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Diritto privato e diritto commerciale
Carlo Angelici
1. Il tema, sul quale l’ordine alfabetico mi impone di intervenire per primo, è tale evidentemente da richiedere ben più dei dieci minuti nei quali devono svolgersi i nostri interventi. Debbo perciò limitarmi a poche affermazioni assiomatiche su alcuni dei suoi tanti risvolti.
E in questo senso credo utile svolgere il mio intervento sulle due linee che ci ha tracciato Giuliana Scognamiglio.
Le chiamerei, in termini evidentemente del tutto approssimativi e che presuppongono un condiviso codice semantico, il problema culturale dei confini, ma prima ancora della stessa riconoscibilità, del diritto commerciale e il problema burocratico del suo ruolo e collocazione nel sistema universitario. Due problemi evidentemente connessi, se non altro in quanto il porsi del secondo è almeno influenzato dal primo e dal modo in cui lo si imposta; mentre i termini in cui si risolve il secondo necessariamente si riflettono, e non possono non riflettersi, sul primo.
Il primo, quello “culturale” cioè, è senza dubbio il più intrigante e complesso, tale in effetti da non consentire in questa sede altro che pochi rilievi assiomatici.
Mi limito perciò in proposito a ripetere, in forma sintetica, quanto mi è già capitato di dire in altra sede: la mia convinzione, cioè, che di “diritto commerciale” ha un senso parlare in termini culturali se e in quanto vi siano gruppi di studiosi che acquisiscono coscienza della peculiarità (di una qualche peculiarità che li distingue dal più ampio genere dei giuristi) del proprio lavoro di ricerca e didattica; e che in questo senso esso, il “diritto commerciale”, è il risultato di una vicenda storica la quale si impernia su un processo di identificazione e di auto-identificazione (mi verrebbe da dire: “autoriconoscimento”) degli studiosi che così lo creano e si creano.
Intendo in tal modo dire che certamente in ogni epoca storica è possibile rinvenire discipline intese a regolare fatti economici, ma che di un “diritto commerciale” in senso proprio è possibile discorrere solo in virtù di un riferimento anche culturale al sistema capitalistico. Come mi pare vistosamente confermato, in termini negativi, dalla circostanza che non di “diritto commerciale”, ma di commerce, si parlava dopo le ordinanze di Colbert; e, in termini positivi, dalla constatazione che il “diritto commerciale” è successivamente emerso con parole d’ordine come quelle del cosmopolitismo, del Rechstverkehrsschutz e dell’attività di massa (si pensi, per l’ultimo profilo, alle fondamentali considerazioni di Heck), parole d’ordine che fra le altre mi paiono caratterizzare il sistema capitalistico come affermatosi dalla fine del XVIII secolo (e non è un caso, aggiungerei incidentalmente, che essendo stata diversa la strada per tale emersione nei paesi anglosassoni, diverso sia anche il senso per essi del “diritto commerciale”).
Penso in ogni caso che si debba essere consapevoli della posta in giuoco, anche ideologica, di questa tematica. In effetti, se vi è un nesso fra “diritto commerciale” e sistema capitalistico, la ricerca del primo in epoche storiche anche lontane implica, più o meno inconsciamente, la convinzione che tale sistema, quello capitalistico cioè, corrisponda a una sorta di legge di natura costante nella storia umana, da essa quindi ineliminabile.
Nella mia visione, che qui posso esprimere soltanto in termini del tutto assiomatici, e senza neppure accennare ai tanti temi storiografici coinvolti, si tratta invece di prodotti storici e, in particolare, il “diritto commerciale” in quanto area del diritto privato dotata di caratteristiche individualizzanti per così dire “nasce” quando “nascono” i giuscommercialistici; sicché sono essi che “creano” il diritto commerciale e lo definiscono autodefinendosi.
Se ciò potesse essere condiviso, ne può anche derivare che l’oggetto del presente incontro, i “confini” del diritto commerciale, non è un dato esterno e oggettivamente rilevabile, bensì pur esso il risultato di questo processo di (auto-)definizione: nel senso che i giuscommercialistici definendo il proprio ruolo appunto definiscono, e così inevitabilmente delimitano, anche l’area nella quale lo svolgono.
E in questa prospettiva credo che gli attuali esiti di questa ricognizione possano essere, almeno per un giurista della mia generazione, tutt’altro che confortanti. Ci ha ricordato Giuliana Scognamiglio che già nel 1982, nel convegno per il centenario del codice di commercio, Floriano d’Alessandro aveva segnalato la tendenza dei commercialistici a restringere il proprio ambito di studio, a confinarsi sempre di più in ambiti tecnici, rinunciando così all’ambizione di fondatori come Vivante e Goldschmidt di contribuire alla ricerca giuridica in generale.
Si tratta, come possiamo tutti constatare, di una tendenza che negli ultimi decenni si è ulteriormente sviluppata (basta pensare che la maggior parte degli scritti “commercialisti” riguarda il solo diritto delle società e, fra esso, soprattutto quello delle società per azioni quotate): con il risultato, ho il timore di dirlo, che in buona parte è in effetti disatteso l’ammonimento di Vivante agli studenti, ma in realtà prima ancora agli studiosi, di non limitarsi a un “empirismo volgare”.
E potrebbe essere evidente, in ogni caso, che questa scelta di autolimitazione dei commercialisti (naturalmente come tendenza generale e salve significative eccezioni che tutti ben conosciamo) influisce e non può non influire anche su quello che qui convenzionalmente chiamiamo il problema “burocratico” del diritto commerciale.
2. Anche per esso, quello più immediatamente conflittuale e che ipotesi di riforma potrebbero rendere urgente, Giuliana Scognamiglio ha chiesto la nostra opinione. E per fornire una risposta almeno succintamente motivata, che non sia soltanto una dichiarazione di intenti politici (universitari) credo possa essere utile segnalare come il tema, quello “burocratico” cioè, si scompone in effetti in due questioni che meritano di essere tenute distinte.
Mi sembra in realtà che si pone da un lato il problema se e come debbano essere composti i settori scientifico-disciplinari rilevanti ai fini concorsuali, quali materie cioè ne possano far parte e come esse in definitiva debbano venir “raggruppate” per evitare da un lato un eccesso di specializzazione e dall’altro una genericità talmente indefinita da impedire una seria comparazione dei concorrenti; e da un altro lato il problema di quale debba essere la collocazione di una materia, nel nostro caso il diritto commerciale, nel corso degli studi in giurisprudenza.
Credo anzi che la scelta politica di sovrapporre questi due piani abbia prodotto e ancor più possa produrre gravi guasti: in primo luogo ostacolando la chiarezza nella discussione.
Mi sembra cioè e mi è sempre sembrata incomprensibile la scelta di utilizzare i raggruppamenti definiti ai fini dei concorsi, più in generale della carriera universitaria, al fine di stabilire i contenuti che i piani di studio debbono avere perché, pur nella varietà delle scelte compiute dalle singole sedi nell’esercizio della loro autonomia, vi sia un adeguato livello di omogeneità su scala nazionale della laurea in giurisprudenza (un’esigenza, osserverei incidentalmente, che non si spiega soltanto per il suo “valore legale”, ma anche, e direi soprattutto, per la rilevanza degli interessi, pure di primario rango costituzionale, riferibili alle professioni che a tale laurea corrispondono: un’esigenza la quale, come ho sempre sostenuto quando mi occupavo istituzionalmente di questi problemi, è del tutto analoga e non di rango minore rispetto a quella riconoscibile per gli studi in medicina).
Agevole è in effetti osservare che lo strumento è di per sé del tutto inadeguato allo scopo, il quale è in effetti raggiunto solo per il senso di responsabilità con cui l’autonomia viene in concreto esercitata: con il paradosso allora di aver posto norme per limitare tale autonomia, ma che possono raggiungere il proprio obiettivo solo se i loro destinatari si pongono limiti alle norme medesime estranei.
E che si tratti di un paradosso mi sembra possa risultare evidente con un esempio estremo, e che per fortuna non si è mai verificato, ma ben possibile con l’attuale assetto normativo.
Si pensi al vigente decreto ministeriale per la laurea in giurisprudenza (la c.d. LGM/1, alla cui redazione ho avuto occasione di collaborare come rappresentante delle Facoltà di Giurisprudenza e vice-presidente della commissione ministeriale che ha svolto tale compito). Esso prevede 27 crediti per il raggruppamento di diritto privato, all’epoca chiamato IUS/01, ma non impone, poiché di un raggruppamento si tratta e non di una materia, che sia previsto l’insegnamento che tradizionalmente chiamiamo «Istituzioni di diritto privato» ovvero quello di «Diritto civile» (pur essendo evidente, se si pensa all’origine storica della regola, che a tali due insegnamenti in effetti si pensava). Con la conseguenza, assolutamente paradossale, per non dire ridicola, che sarebbe formalmente possibile un valido corso di laurea in giurisprudenza nel quale quei 27 crediti siano tutti utilizzati per insegnare per esempio il diritto delle unioni di fatto.
3. In ogni caso, e al di là di questi estremismi, che delineano ipotesi per fortuna di scuola, ma idonee a segnalare l’incongruità dei criteri attualmente adottati per l’organizzazione didattica della laurea in giurisprudenza, credo evidente che la questione “burocratica” debba essere analiticamente scomposta in due, interrogandosi da un lato sull’assetto didattico della laurea in giurisprudenza e dall’altro sulla collocazione della nostra materia ai fini delle carriere universitarie.
Per il primo aspetto debbo confessare anche qui il mio noto conservatorismo, ritenendo in effetti che le visioni che ci derivano dalla tradizione siano non solo le più semplici, più agevoli quindi da implementare, ma anche le più efficaci per la formazione degli studenti. Penso cioè che, se in definitiva si tratta dell’ordinamento giuridico e se esso è pensabile (come per esempio da Kelsen) a struttura piramidale, l’insegnamento debba e agevolmente possa percorrere, e per così dire riprodurre, questa piramide: nel senso cioè di costruire larghe basi e poi successivamente specializzandosi (come del resto avviene, a ben vedere, anche nei corsi di laurea concernenti scienze come quelle cc.dd. “esatte”).
In concreto ciò significa, per quanto qui può più direttamente interessare, che non solo è necessario all’inizio degli studi un insegnamento di «Istituzioni di diritto privato», ma anche che esso deve tornare ad avere un contenuto corrispondente alla sua intitolazione: il “diritto privato” cioè e non il solo “diritto civile”, un contenuto che comprende quindi anche il “diritto commerciale”.
E del resto ben ricordo come nel mio esame di Istituzioni di diritto privato mi fu posta una domanda, quella sulla distinzione fra società di persone e di capitali, cui neppure ora sono sicuro come debba rispondersi (mentre era del tutto normale che in quell’esame si facessero domande come quella, per fare un altro esempio, concernente il regime delle eccezioni cartolari).
Mi rendo anche conto che questa esigenza, per me centrale e decisiva per la formazione (non la mera informazione) degli studenti, richiede un corpo docente adeguato e in grado di fornire strumenti idonei per la comprensione generale del sistema privatistico. Ma osserverei anche che, qualora nel caso concreto si rivelassero difficoltà in proposito, sarebbe del tutto ragionevole assegnare l’insegnamento della parte del diritto privato corrispondente al nostro diritto commerciale a studiosi di questo secondo. Osserverei anche che una soluzione in tal senso potrebbe essere agevolata dalla tendenza, per altri aspetti non del tutto commendevole, al frazionamento dei corsi (un esito in certo modo inevitabile della “semestralizzazione”).
In ogni caso mi sembra essenziale che fin dal primo insegnamento privatistico lo studente entri in contatto con i temi della nostra materia e che del resto, non a caso, trovano i loro principi nello stesso codice “civile”.
4. Ugualmente mi sembra essenziale, in certo modo proseguendo nella metafora piramidale, che l’insegnamento generale del diritto privato sia poi seguito dai due insegnamenti delle materie in cui tradizionalmente si articola, il diritto civile e quello commerciale: con la possibilità poi, e qui soprattutto dovrebbe esercitarsi l’autonomia delle sedi e le loro eventuali esigenze di particolarismi, di farli seguire da insegnamenti specialistici.
Il che significa, ed è un altro punto che mi pare decisivo e prima individuato da Giuliana Scognamiglio, che si pone l’esigenza di un momento nel quale il “diritto commerciale” sia insegnato nel suo complesso e per così dire unitariamente.
Ed è qui che questo tema “burocratico” interferisce con quello “culturale”: nel senso che, se i giuscommercialistici definiscono il “diritto commerciale” e così autodefiniscono il proprio compito in termini essenzialmente specialistici e soltanto tecnici, perde senso la tradizione che colloca il suo insegnamento in quello che potremmo definire come il secondo gradino della piramide. Si tratterebbe di un insegnamento specialistico come tanti e inidoneo a svolgere un ruolo come quello anche e soprattutto formativo che ha tradizionalmente svolto.
Osserverei, per fare un facile esempio, che non può non essere essenziale l’insegnamento anche dei contratti commerciali: se non altro in quanto, essendo spesso trascurati nell’insegnamento del diritto privato e di quello civile, si perverrebbe altrimenti ad avere laureati in giurisprudenza che non hanno la minima idea di contratti come quelli bancari e assicurativi.
E riconosco anche che, pure al di là del significato professionale che la laurea in giurisprudenza può avere (e merita di essere ricordato che la laurea LGM/1 è specifica per le «professioni legali»), che questa mia posizione può meritare di essere definita come di estremo conservatorismo.
In effetti, se il “diritto commerciale” emerge quando la materia diviene oggetto di insegnamento universitario e i suoi docenti lo definiscono e si autodefiniscono, credo non stravagante pensare che esso nasca con il codice di commercio (e in effetti al code de commerce seguì quasi immediatamente la dignità universitaria della materia) e con la conseguente istituzione di un relativo insegnamento. Il che per me, al di là del diverso attuale assetto legislativo, significa un’indicazione nel senso di comprendere nel “diritto commerciale”, ai fini almeno dell’insegnamento universitario, le materie che nei codici di commercio erano disciplinate (e del resto pure in altri ordinamenti resta questo il termine di riferimento, anche essendo modificato l’assetto legislativo: si pensi, per indicare l’esempio forse storicamente più significativo, al sistema francese ove è certamente parte del droit des affaires anche la materia disciplinata nel code monétaire et financier).
5. Pochi cenni infine riguardo all’ultimo aspetto, quello concernente le carriere universitarie e il relativo inquadramento: ove si tratta, come accennavo, di rinvenire un equilibrio fra l’esigenza di evitare eccessivi specialismi e l’altra di non eccedere nell’estensione del raggruppamento e impedire così la possibilità di una reale comparazione fra i concorrenti (se non altro in quanto le tradizioni culturali e le esigenze tecniche delle diverse materie assegnano a esse peculiarità che rendono almeno difficile il giudizio a chi è loro estraneo – con l’ulteriore pericolo, aggiungerei, di indurre ad atteggiamenti conformistici di adeguamento a quella che nel momento dato sia “politicamente” dominante).
Sotto questo profilo mi sembra esemplare la situazione del diritto fallimentare: materia specialistica storicamente all’interno del diritto commerciale (e che fu anzi, come ben noto, la ragione storicamente decisiva per l’adozione del code de commerce napoleonico), ma la cui conoscenza e il cui studio implica anche necessariamente l’analisi di problemi processuali. Naturale mi sembra perciò che ai fini concorsuali lo studio di temi fallimentaristici e la relativa produzione scientifica possano consentire una carriera universitaria sia per il diritto commerciale sia per il diritto processuale civile. Molto meno naturale sarebbe pensare a un raggruppamento concorsuale autonomo del diritto fallimentare. E infatti, se non m’inganno, non mi sembra vi siano proposte in tal senso: il carattere interdisciplinare della materia ben consente che di essa si occupino studiosi dell’una o dell’altra disciplina, non pare invece in grado di giustificare il suo isolamento a fini (diciamolo con franchezza) concorsuali, fini che diverrebbero inevitabilmente e al di là delle intenzioni “di bottega” e servirebbero a evitare il controllo culturale di chi opera con prospettive più ampie.
E confesso che, al di là di ragioni che risalgono a momenti ormai lontani degli assetti universitari, non comprendo per quale motivo non debba essere analogo il discorso con riferimento al tema che mi dicono in questo momento il più significativo politicamente, quello dei rapporti con il “diritto dell’economia” (e, non bisogna dimenticare, storicamente nato come “diritto bancario”). Anche qui, evidentemente è fuori questione la prospettiva interdisciplinare, questa volta fra la dimensione privatistica del diritto commerciale e quella pubblicistica; e anche qui mi sembra del tutto comprensibile e ragionevole che la materia possa essere insegnata, e la carriera universitaria possa essere svolta dedicando a essa la propria attività, sia da un “amministrativista” sia da un “commercialista”. Entrambi hanno l’analoga esigenza di tener conto delle prospettive del sub-sistema diverso da quello da cui prendono le mosse, di praticare appunto una ricerca e una didattica interdisciplinari.
Non trovo ragionevole, invece, l’attuale assetto che nel diritto dell’economia individua un autonomo raggruppamento disciplinare. Dal che deriva almeno il pericolo, a me evidente, che si caratterizzi in termini solo tecnici e specialistici, perdendo la visione sistematica che il diritto amministrativo e/o commerciale possono dargli.
6. Un ultimo velocissimo cenno con cui vorrei riprendere un altro spunto Giuliana Scognamiglio, quando discorrendo delle esigenze di interdisciplinarietà ha segnalato pure quelle con lo studio e l’insegnamento dell’economia.
Di ciò sono totalmente convinto e sono anche convinto che decisivo sia in proposito il modo in cui si organizza la didattica nei nostri corsi di laurea.
E penso, a mo’ di testimonianza giustificata dalla mia veneranda età, di poter concludere ricordando in argomento, con qualche melanconia, che proprio nell’ultimo Consiglio di Facoltà cui ho partecipato fui messo in netta minoranza e fu deliberato una sorta di ribaltone rispetto all’assetto che il corso di laurea aveva fino a quel momento (in parte anche dovuto alla mia attività di preside per quasi 15 anni), eliminandosi così il nesso di propedeuticità fra l’insegnamento di «Economia politica» e quello di «Diritto commerciale»: che era un modo per me per sottolineare il ruolo in certo modo servente della prima nei confronti del secondo, l’esigenza che nello studio di questo sia possibile avvalersi degli strumenti concettuali e analitici forniti da quella.
E potrei anche ricordare, in certo modo a contrario, che un grande economista che ho avuto la fortuna di poter frequentare, Federico Caffè, segnalava invece il carattere servente dello studio del diritto, e fra esso in particolare del diritto commerciale, per la comprensione dei problemi economici.
Due posizioni le quali, a ben guardare, non si contraddicono, ma esprimono in effetti la diversità di funzioni della laurea in giurisprudenza e di quella in economia.