Nell’esperienza statunitense, gli accordi tra soci per l’esercizio del diritto di voto, di cui si ha evidenza sin dalla prima metà dell’Ottocento, hanno assunto forme piuttosto eterogenee – dai voting agreement ai pooling agreement fino ai voting trust – e sono stati oggetto, nel tempo, di una significativa evoluzione, sul piano legislativo, giurisprudenziale e dottrinale, che ha investito il profilo della validità in concreto di tali accordi, in certi casi anche della loro legittimità di principio, nonché della tutela per l’inadempimento.
Nel suo sviluppo storico, il tema dei patti di voto ha intersecato momenti cruciali della storia economica americana, del dibattito teorico intorno all’impresa e dell’evoluzione legislativa, soprattutto in materia societaria e in materia antitrust.
I patti tra soci, anche di voto, costituiscono oggi uno strumento ordinario di private ordering nelle società chiuse, e di coordinamento azionario, con funzione di stabilizzazione degli assetti di controllo e di governo delle imprese, nelle società dove è più forte la presenza di investitori istituzionali.
Parole chiave: patti parasociali; validità dei patti; rimedi per l’inadempimento; fondi di investimento.
In the US, shareholders’ voting coordination, documented since the first decades of XIX century, has taken different forms – namely, voting agreements, pooling agreements, and voting trust. The approach to shareholders’ agreements, as for legitimacy, validity, and enforcement, has evolved over time, under the influence of the economic scenario and the debate about the nature of corporation. This evolutive path has also contributed to foster the legislative process in the area of company law and antitrust law.
Nowadays, shareholders’ voting agreements are adopted as an ordinary means for private ordering in closely-held corporations, as well as a coordination and control-enhancing device in public companies and startup firms.
Keywords: voting trust; v closely-held corporations.
1. Introduzione - 2. Le radici del fenomeno. L’esercizio del diritto di voto nella corporation ottocentesca. - 3. Gli strumenti di coordinamento contrattuale per l’esercizio del diritto voto. - 4. I voting trust nell’esperienza americana: finalità perseguite e giudizio di legittimità. - 4.1. Gli anni ’60 e ’70 dell’Ottocento. La meritevolezza delle finalità perseguite e la legittimità di principio dei voting trust. - 4.2. Gli anni ’80 e ’90 dell’Ottocento. Il ricorso al voting trust come strumento di “consolidation” per il perseguimento di finalità anticoncorrenziali. - 4.3. La giurisprudenza di fine Ottocento. L’emersione della questione di legittimità di principio dei voting trust. - 4.4. Il primo decennio del Novecento: il riconoscimento della legittimità di principio dei voting trust. - 4.5. La temporanea reviviscenza della tesi della nullità per se in seguito alla pubblicazione del “Pujo Report”. - 4.6. Le iniziative legislative degli anni ’20 e ’30: il riconoscimento pieno della legittimità dei voting trust e la disciplina del fenomeno. - 5. L’evoluzione della corporation nel corso degli anni ’20. Il dibattito sulla separazione tra proprietà e controllo nelle grandi società di capitali. - 6. Dai voting trust ai voting agreement. - 7. I limiti di validità dei voting agreement nella giurisprudenza degli anni ’30 e ’40. - 8. Il dibattito sui rimedi per l’inadempimento. L’ammissibilità di specific enforcement. - 9. L’influenza della giurisprudenza in materia di patti di voto sull’evoluzione della disciplina societaria nel corso degli anni ’50 e ’60. - 10. L’incidenza delle teorie contrattualistiche dell’impresa sulla validità dei voting agreement relativi a società chiuse. - 10.1. La disciplina dei patti totalitari. - 11. I voting agreement nel diritto vivente. - 11.1. Il private ordering per via parasociale nelle società chiuse. - 11.2. L’evidenza di voting agreement nelle società quotate. - 11.3. Gli accordi di voto in startup partecipate da fondi di venture capital. - NOTE
Il ricorso ad accordi tra soci per l’esercizio concertato del diritto di voto è documentato, nell’esperienza americana, a partire dalla prima metà dell’Ottocento, in concomitanza all’affermarsi della corporation di libera costituzione e retta da norme generali ed astratte. Il contesto di riferimento, governato da principi di freedom of contract e caratterizzato, sin dal principio, da una legislazione societaria di tenore sostanzialmente enabling, appariva, invero, particolarmente favorevole all’emersione di accordi tra soci, anche relativi all’esercizio del diritto di voto. Questi si svilupparono nella prassi, assumendo forme più o meno complesse: dal mero accordo di voto a carattere episodico e puntuale (i voting agreement), ad accordi più complessi, di messa in comune e gestione concertata delle partecipazioni sociali (i c.d. pooling agreement), simili ai sindacati azionari dell’esperienza europea, fino a giungere a forme ancor più rigide (i voting trust), tipiche dell’esperienza americana e caratterizzate dalla separazione stabile del diritto di voto dagli altri diritti sociali. Proprio intorno ai voting trust si polarizzò, per decenni, il dibattito giuridico, che investì non solo il profilo della validità in concreto dell’accordo, alla luce dei vincoli di sistema e di quelli espressi dalla disciplina societaria, ma anche quello, tipicamente europeo, della loro legittimità di principio. Nel suo sviluppo storico, il tema della validità dei patti di voto intersecò momenti cruciali della storia economica americana (dalle fasi economiche più espansive, alla grande depressione economica, alle stagioni di particolare vivacità dei mercati finanziari), del dibattito teorico intorno all’impresa (quanto alla contrapposizione tra concezioni contrattualistiche e istituzionalistiche, nonché al tema della separazione tra proprietà e controllo dell’impresa) e dell’evoluzione legislativa (svolgendo un ruolo propulsivo tanto in materia antitrust, quanto in materia societaria). L’evoluzione in materia di patti di voto si è stabilizzata, negli Stati Uniti, su esiti sostanzialmente convergenti rispetto a quelli prevalenti a livello internazionale: gli accordi di voto, legittimi in linea di principio, sono caratterizzati da efficacia inter partes (con minime [...]
Nell’esperienza storica comune ai diversi ordinamenti, i patti parasociali di voto si connotano come fenomeno proprio della grande società di capitali, intesa in senso moderno [1] – ossia come organizzazione di libera costituzione e retta da norme generali ed astratte, che disciplinano l’accesso al tipo e il funzionamento dell’ente. Anche negli Stati Uniti, le prime evidenze di accordi tra soci per l’esercizio concertato del diritto di voto si rintracciano, in giurisprudenza, intorno alla metà dell’Ottocento, in una fase matura di sviluppo economico e di evoluzione delle forme organizzative dell’attività di impresa. Dopo la guerra di indipendenza, con la fine del dominio britannico sulle colonie, la corporation americana si allontanò progressivamente dall’archetipo inglese, per assumere la connotazione di strumento per l’esercizio dell’attività economica [2], costituita in base di un provvedimento a carattere singolare, emesso dal legislatore statale, il quale, sulla base di un preventivo controllo di meritevolezza, autorizzava la costituzione della società e le garantiva il beneficio della responsabilità limitata [3]. Nel corso dell’Ottocento si realizzò, anche negli Stati Uniti, il passaggio dal regime di autorizzazione preventiva, su base singolare, alla determinazione, in via generale ed astratta, dei criteri per l’accesso al tipo e delle norme di funzionamento dell’ente societario [4]. Al riguardo, le scelte operate dal legislatore americano lasciavano trasparire, sin dal principio, la chiara opzione per un modello legale particolarmente flessibile e permissivo, compatibile con ampi margini di private ordering [5], in netta contrapposizione rispetto alle scelte compiute nelle coeve codificazioni europee, connotate invece da un alto grado di imperatività [6]. Il passaggio al nuovo regime di incorporation si accompagnò anche a modifiche significative sul piano del diritto di voto. Le prime corporation americane, infatti, mutuavano dalla compagnia inglese – connotata, com’è noto, da una forte impronta personalistica e democratica [7] – la regola del voto capitario [8], espressiva della concezione di società di capitali come comunità di eguali, la cui unità minima partecipativa era rappresentata non già [...]
Negli Stati Uniti, il coordinamento “parasociale” per l’esercizio del diritto di voto si realizzò, in principio, mediante il ricorso a strumenti analoghi a quelli adottati nell’Europa continentale e nel Regno Unito, ossia accordi di voto semplici (c.d. voting agreement o, più in generale, shareholder agreement), con cui gli azionisti convenivano di concordare prima dell’assemblea la comune decisione di voto, oppure accordi più complessi, che implicavano la messa in comune delle partecipazioni azionarie per l’esercizio coordinato dei diritti sociali, tra cui quello di voto (c.d. pooling agreement), normalmente al fine ultimo di costituire o rafforzare posizioni di controllo congiunto dell’impresa [19]. Tali forme di accordo, a quanto consta, non sollevarono dubbi in ordine alla loro legittimità di principio: inserendosi in un contesto contrattuale in senso stretto, governato dal principio della freedom of contract, essi vennero percepiti – in linea con l’approccio inglese [20] e in netta contrapposizione con le tendenze allora dominanti nell’Europa continentale [21] – come mero strumento per l’esercizio in forma coordinata di diritti che il socio avrebbe potuto legittimamente esercitare in forma individuale [22]. La giurisprudenza americana in materia si sviluppò, quindi, direttamente come giudizio sulla validità in concreto dello specifico accordo oggetto di controversia, ossia sulla compatibilità dell’accordo con i vincoli imperativi espressi dalla corporate law o dalle norme in materia contrattuale [23]. La riconduzione dei patti di voto a una matrice contrattuale pura certamente favorì il ricorso a tali forme di accordo, garantendone la legittimità di principio; quella stessa matrice, tuttavia, ne lasciò emergere, ben presto, un profilo di strutturale debolezza: tali accordi risultavano, infatti, fisiologicamente instabili, giacché il socio, pur vincolato contrattualmente, rimaneva comunque libero di esprimere in assemblea un voto difforme da quello convenuto, fatto salvo l’obbligo di risarcire il danno eventualmente subito dagli altri contraenti. La giurisprudenza in materia di patti di voto fu, infatti, percorsa, sin dal suo nascere, dal convincimento di inapplicabilità di rimedi in forma specifica in caso di inadempimento [...]
Nell’esperienza americana, il giudizio circa la legittimità di principio e la validità in concreto dei voting trust presentò un andamento sostanzialmente oscillatorio, che alternava giudizi piuttosto permissivi a valutazioni radicalmente negative e appariva fortemente condizionato dal riscontro dell’uso in concreto di tale strumento nella prassi societaria e dalle finalità perseguite. Tale processo si sviluppò nel corso dei decenni, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, intersecando momenti salienti della storia economica americana e contribuendo ad influenzare i processi legislativi.
Il ricorso ai trust di voto in funzione rafforzativa di pooling agreements, al fine di arginare il rischio di inadempimento e limitare l’instabilità del vincolo contrattuale, si ritiene risalga almeno alla prima metà dell’Ottocento [29]. La prima traccia di voting trust nella giurisprudenziale americana risale, invece, al 1867 e si riferisce a un’azione promossa, a ridosso dell’assemblea, da un gruppo di soci, i quali chiedevano che fosse inibito al trustee l’esercizio del diritto di voto, sostenendo l’illegittimità dell’accordo di trust sottostante [30]. In questa sentenza, come anche in quelle emesse negli anni immediatamente successivi, i giudici non ravvisarono profili di illegittimità di principio nel ricorso ai voting trust, e anzi rigettarono, come espressive di condotte opportunistiche, le azioni giudiziali con le quali i soci di minoranza tentavano di invalidare il trust [31]. Sul giudizio, tendenzialmente permissivo, che connotò la prima casistica in materia, probabilmente pesò il riscontro degli scopi in concreto perseguiti mediante la costituzione di voting trust. A tale strumento, invero, si fece ampio ricorso, specialmente negli anni ’70 dell’Ottocento, nel contesto di operazioni di risanamento delle imprese, e in particolare di quelle attive nel settore ferroviario, al tempo interessate da un grave stato di indebitamento: gli azionisti di maggioranza della o delle società coinvolte trasferivano le proprie partecipazioni in un trust, gestito dalla banca finanziatrice, la quale esercitava, per il tramite di trustee di propria fiducia, il diritto di voto relativo alle partecipazioni conferite, normalmente fino all’estinzione del debito. In tal modo, il soggetto finanziatore acquisiva il controllo temporaneo della/e impresa/e, nominandone gli amministratori e definendone, per tale via, le politiche di gestione e di risanamento [32]. Il trust diventava, quindi, uno strumento di accesso al credito bancario, necessario per evitare il default delle imprese. Al voting trust si faceva, poi, ricorso per la costituzione e la stabilizzazione di posizioni di controllo societario congiunto, specialmente in quelle società a proprietà piuttosto concentrata, nelle quali la presenza di azionisti individualmente marginali faceva sorgere il rischio di conflitti o di stallo decisionale [33]. In questo [...]
L’approccio giurisprudenziale ai voting trust mutò intorno agli anni ’80 dell’Ottocento, al tempo della c.d. “seconda rivoluzione industriale”, quando i significativi miglioramenti nel sistema dei trasporti e nelle tecnologie produttive, uniti a una forte crescita demografica, segnarono il definitivo passaggio da una economia a base rurale a un’economia a base industriale [36]. La maggiore fluidità degli scambi commerciali ebbe l’effetto di dilatare i mercati, di ampliare l’offerta a disposizione dei consumatori e, per tale via, di stimolare la concorrenza tra imprese. Ne conseguì una marcata riduzione dei prezzi, e quindi dei profitti, che indusse imprese indipendenti a coordinarsi tra loro per disciplinare la produzione e definire in modo concertato il prezzo di mercato [37]. L’allineamento strategico venne allora raggiunto ricorrendo a trust, anziché a strumenti contrattuali puri. Questi, infatti, apparivano piuttosto instabili tanto sotto il profilo strutturale, in quanto esposti al rischio di inadempimento dell’accordo, e quindi di disallineamento strategico dallo schema collusivo, quanto sotto il profilo giuridico, giacché nella tradizione di common law i contratti idonei a realizzare un restraint of trade erano di per sé qualificati come unenforceable [38]. Per converso, il trust di voto consentiva di realizzare un’aggregazione stabile di nuclei produttivi, tale da dar luogo, nella sostanza, a un’unica entità economica, gestita da un trustee [39]. Si realizzavano, così, effetti di consolidamento non dissimili, nella sostanza, da quelli propri del gruppo di imprese – in un contesto, però, nel quale il ricorso a strutture di gruppo, o anche il mero acquisto di partecipazioni di società in altra società, erano ancora vietate [40] – o da quelli realizzabili mediante più complesse procedure di fusione – le quali, pur non vietate, erano significativamente ostacolate dalla previsione, nelle norme statali di corporate law, di super-maggioranze, se non addirittura di criteri unanimistici, per l’adozione delle relative deliberazioni [41]. Non stupisce, allora, che negli anni della c.d. “merger wave” il trust apparisse come lo strumento più efficace per realizzare effetti sostanzialmente concentrativi, senza ricorrere a una [...]
L’intensificarsi del ricorso ai voting trust nella prassi societaria comportò un corrispondente incremento anche della giurisprudenza in materia, che si orientò, alla fine dell’Ottocento, su posizioni ben più restrittive di quelle emerse in precedenza. Verosimilmente, al radicale mutamento di orientamento – che si spinse fino a negare la legittimità di principio dei voting trust – contribuì in modo determinante l’osservazione dell’uso in concreto dello strumento del trust, spesso associato a finalità illecite, elusive o fraudolente [48]. Da qui, la volontà di intervenire con efficaci strumenti correttivi: un giudizio di illegittimità di principio, sostenuto da argomenti di carattere strutturale relativi al trust, appariva senz’altro adeguato rispetto allo scopo. Si cominciò, così, a sostenere che il diritto di voto, attribuito al socio per la realizzazione di interessi sociali, non potesse essere separato dalla proprietà delle azioni e trasferito stabilmente a un soggetto (il trustee) privo interesse diretto nell’impresa: «[t]he law presumes that the pecuniary interest of a stock-holder will be a motive to impel him to vote in such a manner it will promote the interest of a company. Such a motive is entirely lacking in one who is not a stockholder – if such a person be empowered to vote for directors, he may be subject to interests and motives other than such as would conduce to the welfare of the company» [49]. In altri termini, si riteneva che solo l’attribuzione del diritto di voto al soggetto titolare di un interesse economico diretto nell’impresa potesse assicurare la migliore realizzazione dell’interesse sociale [50]: «the power to vote is inherently annexed and inseparable from the real ownership of each share, and can only be delegated by proxy with power of revocation» [51]. In questo contesto, i voting trust – che implicavano per definizione la separazione del diritto di voto dagli altri diritti sociali e l’attribuzione del primo, per tutta la durata del trust, a un soggetto di per sé estraneo alla compagine sociale, chiamato a realizzare gli obiettivi del trust, e non necessariamente l’interesse sociale – apparivano come strumento di violazione dei doveri “fiduciari” propri del socio, tra cui, per [...]
Gli orientamenti giurisprudenziali più restrittivi in materia di legittimità dei voting trust, prevalenti, ma non unanimi, alla fine dell’Ottocento, vennero superati nel giro di pochi anni, in favore di una valutazione caso per caso, che ancorava il giudizio di invalidità non più alle caratteristiche strutturali del trust, quanto alle finalità perseguite e agli effetti realizzati. In questo passaggio evolutivo, due fattori sembrano aver rivestito un ruolo centrale: per un verso, il riscontro dell’utilità in concreto dei voting trust e, per altro verso, la scarsa persuasività, anche a livello sistematico, degli argomenti addotti in supporto della tesi di nullità. Nella prassi societaria dei primi del Novecento, il voting trust si andava affermando come strumento versatile per la realizzazione di obiettivi altrimenti difficilmente conseguibili. Era già nota l’utilità dei voting trust come condizione di accesso, o di facilitazione nell’accesso, al credito bancario, giacché tali strumenti garantivano all’ente finanziatore il controllo temporaneo dell’impresa, fino all’estinzione del prestito. Tale formula, già ampiamente sperimentata nell’ambito di operazioni di risanamento dell’impresa in crisi, venne poi efficacemente adottata anche per il finanziamento dell’impresa in bonis, volto alla realizzazione di specifici piani industriali [64]. Inoltre, ai voting trust si cominciò a fare ricorso anche per la realizzazione di piani strategici di medio-lungo termine o di rilevanti operazioni gestorie, oppure all’avvio di nuove attività – quando, cioè, per il buon esito dell’operazione era indispensabile la garanzia di stabilità degli assetti di governo dell’impresa. In questi casi, si provvedeva a trasferire il controllo dell’impresa a un trustee, incaricato di attuare il piano o realizzare l’operazione concordata [65]. Ancora, all’inizio del Novecento, apparve sempre più evidente l’utilità dei voting trust come strumento di costituzione, stabilizzazione o rafforzamento del controllo societario [66]: il ricorso a trust consentiva, infatti, di predefinire le decisioni strategiche e demandarne al trustee la concreta attuazione; in tal modo, si prevenivano situazioni di conflitto tra soci di maggioranza o di stallo [...]
La tesi relativa alla nullità di principio dei voting trust riaffiorò nel dibattito americano intorno al 1912, quando venne istituita, in seno al Congresso, una commissione (c.d. Pujo Committee) incaricata di indagare la condotta di mercato di sei importanti banche, tra loro fortemente interconnesse, sospettate di controllare l’attività creditizia nazionale e, per tale via, anche le principali attività economiche [82]. Il Report pubblicato dalla Commissione dava, in effetti, conto di una forte concentrazione di potere economico in capo a quelle banche e di un uso distorto dello strumento del voting trust, adottato per acquisire – spesso a fronte di un esborso finanziario minimo – il controllo di imprese indipendenti e coordinarne la condotta di mercato, per finalità anticoncorrenziali [83]. Alla luce delle indagini effettuate, il Pujo Report qualificava i voting trust come strumento «highly inadvisable and prejudicial», e perciò sollecitava un intervento del legislatore che ne dichiarasse l’invalidità e ne ordinasse la dissoluzione [84]. Il Report ebbe forte eco nell’opinione pubblica e suscitò significative reazioni, che investirono nell’immediato il piano legislativo. A valle della pubblicazione del Report venne, infatti, introdotto il divieto di interlocked directorship per le imprese bancarie e, soprattutto, vennero rafforzati gli strumenti di controllo antitrust, con l’emanazione del Federal Trade Commission Act, in funzione complementare rispetto allo Sherman Act, e del Clayton Act, a disciplina delle operazioni di concentrazione [85]. Sul piano giurisprudenziale, la pubblicazione del Pujo Report determinò una parziale reviviscenza delle posizioni più restrittive in ordine alla validità dei voting trust, che si espressero anche nel senso di ritenere di per sé illegittimo il ricorso a strumenti in grado di separare il diritto di voto dalla proprietà dell’azione [86], anche quando adottati per finalità di risanamento dell’impresa [87]. Tuttavia, tali orientamenti rimasero complessivamente minoritari [88], e la dottrina stessa contestò come «unprogressive and reactionary» [89] le posizioni espresse nel Report e i tentativi di intervento contro i voting trust in quanto tali. Intorno ai voting trust si venne, tuttavia, [...]
Nel corso degli anni ’20 e ’30 del Novecento vennero assunte, negli Stati Uniti, specifiche iniziative legislative miranti, per un verso, a consolidare la legittimità dello strumento del voting trust e, per altro verso, a intervenire sugli aspetti problematici o disfunzionali, emersi nel concreto ricorso a tale strumento. Nella prima direzione si inquadrano gli Statute adottati dai legislatori statali nel corso degli anni ’20, i quali, in linea con quelli già in vigore (v. supra, § 4.3), riconoscevano esplicitamente la legittimità e la vincolatività giuridica dei voting trust, purché volti a realizzare «legitimate purposes», e introducevano una disciplina minima dell’istituto, che comprendeva l’imposizione di obblighi di trasparenza, quanto all’esistenza e ai contenuti del trust, e la definizione di un termine massimo di durata (tipicamente, quinquennale), escludendo ogni possibilità di rinnovo tacito alla scadenza [90]. Il profilo della durata, in particolare, assumeva rilievo centrale, essendo chiaro che il trust potesse operare come strumento indiretto di consolidamento delle imprese: in tal senso, la previsione di un termine massimo di durata e la necessità di riattivare, alla scadenza, procedure di rinnovo del trust, che consentissero agli azionisti di rinegoziarne i termini e ridefinirne le condizioni, certamente limitavano il rischio di cristallizzazione degli assetti di controllo e di governo dell’impresa [91]. Tali interventi, in fondo espressivi di un certo favor per i voting trust, si inserivano in una più ampia cornice riformista, caratterizzata da un sostanziale allentamento del grado (già di per sé piuttosto tenue) di imperatività delle norme societarie, e ciò al fine di definire sistemi interni di corporate law in grado di assecondare le esigenze delle imprese e – in un contesto di concorrenza tra ordinamenti statali – attrarre la costituzione di nuove imprese [92]. D’altra parte, il contesto economico del tempo (gli anni ’20, come è noto, furono caratterizzati da una vivace crescita economica [93]) appariva particolarmente favorevole all’avvio di nuove attività; e la stessa presenza di imprese capitalistiche di grandi dimensioni cominciò ad essere percepita come fenomeno ordinario, quasi fisiologico in contesti di [...]
Nel corso degli anni ’20, cominciò a prendere corpo, nella dottrina americana, un vivace dibattito intorno al tema del controllo societario e al rapporto tra partecipazione al capitale ed esercizio dei poteri di controllo dell’impresa, anche alla luce delle caratteristiche che le grandi corporation andavano assumendo e del funzionamento delle relative assemblee. Come si accennava, negli anni precedenti alla crisi del ’29, si registrò negli Stato Uniti una vivace crescita economica che non mancò infatti di condizionare i mercati finanziari: nel giro di pochi anni, il numero di azioni ordinarie emesse aumentò esponenzialmente, fino a superare, in termini di valore complessivo, non solo le azioni “privilegiate”, ma anche i titoli obbligazionari [102]. La diffusione dell’investimento azionario consentì di drenare ingenti quantità di capitali verso le imprese, ma si accompagnò anche a una significativa polverizzazione dell’azionariato, aggravando quei fenomeni, in qualche misura già presenti, di assenteismo dei soci in assemblea o di sostanziale disinteresse dei soci(-investitori) all’esercizio del diritto di voto, anche in forma delegata [103]. Da qui, l’effetto di sostanziale concentrazione del potere di controllo dell’impresa in capo a un gruppo di soci, spesso espressivi di una minoranza azionaria – ossia, l’effetto di separazione tra proprietà e controllo dell’impresa [104]. Tale effetto, percepito in una certa misura come fisiologica conseguenza dello sviluppo del modello di impresa capitalistica, assumeva contorni di problematicità specialmente quando si combinava con l’adozione di strumenti c.d. “control-enhancing”, in grado di esasperare quel rapporto e di attribuire il controllo a fronte di una partecipazione minima al capitale, e quindi di una esposizione minima al rischio di impresa [105]. Tra i diversi strumenti allora in uso, il voting trust appariva di gran lunga quello più efficace rispetto a tale scopo, non solo perché di più agevole costituzione, rispetto alla creazione di strutture piramidali di gruppo o all’emissione di azioni senza diritto di voto, ma anche per il suo carattere di marcata stabilità, non essendo soggetto a fattori di destabilizzazione, quali l’alienazione delle partecipazioni di [...]
Il dibattito intorno alla legittimità degli strumenti di costituzione e rafforzamento del controllo societario (specie se di minoranza), gli interventi legislativi di irrigidimento della disciplina dei voting trust e sollecitazioni dottrinali verso un prudente uso di tale strumento ebbero l’effetto di condizionare la valutazione in concreto dei voting trust. Per un verso, infatti, la SEC cominciò a negare l’autorizzazione alla realizzazione di trust costitutivi di posizioni di controllo societario stabile, fatte salve minime eccezioni, quali per es. la comprovata necessità di assicurare stabilità della gestione in fasi particolarmente delicate nella vita dell’impresa [111]. Per altro verso, anche la giurisprudenza, nelle poche sentenze in materia, manifestava un atteggiamento di netto sfavore nei confronti dei voting trust adottati in funzione di control-enhancing device, specialmente quando implicanti un evidente disallineamento tra partecipazione al capitale e poteri di controllo dell’impresa [112], e un conseguente rischio di espropriazione delle minoranze azionarie [113]. La possibilità che voting trust così strutturati fossero dichiarati invalidi, in quanto costitutivi o rafforzativi di controllo societario, e che quindi fossero vanificati i benefici di stabilità del rapporto attesi dalla costituzione del trust medesimo, indusse progressivamente a ricorrere a strumenti di coordinamento azionario più semplici (voting o pooling agreement) [114], i quali davano sì luogo a un legame meno stabile, in quanto soggetto ai ben noti rischi di inadempimento, ma allo stesso meno esposto a contestazioni di validità, e quindi più solido sul piano della validità e della vincolatività giuridica. Tale aspetto, invero, non esauriva i profili di vantaggio associati al ricorso ad accordi di voto, semplici o associati al conferimento di proxy, rispetto ai voting trust. Gli shareholder agreement apparivano, infatti, come strumenti di coordinamento più snelli, in quanto di più agevole costituzione, e più flessibili, quanto alla definizione del vincolo di voto, che poteva essere limitato a specifiche materie o, al contrario, esteso a materie (quali la decisione di scioglimento volontario della società, le modifiche statutarie o ancora le delibere relative a operazioni di fusione) non delegabili al [...]
L’intensificarsi, a partire dagli anni ’30, del ricorso a voting e pooling agreement si accompagnò a una progressiva stratificazione di interventi giurisprudenziali, volti a definirne il perimetro di validità [118]. Al riguardo, occorre precisare che tali orientamenti non sempre appaiono uniformi e definiti, ma al contrario presentano oscillazioni valutative anche significative, le quali appaiono, tuttavia, in qualche modo fisiologiche, in un sistema di corporate law definito essenzialmente su base statale. Tra i contenuti pattizi portati all’attenzione dei giudici si riscontrano, in primis, clausole relative alla nomina degli amministratori, oggetto da sempre di una valutazione piuttosto elastica e permissiva, che si estese, negli anni Trenta, anche alle clausole che fissavano criteri di unanimità o maggioranze qualificate per la nomina degli amministratori [119]. Dubbi maggiori si nutrivano, invece, in relazione alla validità delle clausole di revoca degli amministratori, poiché nella maggioranza degli Stati federati la legittimità della revoca era inderogabilmente vincolata alla ricorrenza di una giusta causa; su questo punto, le valutazioni furono, a quanto consta, piuttosto eterogenee, con la tendenza dei giudici a replicare per gli accordi tra soci le condizioni di legittimità fissate dalle norme statali per gli atti sociali [120]. La parte più corposa della casistica giurisprudenziale si concentrava, però, sui patti in qualche modo interferenti con i poteri degli amministratori. D’altra parte, era frequente che i pooling agreement contenessero, oltre a clausole relative all’esercizio del voto e alla circolazione delle azioni, anche previsioni più direttamente connesse alla gestione dell’impresa, volte a orientare o condizionare l’azione degli amministratori. Su tale profilo, le valutazioni giurisprudenziali erano state tendenzialmente piuttosto restrittive, con la marcata tendenza a replicare, per gli accordi tra soci, i vincoli imperativi che le leggi statali fissavano per i patti sociali e per lo svolgimento dell’attività sociale [121]. Nel corso degli anni ’30, invece, cominciarono ad emergere alcuni temperamenti, espressamente giustificati con il riferimento alle peculiarità delle società chiuse o alle specificità dell’accordo (i.e. alla sua connotazione [...]
Il riaffermarsi, nella prassi societaria, del ricorso a strumenti puramente contrattuali per il coordinamento azionario di voto lasciò riemergere il problema dell’instabilità del vincolo contrattuale e dei rimedi a disposizione delle parti, nel caso di inadempimento. La questione appariva particolarmente rilevante con riguardo ai pooling agreement, giacché la messa in comune delle partecipazioni per l’esercizio coordinato dei diritti sociali era chiaramente funzionale alla costituzione di posizioni di controllo societario congiunto. Al riguardo, vi era piena contezza del fatto che il ricorso a deleghe di voto potesse limitare il rischio di inadempimento, ma non neutralizzarlo, dato il necessario carattere di revocabilità delle proxy [129]; e che, per altro verso, la tutela risarcitoria, pure possibile, scontava evidenti difficoltà di quantificazione del danno (specialmente, nel caso di danno da perdita del controllo) e, in ogni caso, non consentiva realizzare l’interesse specifico perseguito dalle parti con la stipulazione del pooling agreement. Appariva chiaro, in altri termini, che per gli accordi volti a realizzare un coordinamento stabile, specie se associato al controllo societario, l’unico rimedio realmente satisfattivo sarebbe stato quello in forma specifica [130]. Tuttavia, la giurisprudenza in materia di accordi di voto aveva tradizionalmente manifestato una certa riluttanza nell’ammettere il ricorso a tali misure, ora in ragione delle difficoltà di attuazione in concreto di un rimedio esecutivo o ordinatorio [131], ora in ragione degli effetti che la misura avrebbe determinato sull’impresa interessata dal patto [132]. Certo, non mancarono nel tempo pronunce più flessibili, quanto all’astratta possibilità di intervento con specific enforcement [133] o all’adozione in concreto di misure ordinatorie a carattere preventivo [134] e persino di rimedi esecutivi in forma specifica [135]. Si trattò, tuttavia, di pronunce isolate, non in grado di modificare l’orientamento dominante, che si esprimeva invece nel senso di negare la possibilità di intervento con rimedi esecutivi in forma specifica – probabilmente anche per la volontà di non interferire con i processi di nomina degli amministratori, specialmente se già attuati [136]. Nel corso degli anni ’30, con [...]
A partire dagli anni ’30, come si ricordava, i voting agreement andarono sempre più specificandosi come fenomeno proprio delle società chiuse, nelle quali le dimensioni dell’azionariato rendevano possibile la realizzazione di assetti coordinati su base puramente contrattuale e il coinvolgimento dei soci nell’attività di gestione appariva come di per sé fisiologico [145]. In tali società, i patti tra soci (di voto e di controllo) svolsero, invero, una funzione integrativa e modificativa della disciplina legale in materia societaria. Le norme di corporate law, com’è noto, erano state elaborate intorno alle esigenze delle grandi società di capitali e con finalità di protezione delle minoranze azionarie, degli azionisti diffusi, dei creditori dell’impresa e del pubblico degli investitori: in questo senso erano da intendersi le norme che prevedevano l’attribuzione in via esclusiva del potere di gestione dell’impresa agli amministratori, o la separazione dei poteri all’interno della società, o ancora la libera trasferibilità delle azioni, e persino lo stesso principio di maggioranza [146]. Quelle norme, aventi portata generale, si applicavano negli stessi termini anche alle società chiuse, come contropartita al beneficio dell’incorporazione, e quindi della responsabilità limitata [147]. Tuttavia, le dinamiche interne alle società chiuse erano evidentemente molto diverse: la base sociale piuttosto ristretta non dava luogo a problemi di separazione tra proprietà e controllo dell’impresa, e anzi normalmente gli azionisti (almeno, quelli più rilevanti) erano direttamente coinvolti nella gestione, svolgendo funzioni di amministratore o di dirigente della società; l’investimento si presentava come tendenzialmente di lunga durata; la trasferibilità delle azioni (i.e. la garanzia di exit del socio mediante trasferimento della partecipazione), pure libera, era evidentemente assai meno fluida di quella garantita dai meccanismi del mercato dei capitali. Per queste ragioni, le società chiuse erano di fatto percepite come una forma intermedia tra la corporation e la partnership, una sorta di “incorporated partnership” [148]. Tali peculiarità, almeno fino alla metà del Novecento, non trovarono un punto di emersione a livello legislativo, [...]
Nel corso degli anni ’70 e ’80, la disciplina relativa agli accordi di voto (e di voto e controllo), pur con fisiologiche oscillazioni tra le giurisdizioni statali, si stabilizzò su approdi pressoché comuni, nel senso di un generale allentamento delle limitazioni alla legittimità anche dei patti interferenti con i poteri attribuiti ex lege agli amministratori [155]. Tali aperture riguardavano, in ogni caso, soltanto i patti relativi a società chiuse; patti di contenuto analogo, se riferiti a società quotate, continuavano ad essere unanimemente qualificati come illegittimi [156]. L’apertura alla legittimità degli accordi tra soci interferenti con le regole di struttura delle società [157] si spiega non solo alla luce degli effetti positivi sulla governance dell’impresa, cui si accennava nel paragrafo precedente, ma probabilmente anche alla luce del dibattito teorico che si sviluppò in quegli anni, segnato, come è noto, dalla contrapposizione tra teorie contrattualistiche e non contrattualistiche dell’impresa. Il primo orientamento, risultato sostanzialmente prevalente, propugnava una visione dell’impresa come nexus of contracts, e delle relazioni di impresa come fisiologicamente rette da principi di libertà negoziale e autonomia privata, e quindi liberamente definibili dalle parti. Entro tale scenario, la corporate law, già tradizionalmente rappresentata come enabling statute, assumeva più propriamente la connotazione di disciplina legale a carattere residuale, formulata per offrire ai privati un insieme di regole di default tali da approssimare, al massimo grado, la regolazione del rapporto sociale che i soggetti privati avrebbero definito in assenza di costi transattivi. In tal senso, le norme di corporate law erano intese come in gran parte derogabili (mediante c.d. “opt out”) con un (altro) atto di autonomia privata [158]. Anche il diritto di voto veniva inquadrato in una prospettiva contrattualistica e rappresentato come diritto di assumere decisioni sugli aspetti del rapporto sociale non disciplinati nel contratto di società o nella legge, ossia come strumento – convenzionale – di integrazione della disciplina (di matrice legale, nel caso di adesione allo statuto definito nella corporate law, o di matrice convenzionale, in caso di opt out) della società cui si [...]
L’estensione più pronunciata dei margini di validità degli accordi di voto, e quindi l’assimilazione più marcata tra patti sociali e “parasociali”, riguardò gli accordi totalitari, per i quali anche le legislazioni statali più severe ammettevano come legittime le limitazioni al potere degli amministratori [162]. D’altra parte, la giurisprudenza negli anni aveva adottato, per i patti totalitari, orientamenti valutativi particolarmente flessibili, sostenuti dall’argomento della strutturale inidoneità di tali patti a ledere le minoranze azionarie. L’illegittimità dei patti totalitari risultava, così, circoscritta alle sole ipotesi di sostanziale esautoramento dell’organo amministrativo o di possibile danno ai creditori sociali [163]. Ancora, in presenza di patti totalitari, i giudici erano più inclini ad adottare anche rimedi diversi da quello risarcitorio – dal mero ordine giudiziale di dare attuazione ai contenuti dell’accordo [164], all’annullamento delle deliberazioni sociali assunte in difformità dell’accordo di voto, con conseguente ordine di ripetizione della votazione [165]. In altri termini, per i patti totalitari si era andato delineando, nel tempo, un regime specifico, più permissivo, che verosimilmente contribuì anche alla loro diffusione nella prassi societaria. I patti totalitari erano normalmente stipulati al momento stesso della fondazione della società e concepiti come accordi a latere del bylaw, adottati per definire dettagliatamente le regole di governance dell’impresa e fissarne le linee strategiche, potendo contare al riguardo su margini di libertà negoziale più ampi di quelli consentiti a livello sociale [166]. I patti totalitari assumevano, quindi, propriamente la connotazione di contro-scritture rispetto ai patti sociali, ponendosi in sostanziale continuità rispetto a questi. L’assimilazione tra shareholder agreement totalitari e patti sociali, in termini di efficacia vincolante e di enforcement, trovò diretta consacrazione nei primi anni ’90, con la modifica al Model Business Corporations Act [167] e l’introduzione del § 7.32, ancora vigente, secondo cui gli accordi di voto, se stipulati tra tutti gli azionisti e resi pubblici nelle forme prescritte (l’accordo deve [...]
Il coordinamento contrattuale di voto presenta, nel diritto vivente americano, elementi di continuità con l’esperienza fin qui esaminata e, al contempo, profili di evidente novità. Per un verso, infatti, persiste il ricorso a voting agreement come strumento ordinario private ordering nelle società chiuse. Per altro verso, negli anni recenti, la ricostruzione del fenomeno parasociale come proprio, se non esclusivo, delle società “chiuse” ha subito interessanti evoluzioni, essenzialmente dovute al ruolo e all’attività svolta dai fondi di investimento. Le innovazioni, al riguardo, investono due diversi profili: l’evidenza del fenomeno “parasociale” anche nelle società quotate e il ricorso ad accordi tra soci come strumento di governance nelle startup partecipate da fondi di investimento.
Nelle società chiuse gli shareholder agreement si sono affermati, nel tempo, come strumento pressoché ordinario di regolazione dei rapporti sociali, che consente di giungere a una sostanziale ridefinizione delle regole di funzionamento della società, adattandole alle esigenze degli stipulanti, i quali normalmente esprimo il gruppo di controllo della società [173]. I vantaggi del ricorso a patti parasociali, in alternativa a un intervento sul bylaw o sulla incorporation chart, pure possibile e pure di ampiezza non marginale, si apprezzano sotto diversi profili: il carattere di riservatezza del patto (che investe tanto l’esistenza di un patto quanto i suoi contenuti), in contrapposizione al tenore necessariamente pubblico dei patti sociali [174]; una maggiore flessibilità nelle forme di adozione e di modifica, giacché gli shareholder agreement, retti dalle norme in materia di contratti, possono essere modificati con il consenso unanime dei soci (o con criteri maggioritari, se previsti nell’accordo), ma non richiedono procedimenti deliberativi formali di modifica e, soprattutto, non richiedono la collaborazione dell’organo amministrativo, che in diverse giurisdizioni è invece chiamato a formulare la proposta di modifica degli articles, poi sottoposta all’approvazione sociale [175]; e soprattutto, una maggiore flessibilità nella definizione dei contenuti del patto e, quindi, un più ampio margine di esercizio dell’autonomia privata. Le norme in materia societaria, infatti, pur particolarmente flessibili e tendenzialmente enabling [176], presentano comunque un nucleo minimo di previsioni (relative soprattutto all’articolazione dei poteri endo-societari) che restano inderogabili per via “sociale” [177]; queste, invece, possono essere validamente ridefinite per via “parasociale”, anche intervenendo sull’equilibrio di poteri interno alla società e attribuendo ai soci funzioni che, nel regime legale ordinario, spetterebbero necessariamente agli amministratori [178]. In tal senso, in linea con gli orientamenti giurisprudenziali consolidatisi nei decenni precedenti, e pure al netto di fisiologiche oscillazioni tra i diversi stati, continuano ad essere ritenuti legittimi non solo i patti di voto relativi alla nomina degli amministratori, nelle loro diverse forme di manifestazione (dalla [...]
Tra i fenomeni di più recente emersione, relativi ai patti di voto, è senz’altro da segnalarsi l’evidenza del ricorso a strumenti di coordinamento azionario anche nell’ambito delle società quotate. Nella percezione diffusa, gli shareholder agreeement sarebbero estranei alla realtà delle società quotate americane [186], per ragioni che la dottrina riconduce, per un verso, alle peculiarità dell’azionariato, i cui livelli di diffusione [187] sarebbero difficilmente compatibili con il coordinamento azionario; e, per altro verso, alle specificità del sistema legislativo americano, che sembrerebbe esprimere, sul piano comparatistico, livelli di protezione delle minoranze azionarie così elevati da rendere poco conveniente il ricorso a strumenti costitutivi di controllo societario [188]. A sottolineare l’estraneità degli shareholder agreement alle dinamiche delle società quotate contribuiva, fino a qualche anno fa, anche la previsione del Model Business Corporations Act per cui gli accordi in essere cessavano di avere validità nel caso di quotazione della società [189]. Tuttavia, diversi fattori contribuiscono a temperare l’assolutezza di tale rappresentazione. In primo luogo, il dato storico, di cui si diceva nei paragrafi precedenti e che sembra smentire l’incompatibilità di principio degli strumenti di coordinamento azionario con la logica delle grandi società di capitali [190]. In secondo luogo, le evidenze offerte da recenti studi empirici sulla composizione del capitale delle società quotate, i quali sembrano fornire una descrizione dell’azionariato non del tutto aderente alle rappresentazioni tradizionali e, soprattutto, non incompatibile con la possibilità di un coordinamento tra azionisti. Risulta, infatti, che la maggioranza delle società quotate sia connotata dalla presenza di blockholder, i quali in media detengono congiuntamente quote di capitale piuttosto significative, compatibili con l’esercizio di un controllo congiunto (di fatto) dell’impresa [191] e quindi, a fortiori, con un ipotetico coordinamento di voto. In uno scenario così connotato, e nell’ambito di una realtà composita e variegata quale quella americana, sembra difficile formulare conclusioni nette quanto all’assoluta estraneità dei patti [...]
Negli anni recenti, il ricorso a shareholder agreement si è affermato come rutinario anche nelle startup partecipate da fondi di venture capital. Per le loro caratteristiche, tali imprese appaiono sostanzialmente discontinue rispetto al modello delle closed corporation tradizionali: pur non essendo quotate, esse presentano, infatti, un numero considerevole di azionisti, un significativo grado di vivacità nello scambio delle partecipazioni, realizzato attraverso piattaforme di trading, e un assetto gestorio particolarmente accentrato [197]. La caratteristica quasi-ibrida di tali società fa sì che la disciplina delle società chiuse, cui sarebbero soggette, non sempre risulti adeguata; da qui, un frequente ricorso ad accordi tra azionisti – la cui conclusione è sollecitata dai fondi di venture capital ed è spesso posta a condizione dell’investimento stesso – per integrare o modificare, in via negoziale, la disciplina legale, adattandola alle specificità e alle esigenze di tali imprese [198]. Tali accordi, tipicamente a contenuto complesso (patti di voto, di blocco e di controllo), consentono di fatto di definire, in maniera quasi sartoriale, l’assetto di governo e di controllo delle startup interessate. Quanto all’esercizio del diritto di voto, i contenuti di tali patti sono essenzialmente riferiti al potere di nomina del consiglio di amministrazione, con clausole che definiscono la struttura e la composizione del board, garantendo un’adeguata rappresentanza ai diversi finanziatori, oppure attribuiscono a specifici azionisti (i.e. a specifici fondi di venture capital) particolari diritti o poteri di nomina (e quindi di controllo) disproporzionali rispetto alla partecipazione sociale detenuta. Le clausole di voto coesistono, poi, con pattuizioni più direttamente collegate all’esercizio del potere di controllo, con clausole che prevedono il coinvolgimento degli azionisti nella gestione day-by-day o su specifiche operazioni individuate nell’accordo, o più in generale nella definizione della policy della società. A complemento di tale assetto, si definiscono normalmente anche le condizioni di trasferimento delle partecipazioni e si disciplina l’exit degli investitori [199]. La possibilità di intervento in via contrattuale, per adeguare la disciplina vigente alle necessità poste da un fenomeno [...]