L'articolo pone le premesse ad uno studio sulla motivazione delle decisioni nelle società di capitali sotto un profilo sia strutturale sia funzionale.
La tesi è che la motivazione delle decisioni societarie non si risolve in un resoconto del processo decisionale (l'esposizione dei motivi o delle ragioni della decisione) ma in una giustificazione della decisione stessa, articolata in un discorso formale ed esplicito. Esige questa struttura della motivazione anche il diritto europeo, che sul punto ha profondamente influenzato il nostro diritto nazionale.
This paper analyzes the account of corporate decisions - when required by the law - both from a structural and functional standpoint.
The work finds that the account of corporate decisions does not consist of a "report" of the decision making process, but rather of a formal and explicit justification. European law is showed to conceive the account of corporate decisions in terms of "justification" as well, in this regard powerfully affecting the development of our national law.
KEYWORDS: limited liability companies – account of corporate decisions - Shareholder Rights Directive
CONTENUTI CORRELATI: società di capitali - motivazione delle decisioni - Direttiva Shareholder Rights
* Testo rielaborato della relazione presentata al seminario «I diritti dei soci nell'ordinamento dell'Unione europea: la nuova direttiva Shareholders' Rights» nell'ambito del VII Convegno annuale dell'Associazione Italiana dei Professori Universitari di Diritto Commerciale su «L'influenza del diritto europeo sul diritto commerciale italiano: valori, principi, interessi».
** Professore associato di diritto commerciale, Università di Sassari.
1. Preambolo - 2. La nozione di motivazione: da resoconto delle tappe logiche del ragionamento decisorio a discorso giustificativo ex post della decisione - 3. Il portato della nozione di motivazione in termini di discorso giustificativo - 4. Procedimento, decisione, motivazione - 5. L’influenza del diritto europeo sulla struttura della motivazione societaria: a) la motivazione della delibera che esclude il diritto di opzione - 6. Segue: b) la motivazione della delibera di riduzione reale del capitale: cenni. - 7. Segue: c) la motivazione delle deliberazioni di fusione e scissione - 8. Segue: d) il principio ‘comply or explain’ e le decisioni in materia di related party transactions - 9. Segue: e) le proposte di modifica alla Direttiva Shareholders Rights - 10. Conclusioni: quale agenda di ricerca per il futuro prossimo? - NOTE
Sono anzitutto debitore di una spiegazione riguardo al tema oggetto del mio intervento che è quello della motivazione delle decisioni societarie. Devo francamente ammettere che ¯ in riferimento a una tavola rotonda sulle proposte di modifica[1] alla c.d. "Direttiva azionisti"[2] ¯ questa mia scelta è stata forse in origine avventata, più animata dal desiderio di sviscerare ulteriormente un tema che da tempo mi vede impegnato su uno studio monografico dedicato al tema della motivazione delle decisioni delle società che dalla piena consapevolezza circa la dimensione "europea" di questo fenomeno. Ma, come spesso accade, la fortuna premia l'azzardo. E così, il testo della proposta di Direttiva oggetto della discussione odierna si è, in effetti, rivelato (come pure numerose direttive europee precedenti) ricco di spunti e foriero di conferme in ordine ad alcune tendenze nel campo della "motivazione societaria" alle quali ero approdato per altre vie. Di una tale affermazione mi incaricherò ora di indicare le ragioni, con l'avvertimento che, per rispettare i tempi assegnatimi, procederò per punti e con proposito di semplificazione.
Preliminarmente, è utile chiarire che cosa debba intendersi per motivazionedi una decisione da un punto di vista giuridico. Se, infatti, questa nozione può dirsi ben nota ai cultori del diritto processuale [3] e del diritto amministrativo [4], non è possibile dire altrettanto per gli studiosi del diritto privato in genere, e del diritto commerciale in particolare, nelle cui trattazioni i riferimenti alla motivazione delle decisioni sono episodici, in quanto compiuti, per lo più, in occasione della disamina particolare di istituti specifici [5].
Se pure con una prima approssimazione, si può premettere che vi è un sostanziale accordo generale nell'affermare che in termini funzionalila motivazione rappresenta un «tipico strumento di controllo e di tutela, disposto nell'interesse di chi si trova in posizione di soggezione nei confronti del titolare di un potere giuridico», rappresentando essa un mezzo di «controllo del corretto esercizio del potere»[6]. La prospettiva funzionale rivela "a che cosa serva" la motivazione di una decisione.
Rispetto, invece, a cosa debba intendersi per motivazione in terministrutturali¯ tali da consentirci di comprendere "come" la motivazione "sia fatta" (o debba essere fatta) ¯ la diversità di vedute fra gli autori è ben più ampia e variegata.
a) Secondo la concezione che potremmo definire 'tradizionale', la motivazione dovrebbe rappresentare un segno(i.e., un discorso) linguisticoformale (motivation en la forme, nel linguaggio degli amministrativisti francesi) descrittivo, in forma di resoconto più o meno fedele, delle tappe logiche o psicologiche che hanno scandito il procedimento[7] decisorio.
Si oppongono alla concezione tradizionale appena ora illustrata tre diversi approcci ricostruttivi.
b) È dato rilevare, in primo luogo, una visione 'riduzionista' (quando non del tutto svalutativa) del ruolo e della esigenza della motivazione: i giusrealisti americani[8] e gli irrazionalisti tedeschi[9] non esitarono ad affermare, ad esempio, che la motivazione è pura finzione. È l'intuizione, in realtà, che sta alla base di tutti i ragionamenti logici; e l'intuizione (definita anche in termini di hunch o di wordless rationality) non può, né deve, essere logicamente illustrata, documentata o riportata. Alle nostre latitudini, in quello stesso frangente temporale, anche il Cammeo ¯ può esser curioso notare ¯ approdò ad una conclusione simile, sostenendo che «in infiniti casi della vita […] si prendono, nelle materie di libera discrezione, saggissime risoluzioni per motivi istintivi, piuttosto intuiti che precisati e precisabili […]», concludendo che «l'esigere una motivazione in questi casi o è impossibile o è eccitare a motivazioni false e diverse». [10]
c) Contrapposta alla concezione tradizionale del resoconto formale è pure una ricostruzione che alcuno ha definito 'sostanzialista'[11]. Nell'ambito della dottrina amministrativistica nostrana essa ha assunto la denominazione specifica di dequotazione della motivazione[12]. Per la teoria della dequotazione della motivazione un obbligo di motivazione non sussiste quando le ragioni sufficienti all'emanazione del provvedimento siano comunque obiettivamente accertabili e ricostruibili. Se la volontà dell'amministrazione viene in rilievo esclusivamente nella sua dimensione oggettiva e procedimentalizzata, rileva «ciò che si è fatto, non ciò che si è dichiarato di voler fare». [13]
d) In ultimo luogo, si differenzia dalla concezione del resoconto formale, richiamata in principio, la rappresentazione della motivazione in termini di discorso giustificativo; ricostruzione che si è fatta largo sulla scorta di un'ormai accreditata distinzione epistemologica a termini della quale bisogna distinguere la logica cui si fa ricorso come strumento di decisione dalla logica posta alla base della giustificazione della decisione stessa. Una cosa è il procedimento che porta alla soluzione del problema (context of discovery); altra cosa è il procedimento diretto a dimostrare, giustificandola, la validità di tale soluzione (context of justification) [14]. Il primo 'contesto' corrisponde a un'attività cognitiva, mentre il secondo si sostanzia in un discorso, il quale, si è puntualmente rilevato, «non è neppure il risultato linguistico di tale attività»[15]. Secondo la linea di pensiero i cui termini qui si espongono concisamente, «parlare di struttura giustificativa della motivazione significa far riferimento non all'iter logico-psicologico mediante il quale le ragioni della decisione vengono individuate e formulate, bensì ai caratteri del discorso in cui queste vengono oggettivate ed esplicitate». Sulla base della distinzione fra context of discovery e context of justification la motivazione non costituisce in definitiva «un tramite rappresentativo dell'iter decisionale, ma si limita a dotare di un apparato giustificativo» la decisione stessa[16].
È, quest'ultima, la concezione che può dirsi ormai invalsa in vari settori del diritto, non solo a livello nazionale, ed è quella che personalmente prediligo.
La correttezza dell'ultima delle impostazioni fin qui illustrate mi pare confermata dal dato della realtà normativa e da quella empirica: la motivazione, in molti luoghi della disciplina processuale (art. 429, co. 1, 2° parte, c.c.; art. 544 c.p.p.), segue generalmente il dispositivo; i verbali degli organi collegiali (nel nostro come in altri ambiti del diritto) sono spesso 'non contestuali'.
Ma, all'atto pratico, cosa implica fare propria la concezione della motivazione in termini di discorso giustificativo? E, per rimanere aderenti al tema del nostro incontro odierno, qual è il portato applicativo della struttura giustificativa della motivazione sul piano dellacorporate governancee dei diritti degli azionisti? Dalla prospettiva strutturale da cui abbiamo analizzato il fenomeno della motivazione si ripassa, così, a una prospettiva più propriamente funzionale per chiederci quale sia loscopo, e l'utilità, della struttura giustificativa della motivazione.
Nella prospettiva dischiusa dallo schema esplicativo della motivazione-giustificazione, la struttura giustificativa che essa deve assumere reca con sé rilevanti ricadute non solo dal punto di vista teoretico, ma anche sul piano applicativo; ricadute che si possono compendiare nei termini che vengo sinteticamente ad esporre.
a)Sul piano dellatrasparenza: la struttura espressa e la formulazione a struttura giustificativa rendono la motivazione un insostituibile strumento di ricostruzione obiettiva dei comportamenti, non solo al fine della ricostruzione dei profili di responsabilità (in senso lato) di chi è incaricato di assumere determinati decisioni nell'interesse altrui[17], ma altresì della comprensione degli obiettivi perseguiti dal decidente anche al di là della decisione specificamente adottata.
Da questo punto di vista, lo scopo di trasparenza non deve essere confuso con lo scopo di controllo (esaminato alla lettera successiva). La motivazione non è funzionale in modo esclusivo al controllo (del giudice o di altri soggetti), ma anche a perseguire altri fini, come appunto quello di garantire la trasparenza dell'azione e degli obiettivi cui questa concretamente si indirizza[18].
b)Sul piano del controllo: il discorso giustificativo consente una più efficiente «verifica di conformità»[19] delle decisioni assunte dai soggetti detentori del potere decisionale. La sottoposizione della decisione al controllo induce non solo alla produzione di una buona decisione e di una congrua motivazione, ma allo stesso tempo sospinge il decidente a giocare "a carte scoperte" e a svelare le ragioni reali al fondo della decisione, assai più agevolmente occultabili con il ricorso alle altre tecniche motivatorie.
c)Infine, sul piano della razionalitàdella decisione: la prospettiva di dover motivare la decisione secondo uno schema giustificativo (logico e razionale) spinge il decidente a razionalizzareil procedimento decisorio, condizionando inevitabilmente, altresì, l'intensità con la quale egli ricorre alla logica nella determinazione delle proprie scelte. Allo stesso tempo, la struttura giustificativa della motivazione assume per questa via un valore «prasseologico», in virtù della pressione esercitata sul decidente «à un bon travail».[20]
La razionalizzazione del momento decisorio di cui ho appena riferito alla fine del paragrafo precedente implica l'idea della procedimentalizzazione di tale momento.
In proposito, è subito opportuno chiarire come non sussista una corrispondenza biunivoca formaletra procedimentoe motivazione: ad ogni attività procedimentalizzata non corrisponde necessariamente una decisione finale motivata. Né - procedendo ancor più a ritroso - può dirsi sussistente una necessaria corrispondenza biunivoca formale tra procedimento eatto (sia esso motivato o meno)[21], essendo nota sia l'eventualità del compimento di un c.d. atto istantaneo, sia (soprattutto nel diritto privato) l'eventualità dell'atto compiuto all'esito di una sua preparazione che sia puramente psicologica e non procedimentale, in quanto tale «non rilevabile (ma non sempre irrilevante) come forma all'esterno»[22].
La sequenza procedimento‑decisione‑motivazione non è dunque né obbligatoria (per legge), né ineluttabile (per via di fatto). È per quest'ordine di ragioni che l'idea di recente prospettata, muovendo dall'assioma della connessione necessaria tra motivazione e procedimento - e a stregua della quale là dove il legislatore ha imposto un obbligo di motivazione (cfr. art. 2391 c.c.) lo stesso ha finito per «codificare espressamente anche un ulteriore obbligo […] di […] attività istruttoria»[23] - può essere accolta solo con riserva e operando gli opportuni distinguo, fino a quando il discorso sia condotto sul piano giuridico-formale.
In conclusione, e in termini astratti, mi sentirei di dire che ben potrebbe verificarsi il caso di unprocedimento senza motivazionedella decisione finale; come anche di unadecisione motivata senza procedimentopreliminare.
E tuttavia nella valutazione delle connessioni formali intercorrenti tra procedimento, decisione e motivazione, l'attenzione al dettaglio formale non deve far dimenticare la circostanza per cui nella realtà quotidiana le decisioni finali delle (piccole e grandi) organizzazioni sono spesso (sia pur solo spontaneamente) motivate e rese a seguito di un procedimento, nel cui ambito trovano collocazione sia una corretta ponderazione dei vari interessi coinvolti nella vicenda decisoria, sia l'assicurazione di garanzie formali e sostanziali a favore dei soggetti portatori di tali interessi.
La constatazione di una precisa connessione tra procedimento e decisione si può apprezzare immediatamente quando allo stesso fenomeno si guardi dall'angolo visuale del sociologo.
La sociologia delle organizzazioni ha reso manifesto che le moderne istituzioni tendono ad agire in termini esclusivamente formali, essendo razionalmenteconcepite per conseguire i propri obiettivi «per mezzo di norme, regole e procedure esplicite».[24] Già a suo tempo Weber ¯ nel descrivere la tendenza alla razionalizzazione delle moderne organizzazioni burocratiche, pubbliche e private [25] ¯ ebbe modo di individuare specificamente un «principio di condotta sine ira ac studio» al quale è razionalmente informata l'azione burocratica dei moderni apparati che, per questa via, tende a «disumanizzarsi» facendo emergere esclusivamente la dimensione neutrale della condotta ¯ assai apprezzata dal moderno capitalismo[26] ¯ che «esige sempre in maggior grado […] il competente indifferente a considerazioni umane, e di conseguenza rigorosamente 'oggettivo'»[27]. In questa (tuttora) accreditata ricostruzione, l'osservanza delle regole di forma e di procedimento va di pari passo con l'idea che la burocratizzazione implica un adempimento efficiente e imparziale dei compiti «senza riguardo alla persona» e «in base a regole prevedibili»[28].
Dello stesso tenore sono le conclusioni alle quali è da tempo approdata la scienza giuridica partendo dall'esame del diritto positivo. I giuristi che più di altri hanno eletto a campo di studio l'azione dei soggetti diversi dall'uomo (nel campo del diritto pubblico come di quello privato) hanno da tempo constatato che «il concretarsi del potere in un atto non è mai […] istantaneo»[29]; e non lo è perché «le peculiari qualità della persona giuridica […] hanno indotto l'ordinamento giuridico non solo a regolare con precetti formali questo processo di formazione della volontà ma anche […] ad attribuirne i vari momenti a persone fisiche diverse, per modo che al momento interno della psicologia individuale-privatistica sia sostituito in maggiore o in minore misura un procedimento esteriore regolato e controllabile»[30]. Conclusioni analoghe è dato rinvenire anche per le persone giuridiche private in ordine alle quali si è detto che «il processo di formazione della volontà è […] un procedimento del tutto esteriore, controllabile nelle singole fasi, perché la legge vuole garantire la regolare e ponderata formazione della volontà dell'ente». [31]
Dalle considerazioni svolte è possibile trarre le seguenti conclusioni.
1) Mentre nella realtà pratica e nella realtà giuridica si può ormai intravedere una tendenziale correlazione tra procedimento e decisione; 2) meno costante e stabile appare, però, quella tra decisione e motivazione fuori dalle ipotesi normativamente previste. In quest'ultima correlazione, la motivazione ¯ specie se ricostruita in termini di discorso giustificativo, come nella visione da me accolta ¯ rappresenta una garanzia (oserei dire, un progresso) di segno ulteriore rispetto alla stessa garanzia procedimentale di fronte «alla prospettiva di burocrati invisibili»[32] che tanto angustiava, in prospettiva democratica, lo stesso Weber. La prospettiva di analisi appena evocata ¯ già fatta propria in ambito giuridico negli studi più moderni sulla motivazione del provvedimento amministrativo e delle decisioni giudiziarie ¯ non deve essere trascurata neanche dallo studioso dellacorporate governance in un'indagine dedicata alla motivazione delle decisioni nelle società di capitali.
È possibile chiudere queste riflessioni sulle connessioni intercorrenti tra procedimento, atto e motivazione richiamando l'attenzione del lettore, da ultimo, su due importanti proposizioni di particolare significato nel diritto delle società.
La prima (ad onor del vero non strettamente propria del nostro ambito) è quella per cui la decisione finale ¯ vuoi dell'organo amministrativo, vuoi della stessa assemblea generale dei soci ¯ è generalmente motivataper relationem(ovverosia tramite il rinvio a documenti, progetti, relazioni,fairness opinions, ecc.: raccolte o formate nel corso del procedimento), e solo raramente in termini con-testuali alla decisione adottata, ove con il termine contestuale si fa evidentemente riferimento non all'idea di una, più o meno, stretta contiguità temporale tra decisione e motivazione, sibbene all'idea della stessa collocazione in un unico documento della decisione e (di tutta o parte) della motivazione.
La seconda è quella per cui nelle decisioni che vedono coinvolta l'assemblea dei soci quest'ultima, organodecidente, è tale in termini esclusivamentepassivi: non solo nei noti termini della classica alternativa stabilita dall'accoglimento o dal rigetto della proposta di delibera avanzata dall'organo amministrativo, senza possibilità di spazi autonomi di manovra; ma anche avuto riguardo al dato formale che la stessa motivazione (specie quando concepita dal legislatoreper relationem) è esclusivamente pre-disposta dall'organo proponente a "servizio" dell'organo decidente, dando così luogo al particolare fenomeno della dissociazione tra organo proponente‑motivante e organo decidente.
L'influenza del diritto europeo sulla struttura della motivazione societaria: a) la motivazione della delibera che esclude il diritto di opzione.
A conclusione di questo discorso introduttivo di tipo generale, è necessario finalmente porsi l'interrogativo di quale sia, se esistente, l'influenza del diritto europeo[33] sul diritto italiano con riguardo alla motivazione degli atti societari.
La mia tesi ¯ lo affermo fin d'ora esplicitamente ¯ è che l'approccio europeo allacorporate governanceevidenzia una tensione crescente verso la fisionomia della motivazione nei termini di discorso giustificativo poc'anzi illustrato. Tenterò di dimostrare questo assunto ripercorrendo, senza pretesa di esaustività [per ragioni di tempo, infatti, lascerò fuori dalla mia analisi la motivazione delle decisioni di prestiti o garanzie della società per l'acquisto di azioni proprie (art. 2358, co. 3, c.c.) e della delibera di trasformazione regressiva (art. 2500-sexies, co. 2, c.c.)], le vicende relative ad alcune aree tematiche dal rilievo sistematico evidente.
La prima vicenda ¯ ormai risalente nel tempo ma non meno attuale sotto il profilo sistematico ¯ è quella attinente all'art. 2441 c.c. e al ruolo svolto dall'art. 29, n. 4 della II Direttiva n. 77/91/CEE (in materia di costituzione delle s.p.a. e salvaguardia del capitale sociale [[34]]) circa la motivazione dell'esclusione del diritto di opzione nella sottoscrizione del nuovo capitale.
Il diritto domestico anteriore al recepimento della II Direttiva non faceva assolutamente cenno all'obbligo di motivazione della decisione di esclusione o limitazione del diritto di opzione. Molti autorevoli studiosi della nostra materia si pronunciavano apertamente ¯ confortati dalla formulazione del testo normativo al tempo in vigore ¯ per la non obbligatorietà della motivazione della delibera di esclusione o limitazione del diritto di opzione[35]. Si osservava che la motivazione (spontanea, al limite) avrebbe potuto sì far emergere «gli intendimenti» degli azionisti favorevoli all'adozione della delibera, ma che tale contenuto non avrebbe in ogni caso potuto influire sull'accertamento che il giudice era chiamato a svolgere in ordine al ricorrere «di un'utilità derivante alla società dalla deliberazione»[36]. Il comune sentire, insomma, era quello per cui la motivazione dell'esclusione - evidentemente intesa come motivazione espressa e formale -non fosse, da un lato, obbligatoria[37] e, dall'altro lato, neanche necessaria, risultando il socio, in ogni caso, «sufficientemente tutelato dal controllo giudiziario sulla sussistenza dell'interesse sociale»[38].
Solamente una parte della dottrina ¯ particolarmente sensibile al tema della tutela dell'azionista di fronte ai gruppi di comando ¯ non esitava a trarre dalla eccezionale previsione del controllo di merito sulla deliberazione sancita dalla norma la conclusione per cui «l'affermazione assembleare della sussistenza dell'interesse sociale [dovesse] essere argomentata, motivata, non potendo ridursi ad una semplice enunciazione». [39]
Fatta salva tale ultima autorevole eccezione, può insomma dirsi che la riflessione teorica del tempo giunse ad assestarsi su una concezione 'dequotata' della motivazione della delibera di esclusione o limitazione del diritto di opzione, assai lontana dall'idea per cui la motivazione potesse assumere la fisionomia di discorso giustificativo del procedimento di decisione.
Fu proprio su impulso del diritto europeo (art. 29, n. 4, II Direttiva cit.), però, che l'art. 2441 c.c. venne significativamente innovato col richiedere agli amministratori che le proposte di aumento di capitale sociale con esclusione o limitazione del diritto di opzione dovessero essere illustrate dagli amministratori con apposita relazione, dalla quale devono risultare le ragioni dell'esclusione o della limitazione. E non v'è dubbio che di motivazione in senso proprio si tratti, essendo chiaro che motivazione si ha ¯ come prima ho riportato (§ 4) ¯ anche quando essa assume la struttura di giustificazione per relationem, risultando anzi questa la regola nel diritto delle società di capitali[40].
Le innovazioni occasionate dal recepimento della II direttiva non sono di poco momento. Uno studioso autorevole ¯ premettendo che nel nostro sistema le deliberazioni di assemblea si presumono conformi all'interesse sociale e che «la prova contraria deve essere data da chi impugna la deliberazione»[41] ¯ ha subito posto in risalto che, nel contesto dell'art. 2441 c.c., riformulato in adeguamento al diritto europeo, si è invece al cospetto di «un'inversione dell'onere della prova»; nell'accezione per cui «la maggioranza all'atto stesso della deliberazione deve dimostrare che l'esclusione o la limitazione del diritto di opzione è giustificata da specifiche esigenze della società», per poi concludere esplicitamente nel senso che la stessa maggioranza «deve motivare la deliberazione, indicando quale interesse sociale deve perseguire e fornendo, in tal modo, essa stessa la prova che l'esclusione o la limitazione del diritto di opzione non è ispirata da interessi extrasociali»[42].
L'evoluzione normativa concisamente riportata documenta come l'ordinamento societario italiano si sia evoluto da una posizione di dequotazione della motivazione ad una di discorso giustificativo (rivolto ai soci attuali) finalizzato alla dimostrazione dell'assenza di interessi extrasociali ispiratori della maggioranza nell'esclusione del diritto di opzione. E, in termini funzionali, non esiterei ad affermare come preoccupazione del legislatore europeo del tempo fosse proprio quella ¯ ben colta dal Galgano ¯ di rafforzare gli strumenti di controllo e di tutela degli azionisti di minoranza.
Conferma evidente dell'approccio europeo appena esposto si può trarre anche da un'ulteriore vicenda: quella attinente alle modifiche apportate dal legislatore nazionale all'art. 2445 c.c. sempre su impulso della II Direttiva n. 77/91/CEE.
L'originaria laconica formulazione di questa disposizione fu anch'essa significativamente modificata («rafforzata»[43]) imponendo l'obbligo di esplicitare le ragioni (oltreché le modalità) della riduzione effettiva del capitale.
L'esame di questa disposizione consente, tra l'altro, di rilevare un chiaro esempio di quella dissociazione tra organo proponente‑motivante e organo decidente alla quale è possibile assistere nel diritto delle società di capitali. In questa ipotesi, la particolarità del difetto di contestualità risiede nella circostanza che la motivazione deve essere addirittura "anticipata" già nell'avviso di convocazione dell'organo deliberante al quale poi spetterà di recepirla.[44]
Ancora: verso la struttura logico-giustificativa della motivazione (facendole guadagnare spazi sempre più consistenti) hanno mostrato di protendere ¯ sempre allo scopo evidente di rafforzare gli strumenti a disposizione degli azionisti di minoranza ¯ le disposizioni di cui agli artt. 5 e 9 della III Direttiva n. 78/855/CEE (in materia di fusioni[45]) e agli artt. 3 (nn. 1 e 2) e 7 (n. 1) della VI Direttiva n. 82/891/CEE (in materia di scissioni[46]).
Gli elementi di maggiore novità per il nostro ordinamento recati dalla III Direttiva ¯ immediatamente colti dai primi commentatori ¯ riguardano proprio la fase preparatoria del procedimento di fusione e, in particolare, l'obbligo di redazione di un "progetto" (art. 5), prima sostanzialmente ignoto al nostro diritto societario comune[47], e di una "relazione" di accompagnamento degli amministratori (art. 9)[48]. In particolare, con quest'ultimo documento, il legislatore comunitario ha richiesto la stesura di una relazione "particolareggiata" tesa aillustrare egiustificare (sia sotto il profilo giuridico, sia sotto il profilo economico) il contenuto del progetto di fusione e, in particolare, la determinazione del rapporto di cambio.
In generale, la dottrina italiana si è limitata a leggere queste novità esclusivamente in chiave di diritto di informazione degli azionisti. Vale però la pena sottolineare ¯ nella prospettiva propria di questo studio preliminare ¯ che la relazione di cui si discute non dovrebbe essere degradata alla stregua di una mera ed "avalutativa" somministrazione di informazioni ai soci, rappresentando essa qualcosa di più pregnante e di concreto incentrata (come effettivamente è) sul ruolo proattivo degli amministratori, i quali sono chiamati ad esplicare e giustificare le ragioni poste alla base dell'operazione. L'enfasi con la quale il legislatore europeo ricorre all'endiadi illustrazionee giustificazione dell'operazione sotto il profilo giuridico ed economicotestimonia della circostanza per cui le stesse ragioni poste alla base dell'operazione devono essere "esplicate" e "supportate" al cospetto della platea dei soci. E non è un caso che gli autori più accorti, da un lato, abbiano condivisibilmente considerato la relazione illustrativa degli amministratori «lo strumento informativo privilegiato dei soci»[49] e, dall'altro, notato come l'obbligo di illustrazione e giustificazione richiami immediatamente le «motivazioni delle ragioni dell'aumento di capitale senza opzione di cui all'art. 2441»[50] di cui prima si è discusso.
Medesime considerazioni possono essere svolte ¯ senza ripetersi più del necessario ¯ con riguardo alla VI Direttiva sulle scissioni, posto che essa è sostanzialmente ricalcata su quella dettata in materia di fusioni. Anche qui i commentatori hanno posto l'accento sull'impatto delle novità riconnesse alle fasi preparatorie del procedimento sul diritto nazionale nella prospettiva del suo adeguamento.[51]
Ma è sicuramente più interessante constatare che, proprio con specifico riferimento alla scissione, il diritto giurisprudenziale non ha esitato a identificare nella richiesta di illustrazione e giustificazioneun preciso obbligo di motivazionedell'operazione proposta ai soci[52], stabilendo, sotto un profilo sistematico, un nesso preciso tra l'obbligo di motivazione in parola e quello previsto in materia di esclusione del diritto di opzione (art. 2441 co. 6 c.c.) e di riduzione effettiva del capitale sociale (art. 2445 c.c.); obbligo di motivazione, quello così puntualmente individuato, che per i giudici è funzionale a un controllo di legalità sostanziale degli «interessi perseguiti in concreto dalla maggioranza».[53]
La persuasività di queste argomentazioni ha non solo indotto taluni autori a condividerle senza riserva[54], ma ha pure sospinto altri a domandarsi apertamente, per quanto incidentalmente, «se questo non sia il segnale di una tendenza intesa ad introdurre una verifica testuale della motivazione delle deliberazioni assembleari».[55]
L'analisi sinora svolta ha consentito ¯ sia pure per argomentazioni parziali e a tratti apodittiche ¯ di pervenire alla conclusione per cui è identificabile una precisa traiettoria nell'evoluzione delle modalità di proposizione e di assunzione di alcune fondamentali deliberazioni societarie; traiettoria, quella appena descritta, che muove da un punto originario, occupato dalle decisioni immotivate (o dequotate), e che successivamente approda a uno stadio in cui dal legislatore è richiestoa)che talune fondamentali decisioni siano il frutto di una precisa attività procedimentalizzata; eb)che esse rechino una esplicita motivazione a struttura giustificativa.
Le conclusioni raggiunte mi pare possano ricevere ulteriori conferme allorché si getti lo sguardo su ambiti del nostro ordinamento societariodiversida quello delle decisioni di competenza dell'assemblea eulterioririspetto all'area tematica del recepimento delle direttive europee di armonizzazione.
In questo senso, molto indicativo (per quanto limitato alle società quotate) appare, in primo luogo, il portato del principio "comply or explain" di cui alla Direttiva 2006/46/CE[56], a stregua del quale, come noto, «quando le società [quotate] decidono di discostarsi da una o più raccomandazioni contenute nei codici di governo societario [esse sono] tenute ad indicare le motivazioni poste alla base di tale decisione»[57]. In particolare, la citata Direttiva obbliga le società quotate a introdurre «all'interno della dichiarazione sul governo societario (o, meglio, in una specifica sezione della relazione sulla gestione o in una distinta relazione)» un richiamo al codice di governo societario adottato (in quanto effettivamente adottato) «nonché di informare sulle modalità della sua applicazione secondo il principio del "comply or explain"».[58] A questo proposito, la Commissione ¯ nell'ambito di una ricerca tesa a verificare lo stato di attuazione della Direttiva [59] ¯ ha avuto occasione di lamentare l'assenza o la genericità delle dichiarazioni con le quali le società hanno deciso di discostarsi da eventuali raccomandazioni del Codice di Autodisciplina. Le doglianze della Commissione rappresentano un indice chiaro e inequivocabile della fisionomia di motivazione avuta presente dalle autorità dell'Unione[60]. Non avrei indugi ad affermare che l'orientamento mostrato in questa sede si pone in linea di ideale continuità con quello che ha ispirato le medesime istituzioni nel concepire la struttura della motivazione fin dalle prime direttive in materia societaria.
Parimenti, un'analoga vicenda evolutiva - alla quale posso solo dedicare solo sommari cenni, atteso che una sua compiuta disamina richiederebbe spazi di cui in questa sede non posso usufruire - si può riscontrare nell'area delle decisioni esposte al pericolo di interferenza di interessi "altri" rispetto a quello sociale: delibere "interessate" dell'organo amministrativo (art. 2391 c.c.); operazioni con parti correlate (art. 2391-bisc.c. e reg. Consob 17221/2010); decisioni delle società soggette ad attività di direzione e coordinamento (art. 2497-terc.c.). Il filo conduttore che lega queste disposizioni è, all'evidenza, rappresentato dalla presenza di un attuale o potenziale conflitto (in senso lato) tra l'interesse proprio della società amministrata e quello particolare di cui l'amministratore sia portatore per conto proprio oppure di terzi[61].
In particolare, mi pare si possa affermare che queste disposizioni rappresentano, almeno in parte, il distillato di un dibattito ¯ che è, in definitiva, ildibattito sulla corporate governance¯ circa la fondamentale esigenza di un «controllo della condotta degli amministratori»[62]; dibattito, si badi, che non è solo ed esclusivamente europeo, ma globale[63]. Ebbene, di fronte allo spettro del conflitto di interessi il nostro legislatore ricorre con crescente continuità alla motivazione delle decisioni richiedendo l'illustrazione degli interessi coinvolti (e del procedimento di ponderazione) e la giustificazione della soluzione gestoria finalmente adottata. Tanto traspare - oltreché dalle norme dedicate al fenomeno dalla Proposta della Commissione Europea di modifica alla Direttiva azionisti, su cui mi soffermerò nel prossimo paragrafo - in particolar modo dalla lettura dei precetti contenuti negli artt. 2391 e 2497-ter c.c.
La prima disposizione ¯ col richiedere la motivazione delle ragioni e della convenienza dell'operazione economica per la società ¯ mostra di accogliere una precisa nozione di motivazione in termini di struttura discorsiva, espressa e giustificativa. In assenza di una motivazione espressa e argomentata, la legittimità e la correttezza economica della decisione non potrebbero essere fatte valere col richiamare le risultanze del procedimento ovvero invocando in giudizio la circostanza che le ragioni sufficienti all'adozione della decisione sonocomunqueobiettivamente accertabili e ricostruibili: vale a dire appellandosi alla natura dequotata della motivazione.
Il discorso può essere ripetuto con riferimento all'obbligo di motivazione exart. 2497-terc.c. Qui valga solo un avvertimento preliminare: i termini influenza della capogrupponon devono essere intesi estensivamente ¯ sì da ricomprendere qualsiasi tipo di influenza ¯ ma «in modo limitato, con riferimento ai casi in cui sussista una incidenza diretta dell'interesse di gruppo nel processo decisionale della società controllata, tale da deviare quest'ultimo dalla logica prettamente "egoistica", che dovrebbe presiedere alle decisioni gestionali di un'impresa».[64]
Vengo, infine, all'oggetto della comune riflessione odierna e dico subito che è senz'altro possibile propendere per la conclusione per cui la nuova Direttivasui diritti degli azionistirappresenta un ulteriore decisivo apporto allo sviluppo della motivazione in termini di discorso giustificativo. È dato anzi riscontrare un'accentuazione delle richieste del legislatore europeo e un consistente rafforzamento dell'orientamento dimostrato in questa materia fin dalle origini. Per comprovare quanto appena affermato, ritengo sia utile provare a trarre una conferma da due aree tematiche ben precise.
La prima è quella afferente alla remunerazione degli amministratori e, più in particolare, al c.d. say on paydegli azionisti[65]. L'importanza sistematica dell'argomento discende non solo dal suo riconnettersi a molteplici punti topici in materia di corporate governance (in primis, il conflitto di interesse corrente tra soci e amministratori [[66]]), ma anche dall'evoluzione che lo stesso diritto europeo (un tempo considerato meno incisivo) registra sul punto rispetto alle regole vigenti negli Stati Uniti (ritenute più puntuali).[67]
Ebbene, senza neppure entrare nel merito della questione se la pronuncia dei soci sul compenso degli amministratori debba preferibilmente avere natura vincolante o meramente consultiva[68], ciò che qui conta è rilevare che la decisione sulla politica retributiva è scandita da chiare tappe procedimentali e conclusivamente motivata in termini giustificativi. Tanto si desume dalla lettura dell'art. 9 bis ( Diritto di voto sulla politica retributiva), il quale dispone che: - "la politica retributiva illustra il modo in cui contribuisce agli interessi a lungo termine e alla sostenibilità della società…."; - "la politica indica la proporzione relativa adeguata delle diverse componenti della retribuzione…"; - "la politica spiega come è stato tenuto conto delle retribuzioni e delle condizioni dei dipendenti…."; - "la politica indica i criteri da utilizzare [per la retribuzione variabile]"; - "la politica specifica le procedure seguite per la determinazione della retribuzione degli amministratori…"; ecc.[69]
Anche qui (ai fini di orientare futuri approfondimenti) è decisivo rammentare la struttura non contestuale (per relationem) tipica della motivazione societaria e ¯ elemento che si palesa di non secondario rilievo nella disciplina delsay on paydegli azionisti ¯ la circostanza che la stessa motivazione è pre-disposta dall'organo proponente, e addirittura a proprio beneficio.
La seconda area tematica è quella afferente al compimento di operazioni con parti correlate: di essa appare immediatamente evidente il rilievo sistematico[70].
Ai fini del nostro discorso, è sufficiente la lettura dell'art. 9 quater(sul Diritto di voto sulle operazioni con parti correlate, a mente del quale «l'annuncio [di compimento delle operazioni con parti correlate] è accompagnato da una relazione che fornisca una spiegazionedelle considerazioni …») per avvedersi che anche in questo ambito viene a ripetersi da parte del legislatore la richiesta di procedimentalizzazione dell'azione e di motivazione (per relationem) della decisione che chiude il procedimento[71].
Dopo aver messo in evidenza la costanza dei profili strutturali, il discorso non potrebbe dirsi completo se non si spendesse qualche parola sui profili della funzione della motivazione nelle proposte di modifica alla direttiva sui diritti degli azionisti. Sotto il profilo della tutela degli azionisti in generale mi pare innegabile che la motivazione costituisca uno strumento determinante di tutela diretta (per le ricadute di trasparenza, verificabilità, razionalità e incentivo di cui prima ho discusso) e di tutela indiretta, cioè quale meccanismo funzionale a un più efficace esercizio in concreto delle altre tutele tipiche dell'azionista. Può allora dirsi che ne esce rafforzato quel "controllo effettivo da parte degli azionisti quale condizione preliminare per un buon governo societario" di cui discorre il 3° considerando della Direttiva sui diritti degli azionisti nella sua attuale versione.
Di fronte alla evoluzione normativa fin qui tratteggiata non si possono trarre, allo stato, conclusioni univoche e definitive. La materia necessita certo di un'ulteriore approfondita riflessione.
È sicuramente necessaria una messa a fuoco dei profili strutturali della motivazione societaria nei diversi contesti in cui essa è esplicitamente chiamata, dal diritto positivo, a rivestire un ruolo più o meno determinante. Ma è ancor più necessario ricostruirne i profili funzionali, sempre alla luce della disciplina data.
Dopodiché, alcuni interrogativi su cui merita riflettere sono sicuramente i seguenti. Uno iniziale, fondamentale, è quello se la motivazione societaria rappresenti all'interno del sistema societario la regola ovvero l'eccezione[72]; quesito al quale segue ¯ indipendentemente dalla risposta data al precedente ¯ quello se possano ricavarsi ulteriori spazi alla motivazione rispetto a quelli normativamente previsti in via di auto‑integrazione dell'ordinamento tramite analogia.
Ancora: è lecito chiedersi se di fronte all'esercizio di poteri discrezionali sia sempre auspicabile attendersi una motivazione. Questo problema ha sempre scosso le indagini teoriche sulla motivazione e, nel silenzio legislativo, ha condotto a risposte incerte. A suo tempo il diritto amministrativo francese e quello italiano giungevano a conclusioni opposte: il primo, fedelmente ancorato al principio pas de motivation sans texte; il secondo, proteso a una generalizzazione dell'obbligo di motivazione[73]. E non v'è chi non veda che un tale problema tocca quello - fondamentale - della relazione fra motivazione e sindacato giurisdizionale sugli atti degli amministratori.
Si è poi accennato in corso di trattazione alla questione se la motivazione societaria possa essere funzionale a un "sindacato di opinione pubblica" (o, detto in altri termini, a un "controllo democratico") della decisione, sollevando dunque il problema ¯ in ipotesi di risposta affermativa al quesito ¯ alla stregua di quali elementi debba essere individuata tale opinione pubblica ovvero se essa, nel contesto in cui operiamo, possa coincidere (quantomeno nelle società "aperte") con la nozione di mercato tout court.[74]
Su tutti questi interrogativi - sulla cui soluzione incidono questioni ancor più di vertice quali la definizione dell'interesse sociale e lo schema dell'eccesso di potere quale strumento di tutela del socio all'interno della s.p.a. - lo studioso ha però ancora molto da meditare.
A. Romano-Tassone, (nt. 4), 15 ss., spec. 19 ss.
F. Benvenuti, (nt. 7), 129.
M. Weber, (nt. 26), 57.
Finalmente sancito come tale dall'art. 3, comma 1, della legge 241/1990 sul procedimento amministrativo.