Dopo una ricognizione del concetto di crisi, lo scritto analizza i due diversi regimi di rinegoziazione dei contratti previsti nell’ambito della composizione negoziata della crisi. La prima parte propone un attento esame dei considerando e delle disposizioni che si occupano della rinegoziazione dei contratti nella direttiva (UE) 2019/1023. La seconda parte analizza le caratteristiche dello speciale regime di rinegoziazione per SARS-CoV-2 ancora previsto dall’art. 10 del d.l. n. 118/2021 e quelle della nuova rinegoziazione strutturale introdotta nell’art. 17 del d.lgs. n. 14/2019. La terza parte si trattiene sulla nozione di modifica del contratto, mettendo poi in evidenza le molte differenze insistenti tra le due fattispecie di rinegoziazione regolate dal Codice della crisi e la tradizionale risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. La quarta parte si occupa delle diversità correnti tra i due regimi di rinegoziazione. Il saggio si conclude con alcune considerazioni in merito ai confini di operatività della rinegoziazione.
Parole chiave: rinegoziazione; composizione negoziata; Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza; Direttiva (UE) 2019/1023; Covid.
Starting from the concept of Crisis, the paper explores the two different contract renegotiation regimes provided by the new negotiated settlement of the crisis. The first part proposes a careful examination of the Whereas and the provisions that deal with the renegotiation in the Directive (EU) 2019/1023. The second part analyses the characteristics of the special renegotiation regime for SARS-CoV-2 still provided by art. 10 of Italian Decree Law n° 118/2021 and those of the new structural renegotiation introduced in art. 17 of the Italian Legislative Decree n° 14/2019. The third part analyses what contract’s amendment means and then highlights the persistent differences between the two cases of renegotiation ruled by the new Insolvency Code and the resolution due to excessive burdens of the contract performance. The fourth part deals with the current differences between the two renegotiation regimes. The essay concludes with same reflections on the boundaries of this renegotiation.
Keywords: renegotiation; negotiated settlement of the crisis; Insolvency Code; Directive (EU) 2019/1023; crisis, Covid.
1. Introduzione: la nuova nozione di crisi tra unitarietà e frammentazione. - 2. Il trasferimento della composizione negoziata nel Codice: un’ulteriore nozione di crisi? - 3. Crisi e rinegoziazione dei contratti nella composizione negoziata della crisi: un regime duale destinato ad esaurirsi? - 4. Cenni alla disciplina dei contratti nella direttiva (UE) 2019/1023: la rinegoziazione. - 5. (segue). Lo scioglimento del contratto da parte del contraente in bonis. - 6. (segue). La sospensione della prestazione da parte del contraente in bonis. - 7. Ambito di applicazione della rinegoziazione: irrilevanza dell’assorbimento nella normale alea contrattuale? - 8. (segue). I contratti aleatori per natura o volontà dei contraenti. - 9. Indisponibilità del dovere di rinegoziazione. - 10. Differenze tra i due regimi di rinegoziazione. - 11. Considerazioni conclusive. - NOTE
Il sofferto percorso del d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (c.c.i.i.), dovrebbe aver trovato compimento con le novità introdotte dal d.lgs. 17 giugno 2022, n. 83 [1]. Per quanto non possano escludersi ulteriori interventi, imposti o, quantomeno, giustificati dall’incombere di altri drammatici eventi, capaci di indurre a nuovi ripensamenti, è ragionevole pensare che il provvedimento abbia così raggiunto un definitivo assestamento. Diversamente, ci si sarebbe dovuti rassegnare a prendere davvero in considerazione la possibilità che la precorritrice riforma immaginata dal legislatore nel gennaio del 2019 dovesse restare in larga parte in soffitta [2]. Ed è forse proprio per l’intento di segnare un punto fermo nella disciplina che, rivedendo alcune delle scelte iniziali e quelle sopravvenute a causa della pandemia, il testo cesellato dalla Commissione Pagni e varato dal governo in esecuzione della legge di delegazione europea n. 53/2021 [3], va ben al di là dell’unico intento, annunciato nel preambolo [4], di attuare la direttiva (UE) 2019/1023 [5].
Un primo eloquente esempio di tale incedere è fornito dalle modifiche apportate dall’art. 1, primo comma, lett. a), del d.lgs. n. 83/2022 all’art. 2, primo comma, lett. a), del d.lgs. n. 14/2019 [6]. Per quanto la direttiva (UE) 2019/1023 [7] non ne richiedesse la rimodulazione, l’anzidetta disposizione offre, infatti, un’ennesima diversa nozione di “crisi” [8].
La norma, che, giova sottolinearlo, viene espressamente richiamata dalla lett. c) del medesimo art. 2 per definire il “sovraindebitamento”, non fa più riferimento allo “squilibrio economico-finanziario” già in precedenza evocato; tale squilibrio non è più contemplato dalla lettera c), che eleva a presupposto generale, e quindi non più circoscritto soltanto agli imprenditori, la inadeguatezza, e solo l’inadeguatezza, dei flussi di cassa prospettici.
È un cambio di passo, che mira a fare della crisi un fenomeno sostanzialmente unitario [9], il cui presupposto oggettivo è circostanziato con modalità indipendenti dalla natura e dall’attività del debitore che ne sia afflitto. Quindi, senza più apparentemente distinguere tra consumatori, professionisti ed imprenditori.
Le differenze tra questi soggetti, che pur sempre ci sono, attengono al modo in cui i soli imprenditori devono continuare ad attrezzarsi per percepire gli squilibri economico-finanziario che sono presagio della crisi [10]. Le misure e gli assetti, cui si riferisce in nuovo art. 3, terzo comma, c.c.i.i., modificato dall’art. 2 del d.lgs. n. 83/2022, che impongono agli imprenditori di cogliere i segnali di crisi anche nello squilibrio patrimoniale, non riguardano, infatti, i consumatori ed i professionisti; per questi ultimi, pertanto, rileverebbero solo i “flussi di cassa”, ossia le entrate e le uscite prevedibili nei successivi dodici mesi.
Il riferimento a questi soli flussi e non, quindi, allo squilibrio patrimoniale, desta, però, qualche perplessità. Infatti, se per un verso è apprezzabile l’intento di mettere a fuoco il primo eloquente segnale di crisi, qual è di certo l’insufficienza dei flussi di cassa [11], è pur vero che il patrimonio, che generi o meno redditi, costituisce spesso la più importante garanzia generica per i creditori del sovraindebitato civile [12].
Ma la metamorfosi della nozione di crisi continua con un’altra importante novità, che trova occasione nel salutare traghettamento della disciplina della composizione negoziata della crisi, introdotta dal d.l. 24 agosto 2021, n. 118 – convertito con modificazioni dalla l. 21 ottobre 2021, n. 147 – all’interno del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Il trasferimento, sancito dall’art. 6 del d.lgs. n. 83/2022, avviene inserendo nella Parte Prima del c.c.i.i. un nuovo Titolo Secondo, rubricato, per appunto, “Composizione negoziata della crisi, piattaforma unica nazionale, concordato semplificato e segnalazioni per la anticipata emersione della crisi”.
Il novello Titolo Secondo è aperto dall’art. 12 c.c.i.i. Questo stabilisce che l’imprenditore commerciale e agricolo possa accedere alla composizione negoziata quando si trovi «in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza e risulta ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa» [13]. Com’è facile notare, il presupposto oggettivo è rimasto quello già previsto dall’art. 2 del d.l. 24 agosto 2021, n. 118. Tuttavia, è altrettanto evidente che, proprio per questo, la norma ingenera il dubbio che, a dispetto della scelta definitoria operata con il nuovo art. 2, lett. a), c.c.i.i., la nozione di crisi possa essere non più unitaria, ma in parte diversa.
Infatti, non è chiaro come l’imminenza della crisi, cui fa riferimento l’art. 12 del c.c.i.i., debba essere apprezzata [14]. Sulla sola base dell’evocato squilibrio patrimoniale o economico finanziario o, come stabilisce l’appena ricordato art. 2, lett. a), c.c.i.i., che, a ben vedere, detta una definizione di “crisi” destinata a valere non ai soli fini del sovraindebitamento, ma per l’intero c.c.i.i.?
In altre parole, è da chiedersi se “la probabile crisi”, che è presupposto oggettivo della composizione negoziata, debba essere percepita prendendo in considerazione solo lo squilibrio patrimoniale o – si noti la congiunzione avversativa – economico-finanziario, ovvero, come dice il nuovo art. 2, lett. a), c.c.i.i., tenendo anche conto della insufficienza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi.
La questione, per quanto sottile, è tutt’altro che pretestuosa, dato che, di principio, nomina sunt consequentia rerum. Per quanto si tratti di due facce della stessa medaglia, essendo evidente il rapporto simbiotico tra lo squilibrio economico-finanziario e l’insufficienza dei flussi di cassa, l’impiego di locuzioni diverse in un unico provvedimento, qual è il c.c.i.i., genera qualche perplessità. In ultima analisi, lo squilibrio patrimoniale evocato dall’art. 12 sembra ispirarsi non all’art. 2, lett. a), che in effetti non lo contempla, ma alle misure ed agli assetti indicati dall’art. 3, terzo comma.
Qualunque sia la nozione di crisi, questa contribuisce in maniera determinante alla individuazione dell’area di operatività della nuova disciplina della composizione negoziata della crisi e, a caduta, della eccezionale rinegoziazione dei contratti lì prevista. Quest’ultima continua, peraltro, ad essere figlia del suo tempo: il persistere delle eccezionali circostanze alla base della decretazione d’urgenza del 2021 – che il legislatore considera evidentemente non del tutto concluse [15] – ha suggerito il ricorso ad un duplice regime, uno di applicazione generale, l’altro, per appunto, eccezionale.
Infatti, l’art. 46 del d.lgs. 17 giugno 2022 n. 83, pur abrogando gran parte del d.l. 24 agosto 2021 n. 118, ne lascia in vigore l’art. 10, secondo comma, che continuerà quindi eccezionalmente ad applicarsi nel ricorrere della specifica circostanza lì stabilita, ovvero «se la prestazione è divenuta eccessivamente onerosa per effetto della pandemia da SARS-CoV-2» [16].
In questi casi, prevede ancora l’art. 10, secondo comma, del d.l. 24 agosto 2021 n. 118, «L’esperto [...] può invitare le parti a rideterminare, secondo buona fede, il contenuto dei contratti ad esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita se la prestazione è divenuta eccessivamente onerosa per effetto della pandemia da SARS-CoV-2. In mancanza di accordo, su domanda dell’imprenditore, il tribunale, acquisito il parere dell’esperto e tenuto conto delle ragioni dell’altro contraente, può rideterminare equamente le condizioni del contratto, per il periodo strettamente necessario e come misura indispensabile ad assicurare la continuità aziendale. Se accoglie la domanda il tribunale assicura l’equilibrio tra le prestazioni anche stabilendo la corresponsione di un indennizzo» [17].
È, invece, di applicazione generale l’art. 17, quinto comma, c.c.i.i., che, nel testo novellato dall’art. 6 del d.lgs. n. 83/2022, prevede che «Nel corso delle trattative l’esperto può invitare le parti a rideterminare, secondo buona fede, il contenuto dei contratti ad esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita se la prestazione è divenuta eccessivamente onerosa o se è alterato l’equilibrio del rapporto in ragione di circostanze sopravvenute. Le parti sono tenute a collaborare tra loro per rideterminare il contenuto del contratto o adeguare le prestazioni alle mutate condizioni». La disposizione, del tutto svincolata dalla pandemia, costituisce una misura strutturale [18], l’unica destinata a durare allorché, come si spera, l’emergenza sarà cessata.
Si pongono, però, alcune questioni.
Va infatti osservato che, stante la sostanziale abrogazione dell’intero d.l. 24 agosto 2021, n. 118 [19], non è chiaro come possa sopravvivergli il solo art. 10, secondo comma, evidentemente incapace di vivere di luce propria. Come potrà applicarsi? L’interrogativo è alimentato dal fatto che il persistente regime duale concerne solo la rinegoziazione dei contratti, ma non le procedure di composizione negoziata della crisi che, con l’abrogazione della quasi totalità del d.l. 24 agosto 2021, n. 118, sono ovviamente unificate nel solo ed unico strumento previsto dagli artt. 12 ss. del c.c.i.i., nel testo novellato dal d.lgs. n. 83/2022.
Quindi, l’ipotesi più plausibile è che, fino alla cessazione degli effetti di quella pandemia – ma la questione verrà in seguito ripresa – il secondo comma dell’art. 10 del d.l. 24 agosto 2021, n. 118 debba ritenersi sostanzialmente, anche se non formalmente, integrato nell’art. 17 c.c.i.i. Sicché, avviata l’ormai unica procedura di composizione prevista dall’art. 12 c.c.i.i., il regime della rinegoziazione sarà diverso a seconda che l’eccessiva onerosità dipenda o meno dalla pandemia.
Tale scelta si presta ad almeno tre considerazioni.
In primo luogo, è da chiedersi se questa sia ancora giustificata e se non si potesse, invece, mandare definitivamente in soffitta anche l’art. 10, secondo comma, del d.l. 24 agosto 2021, n. 118. L’interrogativo non è dettato da eccessivo ottimismo, ma dalla riflessione che, a distanza di più di due anni dall’emersione del Covid ed alla luce del fortissimo ammorbidimento dell’iniziale regime di limitazioni, è lecito dubitare che possa ancora parlarsi di misure emergenziali e di quella eccezionalità ed urgenza che giustificava quelle norme. La sensazione è che non sia così, ma, dato che, come meglio si dirà appresso, la disciplina attiene ai contratti di durata, è plausibile che la cautela sia stata dettata dall’eventualità che alcuni contratti stipulati prima dell’esplosione della pandemia nel marzo del 2020 possano ancora (eccezionalmente) necessitare di un’equa manutenzione giudiziale.
La seconda considerazione, per qualche verso connessa alla precedente, concerne la possibilità che, una volta conclusa la pandemia, quella necessità ed urgenza possa essere direttamente sostituita dal subentrare di altre contingenze, già sottolineate dalle parti sociali, quali il conflitto in corso e le crisi energetiche. Per quanto si auspichi il contrario, anche perché i conflitti e le crisi energetiche dovrebbero ancora avere un gradiente di prevedibilità diverso da quello delle pandemie, non è banale chiedersi se il legislatore potrà resistere ad una richiesta di adattamento dell’art. 10, secondo comma, del d.l. 24 agosto 2021, n. 118 a queste nuove emergenze.
Infine, ma ci sarebbe ancora molto altro da dire [20], va comunque apprezzata la scelta di non inserire nell’art. 17, quinto comma, c.c.i.i. i due regimi, soluzione che, decretata la fine della pandemia, avrebbe obbligato al rimaneggiamento di una norma che dovrebbe invece strutturalmente sopravviverle.
Dato che, dopo le iniziali considerazioni sul presupposto oggettivo della composizione negoziata della crisi, questo saggio intende occuparsi della rinegoziazione che trovi causa in essa, è bene ricordare che la legislazione europea non contempla affatto l’introduzione di una sua specifica disciplina destinata ad operare nel contesto dei quadri di ristrutturazione. Anzi, l’approccio della direttiva (UE) 2019/1023 è di tutt’altro segno [21], dato che questa afferma a chiare lettere di non voler promuovere e di voler persino disincentivare l’impiego di soluzioni diverse da quelle ordinariamente previste dal diritto dei contratti.
Ne offrono testimonianza i considerando, che, come sempre più spesso accade, non solo giovano a spiegare le scelte di fondo, ma contribuiscono a determinare il contenuto delle disposizioni direttamente precettive o, come nel caso di specie, a spiegare proprio la ragione dell’eloquente assenza di una disciplina positiva della rinegoziazione.
Il tema è illustrato già nel secondo considerando. Questo, dopo aver enunciato che «la ristrutturazione dovrebbe consentire ai debitori in difficoltà finanziarie di continuare a operare, in tutto o in parte, modificando la composizione, le condizioni o la struttura delle loro attività e delle loro passività», precisa che, tuttavia, «salvo specifica disposizione contraria del diritto nazionale, i cambiamenti operativi, come la risoluzione o la modifica dei contratti o la vendita o altro atto dispositivo delle attività, dovrebbero rispettare i requisiti generali previsti dal diritto nazionale per tali misure, in particolare il diritto civile e il diritto del lavoro».
Quindi, per il legislatore europeo l’avvio della ristrutturazione non potrebbe di per sé giustificare la “modifica dei contratti”, che, anzi, dovrebbe preferibilmente continuare a seguire le regole di diritto comune [22] che già la disciplinano [23].
Ma cosa si intende nella direttiva per “modifica” dei contratti? La locuzione, espressa nelle varie lingue in termini comunque genericamente evocanti una qualsiasi variazione del rapporto [24], è destinata ad adattarsi ai diversi contesti, sì da assumere il significato proprio dei fenomeni e dei negozi, tipici ed eventualmente atipici, che in ciascun ordinamento sono atti a produrre un simile effetto.
Quindi, per quanto attiene al nostro ordinamento, dovrebbe comprendere non soltanto la novazione contrattuale [25] regolata dall’art. 1230 c.c., che per il suo essenziale effetto estintivo raramente si attaglierebbe alla fattispecie [26], ma anche la più semplice variazione di talune condizioni contrattuali, quali gli elementi accidentali, regolata dall’art. 1231 c.c. [27].
In entrambi i casi la modifica richiederebbe l’accordo di tutti i contraenti [28], consenso che, in linea di principio, le parti, in specie quella in bonis che subirebbe la rinegoziazione, sarebbero libere di prestare o meno; senza che, in assenza dell’assunzione di un precedente impegno in tal senso, la mancata prestazione del consenso possa dar luogo ad azione giudiziale [29]. L’unica eccezione in tal senso potrebbe essere rappresentata dall’equo riequilibrio giudiziale delle prestazioni a rimedio dell’eccessiva onerosità sopravvenuta, di cui si dirà meglio appresso, e dall’adeguamento del corrispettivo dell’appalto.
La direttiva farebbe però salve, perché comunque con essa compatibili, le diverse specifiche disposizioni eventualmente previste dai legislatori nazionali. Insomma, merita rimarcarlo, il legislatore europeo non prevede e nemmeno promuove l’adozione di regole diverse da quelle ordinarie, ma rimette ai singoli Stati la scelta di introdurre o meno degli specifici doveri di rinegoziazione in occasione delle procedure di crisi.
Ferma restando l’assenza di una disciplina precettiva della rinegoziazione, per il legislatore europeo è comunque ben chiaro lo stretto legame corrente tra la ristrutturazione ed i contratti; quindi, la direttiva si preoccupa di assicurare che il successo delle procedure non venga compromesso dal ricorso ad altri istituti rimediali tipici del diritto dei contratti. Il tema è per molti versi contiguo, dato che, in una sorta di entropia, l’assenza di una disciplina della rinegoziazione trova un parziale contrappeso nella limitazione delle tutele, negoziali e legali, usualmente spettanti all’altro contraente in bonis.
La prima preoccupazione è che l’accesso ai quadri di ristrutturazione possa essere pattiziamente previsto quale fatto di per sé solo legittimante l’altro contraente allo scioglimento del rapporto o alla sospensione della prestazione [30].
Il tema è ben illustrato dal quarto considerando, dedicato alle così dette clausole ipso facto, ossia delle pattuizioni «che autorizzano (i creditori) a risolvere il contratto di fornitura per il solo motivo dell’insolvenza, anche se il debitore ha debitamente rispettato i propri obblighi». Il legislatore europeo chiarisce che mentre simili clausole potrebbero essere legittimamente invocate «quando il debitore chiede misure di ristrutturazione preventiva», altrettanto non dovrebbe accadere «quando il debitore sta semplicemente negoziando un piano di ristrutturazione o chiedendo la sospensione delle azioni esecutive individuali, o in collegamento con qualsiasi circostanza connessa alla sospensione». La ragione del divieto, sancito dalle successive disposizioni precettive, va colta nel fatto che «la risoluzione anticipata può avere un impatto negativo sull’impresa del debitore e sul suo efficace salvataggio».
La tutela ed il perseguimento di siffatti obiettivi prevalgono sull’autonomia privata e la scelta del legislatore europeo è netta: in tali casi «è necessario stabilire che i creditori non possano invocare le clausole ipso facto che fanno riferimento alle trattative sul piano di ristrutturazione, alla sospensione o a qualsiasi analoga circostanza connessa alla sospensione». In definitiva, il considerando postulerebbe la non operatività di una clausola risolutiva espressa collegata all’avvio della negoziazione o, forse, dato l’intento di intercettare ogni altra clausola idonea a generare la risoluzione, al verificarsi delle circostanze atte a comportare analoghi effetti sostanziali per la perdita del beneficio del termine [31].
Passando alle successive disposizioni, l’art. 7, par. 5, della direttiva (UE) 2019/1023 dà corpo al considerando. Con un testo che, almeno nella versione italiana, è volto a precludere ogni tentativo di sottrarsi al divieto, la norma impone agli Stati membri di non consentire di rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti [32] né di risolverli, di anticiparne la scadenza o di modificarli in altro modo a danno del debitore in forza di una clausola contrattuale che prevede tali misure, in ragione esclusivamente di una richiesta di apertura o dell’apertura di una procedura di ristrutturazione preventiva, ovvero per la richiesta o la concessione della sospensione delle azioni esecutive individuali.
Ma al tema del rapporto con l’autonomia privata, riguardante le c.d. clausole ipso facto se ne aggiunge un altro, intuibilmente ancora più delicato. Stavolta, è quello riguardante il rapporto con gli ordinari rimedi previsti dagli ordinamenti nazionali a tutela dell’esatto adempimento delle obbligazioni. Si pensi, per tutte, all’eccezione di inadempimento disciplinata dall’art. 1460 c.c. [33]. Fino a che punto è possibile sospenderne l’impiego a vantaggio della ristrutturazione?
La questione sembrerebbe interessare solo i così detti contratti essenziali, ossia quelli relativi alle utenze, ai servizi informatici ed ai pagamenti elettronici, dei quali si deve assicurare il mantenimento e l’esecuzione nel corso delle trattative del piano ristrutturazione, anche quando a siffatte trattative si coniughi il divieto di azioni esecutive individuali che impedisca all’altro contraente di esigere le precedenti prestazioni inadempiute.
Di tali contratti si occupa espressamente il quarantunesimo considerando. Sul presupposto che «la risoluzione anticipata può compromette la capacità di un’impresa di continuare a operare durante le trattative di ristrutturazione, in particolare per quanto riguarda i contratti di fornitura di beni o servizi essenziali quali gas, energia elettrica, acqua, telecomunicazioni e servizi di pagamento tramite carta», gli Stati membri sono invitati a prevedere che durante il periodo di sospensione a siffatti creditori «non sia consentito di rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti essenziali né di risolverli, di anticiparne la scadenza o modificarli in altro modo, purché il debitore adempia gli obblighi che gli incombono a norma di tali contratti in scadenza durante la sospensione».
Quindi, secondo un meccanismo noto alle procedure di crisi, il fatto che il creditore non possa agire per l’escussione dei corrispettivi pro preterito dovutigli non potrebbe legittimare la sospensione delle ulteriori prestazioni né, tanto meno, la risoluzione del contratto, sempre che, si intende, questi ottenga il pagamento delle prestazioni in corso. Non è chiaro, però, a quali contratti si riferisca il considerando. Il dubbio nasce dal fatto che, dopo l’anzidetto riferimento ai “contratti essenziali”, l’ultima frase richiama, invece, la ben più ampia categoria dei “contratti pendenti”, facendo l’esempio dei «contratti di locazione e gli accordi di licenza, i contratti di fornitura a lungo termine e gli accordi di franchising».
L’anzidetto dubbio è fugato, ma solo in parte, dalle successive disposizioni precettive. L’art. 7, par. 4, della direttiva (UE) 2019/1023 dà corpo al considerando stabilendo che gli Stati membri debbano prevedere norme che impediscano ai creditori cui si applica la sospensione di rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti essenziali, o di risolverli, anticiparne la scadenza o modificarli in altro modo a danno del debitore, in relazione ai debiti sorti prima della sospensione, per la sola ragione di non essere stati pagati dal debitore. L’adozione delle medesime norme è invece opzionale per i contratti pendenti non essenziali. Dato che quest’ultima opzione rende oltremodo necessaria l’identificazione della fattispecie, la norma ritorna sulla nozione di “contratti pendenti essenziali”, che sono quelli «necessari per la continuazione della gestione corrente dell’impresa, inclusi i contratti relativi alle forniture la cui interruzione comporterebbe la paralisi dell’attività del debitore».
Il nostro legislatore ha dato attuazione all’intero art. 7 della direttiva. Nel procedervi, non ha inteso avvalersi dell’opzione e non ha operato, quindi, alcuna distinzione. Il nuovo art. 18, quinto comma, del d.lgs. n. 14/2019, come già in precedenza l’art. 6, quinto comma, del d.l. n. 118/2021, si riferisce a tutti i contratti e la loro essenzialità non assume, almeno all’apparenza, rilievo [34].
Ripercorsa la disciplina europea, è ora di tornare ad occuparsi più direttamente di quella interna.
I due regimi di rinegoziazione descritti nel terzo paragrafo rispondono a presupposti e logiche in parte comuni, in parte diversi.
I profili di comunanza sono molteplici.
Spicca anzitutto il fatto che in entrambi i casi la disciplina trova applicazione in relazione ai soli «contratti ad esecuzione continuata o periodica, ovvero ad esecuzione differita». Quindi, stante l’identica locuzione letterale, alle medesime categorie di contratti passibili di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta ai sensi dell’art. 1467 c.c. [35].
L’impiego della stessa locuzione utilizzata dal codice civile [36] non deve però indurre a pensare che vi sia una necessaria coincidenza e che la rinegoziazione dei contratti nel contesto della crisi, dipenda questa o meno dalla pandemia, riguardi gli stessi contratti passibili di risoluzione per il sopravvenire di un’eccessiva onerosità [37]. È plausibile che non sia così, perché un vasto ordine di ragioni induce a pensare che l’ambito di operatività della rinegoziazione legata alla crisi sia più ampio di quella della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.
La prima di siffatte ragioni discende dal fatto che, a differenza di quanto prevede l’art. 1467, secondo comma, c.c., che non consente il ricorso al rimedio allorché l’eccessiva onerosità rientri nella normale alea di qualsiasi rapporto sinallagmatico [38], l’art. 10 del d.l. n. 118/2021 e l’art. 17 del d.lgs. n. 83/2022 non vi fanno, invece, riferimento.
Quindi, mentre le oscillazioni di valore delle prestazioni [39] che siano conseguenza delle normali dinamiche di mercato [40] rientrerebbero in quell’alea che non consente di fare ricorso alla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta prevista dall’art. 1467 c.c. [41], le medesime variazioni potrebbero, invece, legittimare la richiesta di rinegoziazione delle condizioni contrattuali da parte del debitore in crisi. La conclusione, imposta dal diverso tenore delle due norme, non sembra contestabile, a meno di ritenere che la tolleranza della normale alea contrattuale rappresenti un principio generale applicabile non solo all’eccessiva onerosità sopravvenuta disciplinata dall’art. 1467 c.c., ma ad ogni rinegoziazione [42], ivi comprese quelle che trovino occasione nella composizione negoziata della crisi [43]. Se così non fosse, il fatto che l’onerosità non ecceda la normale alea contrattuale presente in ogni contratto ad esecuzione in tutto o in parte differita sarebbe di per sé irrilevante: i contratti passibili di rinegoziazione nel corso di siffatta composizione sarebbero quindi in potenza ben più numerosi di quelli astrattamente rientranti nella sfera dell’art. 1467 c.c. [44].
In secondo luogo, merita ricordare che, a prescindere dalla dimensione dell’alterazione del rapporto e, quindi, anche ove questa eccedesse la normale alea contrattuale, l’art. 1469 c.c. non consente il ricorso al rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità nel caso dei contratti aleatori; senza che ciò comporti differenza, tanto quelli che lo siano per la loro natura, quanto quelli che lo divengano per volontà delle parti.
I primi, i contratti naturalmente aleatori, altrimenti detti contratti aleatori tipici [45], sono quelli che per loro struttura pongono a carico di una o, più spesso, di entrambe le parti il rischio della sproporzione delle prestazioni in conseguenza di un fattore casuale [46]. I rischi inclusi sono peraltro normalmente circoscritti entro le aree tipicamente individuate dal contratto.
I secondi, i contratti volutamente aleatori, sono quelli che per loro natura non presenterebbero profili di aleatorietà, che vi vengono però introdotti dalle parti [47].
Come si è detto, tanto l’art. 10, secondo comma, del d.l. 24 agosto 2021, n. 118, quanto il novellato art. 17, quinto comma, c.c.i.i., non fanno però alcun riferimento all’alea; ancora una volta è quindi necessario chiedersi se l’aleatorietà del contratto possa comunque assumere qualche rilievo, impedendo o, almeno, limitando l’accesso alle due fattispecie di rinegoziazione [48].
Il tema, certamente complesso [49], meriterebbe un vasto studio sistematico, che eccede la prima sommaria analisi qui condotta. Comunque sia, in linea di massima sembrerebbe da escludere la rinegoziabilità dei contratti naturalmente aleatori, la cui struttura – si pensi ad esempio all’attualizzazione del rischio ed alla determinazione del premio nel settore assicurativo – male si presta alla rideterminazione della misura di una soltanto delle due prestazioni. Si potrebbe forse fare salva, dove consentita dalla struttura del contratto tipicamente aleatorio, l’eventualità di una contestuale adeguamento di entrambe le prestazioni; tuttavia, è chiaro che in questo modo il rapporto manterrebbe il suo equilibrio originario, mutando solo la dimensione, ma non la proporzione, delle sue prestazioni.
La conclusione potrebbe invece essere diversa per i contratti volutamente aleatori, che potrebbero essere strutturalmente capaci di meglio sopportare una contenuta rinegoziazione. La risposta potrebbe essere positiva per i contratti che, pur mantenendo la loro natura commutativa, vedessero un contraente rinunciare, assumendo il rischio, alla modificazione della propria prestazione a fronte del sopravvenire di circostanze che la legittimerebbero; sarà invece negativa quando l’alea convenzionale incida direttamente sull’oggetto del contratto [50].
Le riflessioni appena condotte in merito ai contratti volutamente aleatori aprono un ulteriore scenario ed inducono a chiedersi se la rinegoziazione prevista dal diritto della crisi possa essere aprioristicamente esclusa tramite un’apposita convenzione contrattuale.
Prima di addentrarsi maggiormente nel tema, che anche stavolta può essere solo accennato, è bene ricordare che, come si è detto, la questione non è direttamente affrontata dalla direttiva (UE) 2019/1023, che si occupa solo delle clausole ipso facto, ovverosia di quelle, evidentemente diverse, che prevedono lo scioglimento del contratto. Tuttavia, la questione qui posta non lascia del tutto indifferente il legislatore europeo, ben consapevole del fatto che il successo della ristrutturazione potrebbe spesso dipendere da una modifica dei contratti in corso atta a consentirne la prosecuzione.
Questo premesso, la dottrina già occupatasi del tema in occasione del d.l. 2 marzo 2020, n. 9 [51] ritiene che, stante l’eccezionalità della disposizione legata alla pandemia, una simile pattuizione non potrebbe efficacemente escludere la rinegoziazione.
La soluzione va condivisa, ma, per una più specifica ragione, che potrebbe in fondo applicarsi non solo alla rinegoziazione eccezionalmente regolata dall’art. 10, secondo comma, del d.l. n. 118/2021, ma anche alla rinegoziazione strutturale prevista dall’art. 17, quinto comma, c.c.i.i.
Entrambe le disposizioni, prevedendo un obbligo di negoziazione secondo buona fede volto a supportare il primario obiettivo della composizione negoziata della crisi, tutelano un interesse di ordine pubblico economico, di cui le parti non potrebbero preventivamente disporre tramite una pattuizione che escludesse comunque la stessa negoziazione. La conclusione è supportata anche dal fatto in entrambi i casi la promozione della rinegoziazione non è rimessa all’iniziativa delle parti, ma a quella dell’esperto, che non potrebbe essere preventivamente privato di un potere di impulso di cui è l’unico a poter disporre e che questi sarebbe anzi tenuto ad esercitare ogni qual volta ne ravvisasse, sulla base della propria discrezionalità tecnica, l’opportunità [52].
Tra le due fattispecie di negoziazione corrono peraltro anche delle significative differenze.
Anzitutto, per l’evidente ragione che l’art. 10 del d.l. n. 118/2021 è destinato ad operare solo se il sopravvenire dell’eccessiva onerosità della prestazione sia imputabile alla pandemia da SARS-CoV-2. Quindi, a conferma dell’eccezionalità, la norma potrà applicarsi ai soli contratti stipulati prima della pandemia [53] e la cui prestazione, divenuta eccessiva, non fosse stata ancora eseguita al suo sopravvenire o, per i contratti ad esecuzione periodica o continuata, se siano divenute eccessive le prestazioni periodicamente dovute. Va peraltro aggiunto che nella recente esperienza dei contratti di locazione ad uso commerciale l’eccessiva onerosità non è direttamente dipesa dal diffondersi del virus, ma dalle misure restrittive adottate per il suo contenimento. La circostanza merita di essere sottolineata, perché la scelta di elevare a presupposto la pandemia impone di chiedersi quali conseguenze potrebbero derivare dal fatto che la World Health Organization ne dichiari la cessazione o dal fatto che al suo persistere non si accompagnino più misure restrittive. Interrogativo affatto banale, ove si consideri che non è chiaro se la sola indicazione dell’esperto, cui l’art. 10, secondo comma, d.l. n. 118/2021 assegna il compito di individuare i contratti e le prestazioni contrattuali resi eccessivamente onerosi dalla pandemia, basti a giustificare il dovere di rinegoziarli o, come sembra preferibile, permetta ancora al contraente in bonis di allegare e dimostrare che l’eccessiva onerosità, anche ove sussistente, non sarebbe direttamente collegabile alla pandemia.
In secondo luogo, perché, mentre l’art. 10 del d.l. n. 118/2021 prende in considerazione la sola eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, l’art. 17, quinto comma, c.c.i.i. può operare in presenza di una circostanza ulteriore, ossia allorché sia «alterato l’equilibrio del rapporto» [54]. È chiaro che quest’ultima locuzione copre una più vasta area di ipotesi, comprendente non solo quelle in cui lo squilibrio dipende dall’eccessiva onerosità sopravvenuta di una prestazione, ma, certamente, anche quelle in cui l’alterazione del rapporto discende dallo svilirsi [55] del valore della controprestazione [56].
In terzo luogo, perché mentre l’art. 10, secondo comma d.l. n. 118/2021 stabilisce che la negoziazione debba avere ad oggetto il solo “contenuto dei contratti”, l’art. 17 c.c.i.i. usa nuovamente una formula più ampia, prevedendo espressamente che la negoziazione possa riguardare non solo il contenuto del contratto, ma anche un adeguamento delle prestazioni alle mutate condizioni. Per quanto le diverse locuzioni evochino scenari altrettanto diversi, è probabile che le differenze siano destinate a ridursi in considerazione del fatto che, in caso di epilogo giudiziale, l’intervento sostitutivo del giudice previsto dall’art. 10, secondo comma, d.l. n. 118/2021 potrebbe riguardare non solo il contenuto del contratto – ad esempio un elemento accidentale con il differimento del termine per l’adempimento – ma anche l’entità stessa della prestazione.
In quarto luogo, per la possibile differente estensione temporale degli effetti prodotti dalla rinegoziazione sull’originario regolamento contrattuale. Mentre l’art. 10, secondo comma, d.l. n. 118/2021 prevede che gli effetti della rinegoziazione debbano essere strettamente ricompresi nell’arco di tempo necessario a contrastare le conseguenze della pandemia, l’art. 17 c.c.i.i. tace in merito alla durata ed alla stessa reversibilità degli effetti modificativi.
Infine, è di immediata evidenza che, a differenza dell’art. 10, secondo comma, d.l. n. 118/2021, l’art. 17 c.c.i.i. non contempla, almeno espressamente l’eventualità di un intervento giudiziale. Non è questa la sede per approfondire maggiormente la questione, cui quindi ci si sottrae apertamente, ma merita comunque ricordare che il diverso tenore delle due disposizioni ha indotto il Consiglio di Stato a ritenere che il legislatore intendesse così escludere un epilogo giudiziale nel caso di insuccesso della negoziazione [57].
Questa carrellata non potrebbe concludersi senza indicare alcune altre questioni che potranno presentarsi all’orizzonte. Ovviamente, dato che l’intento è anche quello di promuovere un confronto, si devono traguardare i confini più estremi dei contratti di impresa, della rinegoziazione e della crisi.
Così, è ad esempio da chiedersi se entrambe le discipline, evidentemente concepite avendo quale riferimento i contratti di scambio, possano applicarsi anche ai contratti associativi ed a quelli che, tra questi, avessero comunione di scopo. Si pensi, per rimanere tra i più comuni in uso tra gli imprenditori, al consorzio o, persino, al contratto di società. Sarebbe possibile rinegoziare l’adempimento delle obbligazioni gravanti sul consorziato o sul socio? Di primo acchito, verrebbe da dire che la rinegoziazione non potrebbe riguardare la misura della prestazione – ossia del contributo o del conferimento dovuto – che in entrambi i casi, ma specie nel secondo, mal si adatterebbe alla funzione stessa di siffatte prestazioni. Tuttavia, si potrebbe essere più possibilisti in merito ad un differimento dell’adempimento di quella stessa obbligazione, magari per quel tempo compensato, de iure condendo, dall’applicazione di alcune sanzioni tipiche, qual è, nel contratto di società, la sospensione del diritto di voto [58].
Ma anche a restare nel più consono ambito dei contratti commutativi vi sarebbe molto da dire. Ad esempio, come opererebbe la rinegoziazione in caso di contratti plurilaterali o in quelli che vedono più parti condividere la medesima posizione contrattuale, con o senza vincolo di solidarietà?
Ed ancora, la rinegoziazione della prestazione garantita da fideiussione, produrrebbe effetto nei confronti del fideiussore? La risposta potrebbe essere positiva, stante il dettato dell’art. 1941 c.c., ma è chiaro che a ragionare in questi termini si rischia di sminuire il senso stesso della garanzia, la cui funzione tipica è, specie se concessa a prima richiesta, per appunto quella di sollevare il creditore dal rischio di qualsiasi inesatto inadempimento del debitore principale [59]. E ancora. come opererebbe l’art. 1957 c.c. nel caso in cui il creditore rinegoziasse un nuovo termine per l’adempimento?
Insomma, i contratti di impresa costituiscono un fenomeno eterogeneo, che potrebbe diversamente interagire con la rinegoziazione aprendo scenari così vasti e numerosi da poter essere solo immaginati.
[1] In vigore, ai sensi dell’art. 389 del d.lgs. n. 14/2019, così come modificato dall’art. 42 del d.l. 30 aprile 2022, n. 36, dal 15 luglio 2022.
[2] Sul punto, ex multis, G. Parisi, Gli effetti del Covid 19 sul codice della crisi di impresa, in Giustiziacivile.com, 2021, 69.
[3] La direttiva (UE) 2019/1023 è espressamente ricordata nell’Allegato 1, senza però alcuna indicazione di specifici principi e criteri direttivi che ne guidino l’attuazione. In merito alle conseguenze che sarebbero conseguite nella redazione del decreto legislativo, si veda L. Panzani, L’adeguamento del diritto concorsuale italiano alla direttiva (UE) 2019/1023, in Aa.Vv., Il diritto concorsuale italiano e gli obiettivi di coordinamento con la disciplina comunitaria, a cura di F. Pasquariello, M. Torsello, Napoli, ESI, 2022, 3.
[4] Il d.lgs. 17 giugno 2022 n. 83 precisa nel Preambolo di recare «Modifiche al codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza di cui al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, in attuazione della direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 […]». In merito alla distanza ancora corrente tra la predetta direttiva e l’originaria versione del d.lgs. n. 14/2019 si veda A.R. Mingolla, L’illusorio allineamento allo “spazio concorsuale europeo” del nuovo diritto della crisi di impresa, in Dir. fall., 2021, I, 286.
[5] Che a sua volta reca anche alcune modifiche alla direttiva (UE) 2017/1132. Si vedano C. Cavallini, M. Gaboardi, New Creditors’ Bargain Theory e la crisi d’impresa tra diritto interno e direttive europee. Verso un modello globale di Insolvency Law, in Riv. soc., 2021, 991. Gli Autori osservano che «la categoria dei quadri di ristrutturazione preventiva non ambisce naturalmente ad introdurre negli ordinamenti nazionali uno strumento di ristrutturazione del debito che vada, per così dire, a cumularsi con quelli ivi esistenti, bensì a fornire un modello normativo – in massima parte vincolante – per la creazione di strumenti nuovi o, più spesso, per l’adattamento di strumenti preesistenti nei vari ordinamenti statali».
[6] Il testo precedente definiva “crisi” lo «stato di squilibrio economico-finanziario che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate». Il nuovo testo, modificato dall’art. 1, primo comma, lett. a), del d.lgs. n. 83/2022, definisce “crisi”: lo «stato del debitore che rende probabile l’insolvenza e che si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi».
[7] Il ventottesimo considerando prevede che «gli Stati membri dovrebbero poter ampliare l’ambito di applicazione dei quadri di ristrutturazione preventiva stabilito dalla direttiva per includere le situazioni in cui il debitore attraversi difficoltà di natura non finanziaria, purché tali difficoltà comportino una reale e grave minaccia per la capacità effettiva o futura del debitore di pagare i suoi debiti in scadenza. Il quadro temporale rilevante per l’individuazione di tale minaccia può estendersi su un periodo di alcuni mesi, o anche più lungo, al fine di tenere conto dei casi nei quali il debitore attraversi difficoltà di natura non finanziaria che minacciano lo stato dei suoi affari in quanto continuità aziendale e, a medio termine, la sua liquidità. Può essere il caso, ad esempio, di un debitore che ha perso un appalto per lui fondamentale».
[8] È bene ricordare che la direttiva (UE) 2019/1023 non dà una definizione di “crisi”, che l’art. 2, ultimo comma, rimette, di fatto, ai singoli legislatori nazionali. La norma fa riferimento, nella versione italiana, alla “probabilità di insolvenza”, e, rispettivamente, a “wahrscheinlichen Insolvenz”, “likelihood of insolvency”, “probabilité d’insolvabilité” nelle versioni germanofona, anglofona e francofona.
[9] In tal modo il nostro ordinamento si avvicina maggiormente a quelli che, nell’ottica di una regolazione unitaria del fenomeno, tendono a descrivere univocamente lo stato di crisi. Per alcuni approfondimenti si veda C.G. Paulus, The new German preventive restructuring framework, in questa Rivista, 2021, 9.
[10] La scelta unitaria è infatti bilanciata dal nuovo art. 3, terzo comma, del c.c.i.i., nel testo modificato dall’art. 2 del d.lgs. n. 83/2022. L’art. 3 impone a tutti gli imprenditori, siano questi individuali o collettivi, di predisporre misure ed assetti idonei a «rilevare eventuali squilibri di carattere patrimoniale o economico-finanziario». Per eventuali approfondimenti ci si permette di rinviare a M. Bianca, Allerta e dintorni: l’adozione delle misure idonee alla tempestiva rilevazione della crisi da parte dell’imprenditore individuale, in questa Rivista, 2020, 55.
[11] Il maggiore pregio va probabilmente colto nel fatto che, una volta impiegata dall’art. 1, lett. c), del c.c.i.i., la nuova nozione di crisi appare maggiormente ispirata alla nozione di “Überschuldung”, sovraindebitamento, recata dal paragrafo 18 dell’Insolvenzordnung tedesco, che parla in proposito di “drohende zahlungsunfähigkeit”. Il predetto paragrafo 18, però, prevedendo che “in aller Regel ist ein Prognosezeitraum von 24 Monaten zugrunde zu legen”, prende in considerazione una più ampia finestra di ventiquattro mesi, in luogo dei dodici previsti dal nuovo art. 1, primo comma, lett. a), c.c.i.i.
[12] Si vedano i rilievi critici avanzati sul punto da M. Ferro, Il codice della crisi di impresa e dell’insolvenza è legge: qualche novità, 4 luglio 2022, reperibile all’indirizzo https://www.
altalex.com/documents/2022/07/04/codice-crisi-insolvenza-legge-novita.
[13] Quanto all’ulteriore presupposto, ovverosia alla ragionevole possibilità di pervenire al risanamento dell’impresa, si veda Trib. Bergamo, 15 febbraio 2022, in ilfallimentarista.it. Sul punto, v. F. Lamanna, Il codice della crisi e dell’insolvenza dopo il secondo correttivo, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre, 2022, 135.
[14] I dubbi sembrano condivisi da S. Ambrosini, Il Codice della crisi dopo il d.lgs. 83/2022: brevi appunti su nuovi istituti, nozione di crisi, gestione dell’impresa e concordato preventivo (con una notazione di fondo), in Dir. fall., 2022, I, 837.
[15] Si dà per noto l’ampio dibattito apertosi a seguito della pandemia in merito all’utilizzo dei tradizionali rimedi manutentivi del contratto ed alla corrispondente tutela giudiziale. Nell’impossibilità di dar conto dei tantissimi studi sul tema, alcuni dei quali saranno comunque in seguito specificamente ricordati, si rinvia, per tutti, a: F. Macario, Per un diritto dei contratti più solidale in epoca di coronavirus, in Giustiziacivile.com, 2020, 207; A.A. Dolmetta, Il problema della rinegoziazione dei contratti (ai tempi del coronavirus), ivi, 2020, 319.
[16] L’art. 10 d.l. n. 118/2021 è stato fatto oggetto di molti commenti, ovviamente ancora attuali in vigenza del regime duale che ne prevede la sopravvivenza. Tra i tanti, anche per le ulteriori indicazioni riportate in nota: F. Angiolini, Sopravvenienze contrattuali e composizione negoziata: quali rimedi, in Dir. fall., 2022, I, 585; O. Cagnasso, Codice della crisi e diritto dei contratti: qualche spunto, in Corporate Governance, 2022, 263; I. Pagni, Crisi di impresa e crisi del contratto al tempo dell’emergenza sanitaria, tra autonomia negoziale e intervento del giudice, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2021, 349; M. Fabiani, Il valore della solidarietà nell’approccio e nella gestione della crisi di impresa, in Fallimento, 2022, 10.
[17] In questa eccezionale ipotesi resta quindi ferma la possibilità di ricorrere al tribunale, che ai sensi dell’art. 46, terzo comma, del d.lgs. n. 83/2022 è quello competente a norma dell’articolo 27 del c.c.i.i. In merito alla possibilità che il ricorso venga introdotto malgrado l’inerzia dell’esperto, F. Angiolini, (nt. 16), 600; G. Lener, Appunti sull’autonomia privata e sulla rinegoziazione del d.l. 118/2021, in Le nuove misure di regolazione della crisi di impresa. Commento al D.L. n. 118 del 2021 conv. con L. n. 147 del 2021, a cura di L. De Simone, M. Fabiani, S. Leuzzi, in Diritto della Crisi, num. spec., novembre 2021, 175, reperibile in www.dirittodellacrisi.it.
[18] La rinegoziazione dei contratti, seppur diversamente disciplinata, fa quindi ormai stabilmente parte del diritto della crisi. Sul “cambio di passo” già segnato dal d.l. n. 118/2021 si veda, per tutti, V. Minervini, La nuova “composizione negoziata” alla luce della Direttiva “Insolvency”. Linee evolutive (extracodicistiche) dell’ordinamento italiano, in Dir. fall, 2022, I, 251.
[19] L’art. 46, primo comma, lett. a), abroga espressamente gli artt. 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18 e 19, commi 1, 2 e 3.
[20] Altra questione, comunque connessa, riguarda la tenuta costituzionale di un simile regime duale, che, consentendo il ricorso al tribunale solo «se la prestazione è divenuta eccessivamente onerosa per effetto della pandemia da SARS-CoV-2», potrebbe segnare una differenza troppo marcata per gli imprenditori che si trovino a fronteggiare una eccessiva onerosità dovuta ad altri eventi altrettanto drammatici, quali quelli indicati nel testo. All’opposto, altrettanti dubbi potrebbero derivare dal fatto che i terzi contraenti con l’imprenditore, anche se operanti nelle medesime condizioni – si pensi a due fornitori della medesima prestazione – si troveranno soggetti ai due diversi regimi di rinegoziazione solo in dipendenza del fatto che l’accresciuta onerosità della prestazione dipenda o meno dalla pandemia.
[21] In merito alle modalità di armonizzazione scelte dal legislatore europeo si vedano: C. Cavallini, M. Gaboardi, (nt. 5), 1025; S. Pacchi, La ristrutturazione dell’impresa come strumento per la continuità nella Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 1023/2019, in Dir. fall., 2019, I, 1254.
[22] Merita rammentare che diversi ordinamenti nazionali, tra i quali quello tedesco e quello francese, disciplinano la rinegoziazione e l’adeguamento del contratto in termini più ampi di quelli previsti nel nostro ordinamento. Tra i tanti: F. Piraino, Osservazioni intorno a sopravvenienze e rimedi nei contratti di durata, in Eur. dir. priv., 2019, 385.
[23] Per quanto attiene ai rapporti di lavoro, l’art. 13, par. 2, della direttiva rimette la questione ai singoli Stati membri, prevedendo che «Qualora il piano di ristrutturazione comprenda misure suscettibili di comportare cambiamenti nell’organizzazione del lavoro o nelle relazioni contrattuali con i lavoratori, tali misure sono approvate da tali lavoratori se in questi casi il diritto nazionale o i contratti collettivi prevedono tale approvazione». Sul punto, G. Gioia, La tutela legislativa comunitaria del lavoratore nella crisi di impresa, in Dir. fall., 2022, I, 349.
[24] La locuzione utilizzata dalla direttiva potrebbe in astratto comprendere tanto le modificazioni soggettive, cui si riferisce l’art. 1235 c.c., quanto quelle oggettive. Su tale distinzione si vedano, tra i tanti: F. Carresi, Il contratto, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu, F. Messineo, continuato da L. Mengoni, Milano, Giuffrè, 1987, 809; A. Zaccaria, voce Novazione, in Dig. disc. priv., sez. civ., XII, 1995, 280.
[25] Sulla nozione di novazione contrattuale si vedano, tra i tanti, C.M. Bianca, Diritto civile. 4. L’obbligazione, Milano, Giuffrè, 1990, 456; U. Breccia, Le obbligazioni, in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica, P. Zatti, Milano, Giuffrè, 1991, 688; A. Calabrese, Sub art. 1230, in Codice Civile commentato, a cura di M. Franzoni, R. Rolli, Torino, Giappichelli, 2018, 1672; G. Doria, La novazione dell’obbligazione, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu, F. Messineo, continuato da L. Mengoni, Milano, Giuffrè, 2012, passim; A. Zaccaria, (nt. 24), 280.
[26] Come meglio si vedrà appresso, la rinegoziazione in questione sembra costituire una fattispecie a sé stante ed in effetti è poco plausibile l’intervento di una modifica così sostanziale, per di più accompagnata dalla volontà di estinguere e sostituire il precedente rapporto obbligatorio. In merito ai presupposti della novazione v. Cass., sez. lav., 29 ottobre 2018, n. 27390, in Giust. civ. mass., 2018.
[27] È noto il dibattito sulla misura dell’aliquid novi che sul piano oggettivo distingue la novazione dalle mere variazioni di alcuni elementi accessori dell’obbligazione. Si vedano: C.M. Bianca, (nt. 25), 449; A. Calabrese, Sub art. 1231, in Codice Civile commentato, (nt. 25), 1675.
[28] Si veda nuovamente C.M. Bianca, (nt. 25), 456.
[29] Altra questione, della quale si dirà meglio in seguito, è quella riguardante il dovere di rinegoziare le condizioni contrattuali in caso di eccessiva onerosità sopravvenuta, che da tempo impegna la dottrina civilistica. Si vedano, tra i tanti: E. Gabrielli, Dottrine e rimedi nella sopravvenienza contrattuale, in Riv. dir. priv., 2013, 55; P. Gallo, Sopravvenienze contrattuali e problemi di gestione del contratto, Milano, Giuffrè, 1992, passim; F. Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, Jovene, 1996, passim; E. Tuccari, Sopravvenienze e rimedi nei contratti di durata, Milano, Wolters Kluwer-Cedam, 2018, passim.
[30] Il legislatore europeo sembra occuparsi del solo scioglimento, ma non della modifica del contratto. La questione è nota, anche per la regolazione datavi, sul fronte interno, dal d.l. n. 118/2021. Sul punto si veda, ad esempio, G. Rana, Le misure protettive e cautelari nella composizione negoziata di cui al D.L. n.118/2021, in Dir. fall., 2022, I, 282.
[31] A tale ultimo proposito merita ricordare che, sulla scorta della dottrina sull’anticipatory breach of contract, sostanzialmente ripresa dall’art. 72, comma secondo, della Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale, diversi ordinamenti nazionali prevedono la manutenzione e la risoluzione del contratto per l’inadempimento anticipato. Sul tema si veda, anche per il pertinente raffronto con il diritto della crisi, T. Pertot, L’inadempimento anticipato. Dalla tutela manutentiva ai rimedi risolutori, Napoli, ESI, 2021, 203.
[32] Merita ricordare che l’art. 2, par. 1, n. 5 della direttiva (UE) 2019/1023 definisce “ineseguito” «un contratto tra il debitore e uno o più creditori ai sensi del quale le parti hanno ancora obblighi da adempiere nel momento in cui è concessa o applicata la sospensione delle azioni esecutive individuali». Si esprimono negli stessi termini anche le versioni in altre lingue. L’art. 7 della direttiva, nella versione italiana, invece, non parla di contratti “ineseguiti”, ma di “contratti pendenti”. È plausibile che questa diversa locuzione, obiettivamente non coincidente con quella impiegata all’art. 2, non implichi una differenza, ovviamente non consentita, ma sia solo frutto della tralatizia abitudine a far ricorso alla nota espressione utilizzata dall’art. 72 l. fall. Su questa nozione si veda il recente saggio di E. Gabrielli, Il contratto preliminare nella disciplina dei contratti pendenti, in Dir. fall., 2022, I, 613.
[33] In merito all’eccezione di inadempimento, si vedano, per tutti: A.M. Benedetti, Le autodifese contrattuali. Artt. 1460-1462, in Il Codice Civile. Commentario, fondato da P. Schlesinger e diretto da F.D. Busnelli, Milano, Giuffrè, 2011, 5; R. Sacco, G. De Nova, Il contratto, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, **, Torino, Utet, 1993, 526.
[34] Il legislatore italiano si è adeguato alla direttiva. L’art. 6, quinto comma, del d.l. n. 118/2021 stabiliva già che «I creditori interessati dalle misure protettive non possono, unilateralmente, rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti o provocarne la risoluzione, né possono anticiparne la scadenza o modificarli in danno dell’imprenditore per il solo fatto del mancato pagamento dei loro crediti anteriori rispetto alla pubblicazione dell’istanza di cui al comma 1». L’art. 18, quinto comma, del d.lgs. n. 14/2019, parte del nuovo Titolo Secondo introdotto dal d.lgs. n. 83/2022, ripropone la medesima soluzione, prevedendo che «I creditori nei cui confronti operano le misure protettive non possono, unilateralmente, rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti o provocarne la risoluzione, né possono anticiparne la scadenza o modificarli in danno dell’imprenditore per il solo fatto del mancato pagamento di crediti anteriori rispetto alla pubblicazione dell’istanza di cui al comma 1. I medesimi creditori possono sospendere l’adempimento dei contratti pendenti dalla pubblicazione dell’istanza di cui al comma 1 fino alla conferma delle misure richieste».
[35] Sulla nozione di contratti ad esecuzione continuata, periodica o differita si vedano, per tutti: C.M. Bianca, Diritto civile. 5. La responsabilità, Milano, Giuffrè, 1994, 392; C.G. Terranova, L’eccessiva onerosità nei contratti. Artt. 1467-1469, in Il Codice Civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, Giuffrè, 1995, 56.
[36] Il ricorso alla medesima locuzione già prevista dall’art. 1467 c.c. non è del tutto sintonica con quella del legislatore europeo. Infatti, l’art. 2, par. 1, n. 5, della direttiva (UE) 2019/1023, non fa riferimento ai contratti ad esecuzione continuata o periodica, ma al “contratto ineseguito”. La stessa norma definisce tale «un contratto tra il debitore e uno o più creditori ai sensi del quale le parti hanno ancora obblighi da adempiere nel momento in cui è concessa o applicata la sospensione delle azioni esecutive individuali».
[37] Sul punto si veda anche O. Cagnasso, (nt. 16), 266.
[38] Sul punto è ancora degno di menzione lo studio di R. Nicolò, voce Alea, in Enc. dir., Milano, Giuffrè, 1958, 1024. Quanto al controverso metodo di raffronto da impiegare per stabilire il superamento della normale alea contrattuale, si veda P. Gallo, voce Eccessiva onerosità sopravvenuta, in Dig. disc. priv., sez. civ., VII, 1991, 240.
[39] Per l’irrilevanza del tasso di cambio nelle obbligazioni pecuniarie da adempiersi in altra valuta v. Cass., 21 aprile 2011, n. 9263, in Guida dir., 2011, 24, 62.
[40] La sproporzione dovrebbe essere incompatibile con la natura e la funzione del contratto; G. Mirabelli, Dei contratti in generale3, IV, t. II, in Commentario del codice civile, redatto a cura di magistrati e docenti, Torino, Utet, 1980, 658; C.M. Bianca, (nt. 35), 391; F. Galgano, Le obbligazioni e i contratti, Tomo Primo, Obbligazioni in generale. Contratti in generale, Padova, Cedam, 1993, 467; P. Gallo, (nt. 38), 241.
[41] In questo senso, escludendo che il persistere di quelle condizioni di mercato possa assumere rilievo facendo ricorso alla presupposizione negoziale, v. Cass., 15 dicembre 2021, n. 40279, in D & G, 2021, 16 dicembre, con nota di G. Tarantino. Si veda anche Cass., 25 maggio 2007, n. 12235, in Giust. civ. mass., 2007, 7.
[42] Il tema è obiettivamente complesso, per la difficoltà di stabilire ancor prima con certezza cosa si intenda per siffatti principi. Sul punto v. R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu, F. Messineo, continuato da L. Mengoni, Milano, Giuffrè, 1998, 271 e ss. Il dubbio avanzato nel testo è alimentato dall’eccezionalità tradizionalmente riconosciuta all’art. 1467 c.c.
[43] Conclusione che potrebbe forse essere anche legittimata dal fatto che entrambe le norme speciali prevedono un reciproco dovere di buona fede oggettiva, che escluderebbe la rinegoziazione per circostanze di scarso peso.
[44] Il tema è affrontato, ma solo con riferimento all’art. 10, secondo comma, del d.l. n. 118/2021, nello scritto – ovviamente provvisorio – presentato al convegno annuale di Orizzonti del diritto commerciale nel maggio 2022 da O. Cagnasso, Sopravvenienze da svilimento della controprestazione alla luce della crisi da pandemia, reperibile in www.orizzontideldiritto
commerciale.it. L’Autore sembra concludere per l’irrilevanza, almeno in quel caso, del mancato superamento della normale alea contrattuale, che avrebbe senso in presenza del rimedio risolutorio, ma non allorché si tratti di una manutenzione del rapporto.
[45] In merito alla nozione di contratti aleatori tipici: G. Belli, L’alea e il contratto aleatorio: dalla nozione di rischio alla costruzione della categoria, in Studium iuris, 2013, 771; G. Di Giandomenico, D. Riccio, I contratti speciali. I contratti aleatori, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, XIV, Torino, Giappichelli, 2005, 59; R. Nicolò, (nt. 38), 1030.
[46] C.M. Bianca, (nt. 35), 403; C.G. Terranova, (nt. 35), 153.
[47] C.M. Bianca, (nt. 35), 404; C.G. Terranova, (nt. 35), 159.
[48] Si veda anche O. Cagnasso, (nt. 16), 267.
[49] Si veda il cenno fattovi anche da O. Cagnasso, (nt. 44).
[50] Per maggiori approfondimenti in merito alla distinzione appena tracciata nel testo si veda R. Nicolò, (nt. 16), 1028.
[51] S. Verzoni, Gli effetti, sui contratti in corso, dell’emergenza sanitaria legata al Covid 19, in Giustiziacivile.com, 2020, 213.
[52] La struttura di entrambe le norme induce a ritenere che l’esperto debba valutare il ricorrere dei presupposti e l’opportunità della rinegoziazione e, per quanto le norme sembrino evocare un suo potere di scelta, che questi debba darvi impulso ove funzionale alla ristrutturazione. Non è però chiaro cosa accadrebbe nel caso in cui l’esperto non vi desse impulso e quali rimedi possano essere esperiti dal debitore.
[53] Sul punto O. Cagnasso, (nt. 44), che non esclude, ma ritiene debba valutarsi caso per caso, l’applicabilità del rimedio anche ai contratti conclusi nel corso della pandemia.
[54] Sul punto v. F. Lamanna, (nt. 13), 176.
[55] Sul punto A. De Martini, L’eccessiva onerosità nell’esecuzione dei contratti, Milano, 1950, 23. Con riferimento al minor valore locativo dei locali commerciali a cagione della pandemia, V. De Lorenzi, La pandemia e i contratti di locazione commerciale, in Riv. dir. comm., 2021, I, 229.
[56] La questione è affrontata anche da O. Cagnasso, (nt. 44), che, occupandosi allora del solo art. 10 d.l. n. 118/2021, non ne esclude l’applicazione quale rimedio allo svilimento.
[57] Nel Parere del 1° aprile 2022 il Consiglio di Stato osserva che la norma, collocata nella bozza licenziata dalla Commissione Pagni nell’art. 22, escluderebbe, quindi, il ricorso al tribunale. In questo senso F. Lamanna, (nt. 13), 174. Sembra di diverso avviso O. Cagnasso, (nt. 16), 268.
[58] Va detto che generale in dottrina prevale l’idea che l’art. 1467 c.c. non sia applicabile ai contratti associativi. In questo senso, anche per gli ampi riferimenti ad altri autori, C.G. Terranova, (nt. 35), 50. In senso più favorevole, invece, R. Sacco, Il contratto, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. Vassalli, Torino, Utet, 1975, 987.
[59] Si veda, in relazione alla fideiussione prestata a garanzia del pagamento del canone di locazione non corrisposto a causa della pandemia, Trib. Roma, 25 febbraio 2021, in Condominiolocazione.it, 11 novembre 2021, con nota di E. Valentino, Negozi chiusi per il Covid-19? Valida l’escussione della fideiussione a prima richiesta.