certamente collegabile allo storicismo idealistico crociano, che rappresentava la base filosofica dei ragionamenti ascarelliani, fu più volte ricollegata da A. anche alla tradizione talmudica. In questa prospettiva, l'argomentazione "in continuità" con i testi normativi non è puro gioco verbale, ma rappresenta - in quanto rivolta all'adesione razionale degli altri giuristi e dell'ambiente sociale in cui essi si collocano - un segnale di conferma dell'appartenenza ad una comunità storicamente data ed ai valori che la tengono unita.

43) Nello stesso torno di tempo, un programma di rinnovamento fondato sul rifiuto di una dogmatica astratta e sulla valorizzazione del diritto comparato, era stato intrapreso da Mario Rotondi, che era rimasto uno dei pochi fautori dell'unificazione del diritto privato, in una prospettiva di modernizzazione dell'intero sistema di diritto privato (v. supra, nt. 19). Come coerente sviluppo di questo programma vi fu la fondazione della Rivista del diritto privato, che, fin dal titolo, denunziava il superamento dell'idea di specialità del diritto commerciale. Su di essa v. U. SANTARELLI, "Un illustre (e appartato) foglio giuridico". La Rivista di Diritto Privato (1930-1944), in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico, 1987, 665 ss.

44) La storia della formazione del codice civile unificato del 1942 è stata raccontata più volte. La ricostruzione più accurata è quella di N. RONDINONE, Storia inedita della codificazione civile, Giuffrè, Milano, 2003. In particolare, sull'unificazione dei codici civile e commerciale, v. R. TETI, Codice civile e regime fascista. Sull'unificazione del diritto privato, Giuffrè, Milano, 1990. V. anche E. MARCHISIO, Sulle "funzioni" del diritto privato nella costituzione economica fascista, E.U.M., Macerata, 2007; nonché A. DONATI, I valori della codificazione civile, Cedam, Padova, 2009, 136 ss.  V. anche, in una prospettiva che supera l'interesse dello specifico istituto studiato, C. MONTAGNANI, Ideologia corporativa e controllo giudiziario sulle società di capitali, Cedam, Padova, 2008.

45) La vicenda può essere inquadrata nel più generale fenomeno di rimozione dell'eredità fascista, che caratterizzò (al di là dell'antifascismo ideologico ufficiale) la società italiana del dopoguerra e portò alla riabilitazione di quasi tutto il ceto accademico che maggiormente si era compromesso con il precedente regime. Nell'ambito della dottrina giuscommercialistica il ruolo di protagonista, in tale contesto, spetta ovviamente ad Alberto Asquini, sul cui profilo   culturale e politica v, la pregevole monografia di C. MONTAGNANI, Il fascismo "visibile". Rileggendo Alberto Asquini, Editoriale Scientifica, Napoli, 2014.

46) Tanto da divenire prevalente presso la manualistica più accreditata. V., p.e., F. FERRARA jr. - F. CORSI, Gli imprenditori e le società12, Giuffrè, Milano, 2001, 16-7.

47) E' interessante osservare i riflessi culturali che ha avuto la dislocazione "topografica" delle norme di legge. Se, da una parte, l'unificazione tra il codice civile e il codice di commercio portava a rafforzare l'idea dell'unità del diritto privato e a parlare di "commercializzazione del diritto privato" (pur nei due diversi orientamenti, che si è cercato di delineare nel testo), al contempo, la scelta di emanare un codice della navigazione separato portava ad una definitiva specializzazione della relativa disciplina. Il diritto marittimo, che era stato parte cospicua delle trattazioni ottocentesche del diritto commerciale, veniva, dopo il 1942, rapidamente espunto dalla manualistica e, ancor più, dai programmi di ricerca dei cultori del diritto commerciale. Probabilmente, l'ultimo giuscommercialista di prestigio che ha studiato, con impegno monografico, temi di diritto della navigazione, è stato Antonio Pavone La Rosa, con i suoi studi sulla polizza di carico degli anni Cinquanta. 

48) G. FERRI,Revisione del codice civile e autonomia del diritto commerciale,inRiv.dir.comm.,1945, I, 96 ss. Il ruolo personale di Giuseppe Ferri, nei lavori della commissione per la riforma dei codici, è ricostruito da F. TREGGIARI, Di Giuseppe Ferri, dei codici e di altre cose commendevoli, in Riv.dir.comm., 1996, I, 455 ss.

49) Sull'attuazione di questo programma culturale, nell'opera successiva di G. Ferri, mi permetto di richiamare M. LIBERTINI, L'impresa, in Giuseppe Ferri e il legislatore, a cura di B. Libonati, Jovene, Napoli, 2009, 27 ss.

50) Non è un caso che diversi giuscommercialisti della generazione più attiva negli anni dell'unificazione dei codici si dedichino anche all'insegnamento di Istituzioni di diritto privato, pubblicando i relativi corsi di lezioni (così lo stesso Ferri e Giuseppe Auletta), e costruiscano con impegno lavori monografici che affrontano temi propriamente "civilistici" (così Walter Bigiavi, con il libro sulla delegazione [1940], o Giuseppe Auletta con i libri sulla risoluzione per inadempimento [1942] e sulla revocatoria [1939], o Giorgio Oppo con i libri sull'interpretazione del negozio giuridico [1943] e sull'adempimento delle obbligazioni [1947]; già negli anni '30 c'erano stati, peraltro, gli studi di Tullio Ascarelli sulle obbligazioni pecuniarie e sul negozio indiretto). Si deve anche ricordare che un fenomeno speculare, benché di dimensioni minori, si verificava, in quel torno di tempo, nella dottrina civilistica: si pensi agli scritti di Francesco Santoro Passarelli sull'impresa o al volumetto di Gino Gorla sulle società [1942].
Qualche anno dopo, un giurista che aveva sempre coerentemente sostenuto la tesi dell'unità del diritto privato secondo l'antica ispirazione vivantiana, poteva esprimere un giudizio totalmente positivo sull'unificazione legislativa, aggiungendo che, ormai, un diritto commerciale come complesso organico di norme non esisteva più (M. ROTONDI,L'unification du droit des obligations civiles et commerciales en Italie,inL'unité du droit des obligations,a cura di M. Rotondi, Cedam, Padova, 1974, 489 ss.).
Un giudizio non dissimile, anche se meno deciso, sull'effetto positivo della "unificazione di metodi" susseguita all'unificazione legislativa, fu espresso anche in seguito da G. OPPO, Codice civile e diritto commerciale, in Riv.dir.civ., 1993, I, 221 ss. (nonché in ID., Le ragioni del diritto: il diritto commerciale, in Jus, 1996, 70).

51) Questa concezione meno ambiziosa fu, in certo senso, legittimata dallo stesso a., che alcuni dopo (G.FERRI, Diritto commerciale, in Enc.dir., vol XII, Giuffrè, Milano, 1964, 928) scriveva: "il diritto commerciale non è più un complesso di norme contrapposto al diritto civile, ma un complesso di norme compreso nel codice civile… il diritto commerciale è soltanto un complesso di norme che regola una speciale categoria di rapporti privati". Rimaneva però forte la rivendicazione di un'autonomia scientifica e didattica.

52) N. IRTI, La filosofia di una generazione, in Contratto e impresa, 2011, 1297. Il compiuto quadro storiografico, su cui si innesta lo scritto più recente, citato nel testo, è in N. IRTI, La cultura del diritto civile, Utet, Torino, 1990.

53) Il collegamento, presente in molte riflessioni di teoria del diritto, è sviluppato, in particolare, da A. SUPIOT, Homo juridicus. Saggio sulla funzione antropologica del diritto (traduz. Ital.), B. Mondadori, Milano, 2006.

54) Gli scritti di questo periodo sono raccolti in T. ASCARELLI, Saggi giuridici, Giuffrè, Milano, 1949.

55) Con questa posizione A. prendeva le distanze da quella prevalente nella dottrina giuscivilistica (espressa, in particolare, da Pugliatti, nella discussione sui concetti giuridici della fine degli anni Trenta), che considerava le costruzioni dogmatiche frutto di sole operazioni logiche.

56) Su cui è importante la ricostruzione (e testimonianza diretta) di G. AULETTA, Tullio Ascarelli, in Riv.soc., 1970, 493 ss.

57) W. BIGIAVI, Postilla metodologica, in Riv.trim.dir.proc.civ., 1951, 160. Nello stesso scritto B. aggiungeva: "Va da sé.. che io non ho mai inteso negare l'utilità dell'indagine sistematica… [bensì] bollare quella smodata tendenza a costruire il proprio sistema, che sembra dominare la mente di molti giuristi anche celebrati; dove poi.. quei c.d. 'sistemi' si riducono ad elucubrazioni senza capo né coda, allo sviluppo di metafore perplesse…";e concludeva affermando che "non ci può essere sintesi proficua se non c'è stata previa analisi.. se l'analisi può prescindere dalla sintesi, questa, per essere fruttuosa o anche soltanto seria, non può prescindere dall'analisi".
Già in W. BIGIAVI,I vizi della volontà nella dichiarazione cambiaria,Giuffrè, Milano, 1943, è chiaramente professata una concezione riduttiva della costruzione dogmatica, vista (in polemica con la tradizione dogmatica in materia di titoli di credito) come concettualizzazione riassuntiva di soluzioni normative raggiunte mediante l'esegesi e l'interpretazione logico-sistematica delle disposizioni di legge. Sulla figura di B. v. il commosso ricordo di F. GALGANO, Ritratto di Walter Bigiavi, in Contratto e impresa, 2008, 1425 ss., volutamente tenuto su un tono aneddotico, ma in realtà ricco di appropriate riflessioni sul metodo dell'a. e sui termini del suo contrasto con Ascarelli.

58) V., in particolare, T. ASCARELLI, Contrasto di soluzioni e divario di metodologie, in Saggi di diritto commerciale, Giuffrè, Milano, 1955, 527 ss.

59) In questo senso Bigiavi (autore di un importante - e, per il tempo in cui fu scritto, molto originale - saggio sul "diritto giudiziario" [1933]) era più incline a valorizzare il ruolo della giurisprudenza applicata di quanto non fosse Ascarelli. 

60) Al fondo, i due giuristi rappresentavano "strategie" diverse, sul piano dell'organizzazione della ricerca giuridica. Per B. il metodo doveva essere rigoroso, fondato sulla fedeltà esegetica e sulla chiarezza sistematica; il progresso del diritto era affidato (anche) al progresso della scienza giuridica, che, a sua volta, si sarebbe dovuto fondare su una selezione accademica anch'essa rigorosa ed elitaria. Per A. il progresso era piuttosto affidato, illuministicamente, alla forza delle idee (nella specie, al fascino che avrebbe dovuto esercitare l'invito a costruire una giurisprudenza colta consapevole del significato politico delle sue proposte interpretative e civilmente impegnata). Minore attenzione e fiducia egli dedicava all'organizzazione accademica (fors'anche per qualche delusione personale provata, su questo versante, al suo ritorno in Italia dopo l'esilio: cfr. M. STELLA RICHTER jr.,Filippo Vassalli preside e la chiamata di Tullio Ascarelli alla facoltà giuridica romana,inRiv.dir.comm.,2010, I, 693 ss.); talora, nei suoi scritti, compaiono spunti che appaiono influenzati dalle polemiche antiaccademiche di Benedetto Croce.
Ambedue i giuristi avvertirono poi il pericolo che, per lo sviluppo della dottrina giuscommercialistica (sia sul piano della qualità della ricerca, sia su quello delle idee professate), avrebbero rappresentato la pressione crescente dell'attività professionale privata e delle relative possibilità di guadagno. Questo messaggio fu espresso con l'esempio di vita personale (B., in particolare, fu professore "a tempo pieno"ante litteram) e, per quanto riguarda A., anche con l'importante scrittoScienza e professione, inForo it.,1956, IV, 86 ss. (poi in T. ASCARELLI,Problemi giuridici,Giuffrè, Milano, 1959).

61) Così G. ROSSI, Riforma dell'impresa o riforma dello Stato?, in Riv.soc., 1976, 449.

62) Cfr. M. LIBERTINI, Il diritto della concorrenza nel pensiero di Tullio Ascarelli, in Scritti in onore di Vincenzo Buonocore, Giuffrè, Milano, 2005, 1153 s.

63) N. IRTI,"L'età della decodificazione" vent'anni dopo,inDiritto e società,1999, 193 ss.

64) F. d'ALESSANDRORelazione di sintesi,in1882-1982. Cento anni dal codice di commercio,Giuffrè, Milano, 1984, 291 ss., ha notato acutamente la differenza fra il programma della "Rivista del diritto commerciale" (1903), caratterizzato dal sottotitolo "e del diritto generale delle obbligazioni", come a sottolineare unavis expansivadel diritto commerciale, e il programma della rivista "Giurisprudenza commerciale" (1974), destinata a divenire la rivista più rappresentativa della disciplina negli anni a venire, che reca come sottotitolo "Società e Fallimento",come a sottolineare la chiusura della disciplina nella gabbia dorata di uno specialismo, pur privilegiato dal doversi occupare di aspetti centrali della vita economica.
Altra caratteristica cruciale del programma culturale di questa rivista sta nell'attenzione rivolta soprattutto all'evoluzione giurisprudenziale: qui il distacco con la visione "titanica" della dottrina giuridica, espressa dai grandi nomi della generazione precedente, è evidente. Essa si traduce anche nella scelta della rivista di non pubblicare recensioni di libri. Dopo la morte di Bigiavi, il genere letterario della recensione sparirà, sostanzialmente (anche se non del tutto nella forma), dalle riviste di diritto commerciale (per la verità, il fenomeno è presente anche in riviste dedicate ad altre discipline, ma forse nel diritto commerciale ha raggiunto livelli accentuati).
La centralità del "dialogo con la giurisprudenza" caratterizzerà anche l'altra, grande nuova rivista di questa generazione, "Contratto e impresa"di Franco Galgano; ma, in questo caso, in un quadro di apertura all'intero campo del diritto civile e commerciale (sul punto v.infra,§ 8.3).
Come sintomo di una certa caduta dell'orgoglio disciplinare, che aveva caratterizzato la dottrina del diritto commerciale nelle generazioni precedenti, si può segnalare anche la circostanza che, nel 2003, il centenario della fondazione della "Rivista del diritto commerciale" sia passato inosservato.

65) 
Riflettendo, all'inizio degli anni Ottanta, sulla dottrina giuscommercialistica italiana dei decenni successivi al codice, G. FERRI,Esperienza scientifica. Diritto commerciale,inCinquant'anni di esperienza giuridica in Italia,Giuffrè, Milano, 1982, 17, osservava che la dottrina commercialistica aveva "per lo più rivolto la propria attenzione a temi particolari o a problemi di settore".
Sostanzialmente sulla stessa linea, malgrado l'apparenza, il rapido giudizio critico di S. CASSESE,La cultura giuridica dagli anni sessanta ad oggi,inRiv.trim.dir.proc.civ.,2004, 375, secondo cui la dottrina "commercialistica, dopo le ricerche di Tullio Ascarelli, si è esaurita nell'esame minuto di nuove discipline (ad esempio, attività finanziarie)".Questo giudizio suscitò una risposta polemica di V. BUONOCORE, "La cultura giuridica dagli anni sessanta ad oggi" e il diritto commerciale,inRiv.trim.dir.proc.civ.,2005, 1 ss., che svolse una puntigliosa difesa d'ufficio dei contributi dati dalla dottrina giuscommercialistica del periodo. E' comunque significativo che, in un autore colto come Cassese, si sia formato un giudizio non positivo sulla vivacità culturale di quella dottrina. Si può aggiungere che non mancano altri segni del formarsi di una diffusa opinione in tal senso. P.e. A. JANNARELLI, Intervento, in Giuristi e legislatori. Pensiero giuridico e innovazione legislativa nel processo di produzione del diritto - Atti dell'incontro di studio, Firenze 1996, a cura di P. Grossi, Giuffrè, Milano, 1997, 84, mettendo a confronto la relazione giuscivilistica e quella giuscommercialistica, svolte in quel convegno (rispettivamente, da Luigi Mengoni e da Carlo Angelici), considera espressione tipica di un diverso approccio dei cultori delle due discipline la maggiore attenzione dedicata, rispettivamente, agli sviluppi della "scienza giuridica" e a quelli della pratica professionale.

66) Il clima culturale del tempo è ben rievocato nel volumeGli anni Settanta del diritto privato,a cura di L. Nivarra, Giuffrè, Milano, 2008. E' interessante osservare che, in questo volume, un solo capitolo (a cura di M. Ricolfi: v. nt. 58) è dedicato al diritto commerciale; così pure, le riviste giuscommercialistiche non sono neanche considerate nel capitolo (a cura di C. Scognamiglio, p. 81 ss.) dedicato alle riviste giuridiche degli anni Settanta.
L. NIVARRA è ritornato su quella temperie culturale, di recente, conLa grande illusione. Come nacque e come morì il marxismo giuridico in Italia,Giappichelli, Torino, 2015, sostenendo la tesi estremistica secondo cui i limiti di quel movimento di pensiero sarebbero consistiti nell'essere stato troppo poco anarcocomunista ed invece incline ad un riformismo statalistico.

67) Un interessante "segno dei tempi" è la rivendicazione orgogliosa di un primato culturale del diritto civile, inteso come "diritto privato generale" e la proposta di una nuova terminologia, che definisce il diritto civile come "diritto primo", in contrasto con altre partizioni del diritto privato, definite come "diritti secondi" (cfr. C. CASTRONOVO, Diritto privato generale e diritti secondi. La ripresa di un tema, in Europa e dir.priv., 2006, 397 ss.; in senso analogo, ma con terminologia più tradizionale, G. CIAN, Il diritto civile come diritto privato comune, in Riv.dir.civ., 1989, I, 1 ss.). Per una critica a questa teorizzazione v. M. LIBERTINI, Alla ricerca del "diritto privato generale". Appunti per una discussione, in Riv.dir.comm., 2006, I, 541 ss.  Più di recente, S. DELLE MONACHE, "Commercializzazione" del diritto civile (e viceversa), in Riv.dir.civ., 2012, I, 495-6, afferma che "il diritto commerciale non è affatto un diritto 'secondo', ma condivide la stessa natura del diritto 'primo', presentandosi come una parte del diritto privato generale". 

68) Così, la filosofia analitica ispira il brillante saggio di F. d'ALESSANDRO,Persone giuridiche e analisi del linguaggio,inStudi in memoria di Tullio Ascarelli,Giuffrè, Milano, 1969, I, 251 ss.  Il ruolo delle clausole generali e dell'argomentazione per principi è valorizzato da A. GAMBINO,Il ruolo della giurisprudenza. Potere tecnologico e diritto dell'impresa,inRiv.dir.comm.,1967, I, 253 ss.  Alla valorizzazione sistematica dei principi costituzionali è largamente ispirato M. LIBERTINI,Lezioni di diritto industriale,Torre, Catania, 1977-9 [rist., E.S.I., Napoli, 2016] (nonché ID.,La regolazione amministrativa del mercato,inTrattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia,dir. da F. Galgano, III, Cedam, Padova, 1979, III, 469 ss.; non va però dimenticato che scritti direttamente rivolti all'interpretazione delle norme costituzionali furono abbastanza frequenti nella produzione giuscommercialistica, a cominciare dal fondamentale scritto di Gustavo Minervini [1956] contro la funzionalizzazione dell'impresa privata).
Su altri due filoni innovativi, che hanno maggiormente segnato la dottrina giuscommercialistica, si dice più avanti nel testo.

Nello stesso periodo, anche il contributo dei giuscommercialisti al dibattito metodologico generale, che aveva visto Ascarelli protagonista negli anni Cinquanta, è solo sporadico. Si può ricordare F. DENOZZA, La struttura dell'interpretazione, in Riv.trim.dir.proc.civ., 1995, 20 ss. (che propone una originale versione, fortemente storicizzata e molto attenta al dibattito americano, delle teorie cognitivistiche dell'interpretazione); nonché M. LIBERTINI, Il vincolo del diritto positivo per il giurista, in Scritti in onore di Angelo Falzea, IV, Giuffrè, Milano, 1991, .. ss. (che propone una forma di giuspositivismo critico, ispirata alle idee di Tullio Ascarelli e di Umberto Scarpelli). Si deve anche ricordare G. VISENTINI, Lezioni di teoria generale del diritto3,Cedam, Padova, 2008.E' rimasto invece vivo l'impegno dei giuscommercialisti italiani nel ripercorrere la storia della propria disciplina e nel riflettere costruttivamente sulla stessa. Oltre agli scritti di F. Galgano, su cui ci si soffermerà più avanti, e agli scritti di autori più giovani (che si sono soffermati soprattutto sulla storia della codificazione del 1942: v.infra,nt.   ), si deve segnalare la magnifica trattazione generale di G. COTTINO (nt.   30).

69) Va ricordato però che proprio dall'ambiente disciplinare del diritto commerciale proviene una delle più significative trattazioni critiche della dottrina dell'analisi economica del diritto (F. DENOZZA,Norme efficienti. L'analisi economica delle regole giuridiche,Giuffrè, Milano, 2002). Inoltre, nello stesso torno di tempo in cui si affermava, a livello mondiale, il metodo dell'analisi economica del diritto di provenienza americana, fondato sulla pretesa di misurare scientificamente l'efficienza delle diverse soluzioni giuridiche mediante l'impiego delle tecniche dell'analisi economica neoclassica, un autorevole giuscommercialista italiano (Gerardo Santini) proponeva un suo metodo di esame della materia studiata (chiamato "economia del diritto"), fondato sul previo, approfondito studio delle tecniche affermatesi nella pratica degli affari e sulla valutazione di funzionalità (i.e. di efficienza) delle tecniche giuridiche impiegate per il raggiungimento degli scopi economici perseguiti dalle imprese. Questo metodo, che portò ad apprezzate trattazioni d'insieme (raccolte in G. SANTINI, Commercio e servizi, Il Mulino, Bologna, 1988), si ricollegava chiaramente alla tradizione metodologica del diritto commerciale italiano (v. supra, § 1-2). La proposta di S. esprimeva un'esigenza di valorizzare i profili migliori di questa tradizione (di cui avvertiva il deperimento) e, contemporaneamente, proponeva un metodo di analisi economica del diritto fondato non sull'economia neoclassica, bensì sull'esame della prassi mediante categorie storico-sociologiche. La differenza metodologica con la L&E (netta e potenzialmente importante) non fu però valorizzata dall'a. stesso, né dalla dottrina giuscommercialistica successiva, che ha sostanzialmente lasciato cadere la proposta di S. (che fu però molto apprezzata da G. AULETTA, Un saggio di economia del diritto, in Riv.trim.dir.proc.civ., 1980, 1080 ss.).

70) In particolare, l'attenzione verso il dato economico, caratteristica del metodo classico del diritto commerciale (v. supra, § 1) porta spesso a sottovalutarne le differenze con il metodo proprio della Law & Economics. P.e., S. CAPPIELLO, L'interazione tra economia e diritto, in Economia per il diritto, a cura di P. Ciocca e I. Musu, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, 80-1, ravvisa la principale differenza - dopo aver ricordato le posizioni di Vivante e di Ascarelli - nel fatto che i giuscommercialisti del passato rimanevano strettamente giuspositivisti e non concepivano una "argomentazione orientata alle conseguenze", anziché incentrata sui testi normativi. In realtà, credo che sia Vivante sia Ascarelli fossero tutt'altro che contrari ad "argomentazioni giuridiche orientate alle conseguenze" e che la differenza radicale con la L&E stia piuttosto nel fatto che essi concepivano il criterio della necessaria attenzione al dato economico come necessità di affrontare la materia studiata con attenzione alla tecnica industriale e commerciale e al dato storico e socioeconomico; del tutto assente era l'idea che l'analisi economica neoclassica (che Vivante, peraltro, non poteva neanche conoscere) potesse fornire risultati scientificamente oggettivi di misurazione dell'efficienza economica di questa o quella regola.  

71) Il clima del tempo è ben ricostruito da M. RICOLFI, L'impresa e il mercato, in Gli anni Settanta del diritto privato (nt. 66), 199 ss.

72) Ciò, nello stesso tempo, avveniva in scritti di giovani cultori della disciplina (v. F. CAVAZZUTI, Capitale monopolistico, impresa e istituzioni. Le teorie giuridiche e ideologie, Il Mulino, Bologna, 1974; F. FENGHI, Leggi del capitalismo e diritto dell'impresa, De Donato, Bari, 1974; E. GLIOZZI, Dalla proprietà all'impresa, Angeli, Milano, 1981), che si muovevano sul terreno della ricostruzione storico-critica della disciplina del diritto dell'impresa, ma rimasero marginali rispetto alla corrente principale della dottrina giuscommercialistica.

73) All'effimera fortuna di questa formula contribuì un volume di aa.vv., così intitolato (De Donato, Bari, 1976). Fra i numerosi scritti di F. Galgano, che sostennero questo programma di politica del diritto, il più significativo è F. GALGANO, Le istituzioni dell'economia capitalistica, Zanichelli, Bologna, 1974. Nello stesso tempo Galgano dava avvio (1977) al Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia (Cedam, Padova), che riprendeva, per la prima volta dopo la caduta del fascismo, l'idea della necessaria complementarietà fra il diritto pubblico dell'economia e il diritto privato delle attività commerciali, e la rivista di cultura politica "Problemi della transizione" (1979, Pratiche ed., Parma), incentrata sull'idea della costruzione, ritenuta già allora in atto, del nuovo modello di governo democratico dell'economia.

74) M. RICOLFI (nt. 71) ricorda le critiche "da sinistra" (talora autorevoli, come quella di Guido Rossi) alle posizioni di Galgano; critiche che ponevano l'accento sulla possibilità di procedere ad una più radicale riforma in senso socialista dell'economia. Su un versante in certo senso opposto stava la posizione di chi scrive (anch'essa ricordata da Ricolfi, ed esposta soprattutto in alcuni scritti pubblicati proprio nel Trattato di Galgano), che tendeva a coniugare l'idea del governo democratico dell'economia con il modello di economia sociale di mercato, caratterizzato dalla normale presenza di imprese private in concorrenza effettiva fra loro e dalla tutela della concorrenza effettiva da parte dello Stato, con un'efficace politica antitrust. Lo stesso Ricolfi (p. 211) garbatamente mi rimprovera un'incoerenza, in questa posizione. Probabilmente, però, non c'era una vera e propria contraddizione. Il punto era che l'intervento correttivo dello Stato rispetto all'andamento "spontaneo" dei processi economici, come tale costituente componente essenziale dell'ideologia dell'economia sociale di mercato, veniva spinto verso approdi propriamente socialdemocratici, in cui allo Stato si assegnava un potere generale di ultima scelta nell'allocazione delle risorse (così certamente andando ben oltre il modello originario di economia sociale di mercato, di matrice ordoliberale).

75) F. d'ALESSANDRO (nt. 64).

76) Questo dualismo di orientamenti (definito come alternativa fra "autonomia sostanziale" e "autonomia formale" del diritto commerciale) è segnalato, anche con riferimento all'esperienza italiana dell'ultimo mezzo secolo, da L. SOLIDORO, Appunti sullo studio storico del diritto commerciale, in Teoria e storia del diritto privato - rivista internazionale on line, II/2009.

77) Trattazione fondamentale, in questa prospettiva, è quella di P. RAISCH,Geschichtliche Voraussetzungen, dogmatiche Grundlagen und Sinnwandel des Handelsrechts,Müller, Karlsruhe, 1965, in cui la proposta ricostruttiva del diritto commerciale come diritto dell'impresa assume un valore pregnante, anche per l'adozione del metodo tipologico (v.infra,§ 8.1).

Mi sembra significativo osservare che, a differenza di quanto era avvenuto nelle generazioni precedenti, la dottrina giuscommercialistica italiana non abbia dato immediata attenzione alle tesi di R., tanto che queste sono state divulgate in Italia, anni dopo, da un autorevole civilista (G. CIAN,Diritto civile e diritto commerciale oltre il sistema dei codici,inRiv.dir.civ.,1974, I, 524 ss.). Lo scritto di C. costituisce forse la punta più avanzata dell'orientamento volto a riaffermare un'autonomia del diritto commerciale su basi di specialità contenutistica, mediante l'individuazione di disposizioni di legge chiaramente dirette alle sole imprese o interpretabili come tali.


Gli sviluppi successivi del dibattito sull'autonomia del diritto commerciale in Germania, che sembrano peraltro ancora impostati soprattutto sul criterio della specialità contenutistica, sono riassunti in G.B. PORTALE,Il diritto commerciale italiano alle soglie del XXI secolo,inRiv.soc.,2008, 1 ss.
Si noti che, su un piano comparatistico, l'idea prevalente è, con ogni probabilità, quella del progressivo esaurimento dell'autonomia del diritto commerciale (cfr., p.e., D. TALLON [nt. 18], 145). Non mancano, però, indicazioni di segno opposto. Un recente contributo (P. MÄNTYSAARI, Organising the Firm. Theories of Commercial Law, Corporate Governance and Corporate Law, Springer, Berlin, 2012) lamenta la mancanza di una valida teoria unitaria del diritto commerciale (inteso in senso lato) e ritiene che la ragione di ciò stia nella prevalenza di un metodo di indagine che parte dalle norme, anziché dall'esame della realtà socioeconomica. Propone, in alternativa, una teoria del diritto commerciale definito come "Management-Based Commercial Law" ed incentra la successiva ricostruzione (peraltro limitata al diritto societario) su un'idea di impresa come formazione sociale vocata alla propria sopravvivenza di lungo periodo, rispetto a cui le norme di diritto societario (o dei contratti etc.) devono essere analizzate come "strumenti" per la realizzazione delle finalità intrinseche dell'impresa. Questo contributo (che non ritengo destinato a grande avvenire) merita comunque di essere citato perché denota la vitalità, anche in una prospettiva comparatistica, del metodo "sociocentrico", da sempre teorizzato nella dottrina giuscommercialistica italiana, nonché la forza dell'idea secondo cui il diritto dell'impresa presenta una forte esigenza di trattazione autonoma rispetto a quella del diritto civile tradizionale (basato sulla centralità del diritto di proprietà e dell'atto di scambio).

78) Della sterminata letteratura che ha sviluppato questo tema v., p.e., L.E. TRAKMAN,The Law Merchant: the Evolution of Commercial Law,Hein, Buffalo (N.Y.), 1983;  una semplice introduzione al tema, incentrata sull'illustrazione delle idee di coloro che sono ritenuti i padri fondatori della teoria (C. Schmitthoff e B. Goldman), può leggersi in N.E. HATZIMIHAIL,The many lives - and faces - oflex mercatoria:history as genealogy in International business law,in 71Law and Contemporary Problems,169 ss. [2008].
Una variante notevole di questo orientamento può vedersi nell'opera di R.GOODE,Commercial Law in the Next Millennium,Sweet & Maxwell, London, 1998 (di cui esiste una traduzione italiana [Giuffrè, Milano, 2003]), che propone una meditata teoria dell'autonomia del diritto commerciale (inteso essenzialmente, secondo la tradizione anglosassone, come diritto dei contratti commerciali e dei titoli negoziabili) in un ambiente, come quello inglese, che tradizionalmente non aveva riconosciuto tale autonomia. Nella teorizzazione di G. un diritto commerciale efficiente richiede il riconoscimento di un'autonomia privata solo eccezionalmente limitata da norme imperative e di un'ampia discrezionalità giudiziaria (come è avvenuto nell'esperienza inglese), ma anche di un alto livello di prevedibilità delle decisioni e di una metodologia giuridica ispirata a criteri dilegal policy,più che alla coerenza concettuale. Anche per questo a. è interessante notare che le sue idee sono state divulgate, in Italia, da un attento civilista (G. ALPA, Il diritto commerciale tra lex mercatoria e modelli di armonizzazione, in Contratto e impresa, 2006, 86 ss.).

79) V., p.e., L. BUTTARO, L'autonomia del diritto commerciale, in Riv.dir.comm., 2002, I, 421 ss., ove si sostiene che, dopo l'unificazione dei codici, tutta la materia del diritto delle obbligazioni è andata fuori dal diritto commerciale, che deve invece intendersi come diritto dell'impresa, comprensivo e delle norme di diritto privato e delle norme di diritto pubblico dell'economia.

80) G.B. PORTALE,Tra responsabilità della banca e "ricommercializzazione" del diritto commerciale,inJus,1981, 141 ss.; ID.,Diritto privato comune e diritto privato dell'impresa,inBanca borsa tit.cred.,1984, I, 14 ss.; la stessa linea di pensiero è stata ampiamente sviluppata da V. BUONOCORE,Le nuove frontiere del diritto commerciale,E.S.I., Napoli, 2006. Ambedue gli aa. hanno avuto l'amabilità di citare, come precursore di questo orientamento, M. LIBERTINI, Profili tipologici e profili normativi nella teoria dei titoli di credito, Giuffrè, Milano, 1971 (ediz. fuori commercio).

81) G.B. PORTALE (nt. 80), 11.

82) G.B. PORTALE (nt. 80), 11 ss.

83) Dev'essere però segnalata un'adesione di principio a questa indicazione di metodo da parte di S. DELLE MONACHE, "Commercializzazione" del diritto civile e viceversa,inRiv.dir.civ.,2012, I, 489 ss. (con opportune indicazioni di possibili sviluppi applicativi).

84) Mi permetto di richiamare, a questo proposito, M. LIBERTINI, Autonomia individuale e autonomia d'impresa, in I contratti per l'impresa, a cura di G. Gitti e aa., Il Mulino, Bologna, 2012, I, 33 ss. (ove un tentativo di sviluppare la proposta costruttiva indicata nel testo e indicazioni dottrinali e giurisprudenziali sugli orientamenti ivi ricordati e criticati).

85) Il testo fondamentale è, notoriamente, P. FERRO-LUZZI,I contratti associativi,Giuffrè, Milano, 1971. L'insegnamento di F.L.  trova a sua volta un ascendente nello studio di un autore di grande ingegno, precocemente scomparso (P. VITALE, Contributo allo studio della partecipazione sociale, Giuffrè, Milano, 1965).

86) Come è stato efficacemente scritto da uno dei principali esponenti dell'impostazione discussa nel testo, "Il senso di un codice di commercio, e più in generale di una costruzione del diritto commerciale, pare a me risiedere non tanto nel dato formale e classificatorio di una delimitazione di confini e di materie, e neppure in quello soltanto empirico della rilevazione di differenziazioni disciplinari, quanto, in termini ben più importanti e sostanziali, nella possibilità di una distinzione dei paradigmi per la conoscenza e concettualizzazione del materiale normativo [enfasi aggiunta]" (C. ANGELICI, La lex mercatoria e il problema dei codici di commercio, in Giur.comm., 2010, I, 372-3.

87) Cfr. C. ANGELICI,Diritto commerciale,Laterza, Bari-Roma, 2003; B. LIBONATI,La categoria del diritto commerciale,inRiv.soc.,2002, 1 ss. (eivi,in particolare, p. 24: "Il sistema del diritto commerciale.. si costruisce.. in funzione delle caratteristiche e delle istanze dell'attività oggettivamente considerata, oggi diremmo dell'impresa nel mercato, non in funzione del soggetto che ne risulta poi il centro di imputazione").
Più articolata la posizione di P. SPADA,La rivoluzione copernicana (quasi una recensione tardiva ai Contratti associativi di Paolo Ferro Luzzi),inRiv.dir.civ.,2008, I, 143 ss., il quale esprime perplessità su alcuni profili teorici della proposta di F.L., e in particolare sulla possibilità di costruire concettualmente il diritto dell'impresa superando gli schemi logici dell'imputazione soggettiva e della fattispecie, ma contemporaneamente attribuisce a F.L. il merito di avere valorizzato, in modo originale, lo schema concettuale dell'impresa come realtà superindividuale e di avere incentrato su di essa la costruzione delle norme di diritto commerciale. Ritiene invece che la centralità della figura dell'impresa, nell'elaborazione sistematica del diritto delle società, sia stata ben presente nella dottrina giuscommercialistica italiana, anche prima dell'opera di F.L., G. SCOGNAMIGLIO, Tutela del socio e ragioni dell'impresa nel pensiero di Giorgio Oppo, in Banca borsa tit.cred., 2012, I, 1 ss.

88) In qualche caso la contrapposizione viene impiegata a scopilato sensudescrittivi, cioè per spiegare le supposte linee portanti delle scelte legislative. Per esempio, il passaggio, nella disciplina delle procedure concorsuali, dalla logica punitiva del vecchio fallimento a quella della conservazione dell'impresa (v. F. PENNAFINA,La revocatoria fallimentare nei modelli di amministrazione straordinaria,Cedam, Padova, 2010, 48).
In altri casi, la distinzione tra "sistema a soggetto" e "sistema ad attività" viene impiegata a scopi dichiaratamente costruttivi. Così, p.e., A. CETRA,L'impresa collettiva non societaria,Giappichelli, Torino, 2003, 68 ss. ricorre a questa impostazione per spiegare l'applicabilità, in linea di principio, della disciplina dell'impresa commerciale anche ad attività gestite da soggetti collettivi diversi dalle società (soluzione peraltro tradizionalmente affermata, anche senza il ricorso a questa concettuologia); A. VALZER,La responsabilità da direzione e coordinamento di società,Giappichelli, Torino, 2011, 199 ss., nel porsi il problema della estensibilità analogica della disposizione dell'art. 2497 c.c. sulla responsabilità della societàholdingalle persone fisiche che svolgano stabilmente attività di direzione e coordinamento di società, muove dalla professata adesione all'impostazione teorica ricordata nel testo per affermare che la disciplina dell'art. 2497 è una disciplina dell'attività e non del soggetto, e come tale estensibile a soggetti diversi da quelli espressamente menzionati dal testo normativo (conclusione che peraltro l'a. rafforza con un attento esame teleologico e sistematico della disposizione, senza limitarsi all'argomento concettualistico sopra ricordato). E' interessante comunque osservare che la coppia concettuale, ricordata nel testo, comincia ad essere usata come strumento euristico anche al di fuori degli stretti confini disciplinari del diritto commerciale (cfr. A. DI SAPIO, Gli strumenti contrattuali di cura e di protezione dei minori d'età portatori di handicap: un'esposizione, in Trattato di diritto di famiglia, dir. da P. Zatti - VI: Tutela civile del minore e tutela sociale della famiglia, a cura di L. Lenti, Giuffrè, Milano, 2012, 579 ss.).

89) Così P. GROSSI,Il diritto civile italiano alle soglie del terzo millennio (una pos-fazione),inQuaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno,2010, 473, richiamando le idee di L. Mossa (v.supra,§ 3).

90) Vedine qualche esempio nelle opere - pur valide, per molti aspetti - citatesupra,nt. 88.
A mio avviso, un altro profilo di debolezza - su cui non ci si può soffermare a lungo in questa sede - riguarda proprio l'impostazione teorica del discorso di F.L., e in particolare l'assunto, ribadito con forza, di voler costruire una teoria giuridica dell'impresa prescindendo dalle nozioni di "soggetto" e di "fattispecie".
In proposito è stato giustamente osservato che "l'analisi giuridica non può fare a meno di chiedersi quali regole si applicano, a quali condizioni e a chi"(P. SPADA, Boutiquierse Padri Costituenti,inNegozianti e imprenditori[nt. 8], 127). E' teoricamente insostenibile, in effetti, la pretesa di formulare enunciati normativi facendo a meno delmediumlogico della fattispecie, intesa come descrizione di dati di fatto a cui l'ordinamento ricollega una determinata rilevanza giuridica, e del "soggetto", come centro d'imputazione delle possibili qualificazioni deontiche di determinati comportamenti (dovere, diritto, interesse legittimo, potere etc.).
La pretesa di F.L. di superare la descritta impostazione si spiega con l'influenza su di lui esercitata dall'elaborazione civilistica (D. Rubino, A. Cataudella, R. Scognamiglio e altri) della dottrina della "fattispecie" come elemento di dinamica giuridica (i.e. "fattispecie" come presupposto del c.d. effetto giuridico) e dalla relativa discussione (molto vivace negli anni Sessanta, anche se intrisa, a mio avviso, di equivoci) sulla possibilità di qualificare il "negozio giuridico" come "fattispecie" o come strumento di valutazione di comportamenti. Rimane invece estranea alla ricostruzione di F.L. la teoria (oggi prevalente) della norma giuridica come periodo ipotetico (Kelsen, Bobbio), in cui per "fattispecie" si intende la prima parte del periodo stesso, consistente nella descrizione generale e astratta di determinati fatti ("Se è A, allora..": c.d. protasi), contrapposta alla seconda parte, che descrive le conseguenze che l'ordinamento attribuisce al verificarsi dei fatti descritti (sanzione, premio o quant'altro: c.d. apodosi).
E' chiaro che, se si parla dell'impresa svolgendo un discorso giuridico normativistico, l'affermazione per cui l'impresa "non è fattispecie" è priva di senso. Se invece si usa il termine "fattispecie" come sinonimo di fatto giuridico semplice, produttivo di effetti determinati, l'enunciato assume un senso: è chiaro che l'impresa, in senso giuridico, non può essere assimilata ad un fatto giuridico semplice (come può essere, per esempio, un omicidio o una permuta), produttivo di effetti determinati. L'impresa, come attività organizzata, potrà descriversi giuridicamente come sistema complesso di norme, variamente coordinate fra loro. Ciascuna di queste, tuttavia, dovrà essere logicamente articolata in termini di distinzione tra fattispecie e disciplina. In questa prospettiva sarà inevitabile, in molti casi, parlare dell'impresa in sé come fattispecie (p.e. come presupposto per l'applicazione delle norme sulla concorrenza o sul fallimento). In questo senso rimane ineccepibile G. OPPO,L'impresa come fattispecie,inRiv.dir.civ.,1982, I, 109 ss.
Anche per quanto riguarda il superamento della figura del "soggetto", nel diritto dell'impresa, la critica di F.L. sovrappone una descrizione tipologica dell'impresa (cioè l'assunzione dell'impresa, come "tipo ideale" della realtà sociale, che dev'essere correttamente posto a base del ragionamento giuridico in materia) con la ricostruzione normativa analitica del diritto dell'impresa. Sotto il primo profilo il soggetto/individuo è solo componente di un'attività organizzata stabile (e non il "centro del sistema", come accade nell'individualismo proprietario che sta alla base della tradizionale dogmatica civilistica); sotto il secondo profilo (cioè al momento della ricostruzione dettagliata della disciplina normativa) non si può certamente fare a meno dell'individuazione di centri d'imputazione delle singole norme di cui il diritto dell'impresa si compone. A mio avviso, il limite teorico della dottrina di F.L. può riassumersi nell'accusa di avere trascurato una rigorosa (e "normale") impostazione normativistica analitica del ragionamento giuridico, per privilegiare invece una strategia comunicativa di tipo "essenzialistico" (cioè volta a definire la "vera natura" dell'impresa, nell'universo giuridico). In questo senso è interessante osservare (v. sopra, nel testo) come tale dottrina, che a più riprese ha rivendicato un pieno distacco dalla dogmatica civilistica, appaia poi molto più influenzata dal metodo dogmatico concettualistico tradizionale di quanto possa dirsi della maggior parte della produzione dottrinale giuscommercialistica.

91) V. M. LIBERTINI,, Diritto amministrativo e diritto commerciale, in Il mondo nuovo del diritto - Per gli 80 anni di Sabino Cassese, Il Mulino, Bologna, 2016 (di prossima pubblicazione).

92) F. GALGANO, Lex mercatoria.Storia del diritto commerciale,Il Mulino, Bologna, 1993 (nelle precedenti edizioni l'opera era intitolata soltanto "Storia del diritto commerciale"). ID.,La globalizzazione nello specchio del diritto,Il Mulino, Bologna, 2005. Non è qui il caso di estendere i richiami alla sterminata letteratura formatasi sul tema "diritto e globalizzazione", salvo che per un richiamo a N. IRTI, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Laterza, Bari-Roma, 2001, a cui G. OPPO (Princìpi, in Trattato di diritto commerciale, dir. da V. Buonocore, Giappichelli, Torino, 2001, 64) attribuì un'idea di distinzione fra diritto civile, come diritto radicato in uno spazio e diritto commerciale come diritto dell'economia, tendenzialmente aspaziale (credo però che, nella riflessione di I., il problema della perdita di radicamento spaziale del diritto contemporaneo si ponga in una prospettiva generale, non legata a partizioni disciplinari).

93) F. GALGANO,Le anime moderne del diritto privato romano,inContratto e impresa / Europa,2010, 141 ss. V. però, nell'ultimo scritto di Galgano (La giurisprudenza fraars inveniendiears combinatoria, inContratto e impresa,2012, 77 ss.), un riconoscimento dell'esigenza di porre dei limiti alla creatività giurisprudenziale. Su questa linea si muove ancor più decisamente un autore molto vicino a Galgano (G. PANZARINI, Il diritto naturale come fonte del diritto, Cedam, Padova, 2009, con molte informazioni sui filoni giusnaturalistici presenti nella cultura giuridica, anche contemporanea).

94) Espressione di questo programma culturale è la rivista "Contratto e impresa - Dialoghi con la giurisprudenza",fondata da Galgano nel 1983, e divenuta poi rapidamente una delle principali riviste giuridiche italiane. La rivista, che già dal titolo denota la particolare attenzione al diritto di formazione giurisprudenziale e contrattuale, in coerenza alle contemporanee elaborazioni di G. in materia dilex mercato ria,tratta, senza confini prestabiliti, l'intero campo del diritto privato (con una preminente attenzione, potrebbe dirsi, verso temi di diritto privato generale). E' interessante notare che Galgano, quasi a confermare questa scelta di superamento dello specialismo giuscommercialistico, concluse la sua carriera accademica come professore di diritto civile, dopo averla iniziata come professore di diritto commerciale. Coerentemente, la scuola da lui formata in questo periodo è caratterizzata dalla capacità di occuparsi di temi tradizionalmente classificati nell'ambito di ambedue le discipline (v., in particolare, la produzione di Massimo Franzoni).

95) Non può negarsi che, nello stile comunicativo di G., l'esigenza di costruire ed affermare le proprie idee prevalesse spesso su quella di confutare analiticamente le opinioni che egli riteneva superate o poco interessanti. Altrettanto innegabile è, tuttavia, che nessun altro giurista italiano della stessa generazione ha proposto e diffuso tante idee quanto lui, né le ha sostenute con la stessa, esemplare chiarezza, così stimolando il successivo dibattito.

96) V., per esempio, M. RESCIGNO, Lex mercatoria, in Treccani.it - XXI secolo [2009].

97) V., per esempio, C. ANGELICI (nt. 87).

98) V., da ultimo, E. KADENS,The Myth of Customary Law Merchant,in 90Texas Law Review,1153 ss. [2012], che afferma che la teoria dellalex mercatoria(costruita, secondo la ricostruzione dell'a., da una serie di studiosi comprendente, in ordine cronologico, L. Goldschmidt, W. Mitchell, B. Goldman, H. Berman, L. Trakman, B. Benson) ha carattere prettamente ideologico: una consuetudine mercantile uniforme internazionale non sarebbe mai esistita, mentre diffuse e incerte erano le consuetudini locali, di cui i mercanti dovevano tenere conto. Il mito dellalex mercatoriasi fonda sull'esistenza di prassi contrattuali diffuse a livello internazionale e sulla spinta dei mercanti, spesso riuscita, ad ottenere riconoscimento delle prassi contrattuali da parte di legislazioni e giurisdizioni locali.
Probabilmente l'analisi dell'a. citata sarebbe stata più approfondita se avesse conosciuto R. ORESTANO,Dietro la consuetudine,inRiv.trim.dir.pubbl.,1963, 521 ss., ove si dimostra che la consuetudine, negli ordinamenti evoluti, è creata essenzialmente dal ripetersi di clausole contrattuali e di decisioni giudiziarie. Il problema non è dunque se la lex mercatoria sia "vera" consuetudine, ma quello della collocazione delle relative regole nel sistema delle fonti normalmente accettato.

99) Questa osservazione (largamente presente nella tradizione giuscommercialistica italiana) è stata ripresa, proprio discutendo la teoria della nuova lex mercatoria, da G. OPPO, Le ragioni del diritto: il diritto commerciale, in Riv.dir.civ., 1995, I, 507 ss., in uno scritto in cui la funzione fondamentale dello studio del diritto commerciale, oggi, viene individuata nell'esigenza di comprendere e bilanciare l'interesse delle imprese e l'interesse generale della collettività (proposta che  può essere intesa come una variante all'interno dell'idea più ampia del diritto commerciale come "diritto dell'impresa", supra discussa al § 8.1). Alcuni anni dopo lo stesso G. OPPO, Princìpi, in Trattato di diritto commerciale, dir. da V. Buonocore, Giappichelli, Torino, 2001, svolgeva una pregevole rassegna critica dei problemi nuovi emersi nella trattazione giuridica delle attività economiche, programmaticamente escludendo l'ipotesi di individuare princìpi di "diritto commerciale" distinti da quelli del "diritto civile".

100) V., p.e., J. BASEDOW, The State's Private Law and the Economy - Commercial Law ad an Amalgamo f Public and Private Rule-Making, in 56 American Comparative Law Journal, 703 ss. [2008].

101) Ho cercato di argomentare queste conclusioni in M. LIBERTINI, Le fonti private del diritto commerciale. Appunti per una discussione, in Riv.dir.comm., 2008, I, 599 ss.

102) Si può citare, per esempio, il contributo di un prestigioso civilista come N. LIPARI,Le categorie del diritto civile,Giuffrè, Milano, 2013, che esalta, al tempo stesso, la formazione spontanea del diritto da parte di una c.d. "comunità interpretante" e il ruolo (ritenuto imprescindibile) dell'impiego di categorie concettuali (in altri termini, della tradizionale "dogmatica", pur rinnovata nei contenuti) nell'argomentazione giuridica. Alla radice di questo atteggiamento, e di altri consimili, può vedersi l'insegnamento di Paolo Grossi, che ha avuto grande influenza fra i giuristi positivi italiani negli ultimi decenni (probabilmente più di qualsiasi altra impostazione di teoria generale del diritto). Questo insegnamento (da ultimo esposto in Ritorno al diritto, Laterza, Bari-Roma, 2016) si ispira, com'è noto, a un duro antistatalismo ed esalta, al tempo stesso, tanto il ruolo centrale delle dottrine, quanto la formazione "spontanea" del diritto. Nella dottrina giusprivatistica l'insegnamento di Grossi è stato esaltato, in particolar modo, da un giurista postmoderno per eccellenza come Guido Alpa (cfr. Paolo Grossi, a cura di G. Alpa, Laterza, Bari-Roma, 2011).

103) Alludo al violento pamphlet di F. GAZZONI, Favole quasi-giuridiche, Key, Vicalvi (FR), 2015 e al libro, meno violento ma ugualmente radicale nella critica, di C. CASTRONOVO, L'eclissi del diritto civile, Giuffrè, Milano, 2015. Si noti che si tratta di autori che godono di alto prestigio accademico, e non di outsider della disciplina.

104) In tal senso v. già P. SPADA,Codice civile e diritto commerciale,relazione al convegno dell'Unione dei Privatisti sul tema "I valori della convivenza civile e i codici dell'Italia unita",Roma - Accademia dei Lincei, nov. 2011 (in corso di pubblicazione). Probabilmente non distanti, su questo punto, sono le conclusioni del recente, impegnativo contributo di G. TERRANOVA, Elogio dell'approssimazione. Il diritto come esperienza comunicativa, Pacini, Pisa, 2015, che ripercorre con cura il dibattito giusfilosofico e metodologico del XX secolo (condizionato da una visione del diritto caratterizzata dalla centralità attribuita al testo normativo), in una prospettiva culturale ampia, non incentrata sul dibattito metodologico interno alla dottrina giuscommericialistica.

105) In questo senso, a parte le opinioni già ricordate nel testo (da Rotondi a Galgano), v. anche P. SPADA, Diritto commerciale, I - Parte generale, Cedam, Padova, 2004, ove il diritto commerciale è visto solo come "un insieme di argomenti selezionati e combinati dalla storia". 

106) Di una "funzione ordinatrice" del diritto civile e dei suoi principi e concetti generali parla ancora P. MONTALENTI,Il diritto commerciale dalla separazione dei codici alla globalizzazione,inRiv.trim.dir.proc.civ.,2912, 379 ss., anche se solo per brevi accenni, nell'ambito di una pregevole sintesi dei principali  temi attuali della disciplina giuscommercialistica.

107) Anche in questa indicazione può vedersi un segno di continuità con il metodo tradizionale del diritto commerciale in Italia, caratterizzato, con Vivante, dalla "tensione verso l'unità della scienza giuridica a cominciare dalla pressoché totale cancellazione degli steccati all'interno del diritto privato"(così P. GROSSI [nt. 5], 94).