L’Autore commenta la regola introdotta dal d.lgs. n. 175/2016, che prevede la cancellazione d'ufficio delle società a controllo pubblico inerti dal registro delle imprese, manifestando alcune perplessità in ordine all’effettiva capacità della previsione di rispondere alle intenzioni del legislatore.
The Author analyses the rule introduced by Legislative Decree No. 175/2016 concerning the ‘ex officio’ striking off of companies that are controlled by public administrations from the business register. Particularly, he highlights some doubts on the rule’s ability to pursue the objectives of the Legislator.
KEYWORDS: business register - companies controlled by public administrations
CONTENUTI CORRELATI: cancellazione - società a controllo pubblico - registro delle imprese
* Comunicazione al convegno in ricordo di Luca Buttaro Le "nuove" società partecipate e in house providing alla luce dei testi unici su società partecipate e servizi pubblici locali (Bari, Università degli Studi Aldo Moro, 21-22 ottobre 2016) i cui atti sono in corso di pubblicazione.
** Professore ordinario di diritto commerciale, Università Luiss Guido Carli.
1. Premessa - 2. Carattere transeunte della norma - 3. Presupposto soggettivo - 4. Presupposti obiettivi: - 4. 1 il mancato deposito del bilancio d’esercizio - 4. 2 il mancato compimento di atti di gestione - 5. Il procedimento di cancellazione - 6. Gli effetti - NOTE
Il testo unico in materia di società a partecipazione pubblica emanato (in attuazione delle deleghe di cui agli artt. 18 e 19 della legge n. 124 del 7 agosto 2015, c.d. "riforma Madia") con d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, e prontamente ribattezzato "codice delle società pubbliche", contiene una norma - l'art. 20, co. 9 - intesa ad eliminare «le società a controllo pubblico che, per oltre tre anni consecutivi, non abbiano depositato il bilancio d'esercizio ovvero non abbiano compiuto atti di gestione».
Chiara nel suo scopo (l'eliminazione delle società a controllo pubblico inerti[1]), e chiara anche, almeno a prima vista, nella sua formulazione, la disposizione suscita un certo interesse e non manca di porre qualche dubbio interpretativo (che questa mia brevecomunicazione ad un convegno cui non mi è stato possibile intervenire vorrebbe, se non dissipare, almeno segnalare) legittimando (per le ragioni che cercherò di illustrare) più d'una perplessità circa la sua capacità di rispondere alle intenzioni del legislatore.
Una prima notazione concerne l'ambito temporale di applicazione della norma. È, infatti, «entro un anno» dall'entrata in vigore del d.lgs. n. 175 del 2016, che il conservatore del registro delle imprese «cancella d'ufficio» le società a controllo pubblico colpevoli di accidia.
Ebbene: se non v'è alcun dubbio che competente a disporre la cancellazione di queste società sia il conservatore del registro delle imprese e non il giudice del registro delle imprese[2] (così facendo la disposizione accresce le sue attribuzioni conferendogli un ulteriore e specifico compito[3]), altrettanto indiscutibile è che la disposizione abbia carattere transeunte. Una volta che sia spirato l'anno successivo all'entrata in vigore (23 settembre 2016) del codice delle società pubbliche, l'ufficio del registro delle imprese non potrà più adottare il provvedimento di cancellazione (e torneranno ad applicarsi solo le norme del codice civile, che non prevedono che una società possa essere cancellata per non avere compiuto atti di gestione o per non avere depositato l'ordinario il bilancio d'esercizio ma solo per mancato deposito del bilancio d'esercizio in liquidazione[4]): nemmeno - direi - nel caso in cui entro quell'anno abbia dato inizio al relativo procedimento.
Il potere attribuito al conservatore è infatti eccezionale (eccezionale, del resto, è anche una cancellazione non preceduta da liquidazione[5], così come difforme dall'ordinario è, nel codice civile, la cancellazione non preceduta da una liquidazione che si concluda con un bilancio finale) e non può essere esercitato oltre il caso stabilito dalla legge.
La regola non è dunque volta ad istituire un regime stabile, in forza del quale ogni qual volta una società a controllo pubblico si dimostra inattiva deve essere cancellata dal registro delle imprese, ma in tal senso dispone solo all'interno di un arco di tempo[6].
Siamo invece al cospetto di una disposizione ad applicazione temporanea: benché tale suo connotato stenti ad accordarsi al programma delle norme recate dall'articolo di cui fa parte, che sono dedicate - come preannunciato dalla rubrica dell'articolo stesso - alla «razionalizzazione periodica» delle partecipazioni pubbliche (così come, potrebbe soggiungersi, poco si concilia con la struttura formale del d.lgs. n. 175, che si chiude con disposizioni a carattere transitorio nelle quali forse la nostra norma avrebbe potuto trovare più acconcia collocazione).
Come rammentato, la legge prevede la cancellazione delle società a controllo pubblico che non abbiano, per un certo periodo (tre anni consecutivi), «depositato il bilancio d'esercizio ovvero non abbiano compiuto atti di gestione»; e per «società a controllo pubblico» si devono intendere - giusta la definizione data dall'art. 2, lett.m, del d.lgs. n. 175 del 2016 - le società in cui una o più amministrazioni pubbliche (quelle di cui all'art. 1, co. 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, i loro consorzi o associazioni per qualsiasi fine istituiti, gli enti pubblici economici e le autorità portuali) esercitano i poteri di controllo di cui all'art. 2359 cod. civ. o nelle quali, in forza di legge o di regola statutaria o di patto parasociale, per le «decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all'attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo».
Mi sembra che tale disciplina solleciti due ordini di considerazioni.
a) La prima concerne la concreta possibilità, per il conservatore del registro delle imprese, di assolvere al compito affidatogli dalla legge.
La struttura del registro delle imprese non conosce una sezione nella quale debbano essere iscritte le società a controllo pubblico, sicché non sarà per nulla agevole, per il suo conservatore, identificare le società alle quali applicare la disposizione in esame. Ciò deve dirsi, in particolare, quando il controllo pubblico non si esprime in una partecipazione diretta di una o più pubbliche amministrazioni al capitale della società, ma è indiretto, ha luogo attraverso consorzi o associazioni delle amministrazioni pubbliche, e ancor più quando si sostanzia in un'influenza dominante determinata da vincoli contrattuali o si realizza con un patto parasociale che imponga unanime consenso per assumere certe decisioni sociali.
In situazioni del genere, di regola il controllo pubblico rimarrà invisibile al conservatore del registro delle imprese, che ben difficilmente potrebbe avvedersene e che non avrebbe nemmeno modo di avvedersene se non - forse - attraverso un'azione di detectiondavvero assai complessa (che non soltanto richiederebbe molto tempo[7], ma che, se debitamente coltivata, avrebbe altresì, per i pubblici apparati nel loro complesso considerati, un costo che verosimilmente sopravanzerebbe quello, che la legge intende eliminare, delle società a controllo pubblico in stato vegetativo).
Ciò induce ad esprimere serie riserve in ordine alla concreta, piena, efficienza della nostra norma: lo scopo perseguito dal legislatore del 2016 potrebbe rimanere (difficile, se non impossibile, dire in quale misura) realizzato solo in parte (e forse, in termini di costi, rivelarsi una di quelle partite che non valgono la candela necessaria a giocarle).
b) In secondo luogo, ci si deve porre l'interrogativo se il mancato deposito del bilancio d'esercizio o il mancato compimento di atti di gestione per tre anni consecutivi legittimi il provvedimento di cancellazione a condizione che per tutto detto lasso di tempo la società sia stata in pubblico controllo.
Mi sembra che a tale interrogativo si debba dare risposta affermativa. La legge mira ad eliminare le società durevolmente (per tre anni almeno) inoperose che siano a controllo pubblico, ed è tale controllo che attribuisce risalto all'inattività temporalmente qualificata.
Sicché, e per fare un esempio: se avessimo una società che non ha depositato il bilancio dell'esercizio n. 1 e che, dopo essere diventata a controllo pubblico nel corso dell'esercizio n. 2, non ha depositato il bilancio degli esercizi n. 2 e n. 3, la fattispecie della legge non si integrerebbe: quella dell'esercizio n. 1 sarebbe, infatti, inazione di una società "comune" e non inazione di una società a controllo pubblico.
Come ho già detto, la legge prevede la cancellazione delle società a controllo pubblico che non abbiano, per tre anni consecutivi, «depositato il bilancio d'esercizio ovvero non abbiano compiuto atti di gestione».
Si tratta di due presupposti diversi, alternativi fra loro.
Induce ad affermarlo, anzitutto, il dato testuale della norma: sebbene, come segnalano gli studiosi della lingua, il termine «ovvero» stia, nell'uso corrente, assumendo una funzione soprattutto esplicativo-dichiarativa (equivalente a «cioè», «ovverosia», «in altre parole», etc.) o finanche correttiva (corrispondente a locuzioni quali «o meglio», «per meglio dire» et similia)[8], il lemma è, propriamente, una forma rafforzata, perciò utilizzata soprattutto quando il termine o la locuzione al quale si premette o tiene seguito sono costituiti da un'intera proposizione, della congiunzione disgiuntiva «o», volto a mettere in relazione due elementi che stanno tra loro in rapporto di esclusione reciproca, e indica pertanto un'alternativa[9].
Lo conferma, poi, la considerazione che, come meglio si dirà[10], la mancanza di bilanci d'esercizio è indice di inattività della società, mentre l'assenza di atti di gestione è segnale di carenza di attività imprenditoriale della società: situazioni fra loro ontologicamente diverse, sì che la seconda non può essere delucidativa o esegetica della prima.
Ciò detto, prendo esordio dal primo di detti presupposti, riguardo al quale mi sembra si possano svolgere le seguenti notazioni.
a) Va anzitutto osservato che la legge utilizza la stessa formula impiegata dal codice civile nell'art. 2490, 6° co., nonché nell'art. 2545-septiesdecies(nel quale però si parla di «due anni consecutivi»), e consimile a quella adoperata dall'art. 223-septiesdeciesdisp. att. cod. civ. (che si occupa degli «enti cooperativi che non hanno depositato i bilanci di esercizio da oltre cinque anni») nonché a quella adottata dall'art. 2545-octiesdecies, 2° co., cod. civ. (riferito alle «società cooperative e degli enti mutualistici in liquidazione ordinaria che non hanno depositato i bilanci di esercizio relativi agli ultimi cinque anni»)[11].
Tornano dunque a presentarsi , nella lettura della nostra disposizione, quelle possibili, diverse, esegesi affacciate al cospetto delle norme civilistiche[12], con un dibattito che, aperto con riferimento all'art. 2490, 6° co., cod. civ., ha visto affermarsi - e fondatamente, a mio avviso - la tesi per cui il termine decorso il quale può procedersi alla cancellazione d'ufficio della società dal registro delle imprese matura quando, non essendo stati depositati i due bilanci immediatamente precedenti, sia superato di un giorno il termine per il deposito del terzo bilancio[13].
b) In disparte tale notazione, va osservato che il connotato speciale dell'art. 20, co. 9, del codice delle società pubbliche è tale da prevalere sulle disposizioni generali del codice civile.
Se questo, con riguardo alle società di capitali, annette rilievo solo ai bilanci d'esercizio della liquidazione (art. 2490, 6° co.), la disposizione in esame non pone, invece, uguale specificazione, ma equipara i bilanci che si devono redigere e pubblicare durante la fase estintiva di una società a quelli che si devono compilare e pubblicare nel corso della vita attiva di una società.
Sicché la fattispecie della nostra norma si integra con il mancato deposito nel registro delle imprese di tre bilanci d'esercizio indipendentemente dal fatto che tratti di bilanci in winding up concerno in going concern[14]: e conseguentemente (in ciò il proprium della disciplina, che pure in certe fattispecie coincide, sormontandola in ragione di specialità, con quella del codice[15]), a differenza di quanto è a dirsi con riguardo alla previsione dell'art. 2490, 6° co., cod. civ., il mancato deposito di uno o di alcuni di quelli si salda al mancato deposito di alcuni o di uno di questi[16].
c) Quanto appena osservato consente un'ulteriore notazione: disponendo nel senso che si è detto, la norma mostra di non occuparsi (come viceversa l'art. 2490, 6° co., cod. civ.) dell'inattività della liquidazione di una società, ma di avere a cuore, più estesamente (al pari dell'art. 3, co. 1, lett. b, del d.p.r. 23 luglio 2004, n. 247, dedicato alle società di persone[17], ed al pari dei già richiamati artt. 2545-septiesdecies cod. civ. e 223-septiesdecies disp. att. cod. civ.[18]), l'inattività della società a controllo pubblico. L'eliminazione dal c.d. traffico giuridico di questa, in quanto inerte, che si realizza attraverso la sua cancellazione dal registro delle imprese, non persegue dunque finalità solo di "pulizia" dei registri della pubblicità commerciale, ma va oltre, traendo ragione dall'esigenza di sopprimere le società a controllo pubblico che si dimostrino inattive in quanto omettono di depositare i bilanci[19], al servizio di un disegno di riassetto che il legislatore ha reputato di poter portare a segno, e porre a regime, nel volgere di un anno.
Altre osservazioni sollecita il secondo presupposto del provvedimento di cancellazione, costituito, come più volte rammentato, dal mancato compimento, per tre anni consecutivi, di «atti di gestione» (anche qui, come nel caso del mancato deposito dei bilanci d'esercizio, non rileva che l'assenza di «atti di gestione» si riscontri in integro statu societatiso quando la società si trovi in liquidazione[20]).
a) Vi è, anzitutto, da interrogarsi su cosa debba intendersi per «atti di gestione»[21].
Così come per il mancato deposito del bilancio d'esercizio sul quale mi sono soffermato nel precedente paragrafo, pure qui la nuova disposizione conosce precedenti. Anche nell'art. 2545-septiesdecies, 1° co., cod. civ. si parla, quale presupposto del loro scioglimento per atto dell'autorità (cui può far seguito la liquidazione o no), della società cooperativa e dell'ente mutualistico che, per due anni consecutivi, non hanno «compiuto atti di gestione»; altresì, del mancato compimento di «atti di gestione» (per «tre anni consecutivi») parlano gli artt. 2, co. 1, lett.c, e 3, co. 1, lett.b, del d.p.r. 23 luglio 2004, n. 247 come presupposto della cancellazione dal registro delle imprese dell'imprenditore individuale e delle società di persone.
In tutte queste norme, assenza di «atti di gestione» non significa mancanza di attività sociale, ma difetto di azione imprenditoriale, assenza di svolgimento di attività economica[22]. Perciò, una deliberazione assembleare di rinnovo di cariche, che è decisione organizzativa del soggetto, atto neutro rispetto al profilo dell'esercizio dell'impresa, non sarà in grado di dimostrare che sono stati compiuti «atti di gestione»; e così pure una deliberazione di aumento di capitale o di fusione, operazioni che pur dimostrano una vitalità della società come soggetto, ma che tuttavia non necessariamente attestano (benché almeno normalmente presuppongano) una uguale sua vitalità imprenditoriale, quella che si esprime e realizza negli «atti di gestione», non saranno in grado di certificare che la società è imprenditorialmente attiva ed operosa (o non totalmente inattiva ed inoperosa).
D'altro canto, atteso che, almeno a stare alla struttura formale della norma, al precetto rimane estraneo un momento valutativo (non la qualità o la quantità degli «atti di gestione» deve essere considerata, ma è la loro accertata ultratriennale assenza ad assumere obiettivo rilievo), a stretto rigore basterebbe qualche atto (se non addirittura un singolo atto) di gestione - ancorché imprenditorialmente poco significativo ed economicamente marginale, e finanche quando ab intrinsecoindifferente alla dinamica imprenditoriale[23] - a sottrarre la società a controllo pubblico alla cancellazione ufficiosa[24]. Non si può non avvertire che una conclusione tanto rigorosa poco si accordi agli intendimenti della disposizione, quali si debbono cogliere nel complesso del testo normativo in cui si colloca: sebbene vada soggunto che una lettura che ammetta un potere-dovere di apprezzamento del conservatore circa gli «atti di gestione» in mancanza dei quali la società a controllo pubblico merita di essere cancellata, si risolverebbe nell'attribuirgli compiti estimativi non solo piuttosto ardui da assolvere, ma anche alquanto distanti dalla funzione sua propria, di custode del registro delle imprese. Certo è tuttavia che in entrambe le ipotizzate prospettive ermeneutiche sarà - o quanto meno potrà ben essere -assai difficile, per il conservatore del registro delle imprese, riscontrare la sussistenza di questo presupposto[25]: il che sembra capace di compromettere non poco l'élan vital della norma, di frustrare le intenzioni del legislatore.
b) Invero, l'accertamento dell'assenza di «atti di gestione» implica una verifica tanto meno agevole se si considera che il conservatore del registro delle imprese non soltanto è chiamato ad assodare un fatto negativo, ma per soprammercato è chiamato a provvedervi operando ab externo, senza disporre di poteri ispettivi[26].
Istituzionalmente, infatti, le uniche fonti informative che il conservatore ha a sua disposizione sono costituite dagli atti societari che il registro delle imprese ospita: tuttavia, non è detto che il conservatore abbia modo di verificare l'integrarsi di questo presupposto obiettivo attraverso l'esame dei bilanci di esercizio, per quanto le tavole contabili, segnatamente nel conto economico, sono in grado di mostrare se messe a raffronto o per quanto possono esporre e specificare nelle connesse relazioni illustrative.
E se è vero che, ove si condividesse quanto fra breve dirò[27], il procedimento che la legge impone al conservatore del registro delle imprese di seguire potrebbe essere a tal fine utilizzato, ponendo almeno in parte rimedio alle difficoltà che, diversamente, la nostra norma incontrerebbe nella sua concreta applicazione, altrettanto vero è - a me sembra - che detto procedimento può essere avviato se il conservatore ha già in qualche modo constatato l'assenza di «atti di gestione» e non al fine di constatare detta assenza.
L'art. 20, co. 9, del d.lgs. n. 175 subordina l'adozione del provvedimento di cancellazione al preventivo interpello della società a controllo pubblico. Questa la regola: «prima di procedere alla cancellazione, il conservatore comunica l'avvio del procedimento agli amministratori o ai liquidatori, che possono, entro sessanta giorni, presentare formale e motivata domanda di prosecuzione dell'attività, corredata dell'atto deliberativo delle amministrazioni pubbliche socie, adottata nelle forme e con i contenuti previsti dall'art. 5» del medesimo d.lgs. n. 175; «in caso di regolare presentazione della domanda, non si dà seguito al procedimento di cancellazione».
a) Una prima notazione concerne i destinatari della comunicazione[28]: che non sono le società interessate dal procedimento di cancellazione, bensì - e solo - i loro organi di gestione.
La disposizione mi sembra un po' bizzarra perché, pur essendo la società il soggetto interessato al procedimento, prevede che la notizia del suo avvio sia data non a questa ma ai suoi amministratori o ai suoi liquidatori.
Ma a parte ciò, la regola rischia di risultare poco efficace, o per lo meno di imbattersi in difficoltà applicative, non solo nel caso - estremo - dell'irreperibilità dell'organo amministrativo o liquidativo[29], ma anche in tutti quei casi in cui lo stesso organo sia composto da più persone. Non è infatti sufficiente che la comunicazione dell'avvio del procedimento sia data solo ad alcuni dei componenti dell'organo: deve essere data a tutti[30]. Con la conseguenza che si potrebbe verificare una diversità (non può escludersi che abbia ad essere considerevole[31]) di date di perfezionamento della comunicazione stessa: e solo quando l'ultima delle comunicazioni si sarà perfezionata prenderà a decorrere il termine di sessanta giorni entro il quale gli amministratori o i liquidatori della società possono rispondere al conservatore del registro delle imprese e prima dello spirare del quale il conservatore stesso non può adottare il provvedimento di cancellazione.
b) A stare alla lettera della legge, una volta ricevuta la comunicazione gli amministratori (o i liquidatori) della società altro non potrebbero, per contrastare il provvedimento di cancellazione, che presentare una - «motivata» - «domanda di prosecuzione dell'attività».
È una norma davvero - e per più versi - singolare e - mi sentirei di dire - sorprendente.
Essa non prevede che si possa, per impedire l'adozione del provvedimento di cancellazione, esporre al conservatore del registro delle imprese le ragioni ostative (quali che esse siano) a tale provvedimento[32], ma stabilisce che si debba chiedere al conservatore il permesso di proseguire l'attività: quasi che - e ciò mi pare sorprendente - il conservatore abbia il potere di accordarlo o no; e quasi che tale potere il conservatore stesso possa esercitare dopo avere valutato le ragioni della «domanda»[33] (diversamente, non vi sarebbe ragione di prevedere una domanda «motivata»).
Quanto appena detto, però, non si accorda con l'ulteriore regola portata dalla norma, per cui «non si dà seguito» al procedimento di cancellazione in caso di «regolare presentazione» della «domanda». Se ad impedire che il conservatore del registro delle imprese cancelli la società a controllo pubblico è sufficiente lapresentazione(e sia pure laregolarepresentazione) della «domanda», si dovrebbe ritenere che il conservatore non abbia il potere di valutarne il contenuto, ma solo di assodarne la regolarità formale.
c) Che poi la «domanda di prosecuzione dell'attività» possa essere «motivata» solo con le decisioni assunte dalle amministrazioni pubbliche socie (come dice la nostra norma) mi pare lettura che potrebbe trovare formale appiglio nella lettera della legge, ma che si rivela riduttiva e dunque da ricusare.
Per la verità, se il provvedimento di cancellazione che il conservatore intende adottare trova ragione in un mancato deposito dei bilanci, si stenta a comprendere (e a giustificare) come possa una decisionedei socipubblici, e nondella societàa controllo pubblico, di proseguire l'attività della società prevalere sull'obiettiva inattività della società stessa. Non solo: la circostanza che tale decisione sia idonea a impedire la cancellazione della società riduce la portata della legge perché non le società a controllo pubblico inerti si possono cancellare, ma le società a controllo pubblico i cui soci non intendono continuare, benché inerti, a tenere in vita.
Ma a parte ciò: se il provvedimento di cancellazione che il conservatore intende assumere si coordina ad un mancato compimento di atti di gestione di cui il conservatore stesso abbia almeno qualche indizio, il procedimento dovrebbe essere volto, attraverso l'interpello degli amministratori o dei liquidatori, ad acquisirne conferma, ad ottenere un riscontro che davvero sussista quella consolidata inattività imprenditoriale. Di tal che è davvero incomprensibile non solo - come s'è detto per il mancato deposito dei bilanci - la ragione per cui una decisione (non della società, ma) dei soci di proseguire l'attività sociale possa essere in grado di primeggiare su un'obiettiva inattività della società, ma anche la ragione per cui possa essere salvifica soltanto la decisione dei soci e non anche - come ritengo - la prova dell'insussistenza del presupposto dell'assenza di atti di gestione.
Con qualche apparente premura (in realtà con una certa approssimazione, per quanto osserverò), la nostra norma soggiunge che gli effetti della cancellazione officiosa della società a controllo pubblico sono quelli indicati dall'art. 2495 cod. civ.[34], che, come è noto, consistono nell'estinzione della società e nella responsabilità dei soci, alla quale si affianca quella del liquidatore se in colpa, per le obbligazioni sociali inadempiute nei limiti di quanto dai soci stessi percepito in base al bilancio finale di liquidazione.
Non intendo soffermarmi (si tratta di problemi noti, denunciati e discussi negli studi dedicati all'art. 2490, 6° co., cod. civ.[35], dai risvolti troppo complessi per poter essere anche solo ripercorsi in questa sede) sulle difficoltà in cui l'applicazione di questa regola si imbatte quando - come nel nostro caso - un bilancio finale non c'è (la mancanza della tavola contabile di chiusura della società non dovrebbe poter impedire ai creditori sociali rimasti insoddisfatti di agire verso i soci per quanto i soci, lasciando cancellare la società senza completare la liquidazione, hanno rinunciato ad apprendere come quota di liquidazione: ma appunto l'assenza del bilancio finale complica notevolmente, se non condiziona, l'applicazione della regola).
Mi limito invece - così concludendo questa mia breve comunicazione- ad osservare che nel caso della società a controllo pubblico cancellata ai sensi dell'art. 20, co. 9, del d.lgs. n. 175 del 2016 il dettame dell'art. 2495, 2° co., cod. civ. con una certa, non trascurabile, difficoltà potrà operare non solo per la parte in cui enuncia la responsabilità dei soci, ma anche per la parte in cui, allo scopo di assicurare ad eventuali creditori sociali insoddisfatti della società cancellata un'aggiuntiva protezione, li ammette ad agire nei confronti dei liquidatori. Ciò mi sembra debba dirsi per due ordini di ragioni.
a) La prima ragione sta nel fatto che la responsabilità del liquidatore verso il creditore sociale insoddisfatto predicata dalla norma del codice sussiste a condizione che il mancato pagamento del debito della società derivi da colpa del liquidatore stesso.
Si potrebbe ipotizzare che nel nostro caso una colpa del liquidatore (e dunque una sua responsabilità, configurabile comunque solo in presenza di attivo o di attivo realizzabile[36]) consegua, se non all'avervi dato causa[37], al suo non essersi opposto alla cancellazione officiosa, con inopia provocandola (o meglio: non adoperandosi per evitarla).
Ma quando per sottrarsi alla cancellazione occorre, come esige il d.lgs. n. 175 del 2016, un «atto deliberativo delle amministrazioni pubbliche socie» e tale determinazione, pur sollecitata dal liquidatore, non sopravviene, nessun rimprovero può essergli mosso.
b) La seconda ragione si raccorda al fatto che la nostra norma consente la cancellazione delle società a controllo pubblico a prescindere che esse si trovino in liquidazione, e che appunto una liquidazione della società (sia pure, nel caso dell'art. 2490, 6° co., cod. civ. che per questo motivo richiama l'art. 2495, 2° co., cod. civ., una liquidazione non completata in quantoante tempusinterrotta dalla cancellazione) è postulato della responsabilità dei liquidatori prevista dal codice.
Ebbene: per quanto sia da ritenere che a rispondere verso i creditori sociali insoddisfatti di una società cancellata ben può essere chiamato, nei limiti e alle condizioni indicate dall'art. 2495, 2° co., cod. civ., non solo chi per formale investitura ha condotto la liquidazione di una società di capitali o cooperativa ma anche chi di fatto vi ha atteso (c.d. liquidatore di fatto)[38], quando - come può accadere ai sensi della nostra norma - ad essere cancellata non è una società in liquidazione ma una società in integro statu, che non ha posto in essere alcun atto dismissivo, non v'è alcun modo - mi sembra - per affermare che la regola dell'art. 2495, 2° co., cod. civ. si applichi agli amministratori, che solo se avessero posto in essere atti di liquidazione del patrimonio sociale potrebbero essere considerati liquidatori di fatto[39].
Quante volte, dunque, fosse disposta ex officiola cancellazione di una società a controllo pubblico non in liquidazione e i cui amministratori non abbiano compiuto atti di liquidazione (sì da non poter essere considerati liquidatori di fatto), il richiamo dall'art. 20, co. 9, del d.lgs. n. 175 del 2016 operato all'art. 2495 cod. civ. si rivelerebbe inetto ad assicurare ad eventuali creditori sociali insoddisfatti l'aggiuntiva protezione che la disposizione civilistica ha voluto accordargli ammettendoli ad agire nei confronti dei liquidatori oltre che dei soci.
Rimarrebbe, in tal caso, da chiedersi se, in luogo dell'art. 2495, 2° co., cod. civ., sia possibile (e lo si possa fare ancorché la nostra norma speciale non lo richiami[40]) ricorrere all'art. 2394 cod. civ.
Eliminazione che rappresenta in certo senso il capitolo finale di quella alquanto tumultuosa normativa che negli anni recenti ha tentato (senza così lusinghieri successi, ad onor del vero, che il pessimismo della ragione induce a pronosticare anche per il d.lgs. n. 175 del 2016) di contenere il fenomeno della proliferazione delle società partecipate dalle amministrazioni locali, espressasi tra l'altro (porre ad inventario e rammentare l'intera normativa favorisce la cefalea, e almeno questa non voglio causare al mio lettore) nell'imporne lo scioglimento (commi 1-3 e 3-sexiesdell'art. 4 del d.l. 6 luglio 2012, n. 95, quale convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, poi abrogati dall'art. 1, co. 562, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, e sostituiti dal comma 555 dell'art. 1 della stessa legge n. 147 del 2013; art. 1, co. 611, della legge 23 dicembre 2014, n. 190) o nell'incentivarne in vario modo (anche fiscalmente: art. 1, co. 568-bis,della legge n. 147 del 2013, introdotto nell'originario impianto della legge dall'art. 2, co. 1, del d.l. 6 marzo 2014, n. 16, convertito in legge 2 maggio 2014, n. 68) lo scioglimento.