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Note di lettura: Impresa e commercialità attraverso il “lato oscuro” dell´unificazione dei codici, di Nicola Rondinone

Mario Libertini

1. Nicola Rondinone, che ha già pubblicato, nel 2003, una apprezzata “Storia inedita della codificazione civile”, ritorna sul terreno storiografico con un approfondimento, che potrebbe dirsi “definitivo”, avente ad oggetto la formazione del libro V del c.c. e, in particolare, la codificazione delle norme di diritto commerciale e il ruolo assunto, in questo ambito, dalla nozione di “impresa”.

segue

L’opera[1] si caratterizza per un eccezionale scrupolo filologico. L’enorme mole di dati raccolti da R. si è tradotta in un’esposizione molto ordinata, che consente al lettore di seguire in dettaglio il processo formativo delle norme e di costruire una propria opinione sulle vicende narrate. Anche se a costo di qualche pesantezza nella lettura, il libro presenta una messe di informazioni, rigorosamente organizzate, dalle quali il lettore interessato è indotto a trarre spunti per sue ulteriori riflessioni.

Ciò è possibile perché R. ha seguito una tecnica espositiva rigorosamente cronologica, che in relazione ad alcuni momenti cruciali della vicenda assume le caratteristiche di una vera e propria cronaca quotidiana. In questo dipanarsi degli eventi, l’a. intreccia felicemente i profili ufficiali dell’iter legislativo, fatti di commissioni, incarichi, relazioni e testi provvisori, con il rilievo attribuito a detta vicenda nei commenti giornalistici del tempo e, soprattutto, con la discussione che sui temi di politica legislativa, relativi alla vicenda stessa, si svolgeva contestualmente nella dottrina giuridica.

In questo modo, osservazioni e formule non nuove (come, per esempio, quelle relative a difese e critiche dell’autonomia del diritto commerciale) acquistano una concretezza storica ben maggiore di quella che può essere loro attribuita nelle discussioni dottrinali ordinarie.

Il principale pregio del libro sta proprio nella vivezza della narrazione, su cui si può dare solo generica testimonianza in una breve recensione. Essa consente di apprezzare i ruoli svolti dalle varie personalità coinvolte nella codificazione, con l’alternarsi di successi e sconfitte personali e, in qualche caso, con mutamenti d’opinione aventi spiegazione tattica.

2. L’accento posto sul rigore filologico della trattazione di R. non deve affatto far pensare che il libro sia soltanto una raccolta accurata di dati. Al contrario, i dati servono all’a. da trama per una forte costruzione interpretativa.

Un primo elemento di riflessione, sottolineato dall’a., riguarda l’efficienza del processo legislativo di allora. È significativo osservare come il lavoro si svolgesse intensamente, anche durante le festività natalizie del 1940 e del 1941; ma il dato più importante è costituito dal fatto che la codificazione coinvolse una partecipazione ampia e qualificata di tutta l’accademia e di tutte le rappresentanze di categoria, con un sostanziale rispetto – pur con gli inevitabili contrasti di valutazioni politiche – delle procedure istituzionali. Ciò porta R. a manifestare comprensione per i giuristi che collaborarono con impegno alla codificazione “fascista”, dedicando a questa attività una grande mole di lavoro, con l’atteggiamento di chi è impegnato in un dovere civico; e uguale comprensione è manifestata per la classe dirigente antifascista che, dopo il 1945, attuò in maniera molto blanda l’epurazione e continuò ad avvalersi delle competenze di diversi giuristi che avevano svolto ruoli importanti nella codificazione fascista.

In proposito, non è banale l’osservazione, svolta da R. nelle considerazioni di chiusura del volume, secondo cui i giuristi di oggi, spesso concentrati in recinti disciplinari ristretti e nella cura di affari privati, non possono rivendicare alcuna superiorità morale rispetto ai giuristi di allora.

La verità è che il regime di allora manteneva un rapporto fisiologico con le élites culturali (prevalentemente concentrate nell’accademia, ma comprendenti anche le alte cariche della magistratura) e queste rispondevano con impegno alle domande provenienti dal potere politico. Riconoscere questi meriti del regime dell’epoca non significa certamente cancellarne le infamie (dalle leggi razziali al Tribunale speciale per la difesa dello Stato, dallo squadrismo al­l’imperialismo), ma significa fare una corretta ricostruzione storica e collocare nella giusta posizione i vari tasselli di un ordine politico e sociale verso il quale rimane ingiustificabile ogni forma di nostalgia.

3. Passando al tema centrale del volume, l’interpretazione dei fatti, da parte di R., mette in luce i diversi intrecci di interessi e di idee che sono state alla base della formazione del V libro del codice civile.

4. ha individuato diverse “squadre”, cioè centri di interessi (e di idee), che si confrontarono nella vicenda. I due gruppi principali sono, da un lato, quello tendenzialmente conservatore (impersonato soprattutto da Alberto Asquini), che riconosce sì l’esigenza di una modernizzazione del diritto commerciale incentrata sulla nozione di impresa, ma difende gelosamente l’autonomia giuridica del diritto commerciale e, con essa, la libertà d’im­presa (o, in altri termini, la conferma di una concezione privatistica della stessa, con la conseguenza pratica della difesa dell’autonomia dei gruppi di comando, “proprietari” del­l’impresa); dall’altro il gruppo dei teorici del corporativismo fascista (Panunzio, Costamagna e altri), che vedevano in una codificazione incentrata sulla nozione di impresa lo strumento per realizzare una forte integrazione delle organizzazioni produttive nel quadro dell’ordine corporativo, cioè – in sostanza – la loro subordinazione al potere dirigistico dello Stato. Questo secondo gruppo contrastava, coerentemente, la sopravvivenza di un codice autonomo per i commercianti, ritenuta incompatibile con l’unità organica della nazione propugnata dal regime. A questo secondo gruppo aderivano anche alcuni cultori del diritto commerciale, fra cui, come figura di spicco, Lorenzo Mossa (la cui adesione ideale a questo orientamento non corrispondeva, peraltro, ad una partecipazione interna all’organiz­zazione corporativa fascista).

Accanto a queste due “squadre” principali, il processo legislativo – nella ricostruzione di R. – si arricchì della partecipazione autonoma di altri gruppi d’interessi, come le confederazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori (del­l’industria e dell’agricoltura), rappresentate dai propri tecnici di fiducia e comunque tendenzialmente più vicine all’orientamento corporativo che a quello tradizionalista.

Infine, un ruolo importante fu svolto anche da tecnici “puri” (generalmente magistrati, in primo luogo M. D’Amelio), che godevano della fiducia della Corona e del Duce e che furono incaricati della redazione e revisione dei testi. Una curiosa conseguenza di tale distribuzione di ruoli è quella per cui, malgrado ricerche approfondite, non si è potuto individuare l’autore (quasi certamente un magistrato, sotto la supervisione del sottosegretario Putzolu) dei testi delle norme del codice sull’impresa (art. 2082 ss. c.c.).

5. Nel dibattito di quegli anni, le posizioni ideologiche volte ad esaltare la pretesa unità organica della nazione, realizzata dal corporativismo fascista, non potevano accettare l’idea di un’autonomia del diritto dei commercianti, caratterizzata dal primato delle fonti autonome rispetto alla stessa legge generale dello Stato. Questa sensibilità era destinata ad aumentare con l’entrata in guerra dell’Italia, nel giugno 1940. Da qui la progressiva prevalenza dell’idea dell’unificazione dei codici, con l’accantonamento del progetto Asquini di nuovo codice di commercio. La decisione finale sull’unificazione dei codici fu poi presa personalmente da Mussolini – come ormai è noto – nel settembre 1940.

In una prima fase, per la verità, ebbe credito una proposta intermedia, cioè quella di abolire il codice di commercio in quanto “classista” e sostituirlo con un codice “dell’economia” o “della produzione”, separato dal codice civile; ma poi prevalse la soluzione, ideologicamente più forte, cioè quella del codice civile unitario, che avrebbe dovuto rappresentare le regole di vita di tutto il popolo italiano, in tutte le sue componenti (spesso con ulteriori richiami ideologici al diritto romano, che non conosceva la distinzione fra diritto civile e commerciale).

La decisione di unificare i codici non rappresentò, comunque, una vittoria piena dell’orientamento corporativo. I contrasti di idee e di interessi, e l’at­tivismo dei rispettivi esponenti, rimasero ad operare anche nel nuovo contesto, nel quale si dava luogo alla redazione del libro V del codice civile.

Vi fu generale consenso sull’idea che l’impresa dovesse essere il concetto centrale del nuovo Libro del Lavoro, ma permaneva una ambiguità, che già si era manifestata nelle discussioni sul progetto Asquini di nuovo codice di commercio: quella tra impresa come “attività” (o “attività organizzata”) e impresa come organismo stabile o “istituzione”.

La prima concezione riduce a poco la rilevanza normativa della nozione generale di impresa e, invece, fa emergere l’importanza del soggetto a cui è intestata l’attività: centrale diventa la nozione di “imprenditore”, che sarà definito “capo dell’impresa” nell’art. 2086 (si potrebbe anche dire, benché l’e­spressione non sarà usata nel linguaggio del codice, “proprietario” dell’im­presa). La seconda concezione attribuisce invece rilevanza all’impresa in sé, come organismo stabile, dotato di proprie regole e di un proprio “interesse”, che trascende quello delle persone chiamate a svolgere ruoli nell’ambito del­l’attività organizzata: l’imprenditore diventa così un organo dell’impresa e questa, a sua volta, una entità chiamata ad attuare i programmi di uno Stato dirigista. È una concezione potenzialmente in grado di incidere sulla definizione dei poteri e doveri dell’imprenditore e sull’interpretazione delle norme di diritto societario.

Ovviamente, la concezione dell’impresa come attività era preferita dai fautori di una disciplina essenzialmente privatistica dell’impresa, mentre la seconda era preferita dai fautori dell’ordine corporativo.

Il codice non risolverà mai questa ambiguità a favore dell’una o dell’altra concezione. L’impresa rimane “attività” nella definizione generale dell’art. 2082, ma diviene piuttosto “organismo” in altre norme generali (a cominciare dall’art. 2086) ed anche in norme sparse, come l’art. 2238 c.c.

Un altro punto critico è costituito dallo spazio normativo lasciato alla nozione di “commercialità” dell’impresa, che qualcuno cercherà ancora di valorizzare, affermando l’esigenza insopprimibile di un diritto singolare per le imprese commerciali, mentre altri tenderanno ad assorbire la commercialità in una disciplina generale comune delle attività produttive.

Questi temi diedero occasione a un dibattito dottrinale di alto livello, in cui era quasi generale l’apprezzamento per la nuova codificazione, mentre poi divergevano le opinioni sulla ricostruzione sistematica della disciplina delle attività produttive. Si andava da visioni pienamente istituzionalistiche ad altre di stampo tradizionale privatistico.

Nel dibattito dottrinale svoltosi attorno agli anni di completamento della codificazione, le concezioni istituzionalistiche dell’impresa presero il sopravvento. Per qualche tempo prevale dunque una concezione per cui l’impresa, nelle norme del codice, è l’impresa-organismo, che viene distinta dall’im­prenditore e posta su un piano gerarchicamente superiore a questo, anche quale collettore degli interessi della collettività. R. nota come questo orientamento sia rimasto prevalente fino al 1945-1946. Dopo di allora si verifica, com’è noto, una inversione di tendenza, con la riaffermazione piena della concezione dell’impresa come attività professionale e del contrattualismo societario, con un percorso dottrinale che R. ricostruisce, come sempre, con grande puntualità.

Sul piano politico, nel 1947 si chiude, con conclusione negativa, il dibattito sull’introduzione dei consigli di gestione nelle società per azioni, con partecipazione dei lavoratori. Rimarrà poi la norma “programmatica” dell’art. 46 Cost., ma la stessa parola “impresa” è usata con riluttanza nel testo costituzionale (salvo che nell’art. 43, sulle nazionalizzazioni).

La caduta della concezione istituzionalistica dell’impresa – nota R. – non è dovuta solo a ragioni ideologiche antifasciste, ma anche al disgregarsi del blocco di interessi e di idee che l’aveva sostenuta: i corporativisti sono scomparsi, i sindacati dei lavoratori industriali optano per la contrattazione contro la cogestione, i sindacati agricoli sono divisi e indeboliti rispetto al peso che avevano avuto negli anni centrali della codificazione. Gli interessi industriali hanno riacquistato peso e sostengono le concezioni dell’impresa che lasciano maggiore libertà d’azione ai gruppi di comando nelle società.

6. Il libro di R. si conclude con alcune osservazioni sui problemi attuali della dottrina dell’impresa e del diritto commerciale in generale.

Secondo l’a., nei fatti si è dato luogo ad una convenzione fra i giuristi per cui il diritto commerciale si è rimodellato come diritto delle imprese non agricole, secondo una concezione neutra dell’impresa riferita al solo versante dell’attività professionale e depurata da elementi organicistici e sociali. La trattazione giuridica dell’impresa, tuttavia, si è frammentata in diverse componenti (contratti d’impresa, società, beni aziendali ecc.), rispetto alle quali la nozione di impresa non si inserisce come elemento dogmatico unificante.

È da lamentare dunque – sempre secondo R. – che la concezione dell’im­presa come attività professionale continui ad essere professata, senza considerazione della teoria economica dell’impresa.

L’auspicio dell’a. è che la dottrina giuscommercialistica dialoghi in modo interdisciplinare con altri studiosi (a cominciare dagli economisti e dai giusagraristi) interessati alla categoria dell’impresa e che si impegni a rivalutare la categoria dell’attività e quella della commercialità. In questa prospettiva, si dovrebbe infine rivalutare il requisito dell’organizzazione. Essa è alla base della concezione unitaria dell’impresa, professata soprattutto dagli economisti. Secondo R. i giuscommercialisti non dovrebbero rassegnarsi ad una concezione frammentata dell’impresa. La rimozione della concezione organicistica aveva le sue giustificazioni nell’immediato dopoguerra, ma non le ha oggi. L’idea della responsabilità sociale dell’impresa rivaluta quella concezione: «In un orizzonte di lungo periodo, la chiusura verso i valori sociali e collettivi non giova alle fortune del diritto commerciale».

7. Il lettore, che ha seguito con profitto R. nella sua vivida narrazione, non può che manifestare un po’ di rammarico per il fatto che le conclusioni propositive del volume, sul piano del diritto positivo, siano esposte in modo sintetico e quasi – se così si può dire – con qualche ritrosia. Si tratta comunque di conclusioni che meritano un’attenzione proporzionata all’importanza e profondità dell’indagine storiografica che fornisce loro un retroterra di conoscenze preziose.

In proposito, credo che l’auspicio di una valorizzazione dogmatica delle nozioni di attività, commercialità e impresa-organismo meriti accoglimento per ciò che riguarda l’attività (soprattutto per ciò che riguarda i contratti d’impresa, un principio-cardine può essere riconosciuto nel primato della disciplina, legale e regolamentare, dell’attività, rispetto alla disciplina del singolo atto); così pure, la rivalutazione di concezioni istituzionalistiche dell’im­presa sembra matura – ancorché bisognosa di un attento lavoro di costruzione dogmatica – a fronte della crescente affermazione di criteri di gestione “responsabile” o “sostenibile” delle imprese). Meno convincente mi sembra l’au­spicio a rivalutare sul piano sistematico il carattere della “commercialità” dell’impresa, laddove il carattere centrale della figura, sul piano economico, è piuttosto il carattere “capitalistico” dell’impresa, con i vincoli finanziari che ciò pone alle strategie, pur auspicabili, di gestione sostenibile.

Condivisibile è, infine, l’auspicio di R. volto a valorizzare il dialogo interdisciplinare ai fini di una migliore interpretazione delle norme generali sul­l’im­presa. Questo auspicio sembra, a mio avviso, traducibile in una proposta di uso del metodo tipologico (anche se sul punto R. – v. le osservazioni svolte a p. 27 – si mostra perplesso, benché non dichiaratamente contrario). La ricostruzione tipologica della realtà (per usare la terminologia cara ad Ascarelli) consente di costruire un concetto tipologico di impresa, comprensivo di elementi normativi (p.e. l’organizzazione gerarchica) ed altri propriamente economici (p.e. la programmazione strategica, il rischio di mercato ecc.), da utilizzare come punto di riferimento unitario nell’interpretazione delle diverse norme che disciplinano l’attività d’impresa (dai profili contrattuali a quelli di responsabilità extracontrattuale, dalle norme societarie a quelle sulla crisi d’impresa).

Proporre l’impiego del concetto tipologico di impresa (come tale, ben più ricco della definizione dell’art. 2082) come referente sistematico unitario nell’interpretazione delle norme di dettaglio del diritto commerciale costituisce il modo migliore per attuare evolutivamente quel messaggio di centralità della nozione di impresa, che il legislatore del 1942 trasmise agli interpreti del codice, con quella serie di ambiguità e di compromessi che R. ha messo in luce. Fra gli interpreti successivi il peso della nozione generale di impresa si è certamente ridotto ed è prevalsa una ricostruzione frammentata della nozione. Tuttavia, l’auspicio ad un ritorno alla centralità sistematica della nozione stessa è stato anch’esso presente nella dottrina (dall’insegnamento di Paolo Ferro-Luzzi al tentativo di costruzione di una “realtà giuridica globale” dell’impresa di Giorgio Oppo, per citare solo due esempi).

Il libro di R. fornisce, a mio avviso, una valida spinta per operare in questa direzione. In ogni caso, al di là del giudizio che si voglia dare sulle conclusioni dell’a. con riferimento a questioni attuali, rimane fuor di dubbio che il contributo di ricerca offerto da questo libro fa onore alla dottrina giuscommercialistica italiana.

 

NOTE

[1] Impresa e commercialità attraverso il “lato oscuro” dell’unificazione dei codici, Torino, Giappichelli, 2020.