Lo scritto si divide in due parti. Nella prima è presentata una ricognizione di testi normativi, in materia giuscommercialistica, che sono stati qualificati in dottrina come "clausole generali" o come "principi generali". L'a. ritiene che questi termini siano usati in modo non rigoroso e che, comunque, la riflessione della dottrina giuscommercialistica non presenti caratteristiche peculiari, nel dibattito generale in materia.
La seconda parte dello scritto riprende i temi generali del dibattito su clausole e principi generali. In primo luogo si aderisce ad una concezione dei principi come norme giuridiche sovraordinate, distinti dalle norme di legge a contenuto indeterminato, e si ripropone una distinzione tra clausole generali in senso ampio (come norme a fattispecie indeterminata), e clausole generali in senso stretto (come norme che attribuiscono al giudice il potere di dirimere un conflitto fissando la regola da applicare nel caso concreto).
Infine, l'a. si sofferma sui criteri di interpretazione dei testi normativi a contenuto indeterminato, sostenendo le ragioni di un giuspositivismo critico, e manifesta preoccupazioni sulle tendenze ad affermare il primato del diritto giurisprudenziale.
The article is divided in two parts. Part I provides an examination of regulatory measures - in the area of the business law - defined by the Italian scholarship as "general clauses" or "general principles". The Author believes that such terms are not used in a meticulous way and that, however, the reflections of the business law scholars don't present peculiar aspects within the general debate on this topic. Part 2 resumes the general themes of the debate on general clauses and principles. At first, the article supports the idea that the principles are superordinate norms, different from indeterminate norms, and suggests a distinction between general clauses in a wide sense - as norms whose content is indeterminate - and general clauses in a strict sense - as norms providing the judge with the power to resolve conflicts by establishing the rule to apply in a specific case.
At last, the Author focuses on the criteria for interpretation of regulatory measures whose content is indeterminate, supporting the arguments of the legal positivism, and shows concern about the trends in favour of the primacy of the judge-made law.
Keywords: General clauses - General principles - Business law - Judge-made law - Legal positivism
CONTENUTI CORRELATI: diritto commerciale - clausola generale - principi generali - diritto giurisprudenziale - giuspositivismo
1. Premessa - 2. Una ricognizione su “clausole” e “principi” generali del diritto commerciale negli usi linguistici correnti. - 3. La riflessione dottrinale sulle “clausole generali” del diritto commerciale - 4. La riflessione dottrinale sui “principi generali” del diritto commerciale - 5. Esigenza di riflettere ancora sui temi di teoria generale inerenti a principi e clausole generali - 6. Origine del tema: insufficienza della concezione dell’ordinamento come insieme di comandi del legislatore, diffusione di norme legislative che prevedono standard e primato della Costituzione. Limitata utilità del dibattito americano su Rules v. Standards - 7. Il dibattito teorico-generale sui principi giuridici. I principi come norme giuridiche sovraordinate - 8. La discussione sulla definizione di clausola generale - 9. Una proposta di distinzione fra due categorie di clausole generali - 10. L’attribuzione di significato alle clausole generali: eterointegrazione o autointegrazione dell’ordinamento - 11. La discussione sulle clausole generali come capitolo dell’attuale discussione generale sul diritto giurisprudenziale e sul superamento del giuspositivismo - 12. Le ragioni di un giuspositivismo critico e l’illusione del primato della giurisprudenza. Il dibattito pro o contro il giuspositivismo oggi vede prevalere, soprattutto in Italia, l’orientamento di pensiero contrario - NOTE
Dico subito - anticipando il risultato delle considerazioni che seguono - che l'esperienza dottrinale del diritto commerciale non sembra fornire contributi originali al dibattito teorico-generale sulle c.d. clausole generali.
In particolare mi sembra che, se guardiamo agli usi linguistici dei termini "clausole generali" e "principi" nella dottrina e nella giurisprudenza giuscommercialistiche, incontriamo tre fenomeni, che sono comuni con altre esperienze disciplinari:
a) l'impiego del termine "clausola generale" nel senso generico di "norma a contenuto indeterminato" (o contenente "concetti aperti");
b) l'uso promiscuo dei termini "clausole generali" e "principi generali";
c) l'uso estensivo del termine "principio", per indicare non solo valori generalissimi giuridicamente rilevanti (p.e. "principio di eguaglianza"), ma anche enunciati normativi di carattere vieppiù delimitato (p.e. "principio dellapar condicio creditorum","principio della parità di trattamento fra soci"), per giungere fino a designare talora semplici "massime di decisione" di singole controversie.
Questa permanenza di usi linguistici poco rigorosi costituisce, a mio avviso, una tara dell'intero dibattito su principi e clausole generali, che stiamo riaffrontando in questo convegno.
Ciò è tanto più vero se si considera che il permanere di uno scarso rigore linguistico e concettuale si accompagna alla diffusa percezione del fatto che la presenza e il ruolo di clausole e principi generali crescono, nell'esperienza del diritto contemporaneo.
Il diritto commerciale non è estraneo a questo fenomeno, e su ciò è opportuno svolgere, preliminarmente, una breve ricognizione.
Nel 2011 l'associazione dei docenti della materia ("Orizzonti del diritto commerciale") ha dedicato il proprio convegno annuale al tema "Le clausole generali del diritto commerciale". Le relazioni presentate, al di là dell'elevato interesse intrinseco, non sembrano però presentare un chiaro filo conduttore[1]. Si nota infatti proprio l'uso indistinto dei termini "clausola generale" e "principio generale" e l'attenzione, peraltro meritoria, ai profili specialistici riguardanti i singoli temi.
Dev'essere poi segnalato un recente volume (anch'esso del 2011), intitolato "Le clausole generali nel diritto societario"[2], e redatto in attuazione di un programma di ricerca "PRIN". Qui si nota come il legislatore della riforma societaria del 2003 abbia consapevolmente evitato di dettare in modo espresso disposizioni di principio e clausole generali, ma che, ciò malgrado, disposizioni di tal genere sono state individuate dalla dottrina nel tessuto della riforma. Così sono indicate nel volume come clausole generali:
- il dovere di osservanza dell'oggetto sociale;
- l'adeguatezza delle informazioni circolanti all'interno del c.d.a. (art. 2381 c.c.);
- i principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale (art. 2497 c.c.)[3];
- il dovere degli amministratori di agire in modo informato (art. 2381 c.c.);
- l'adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili (art. 2381 c.c.);
- il criterio di diligenza nell'esercizio dell'attività di amministrazione;
- la c.d. business judgment rule (che è, sostanzialmente, una presunzione di legittimità dell'operato degli amministratori);
- l'indipendenza dei sindaci e dei revisori;
- la rappresentazione chiara, veritiera e corretta dei dati di bilancio;
- l'alterazione delle condizioni di rischio dell'investimento come presupposto per l'esercizio del diritto di recesso nei gruppi (art. 2497-quater c.c.).
Se andiamo oltre il contenuto di questo libro, ma ci muoviamo sempre nell'ambito del diritto societario, troviamo - nel dibattito dottrinale, e senza pretese di completezza[4] - altre "locuzioni indeterminate", o "principi", anch'essi ricavati induttivamente dalle norme di legge:
- il principio di tipicità delle società, di cui si ravvisa il fondamento nell'art. 2249 c.c.;
- il "principio di autonomia dell'impresa sociale anche nei confronti dei soci"[5];
- il "principio di autonomia organizzativa della società"[6];
- il principio del divieto del patto leonino (art. 2265 c.c.);
- il principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto sociale (dalla cui violazione, com'è noto, la giurisprudenza trae anche la conseguenza dell'annullabilità delle deliberazioni "abusive")[7];
- il principio "capitalistico" (talora denominato anche "plutocratico"), indicato come fondamento dell'attribuzione del potere decisionale all'interno delle società di capitali, correlato al rischio di perdita del capitale investito[8];
- il "principio di irresponsabilità personale del socio nelle società di capitali"[9];
- il principio maggioritario nel funzionamento degli organi societari;
- il principio di parità di trattamento fra soci, espressamente sancito dall'art. 2516 c.c. per le società cooperative e dall'art. 92 T.U.F. per le società quotate (ove, per la verità, il principio è enunciato in termini più ampi, in quanto riferito a tutti i titolari di strumenti finanziari), e invece oggetto di discussione per le società non quotate[10];
- il "principio di conservazione", volta a volta declinato con riferimento all'impresa o all'organizzazione o al patrimonio della società[11];
- il "principio della rilevanza del conflitto d'interessi nelle varie situazioni societarie"[12];
- il "principio di diretta responsabilità della capogruppo" per i pregiudizi subiti da azionisti di minoranza e creditori delle società controllate[13];
- il "principio di leale cooperazione fra organi"[14];
- il "principio di esclusività delle competenze gestorie degli amministratori"[15];
- il "principio di equiparazione dell'amministratore di fatto all'amministratore di diritto"[16];
- il "principio di inscindibilità del diritto di voto dalla quota"[17];
- il "principio generale [per cui] nelle società di capitali non è ammissibile la votazione a scrutinio segreto delle cariche sociali"[18];
- il principio di stabilità (o di "facilità") deliberativa[19];
- il "principio generale per cui la violazione della norma di legge, anche di carattere imperativo, comporta, nella disciplina societaria, la semplice annullabilità, in deroga al principio di diritto comune"[20];
- il "principio di apparenza del diritto nell'esercizio dei diritto sociali"[21];
- la ragionevolezza del conferimento in ragione della situazione finanziaria della società (art. 2467 c.c.);
- il "principio di trasparenza informativa", ricavato dagli artt. 2391 e 2497-ter[22];
- il dovere di diligenza commisurato alle "specifiche competenze" (art. 2392 c.c.)[23];
- il principio di adeguata e analitica motivazione delle deliberazioni adottate in situazioni di conflitto d'interessi (artt. 2391, 2497-ter c.c.)[24];
- il "principio di trasparenza e correttezza sostanziale e procedurale" delle operazioni con parti correlate (art. 2391-bis c.c.)[25];
- la nozione di grave irregolarità nell'amministrazione (art. 2409 c.c., ma anche nelle norme speciali sull'amministrazione straordinaria di banche e intermediari finanziari, nonché delle società a partecipazione pubblica);
- il "principio di continuità aziendale" nella redazione del bilancio[26];
- il "principio di prevalenza della sostanza sulla forma" nella redazione del bilancio[27];
- il principio di continuità della società in caso di fusione o scissione (o, come si è detto, della qualificazione di tali operazioni straordinarie come "vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico"[28]);
- il requisito della ragionevolezza delle indicazioni contenute nel progetto di fusione in caso di leveraged buy-out (art. 2501-bis c.c.);
- il "principio di continuità dei rapporti giuridici in caso di trasformazione" societaria[29];
- il "principio per cui la cancellazione dal registro delle imprese comporta l'estinzione della società"[30];
- il principio della c.d. "porta aperta" nelle società cooperative (artt. 2521, 2524 ecc., c.c.)
- il "principio per il quale la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché [un ente pubblico] ne possegga, in tutto o in parte, le azioni"[31](punto oggi confermato dall'art. 1, comma 3, T.U.S.P.).
Se ci poniamo al di fuori del diritto societario, vediamo - sempre, è opportuno avvertire, senza pretese di completezza - che la qualifica di clausola o di principio generale è attribuita, nella disciplina generale dei mercati, a:
- il principio di tutela della concorrenza (spesso chiamato, semplicisticamente, di "libertà di concorrenza", o anche, tout court, "principio di concorrenza")[32];
- i "principi della correttezza professionale" nella disciplina della concorrenza sleale (art. 2598 c.c.) e dei marchi (art. 11.4 e art. 21 c.p.i.);
- la "contrarietà alla diligenza professionale" nelle pratiche commerciali scorrette (art. 20 cod. cons.);
- l'idoneità a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio (art. 20 cod. cons.);
- il divieto di abuso di posizione dominante e il principio di speciale responsabilità dell'impresa dominante nella disciplina antitrust;
- la clausola generale del divieto di abuso di dipendenza economica (art. 9, l. 192/1998, inserita nella legge speciale riguardante il contratto di subfornitura)[33];
- la "clausola generale" per cui la "acquisizione del controllo" costituisce operazione di concentrazione ed è soggetta alla prescritta disciplina autorizzatoria[34].
Passando poi alla disciplina della proprietà intellettuale, possiamo ricordare:
- il carattere creativo e il valore artistico delle opere di disegno industriale protette dal diritto d'autore (art. 1 c. 2 n. 10 l.d.a.);
- il carattere artistico delle opere di architettura come presupposto della tutela rafforzata (art. 20 l.d.a.);
- il pregiudizio all'onore o alla reputazione dell'autore come presupposto della tutela del diritto morale (art. 20 l.d.a.);
- il "principio della simmetria tra protezione e potere invalidante del segno distintivo"[35];
- il "principio di interdipendenza" tra la somiglianza del segno distintivo e quella dei prodotti contrassegnati[36];
- il "valore sostanziale" della forma, che ne impedisce la registrazione come marchio (art. 9 c.p.i.);
- il divieto di acquisizione di un "vantaggio indebito" dall'uso "senza giusto motivo" del marchio altrui dotato di rinomanza (art. 12, comma 1, lett. e, c.p.i.);
- il divieto di registrazione del marchio in mala fede (art. 28 c.p.i.);
- la contrarietà all'ordine pubblico o al buon costume come causa di nullità o decadenza del marchio (art. 14 c.p.i.) o del brevetto per invenzione (art. 50 c.p.i.);
- il "principio del secondary meaning"[37];
- il diritto ad un "equo premio" a favore del dipendente, nella disciplina delle invenzioni di azienda (art. 64 c.p.i.);
- l'"importante progresso tecnico di notevole rilevanza economica" nella disciplina delle invenzioni dipendenti (art. 71 c.p.i.);
- la contrarietà alla dignità umana, all'ordine pubblico o al buon costume nella disciplina delle invenzioni biotecnologiche (art. 81-quinquies c.p.i.);
- l'uso della "diligenza richiesta dalle circostanze" come presupposto per l'ottenimento della c.d. restitutio in integrum (i.e. rimessione in termini) nel procedimento di registrazione o di mantenimento dei diritti di proprietà industriale (art. 193 c.p.i.).
Passando alla disciplina delle banche e assicurazioni e dei mercati finanziari, possiamo indicare a titolo di esempio:
- le clausole generali sulla gestione dell'attività bancaria, come "adeguatezza patrimoniale" e "contenimento del rischio" (art. 52 TUB);
- l'obbligo di "sana e prudente gestione" del gruppo bancario (art. 61 TUB);
- il principio di sana e prudente gestione delle imprese di assicurazione (art. 3 cod. ass.);
- l'obbligo di redazione "chiara ed esauriente" dei contratti di assicurazione (art. 166 cod. ass.);
- le "regole di comportamento" corretto nell'esecuzione dei contratti di assicurazione (art. 183 cod. ass.);
- gli obblighi di contenimento del rischio, di stabilità patrimoniale, di sana e prudente gestione degli intermediari finanziari (art. 5 TUF);
- l'obbligo di trasparenza e correttezza dei comportamenti (art. 5 TUF);
- l'obbligo di diligenza, correttezza e trasparenza nella prestazione di servizi di investimento (art. 21 TUF);
- l'obbligo di adottare misure ragionevoli per identificare i conflitti d'interesse (art. 21 TUF);
- l'obbligo di fornire le informazioni necessarie affinché gli investitori possano pervenire ad un fondato giudizio (art. 94.2 TUF: disciplina del prospetto);
- il divieto di abuso di informazioni privilegiate (artt. 181, 184 TUF).
Infine, per dare alcuni esempi tratti dal diritto concorsuale:
- il principio tradizionale, oggi variamente declinato, della par condicio creditorum;
- la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico per il curatore (art. 38 l. fall.);
- gli atti compiuti in adempimento di un dovere morale o a scopo di pubblica utilità (esonerati da revocatoria ex art. 64 l. fall.);
- la clausola sulla "fattibilità" del piano nel concordato preventivo (art. 161, comma 3, l. fall.)[38];
- il requisito dei "giustificati motivi" per la presentazione di domanda del c.d. concordato in bianco (art. 161, comma 6, l. fall.);
- la "clausola generale" del "migliore soddisfacimento dei creditori" nel concordato preventivo (art. 182-quinquies, commi 1 e 4, l. fall.; art. 186-bis, comma 2, lett. b, l. fall.)[39];
- il divieto di abuso del diritto nella presentazione della domanda di concordato preventivo[40]: una sorta di clausola generale extra legem, derivante dall'applicazione di principi civilistici generali, in una materia in cui semplicemente si dovrebbe delimitare l'ambito del potere di sindacato del giudice sull'ammissibilità della domanda ex art. 162 l. fall.;
- la "clausola generale" per cui gli atti di frode costituiscono causa di annullamento del concordato preventivo (art. 173 l. fall.)[41];
- il principio - oggi contestato - di "neutralità organizzativa" delle società nei fenomeni di crisi d'impresa[42].
Si deve poi notare, incidentalmente, che la bozza di "codice della crisi e dell'insolvenza", che dovrebbe sostituire integralmente (ai sensi della legge-delega 19 ottobre 2017, n. 155) l'attuale legge fallimentare, contiene una lunga serie di articoli (da 3 e 14) destinati a stabilire i "principi generali" della materia.
L'esame di questi lunghi elenchi può suscitare qualche curiosità, ma non ci porta a grandi risultati, perché ognuno dei temi accennati pone problemi settoriali che vengono poi variamente affrontati nel diritto applicato, sicché è difficile trarre, da questa congerie di esempi, riflessioni di ordine teorico che possano dirsi proprie del terreno del diritto commerciale; in altri termini, che siano idonee a caratterizzare di contenuti propri la tematica dei principi e delle clausole generali nel diritto commerciale.
Dev'essere segnalata, comunque, qualche limitata discussione sul tema, all'interno della dottrina giuscommercialistica[43].
In particolare, per ciò che riguarda le "clausole generali", alcune riflessioni dottrinali, incentrate sul diritto delle società di capitali, hanno riproposto un orientamento contrario all'uso delle stesse, riprendendo note preoccupazioni circa i pericoli di strapotere dei giudici, in una cornice di esaltazione ideologica del contrattualismo societario e della massima autonomia statutaria, nonché di diffidenza verso interventi "dirigistici" da parte del legislatore o dei giudici[44]. La stessa linea di pensiero è stata riproposta di recente[45] in un contesto critico aggiornato, che ha portato a rilevare come una legislazione societaria per clausole generali sia criticabile perché, nel contesto culturale italiano, non v'è chiara consapevolezza del valore dei precedenti giudiziari e, per di più, il legislatore della riforma del 2003 ha ridotto le occasioni per portare le controversie societarie dinanzi al giudice.
Questo filone critico è rimasto però esile e lo stesso sfondo ideologico di esaltazione dell'autonomia statutaria è stato molto ridimensionato: si è da più parti osservato, infatti, come una ricca serie di norme imperative e dispositive sia funzionale ad una migliore efficienza del sistema delle imprese[46].
Una corrente di pensiero più rappresentativa, avviata dai contributi, a suo tempo innovativi, di Agostino Gambino[47], ha, più modernamente, preso atto dell'ineluttabile presenza di "concetti aperti" nella legislazione, anche giuscommercialistica, e si è impegnata sul terreno di una costruzione razionale del contenuto delle diverse clausole presenti nei testi normativi giuscommercialistici[48].
Questa seconda linea di pensiero ha guadagnato terreno negli anni recenti, tanto da essere presentata (da Paolo Montalenti) come un pregio della più recente evoluzione della disciplina giuscommercialistica in quanto tale, ed anzi come espressione del "primato del diritto commerciale sul piano dell'adeguatezza regolatoria nel diritto vivente rispetto alla funzione ancillare ancorché "ordinante" delle categorie classiche del diritto civile"[49]. Da qui anche una proposta metodologica di valorizzazione delle clausole generali nell'interpretazione di singole norme di diritto commerciale.
Un indice significativo di questa evoluzione culturale si può cogliere confrontando la riforma societaria del 2003, nella quale si scelse consapevolmente[50] di evitare l'enunciazione di clausole e principi generali (poi tuttavia segnalate e valorizzate dalla dottrina[51]), con la bozza di "codice della crisi e dell'insolvenza" del 2018 (di cui non è ancora certa l'entrata in vigore), che - come già ricordato - contiene una lunga serie di articoli destinati a stabilire i "principi generali" della materia.
Anche nel campo del diritto commerciale si nota dunque una crescente importanza attribuita a principi e clausole generali[52]. In questo dibattito non mi sembra emergere, tuttavia - a differenza di quanto si sostiene nell'orientamento dottrinale sopra richiamato - una dimensione specifica che possa attribuirsi alle peculiarità della materia giuscommercialistica. Non mi sembra rilevante, ai fini dei temi in discussione, il richiamo alla tradizionale funzione "pionieristica" del diritto commerciale nell'ambito del diritto privato[53]: novità legislative (talora radicali), disposizioni di principio e norme a contenuto indeterminato pervadono tutti i campi del diritto e non mi sembra che il fenomeno, nel diritto commerciale, presenti connotati differenziali, sul piano qualitativo o quantitativo. Così pure, la scelta metodologica volta a valorizzare l'argomentazione per principi - che ritengo condivisibile, e sulla quale si dovrà tornare - non si presenta come carattere specifico del diritto commerciale, bensì come carattere generale di tutto il diritto contemporaneo.
Non ritengo neanche che possa avere utilità un richiamo al metodo tradizionalmente proprio del diritto commerciale, volto ad attribuire ruolo preliminare e preminente all'analisi empirica dei fatti regolati[54], se non per il periodo più antico, in cui si ammetteva, come fonte sussidiaria, la c.d. natura dei fatti. Una volta abbandonata questa idea (con la "normalizzazione" delle fonti teorizzata, a suo tempo, da Antonio Scialoja ed Alfredo Rocco), nel metodo del diritto commerciale è rimasto l'appello alla previa analisi dei fatti, delle prassi e degli interessi in gioco; ma l'apertura alla realtà sociale, che questo metodo porta (o portava) con sé mira, in sostanza, soprattutto ad un accorto impiego dell'argomentazione orientata ai risultati[55]; risultato di per sé compatibile con un quadro di aggiornato giuspositivismo e riferibile a tutti i settori giuridici.
Rimangono poi da citare alcune interessanti riflessioni collocate all'interno della discussione su determinati principi generali di sistema, come quelle sulla diversa operatività del principio di buona fede nell'esecuzione dei contratti di scambio e all'interno dell'organizzazione societaria[56] o sulla diversa operatività del divieto di abuso del diritto[57]. Queste riflessioni sono accomunate dalla considerazione che, nella loro origine storica, sia il dovere di agire in buona fede sia il divieto di abuso del diritto sono incardinati nella disciplina dei rapporti intersoggettivi e, se applicati all'interno delle organizzazioni societarie, devono essere adattati alla diversa problematica dei limiti all'esercizio di poteri giuridici[58]. Osservazione perspicua che, tuttavia, coglie un problema di carattere generale riguardante il controllo del potere all'interno delle organizzazioni (non solo quelle pubbliche, ma anche quelle) private, e quindi un problema di costruzione della disciplina delle società (e delle società di capitali, in particolare); quindi un problema proprio del diritto societario (ma estensibile anche alla disciplina di altre organizzazioni private) e non anche un problema atto ad evidenziare una peculiarità dell'applicazione di clausole e principi generali all'interno del diritto commerciale in quanto tale.
Forse più interessante potrebbe essere un'analisi delle riflessioni sui princìpi fondamentali (o "generali") della disciplina del diritto commerciale. Neanche in questo caso, tuttavia, la trattazione del tema ha attratto particolarmente i cultori della disciplina. L'intervento più significativo è stato fatto da Giorgio Oppo[59], già in età avanzata, e contiene interessanti, anche se solo sommarie, indicazioni.
Secondo Oppo il sistema della disciplina delle attività economiche (che ancor oggi denominiamo tradizionalmente "diritto commerciale") può articolarsi sui seguenti princìpi, talora però solo accennati o indicati dallo stesso autore in modo dubitativo:
a) la libertà di iniziativa economica, limitata dall'utilità sociale, e la connessa libertà di concorrenza;
b) la nozione di impresa come "fattispecie comportamentale attuativa" (i.e. come attività), con relative conseguenze in tema di imputazione e responsabilità (anche con riferimento alla c.d. impresa di gruppo);
c) la sopravvivenza dell'uso commerciale nella disciplina degli atti d'impresa;
d) l'inquadramento dei contratti d'impresa nella disciplina dell'attività anziché in quella dell'atto singolo;
e) la tutela dell'equilibrio delle prestazioni e dell'equilibrio normativo nei rapporti di mercato;
f) la tutela della concorrenza effettiva (che, per verità, Oppo vedeva in modo troppo tradizionale, per esempio ritenendo che dovessero essere sempre immuni dalle sanzioni antitrust le condotte corrispondenti ad usi commerciali e quelle dei professionisti intellettuali).
Il programma di ricerca formulato in quel libretto non ha avuto gli sviluppi che meritava, anche se alcuni anni dopo il tema dei principi generali del diritto commerciale è stato ripreso con grande impegno da Vincenzo Buonocore[60]. Questi individuava:
- una serie di principi propri della contrattazione d'impresa: alcuni ricavati dalle norme del codice civile (quelli di "insensibilità alle vicende personali dell'imprenditore" e di "ambulatorietà" del contratto"), altri dalla legislazione speciale (quello di "trasparenza-informazione" - sorto in materia bancaria, ma poi generalizzato dalla disciplina di tutela del consumatore - e quello per cui la disciplina dell'invalidità diviene variabile e funzionale alla tutela degli interessi di volta in volta rilevanti per la norma violata, con il superamento della rigida dicotomia codicistica di nullità e annullabilità);
- il principio della responsabilità per rischio d'impresa, che - oltre a comportare l'assunzione del "rischio da ignoto tecnologico"[61] - traspone sul terreno della responsabilità extracontrattuale anche alcuni principi settoriali (come quelli di trasparenza-informazione e di adeguatezza organizzativa);
- i principi di tutela del mercato e della concorrenza.
Ancora, sulla linea dell'affermazione di un'autonomia normativa del diritto commerciale, modernamente inteso come diritto dell'impresa, e in parte caratterizzato anche da fonti proprie, si è posto decisamente Giuseppe Portale[62].
A parte questi tentativi, pur autorevoli (e pregevoli), il filone di ricerca volto a ricostruire una rinnovata autonomia "giuridica" (e non solo didattica) del diritto commerciale, fondata sull'individuazione di principi propri e distinti da quelli del diritto civile, non ha avuto significativi sviluppi[63]. Sono state espresse, anzi, anche posizioni radicali, volte a negare l'attualità di una prospettiva di individuazione di principi propri del diritto dell'impresa e dei mercati, contrapposti a quelli governanti i rapporti fra individui non imprenditori[64]. Non sono peraltro mancate riflessioni volte a valorizzare differenze in determinati comparti disciplinari, soprattutto in ordine ai principi governanti l'esercizio dell'autonomia privata[65]. Il dibattito può dirsi dunque aperto.
A questo punto il ragionamento intrapreso in questo scritto potrebbe seguire due vie diverse: la prima è quella di tentare di riprendere e di portare avanti una riflessione sui principi del diritto dell'impresa e dei mercati, la seconda è quella di riflettere sui temi del dibattito generale di questo convegno, e cioè sul dibattito di teoria generale su princìpi e clausole generali, sia pure alla luce della specifica esperienza di ricerca giuscommercialistica.
Dico subito che il primo filone di ricerca è certamente valido e importante, ma credo anche che esso debba essere inquadrato in una riflessione più ampia, avente ad oggetto i principi della vigente costituzione economica. Ciò perché qualsiasi riflessione sui principi, oggi, non può fare a meno di distinguere un livello costituzionale, di rango superiore nella gerarchia delle fonti (nel quale qui inserisco, sbrigativamente, anche i principi del diritto europeo) da un livello settoriale (in cui pure - come torneremo a dire più avanti - il ragionamento per principi rimane necessario).
La riflessione, per ciò che riguarda il livello costituzionale ed europeo, deve perciò incentrarsi[66] sulla tutela della "libertà d'impresa" (art. 16 C.D.F.U.E., da leggersi in combinazione con l'art. 41 Cost.), da coniugare con la "tutela della concorrenza" (art. 117, comma 1, lett. e, Cost.) e con i principi generali dell'art. 3 T.U.E. ("sviluppo sostenibile", "economia sociale di mercato altamente competitiva"). È a partire da questi "macroprincipi" che potrà poi avviarsi la costruzione dei principi settoriali (p.e. il principio capitalistico nelle società di capitali, o la par condicio creditorum, ecc.). È questo, certamente, un campo di ricerca che presenta ancora larghissimi spazi aperti[67].
Ritengo che la dottrina giuscommercialistica dovrebbe oggi assumere come proprio compito prioritario quello della discussione razionale sui principi, generali e settoriali, e dell'approfondimento contenutistico degli stessi. Un programma così ambizioso non può tuttavia essere sviluppato, neanche solo per esempi, nell'ambito di questo scritto.
Ciò che rimane invece possibile è svolgere qualche riflessione di carattere teorico-generale, che trae spunto dagli usi linguistici correnti nella dottrina e nella giurisprudenza del diritto commerciale, di cui si è cercato di svolgere una rassegna nei §§ 1 e 2.
Da questa constatazione si vuole trarre spunto per affrontare ex novo la tematica, ponendo come premessa i risultati esposti in uno scritto di qualche anno fa[68]. In quello scritto ho sostenuto - e così ritengo tutt'ora - che, nella dibattuta materia, sia necessario fare chiarezza su due punti fondamentali:
I) la distinzione concettuale - ovviamente convenzionale, ma comunque necessaria per consentire uno svolgimento razionale della discussione - tra "norme a contenuto indeterminato", "clausole generali", "principi generali";
II) i criteri - se legali o extralegali - che presiedono all'attribuzione di contenuto ("interpretazione") di tali norme, clausole, principi.
Su questi punti vorrei ora tornare, conclusivamente, anche allo scopo di tentare di fornire un contributo al tema generale di questo convegno. Mi scuso per il fatto che le osservazioni seguenti saranno svolte in modo schematico; spero che, almeno, il ragionamento possa guadagnare qualcosa in termini di linearità.
Cominciando dal primo punto, si deve anzitutto ribadire una premessa ovvia. Discutere sulla definizione di "clausola generale" o di "principio giuridico" non significa andare alla ricerca di definizioni reali e di corrispondenti entità empiricamente verificabili. Significa piuttosto cercare di migliorare e affinare - mediante la proposta di definizioni nominali di carattere "stipulativo" - l'impiego di termini già utilizzati nel linguaggio giuridico, ma spesso utilizzati in modi ambigui, che lasciano a desiderare sul piano della chiarezza argomentativa e della coerenza della discussione. Il giudizio, più o meno positivo, su una certa proposta di definizione stipulativa può solo venire dai risultati (in termini di chiarificazione e linearità comunicativa) che l'impiego dei termini, così definiti, può avere nei processi argomentativi utilizzati nella costruzione interpretativa di norme giuridiche.
Ciò premesso, si deve ribadire un altro dato, ben noto, e cioè che tutto l'ormai lungo dibattito, nella dottrina giuridica europea e italiana, su clausole e principi generali[69] muove dalla crisi dell'ideale illuministico-liberale, e poi giuspositivistico tradizionale, di un ordinamento interamente ispirato al principio di legalità, e quindi caratterizzato da:
(i) norme di condotta stabilite esclusivamente dalla legge e sanzioni tassative[70];
(ii) rilevanza giuridica limitata e residuale dei principi generali, a loro volta concepiti come norme generali radicate nel sistema di leggi positive;
(iii) natura cognitiva dell'interpretazione e conseguente negazione di ogni apporto creativo della giurisprudenza.
Storicamente, in quella tradizione culturale la coerenza complessiva dell'ordinamento era affidata - soprattutto nella tradizione tedesca e italiana - ad un sistema di concetti costruiti dalla dottrina secondo criteri ritenuti scientifici e non certo ad un sistema di principi costituenti espressione di valori etico-sociali o di programmi politici (principi di questo tipo, ancorché tradotti in testi normativi formali, erano tendenzialmente considerati qualcosa di diverso dalle vere norme giuridiche o addirittura come giuridicamente irrilevanti[71]).
Di fronte a questo modello di ordinamento, le norme contenenti "nozioni indeterminate" apparivano come un'eccezione, o addirittura uno scandalo. Questa impressione originaria ha segnato il dibattito successivo, soprattutto creando la convinzione (ancora piuttosto diffusa in Italia) secondo cui le "clausole generali" costituiscono una modalità di abdicazione del legislatore alla sua vera funzione e una delega in bianco data al giudice per creare la regola del caso concreto.
Quel modello di ordinamento però - com'è a tutti noto - è stato superato, in primo luogo, dall'esperienza storico-politica, che ha visto la crisi dell'ideale codicistico, con la crescita continua di una legislazione di dettaglio, ma anche dell'uso, nel linguaggio legislativo, di norme contenenti concetti "aperti" o "indeterminati". Più in generale, l'esperienza del diritto del XX secolo ha portato a riconoscere la necessità che l'ordinamento, nel suo concreto operare, si affidi alla discrezionalità amministrativa e giudiziaria per l'effettiva traduzione di molte norme giuridiche in comandi concreti. Non ci sarebbe dunque ragione di guardare alle "clausole generali" come ad uno scandalo rispetto agli ideali del principio di legalità.
Accanto a questi fattori interni di evoluzione del fenomeno legislativo, la visione dell'ordinamento fondata sull'ideale del primato della legge è stata modificata, soprattutto, per l'affermarsi della concezione costituzionalistica del diritto, che ha portato a riconoscere un livello normativo gerarchicamente sovraordinato rispetto alle norme di legge e costituito, in primo luogo, dai principi costituzionali (a loro volta solitamente espressi in testi normativi contenenti concetti "aperti" o "indeterminati").
Così, nel dibattito italiano, il tema di politica legislativa dell'opportunità (o inopportunità) di norme a contenuto "aperto" si è intrecciato storicamente con un altro tema, cioè quello della valorizzazione (o meno) dei principi costituzionali (o di altri "principi generali", variamente ricostruiti) nell'interpretazione. L'apertura della discussione, nei termini attuali, nello scritto celebre di Stefano Rodotà di mezzo secolo fa, poneva forse l'accento soprattutto sul primo tema, ma l'apporto culturale di Rodotà era, già da allora, incentrato sulla valorizzazione del ragionamento per principi nella costruzione interpretativa delle norme[72].
Da allora, il tema di politica legislativa e quello della valorizzazione dei principi nell'interpretazione hanno continuato ad essere intrecciati e il dibattito si è ulteriormente arricchito di altri due temi:
(i) uno, di teoria generale, relativo alle differenze dello status logico-concettuale delle norme contenenti concetti "aperti" rispetto alle "ordinarie" norme giuridiche, nonché alle differenze di status logico-concettuale fra "clausole generali" e "principi";
(ii) uno, di carattere metodologico e di politica del diritto, riguardante l'esistenza o meno di vincoli di diritto positivo, per il giudice, nell'attribuzione di significato alle norme contenenti concetti "aperti".
Si noti che, pur movendo da premesse differenti, gli ordinamenti di common law hanno seguito un percorso simile, ma non identico. Le leggi sono, in quel contesto, norme speciali rispetto allo ius consuetudinario; perciò dovrebbero essere sempre quanto più possibile dettagliate e precise, sicché, anche in quel contesto, le norme a contenuto aperto sono originariamente viste come una deviazione dalla normalità.
A fronte di questi assunti ideali del passato, l'esperienza (anche di common law) ha visto però anch'essa il moltiplicarsi di testi legislativi contenenti previsioni "a contenuto indeterminato". Su questa esperienza si è sviluppato un ampio e noto dibattito, che si è incentrato[73] sul tema di politica legislativa della preferibilità di rules o standards.
Il dibattito americano è giunto a un'impasse: l'idea più diffusa[74] è che le rules assicurino maggiore certezza applicativa (e quindi prevedibilità), ma comportino anche rischi di applicazione incoerente rispetto agli scopi politici della legislazione, e ciò a causa della determinazione rigida delle fattispecie: pertanto, per essere eque ed efficienti, le rules richiedono un elevato investimento di risorse da parte del legislatore, che può giustificarsi solo in presenza di situazioni fattuali ricorrenti ed omogenee; viceversa, gli standards consentono un'applicazione puntuale ed appropriata ai casi concreti e - come ogni meccanismo di delega - consentono anche un risparmio di risorse per il decisore "a monte", in questo caso per il potere legislativo, ma impongono un costo sociale in termini di possibile incertezza e imprevedibilità delle decisioni.
Nella fase più recente della discussione si tende a segnalare come in pratica si abbia una tendenziale convergenza fra i due modelli normativi: un sistema di regole può essere variamente conformato dalla discrezionalità interpretativa e applicativa, mentre uno standard può acquisire certezza, e perfino rigidità applicativa, per via del rispetto dei precedenti; perciò una scelta razionale e precisa a favore dell'uno o dell'altro modello di legislazione si rivela impossibile[75].
Ancor più di recente, il dibattito sembra arricchirsi di una nuova prospettiva, consistente nella previsione di impatto dell'intelligenza artificiale al mondo del diritto. Ciò renderebbe obsoleto l'impegno di risorse per l'elaborazione di una regolazione dettagliata delle condotte: compito del potere politico rimarrebbe quello di inserire indicazioni di valori in un sistema di intelligenza artificiale in grado di convertire quei valori in "microdirectives" idonee a tradurre quei valori nella soluzione del caso concreto[76]. In altri termini, la discussione sulla preferibilità di rules o standards starebbe per chiudersi con il trionfo delle clausole generali (destinate però a concretizzarsi mediante meccanismi di decisione robotica).
In ogni caso, il dibattito americano sopra richiamato presenta due differenze interessanti, rispetto a quello europeo e italiano.
In primo luogo, il tema è stato inquadrato esclusivamente sul terreno della tecnica legislativa (e dei suoi riflessi di politica del diritto): gli standards sono visti come norme di contenuto diverso rispetto alle rules dettagliate, ma non si dubita che siano norme giuridiche e che contengano sì una delega al giudice, ma non una delega in bianco, bensì una delega legata ad un determinato indirizzo etico-politico (o anche tecnico).
In secondo luogo, il dibattito americano, pur inserendosi in un ambiente culturale in cui non è certo estranea la dimensione costituzionale del diritto, né, nel discorso teorico-generale, è estraneo il tema del ruolo e dell'importanza dei principi giuridici (soprattutto per l'insegnamento di Dworkin), non ha intrecciato il tema dei principi con quello delle norme a contenuto indeterminato. Su ciò ha influito la tradizione di common law, incline a riconoscere una innata razionalità e giustizia nel diritto tradizionale fondato sui precedenti giudiziari e a restringere il tema del rispetto dei principi costituzionali alla dimensione verticale, come limite al potere del legislatore[77].
In questo senso può dirsi che il dibattito americano si presenta in parte più moderno e in parte meno, rispetto a quello europeo. Nel complesso, può però disi che il dibattito europeo e italiano è più ricco e impone di riprendere il tema della distinzione teorica fra principi generali e norme di legge a contenuto indeterminato.
Se si guarda agli usi linguistici e alle argomentazioni correnti nei ragionamenti giuridici, si deve riconoscere che è divenuta di uso corrente l'argomentazione per principi, cioè la giustificazione di una certa soluzione giuridica, di solito (anche se non necessariamente) risultante da una certa interpretazione di un testo normativo di rango legale o regolamentare, in base alla coerenza con una proposizione giuridica di rango superiore, chiamata "principio".
Un punto fermo, generalmente riconosciuto, è che principi giuridici possono trarsi sia da norme (a contenuto indeterminato) costituenti disposizioni di principio, cioè da testi normativi espressi (p.e., la disposizione dell'art. 9 Cost., per cui "La Repubblica tutela il paesaggio") o anche, in via induttiva, dall'interpretazione sistematica di disposizioni particolari (così quasi tutti i "principi" di diritto commerciale elencati al § 1). Però, anche in questo secondo caso, i principi di cui si tratta devono essere verificati, in termini di compatibilità e di coerenza, con i principi di carattere più generale (costituzionale od europeo).
Questo orientamento della cultura giuridica contemporanea dev'essere non solo constatato, ma anche approvato: l'argomentazione per principi nella giurisprudenza impone (o almeno dovrebbe imporre) ai giuristi-interpreti di rendersi consapevoli e di esplicitare i giudizi di valore presenti nel ragionamento, e quindi consente di dare all'insieme di decisioni giuridiche costituenti diritto applicato una coerenza assiologica superiore a quella che può essere data da metodi puramente esegetici o concettualistici di interpretazione.
Tutto ciò vale, naturalmente, "in linea di principio"; ci sono però diversi modi di esprimere l'argomentazione per principi, e per ciò è giunto il tempo di formulare - come è stato felicemente detto - una "dogmatica dei principi"[78], cioè un insieme di enunciati metodologici e teorico-generali atti a razionalizzare questo tipo di argomentazione. Svolgendo questo programma direi - in parte seguendo e in parte riassumendo, o integrando, le proposte di Giovanni D'Amico (che è l'autore da ultimo citato)[79] - che:
I) i principi giuridici sono norme giuridiche, in quanto contengono regole vincolanti di azione, destinate ai produttori di ulteriori regole; e sono norme di diritto positivo di grado superiore[80];
II) questo punto di partenza ha, come diretta conseguenza, l'invalidità della norma di rango inferiore che si ponga in collisione irrimediabile con un principio giuridico (e non si possa legittimare come deroga giustificata da un altro principio);
III) altra conseguenza (che dovrebbe essere) scontata è che i principi operano come ratio interpretativa delle norme di rango inferiore: l'interpretazione filocostituzionale (o filoeuropea) dev'essere sempre preferita, fino a quando non entri in conflitto insuperabile con il testo normativo; quando questo conflitto si verifichi, il giudice ha l'onere di sollevare la questione di legittimità costituzionale[81];
IV) ogni regola giuridica (i.e. ogni regola di soluzione di concreti conflitti di interessi) può essere ricondotta a un determinato principio; ciò vale anche quando, in relazione ad un determinato problema, si ritiene preferibile adottare una interpretazione strettamente letterale del disposto legislativo (p.e. di fronte ai tanti testi normativi che contengono elementi numerici): è implicito che, in tal caso, si ritiene di dover dare prevalenza - per ragioni di interesse generale - ad a un criterio di certezza rispetto ad una contrapposta esigenza di giustizia del caso concreto;
V) i principi si realizzano mediante regole di rango inferiore: essi sono norme rivolte ai produttori di norme di livello più basso tra i quali, secondo la dottrina più plausibile, si pongono anche gli autori di atti di autonomia privata[82];
VI) il ragionamento per principi richiede normalmente un'operazione di bilanciamento fra principi diversi, interferenti nelle medesime vicende umane, e - abbastanza spesso - anche una determinazione di diverso rango gerarchico fra principi dotati di diverso livello di generalità.
In conclusione, si può ben ammettere che i principi hanno uno statuto logico diverso rispetto alle norme regolative, in quanto si tratta di norme di secondo grado, che traducono giudizi di valore e vincolano l'attività normativa di organi di rango inferiore rispetto al legislatore costituzionale. Tuttavia, non si vedono valide ragioni per negare ai principi lo status di norme giuridiche. Credo che tale conclusione negativa derivi - quando enunciata - da un pregiudizio, cioè quello di considerare "vera" norma giuridica solo la norma di condotta rivolta all'individuo. È però noto che moltissime norme giuridiche servono solo a regolare la produzione di altre norme (norme di organizzazione): molte sotto il profilo procedurale (p.e. le norme parlamentari sull'approvazione delle leggi), altre sotto il profilo contenutistico. In quest'ultima prospettiva (e categoria logica) si pongono i principi giuridici.
A mio avviso, è anche logicamente possibile configurare, nelle disposizioni di principio, una "fattispecie" (p.e. la nozione di paesaggio dev'essere ricostruita mediante una certa descrizione di elementi fattuali e, sotto questo profilo, è stata oggetto di ricostruzioni diverse da parte degli interpreti), e una disciplina giuridica: solo che la modalità deontica non sarà quella della sanzione per violazione di una norma di condotta (che, come tale, non esiste), bensì quella della validità o meno della norma giuridica di rango inferiore che si ponga come attuazione del principio o lo contrasti. Quindi, neanche la diffusa opinione secondo cui i principi sarebbero enunciati normativi privi di fattispecie sembra accettabile.
In sostanza, non ci sono difficoltà di carattere logico e concettuale a considerare i principi giuridici come una particolare categoria di norme giuridiche, a meno che non si voglia ridurre, arcaicamente, la norma al "comando" rivolto da un'autorità ai destinatari ad essa soggetti. Se, invece, si intende modernamente per norma giuridica qualsiasi proposizione ipotetica che colleghi la presenza di determinati fatti ad un'attribuzione di rilevanza degli stessi da parte di un ordinamento dato, la negazione del carattere normativo dei principi non può ricondursi a ragioni di carattere logico e concettuale.
A fronte delle osservazioni sopra esposte, c'è da chiedersi per quali ragioni effettivamente continui ad essere presente un orientamento, oggi divenuto minoritario ma ancora autorevolmente sostenuto, che nega la qualificazione dei principi come norme giuridiche. Ciò è avvenuto, di recente, anche da parte di chi (Luzzati) correttamente definisce il principio come "meta-norma che serve da fondamento giustificativo (non di decisioni, bensì) di altre norme"[83]. In questa prospettiva, secondo l'a., il principio non sarebbe una norma, bensì una ragione argomentativa. Nello stesso senso, per rimanere ai contributi dottrinali più recenti, si è espresso Nicola Lipari[84], secondo cui "i principî non configurano all'origine un tipo di norme... (ma) un modo di argomentare", che consente ai giudici di farsi interpreti dei valori di giustizia condivisi dalla collettività e, in questo modo, di dare coerenza a un ordinamento che, altrimenti, sarebbe destinato "a disintegrarsi o in una conflittualità permanente o in un nichilismo fine a sé stesso"[85]. In questo modo i principi acquisterebbero una normatività ex post, come frutto della creatività giurisprudenziale.
Queste posizioni mettono in evidenza il vero significato del dibattito teorico-generale su principi e norme: la tesi che configura i principi come norme, pur aventi certe caratteristiche peculiari, impone poi di costruire i principi stessi nel rispetto del vincolo del diritto positivo (costituzionale ed europeo), pur con quegli spazi di discrezionalità interpretativa che rimangono connaturati all'attività della giurisprudenza; la tesi che nega la configurazione dei principi come norme tende invece a svincolare il ragionamento per principi dal vincolo di continuità con le fonti positive e a giustificare una diretta creatività giurisprudenziale. Quest'ultimo passaggio, tuttavia, è tutt'altro che scontato, perché anche nell'interpretazione delle disposizioni di principio e delle norme costituzionali in genere si può ragionare in termini di rispetto del vincolo del diritto positivo (v. infra).
La discussione teorica sulla distinzione fra principî e norme ci conduce quindi, in realtà, a quello che sarà il tema conclusivo di questa relazione, oltre che il tema centrale del dibattito attuale di "politica del diritto".
Tuttavia, prima di tornare su questo tema, vorrei completare il discorso analitico sul concetto di "clausola generale", una volta acquisito che, con questo termine, intendiamo una disposizione di legge contenente "concetti aperti" (o, se si preferisce, sintagmi valutativi a contenuto indeterminato), ma non qualificabile come disposizione di principio nel senso, sopra delineato, di norma sulla produzione di altre norme, di rango subordinato.
La discussione analitica sulle clausole generali ha espresso i suoi risultati più avanzati, nella dottrina italiana, con un libro recente di Vito Velluzzi[86], che definisce la clausola generale come sintagma di natura valutativa a contenuto indeterminato, il cui significato può essere ricostruito facendo ricorso a diversi parametri di giudizio, potenzialmente confliggenti.
Questa dottrina ha portato già, a mio avviso, ad un risultato apprezzabile, ma sollecita un maggiore sforzo di analisi sulla diversa struttura logica di diversi tipi di norme che contengono "sintagmi valutativi a contenuto indeterminato".
Non credo, infatti, che si acquisisca un guadagno teorico mediante un'analisi distinta dei sintagmi e degli enunciati normativi che comprendono tali sintagmi. Se si vuole costruire una teoria delle clausole generali atta a razionalizzare la comunicazione di idee fra giuristi, si deve tenere conto del fatto che, negli usi linguistici correnti, si usa il termine "clausole generali" sempre per qualificare una certa categoria di norme. In questa prospettiva, una proposta definitoria della clausola generale come norma caratterizzata dalla presenza di sintagmi valutativi a contenuto indeterminato mi sembra descrivere in modo appropriato l'uso linguistico corrente. Altre proposte definitorie, nella dottrina recente, finiscono per appesantire la definizione, diminuendone l'utilità, o per introdurre nella definizione concettuale un elemento (la concretizzazione della clausola generale mediante il ricorso a norme sociali e non giuridiche), che è invece problematico e contestato[87].
Per valutare pregi e limiti della definizione corrente deve muoversi - a mio avviso - da considerazioni più generali. Il punto di partenza dell'analisi dev'essere piuttosto il riconoscimento di due dati che potrebbero ritenersi acquisiti nella cultura giuridica contemporanea (anche se non possono dirsi oggetto di consenso unanime):
(i) la necessaria "apertura" del linguaggio normativo, per cui anche testi normativi estremamente dettagliati possono vedersi attribuiti significati differenti[88]; con la conseguenza che l'attività del giurista è sempre un'attività di attuazione e integrazione critica del diritto (e quindi, in senso lato, di "politica del diritto")[89];
(ii) il fatto che la risoluzione dei dubbi interpretativi passi, alla fine del ragionamento, da giudizi di valore, espressi o (più spesso) inespressi o anche inconsapevoli[90].
Se si accettano queste proposizioni, ne deriva che la clausola generale può essere concepita - peraltro, in coerenza con l'uso linguistico corrente - come una norma che rinvia alla formulazione di giudizi di valore già nell'espressione del testo normativo, mentre nelle norme "ordinarie" la fattispecie è enunciata in termini descrittivi (anche se poi il risultato interpretativo ricostruirà la fattispecie sempre mediante la mediazione logica di giudizi di valore)[91].
Se così è, la nozione di clausola generale finisce per rivelarsi come nozione descrittiva alquanto vaga e il problema metodologico posto da questa categoria di norme finisce per risolversi nel problema generale e antico della selezione dei giudizi di valore nell'interpretazione giuridica e dell'autonomia del giurista-interprete rispetto al legislatore. In questo senso hanno ragione coloro che ritengono che il tema delle clausole generali non si distingua, rispetto al tema generale dell'interpretazione delle norme giuridiche, se non per una questione di grado.
Prima di trattare la questione conclusiva, cioè quella dei criteri di attribuzione di significato alle clausole generali, mi sembra opportuno aprire una parentesi per riproporre una distinzione analitica all'interno della categoria delle clausole generali, pur caratterizzata dalla vaghezza di cui si è detto. Questa distinzione è stata già da me proposta, ma è stata finora quasi ignorata nella discussione in materia[92]. Ritenendo tuttavia che essa abbia qualche utilità - e non avendo letto confutazioni che dimostrino che la distinzione è logicamente errata o metodologicamente irrilevante - la ripropongo in questa sede.
A me sembra che la discussione consenta ormai di individuare diversi tipi di testi normativi che utilizzano sintagmi indeterminati. La prima categoria, di cui si è già parlato, è quella delle norme di principio. Nell'ambito della seconda categoria, riguardante le norme di legge contenenti "sintagmi valutativi a contenuto indeterminato" ma non elevabili, come tali, a principio giuridico, credo che sia opportuno distinguere due sottocategorie:
Molte norme a cui si attribuisce solitamente la qualificazione di clausole generali sono norme a fattispecie "aperta", ma non hanno una struttura logica peculiare.
Prendiamo, p.e., il divieto di abuso di posizione dominante dell'art. 102 T.F.U.E. Non c'è dubbio che il testo dell'art. 102 TFUE contenga un sintagma indeterminato, Ma non c'è neanche dubbio sul fatto che la norma goda oggi di un elevato grado di certezza applicativa e anche di "vitalità" (si pensi alle condanne-monstre inflitte di recente dalla Commissione UE a Google), derivante dall'intreccio fra i precedenti della Corte di Giustizia - fonte principale di integrazione del significato della norma - di orientamenti espressi dalla Commissione UE e di modesti contributi di contorno della dottrina. Per rimanere nell'esempio del caso Google, i provvedimenti della Commissione saranno oggetto di sindacato giurisdizionale da parte del Tribunale UE e, nel senso comune dei giuristi, si tratterà di un sindacato di legittimità pieno e non di una revisione del merito della decisione.
In tale contesto non c'è neanche dubbio che la norma sul divieto di abuso di posizione dominante continui ad essere intesa ed applicata come una norma avente una struttura logica standard, composta di una fattispecie (posizione dominante più abuso) e di una sanzione. Non c'è, su temi come questo, alcuna "crisi della fattispecie", solo che la fattispecie è stata costruita - e continua ad essere definita - mediante l'accumulo di precedenti giurisprudenziali, sostanzialmente condivisi dalla Commissione e dalla dottrina[93].
Per esempio, la norma sulle immissioni nei rapporti di vicinato dell'art. 844 c.c. contiene una delega al giudice di un compito di necessario bilanciamento fra interessi concreti in conflitto[94]. Lo stesso accade per diverse altre norme che prevedono un simile bilanciamento fra interessi concreti contrapposti, con conseguente emanazione di una sentenza costitutiva (p.e. determinazione dell'assegno di divorzio ex art. 5.6 l. 898/1970; ma anche la determinazione dei doveri di buona fede contrattuale ex artt. 1175 e 1375 c.c., o la definizione di conflitti fra diritti della personalità ed altri interessi giuridicamente protetti).
Qui c'è un quid pluris rispetto alle altre norme "ordinarie" a contenuto indeterminato. In tutte le norme "ordinarie" la giurisprudenza svolge storicamente un ruolo costitutivo del significato della norma (si tratti della posizione dominante di un'impresa o dell'onore e reputazione di un autore, o quant'altro). Ma, in ogni caso, lo statuto logico di questa operazione non è altro che quello della costruzione di una fattispecie in una norma a contenuto aperto. Una volta che questa operazione si sia storicamente compiuta, il giudice è chiamato a compiere, praticamente, una normale opera di sussunzione.
Negli altri casi, invece, il giudice è chiamato non ad operare una sussunzione di un caso concreto in una regola generale (in vario modo storicamente costruita), bensì a dettare la regola del caso concreto, operando un bilanciamento fra due interessi concreti in conflitto fra loro: il giudice opera, in qualche modo, come un legislatore del caso particolare e concreto. Perciò la sua decisione, propriamente discrezionale, dovrà essere, pertanto, adeguatamente motivata sul piano della valutazione comparativa degli interessi in gioco e sarà censurabile per violazione di legge, in Cassazione, quando questa valutazione comparativa risulti carente (probabilmente riemerge, per questo tipo di norme, il vizio di difetto di motivazione come motivo di ricorso per cassazione). Inoltre, le decisioni del giudice, in casi del genere, sono normalmente valide rebus sic stantibus e quindi soggette a riesame in caso di mutamento delle condizioni di fatto riguardanti le parti in conflitto.
A me sembra che l'individuazione di questa categoria di norme (che ho proposto di denominare come "clausole generali in senso stretto", ma quello terminologico è l'ultimo ei problemi) abbia una funzione analitica non banale, anche per distinguere i casi in cui il giudice deve esercitare un potere discrezionale ed effettuare un bilanciamento in concreto da quelli in cui il giudice deve invece applicare una norma generale a contenuto indeterminato, il cui significato dev'essere ricostruito secondo criteri di interesse generale, senza svolgere un bilanciamento di interessi contrapposti nel caso concreto.
Sottolineerei anche che, in certi casi, la scelta di inquadramento di una norma nell'una o nell'altra categoria rimane dubbia. Per esempio, nell'applicazione della norma sulla correttezza professionale in materia di concorrenza sleale (si pensi ad un caso critico, com'è quello dello storno di dipendenti), non si sarebbe dubitato, fino a qualche tempo fa, che la stessa comportasse l'esigenza di bilanciamento fra due interessi concreti (alla stessa stregua dei rapporti di vicinato); ma oggi una simile soluzione non è più affatto sicura, ed anzi può dirsi che prevale l'idea opposta, cioè che il giudice debba valutare la condotta contestata in giudizio alla luce di un modello generale e astratto di buon funzionamento del mercato e non sulla base del bilanciamento degli interessi concreti delle parti in conflitto[95].
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. In ogni caso, ricostruire una norma come norma a fattispecie "aperta" o come norma che attribuisce al giudice il potere discrezionale di dettare la regola del caso concreto porta a risultati applicativi differenti[96].
Comunque, resta fermo - a mio avviso - che esistono norme che richiedono al giudice di fare proprio questo tipo di bilanciamento e dettare dunque una regola del caso concreto.
Credo che molti equivoci, nella dottrina sulle clausole generali, derivino proprio dalla intuitiva identificazione della "clausola generale" con norme del tipo da ultimo descritto. Così, in particolare, la diffusa affermazione secondo cui le clausole generali sarebbero "norme senza fattispecie"[97] e avrebbero una struttura logica diversa dalle norme regolative ordinarie.
Tale affermazione, a mio avviso, non può essere accettata neanche per la sottocategoria di clausole generali che richiedono al giudice di fare un bilanciamento concreto fra interessi in conflitto. Anche in questo caso non può dirsi che la norma è priva di fattispecie: sul piano logico, la fattispecie è proprio costituita dagli interessi concreti in conflitto e la risposta dell'ordinamento è nell'attribuzione al giudice del potere di dettare la regola del caso concreto. Tuttavia, non c'è dubbio che questa risposta sia valida solo su un piano formale e che l'attribuzione al giudice di un potere discrezionale di valutazione comparativa di interessi contrapposti collochi l'applicazione della norma su un terreno diverso da quello della semplice sussunzione.
Anche qui, tuttavia, l'attribuzione di un potere discrezionale al giudice non significa necessariamente che vi sia stata una delega in bianco da parte del legislatore e l'attribuzione di un potere arbitrario al decisore: come nel diritto amministrativo, l'esercizio del potere discrezionale richiede una decisione motivata e la motivazione potrà/dovrà, a sua volta, far capo a principi giuridici.
Credo dunque, passando al punto finale della riflessione, cioè quello sui criteri di concretizzazione dei contenuti indeterminati dei testi normativi, che la presenza di una sottocategoria di clausole generali che richiedono al giudice di fare un bilanciamento concreto fra interessi in conflitto abbia favorito gli equivoci nella discussione in materia: il potere del giudice di farsi autore della regola del caso concreto, che è ineluttabile nei casi in cui il legislatore gli abbia dato delega a dirimere discrezionalmente un certo conflitto creando mediante il bilanciamento di interessi concreti, è stato sbrigativamente esteso - in molte discussioni correnti in materia di "clausole generali" - a tutti i casi in cui il giudice si trova a "maneggiare" principi e norme a contenuto indeterminato[98]. Da qui anche l'ulteriore, e diffusa, convinzione secondo cui, nelle clausole generali, il giudizio di valore da compiere sarebbe interamente delegato al giudice, senza alcuna previa indicazione da parte del legislatore[99].
È questo il punto di caduta dei ragionamenti per cui i principi - o, rispettivamente, le clausole generali - "non sono norme" o "sono norme senza fattispecie". In questo senso, i ragionamenti che si è cercato di svolgere, cercando di riportare principi e clausole generali il più possibile all'interno della teoria generale della norma giuridica, consentono di prendere le distanze dall'idea che esista un connotato ontologico di principi e clausole generali, che imponga di riconoscere in queste norme una apertura totale alla creatività giurisprudenziale.
Su un piano teorico si può invece certamente sostenere che il problema dell'attribuzione di significato ai sintagmi indeterminati contenuti in testi normativi debba essere risolto, in ogni caso - o almeno in tutti i casi in cui ciò sia possibile - mediante criteri di autointegrazione, cioè facendo capo a principi che trovino un riconoscimento positivo nelle fonti formali dell'ordinamento (le quali, a loro volta, possono fare riferimento a dati conoscitivi tratti da scienze, tecniche o perfino ideologie: ma ciò non significa "delega in bianco" al giudice)[100]. Ciò del resto è confermato dall'affermazione, oggi indiscussa, della possibilità di un sindacato di legittimità sull'applicazione delle clausole generali da parte del giudice[101].
Il percorso da seguire non è, tuttavia, semplice e lineare: la tesi dell'autointegrazione si scontra facilmente con l'obiezione secondo cui vincolare una norma a contenuto indeterminato (la clausola generale) ad un'altra, a contenuto altrettanto indeterminato, non costituisce una soddisfacente soluzione del problema metodologico[102].
In realtà, il problema del ricorso alla "eterointegrazione" si pone anche se principi e clausole generali sono qualificati in termini teorico-generali (come, a mio avviso, dev'essere) come norme giuridiche; e pur se si vuole seguire, anche nei confronti di queste categorie di norme, un approccio giuspositivistico.
Infatti, per le disposizioni di principio si pone tutta la problematica dell'interpretazione costituzionale e, con essa, dell'apertura, più o meno ampia a seconda delle diverse concezioni ma comunque inevitabile, a idee e concezioni provenienti dal contesto socioculturale esterno[103]; per le norme di legge a contenuto indeterminato, può predicarsi l'autointegrazione delle clausole generali mediante il richiamo ai principi generali (dottrina "positivistica moderata", secondo una nota classificazione[104], a cui anche chi scrive ha aderito), ma il rinvio ai principî comporta anche qui, per la proprietà transitiva, l'impiego di idee e concezioni provenienti dal mondo socioculturale esterno.
Il punto vero è però che il tema dell'apertura del processo interpretativo ai dati della cultura generale e alla realtà sociale, nonché all'impiego di giudizi di valore, si pone per tutte le norme giuridiche: non solo per quelle a contenuto indeterminato, ma anche per quelle di dettaglio; e allo stesso modo si pone per le disposizioni di principio. Naturalmente il grado e il peso dell'apertura variano con il variare del contenuto del testo normativo.
Questa apertura verso la realtà socioeconomica e culturale era negata nel giuspositivismo legalistico del passato. Ma si tratta di un atteggiamento superato: il riconoscimento di un ineliminabile apporto creativo nell'attività giurisprudenziale è generale, sicché è inutile attardarsi, oggi, nelle critiche ad un giuspositivismo legalistico puro, che nessuno difende come tale.
Bisogna invece fare i conti con versioni critiche del giuspositivismo, che riconoscono che, nell'interpretazione giuridica, non si può fare a meno di giudizi di valore, che a loro volta possono essere tratti solo da un dialogo costante della giurisprudenza con le conoscenze tecnico-scientifiche e con le ideologie presenti nella società[105]. Il punto, già fermato mezzo secolo fa da Bobbio e Scarpelli[106], è che il giuspositivismo dev'essere valutato (apprezzato o rifiutato) come ideologia giuridica, e non come una teoria descrittiva del diritto. In questa prospettiva il riconoscimento dell'esistenza di spazi di creatività giurisprudenziale non impedisce poi di affermare che la stessa debba essere temperata dal limite deontologico della fedeltà ai valori (storicamente fondati) di un ordinamento istituzionale dato (e accettato) e dal vincolo metodologico della continuità (coerenza) logico-semantica con i testi normativi formalmente accreditati come fonti[107].
Questo vincolo, deontologico e metodologico, può porsi anche per l'interpretazione delle clausole generali: è possibile che anche la c.d. concretizzazione delle norme indeterminate sia fatta sulla base del principio di fedeltà ai valori dell'ordinamento e della continuità logico-semantica con le disposizioni di principio (anche se il limite della continuità, in questo caso, ovviamente si affievolisce, ma non scompare del tutto).
In altri termini: l'idea che la norma a "contenuto indeterminato" comporti necessariamente una delega in bianco a valori sociali esterni alla volontà del legislatore non è fondata su argomenti stringenti; essa anzi ci riporta ad un tempo storico precedente all'affermazione degli attuali ordinamenti a base costituzionale rigida e quindi precedente all'idea che valori etici e politici potessero essere "normativizzati" in disposizioni di principio vincolanti per l'interprete, in sede di valutazione di legittimità e di interpretazione delle norme di rango inferiore.
In sostanza, l'estenuante discussione su principi e clausole generali non è che uno dei capitoli del dibattito più generale sulla crisi del giuspositivismo; ciò è evidente quando il dibattito si svolge sul terreno propriamente metodologico o su quello della tecnica legislativa. Il dibattito diviene invece meno proficuo quando traduce (e in parte oscura) opzioni ideologiche di fondo sull'attività dei giuristi, presentandole come problemi di definizione di concetti di teoria generale del diritto ("che cosa è" una clausola generale, etc.).
Credo allora che alcune riflessioni conclusive possano essere dedicate a questo tema metodologico generale.
Per valutare bene questo fenomeno si deve sempre ricordare che il giuspositivismo si è affermato, a suo tempo, come parte integrante dell'ideale politico dello Stato di diritto; questo, a sua volta, si pone come finalità ideale quella di un contenimento e di una controllabilità degli atti di esercizio del potere, all'interno di un ordine politico costituito. Proprio al fine del controllo del potere, questa visione dell'ordine politico richiede anche che vi sia una divisione fra chi ha il potere di decisione finale (il legislatore), chi è chiamato a curare day-to-day gli interessi dei cittadini (l'esecutivo-amministrativo) e chi è chiamato a dirimere i conflitti in base a regole pre-determinate dal potere legislativo (il giudice).
È impossibile negare che questa visione dell'ordine politico sia oggi in crisi, in termini di cultura politica e in termini di cultura giuridica.
Sul primo terreno (quello della cultura politica) la crisi si manifesta con l'affermazione delle idee "populiste", che attribuiscono ai governanti il ruolo di soli interpreti moralmente autorizzati della volontà popolare[108], riducendo a funzioni ausiliarie il parlamento e la magistratura (e, comunque, tendenzialmente considerando superato il principio di divisione dei poteri).
Sul secondo terreno (quello della cultura giudica) la crisi si manifesta, oggi, con una diffusa esaltazione della funzione giurisprudenziale e della capacità della giurisprudenza di creare nuovo diritto e di realizzare un diritto giusto[109].
Il fenomeno non è solo italiano. Anche in Germania si è denunziato il passaggio dal Rechtsstaat al Richterstaat[110]. Credo però che, in Italia, il fenomeno sia cresciuto più che altrove, negli ultimi anni. I "profeti" di questo orientamento di pensiero sono stati, in Italia, Paolo Grossi e Nicola Lipari[111]. Ma ormai si è formato una sorta di senso comune, che porta a leggere non di rado affermazioni come queste: "I Giudici comuni (...) non solo creano un vero e proprio diritto giudiziario, che è diritto vivente che può discostarsi - e spesso si discosta - dal dato letterale della norma legislativa, ma si rivelano più adatti, rispetto al legislatore, ad adeguare il diritto ai mutamenti della realtà. Si può ribadire che nell'epoca presente l'antico primato della legislatio cede il posto, in civil law come in common law, al primato della iurisdictio. Il legislatore nazionale non può vincolare il Giudice, il quale, pur essendo formalmente soggetto soltanto alla legge, come chiaramente enuncia l'art. 101, comma 2, Cost., ben potrebbe, sostanzialmente, alla luce dell'art. 117, comma 1, Cost., disapplicare la stessa legge statale in contrasto con il diritto dell'Unione Europea o della CEDU, ovvero modificarla attraverso il meccanismo dell'interpretazione conforme alla Costituzione, all'UE, alla CEDU e, più in generale, al diritto vivente che deve considerarsi incluso nel principio di legalità. Oggi si dovrebbe dire che il Giudice è soggetto al diritto vivente, nazionale e sovranazionale, e non già solo alla legge formale dello Stato"[112].
Questa linea di pensiero è fatta espressamente propria anche da esponenti della magistratura[113], nonché è emersa in alcune pronunce della stessa Suprema Corte, che hanno parlato di giurisprudenza come fonte del diritto[114].
Si può osservare che gran parte delle professioni di fede antipositivistica dei giuristi di oggi sono fondate su ragioni che appaiono viziate da "fallacia naturalistica"; cioè: la produzione legislativa è in crisi, divisa fra microregole clientelari e norme-manifesto di incerto contenuto[115], il peso storico-sociale delle decisioni giudiziarie, nell'evoluzione del diritto, aumenta, quindi il giuspositivismo è sbagliato e dev'essere abbandonato[116].
Su un piano teorico, l'argomento principale a sostegno diventa quello della inevitabile apertura del linguaggio normativo, che viene però tradotto (arbitrariamente, come si è detto) nell'affermazione del superamento di qualsiasi vincolo testuale[117].
Contro questo orientamento si manifestano anche forti critiche, fondate su argomenti diversi (anche se talora intrecciati, nel pensiero di uno stesso autore):
I) alcuni argomenti si muovono proprio sul terreno del diritto positivo (testi costituzionali, ma anche pronunce della Corte di Giustizia)[118];
II) una seconda critica si muove sul terreno classico della difesa della certezza del diritto e stigmatizza il passaggio, nella cultura giuridica, da un indiscusso normativismo a uno strisciante decisionismo[119];
III) una terza critica contesta, sul piano politico-costituzionale, l'accettazione dell'idea secondo cui il potere di decisione ultima, in un ordinamento democratico, possa essere attribuito ad un corpo privo di investitura democratica, qual è la Magistratura, anziché al Parlamento (e quindi alla legislazione).
In ordine a queste critiche si può dire che gli argomenti sub I) sono forti e dirimenti, ma solo per chi si ponga all'interno di un certo ordinamento con un atteggiamento giuspositivistico. Divengono insufficienti a fronte dell'argomento populistico che vede nei giudici (o, come variante, nella "comunità interpretante") i soli interpreti accreditati del Volksgeist ed è insofferente al vincolo del testo. Il contrasto verso una visione del genere può muoversi soltanto sul piano dei giudizi di valore (o, se si vuole, sul terreno filosofico-politico) e non nella prospettiva "interna" del diritto positivo.
Gli argomenti sub II) presentano anch'essi, a mio avviso, una debolezza di fondo: sul piano della certezza del diritto, un ordinamento consuetudinario su base giurisprudenziale è in grado di raggiungere un livello di certezza forse più elevato di un ordinamento a base legale (soprattutto a confronto di esperienze in cui la legislazione è itinerante e caotica). Molte voci esprimono anzi una preferenza - anche sul piano della prevedibilità delle decisioni - di un diritto fondato sul vincolo del precedente rispetto al diritto fondato sul rispetto di testi normativi[120].
Non solo, ma l'affermazione attuale del diritto giurisprudenziale non si presenta tanto come un'affermazione a favore del decisionismo casistico contro il normativismo, cioè come affermazione di una visione del diritto che esalta il primato della decisione caso per caso. Piuttosto, l'idea è quella di una giurisprudenza che sarebbe in grado di creare norme vere e proprie, migliori di quelle che il potere legislativo correntemente esprime, e destinate ad essere applicate in futuro.
A questa visione potrebbe già obiettarsi che la giurisprudenza affronta i problemi sociali soltanto nel prisma della lite, che è una parte importante della realtà, ma fornisce anche una visione parziale (e talora distorta) dei fenomeni sociali in cui le liti nascono. Per di più, la formazione consuetudinaria del diritto lascia campo aperto anche alla formazione di norme ingiuste, che meritano di essere riformate; ma, perché ciò avvenga, la proposta storicamente vincente è stata quella di attribuire il potere di decisione finale ad un organo politicamente legittimato qual è il Parlamento.
In tal modo, la discussione si sposta sul terreno della critica sopra esposta sub III), che è quella più importante e che è stata riproposta, con passione ideale, da diversi interventi recenti, a cominciare da quelli di Luigi Ferrajoli[121]. Anche qualche magistrato si è coraggiosamente pronunciato nello stesso senso[122].
Queste critiche mi trovano consenziente, ma credo che sia necessario riflettere ulteriormente sulle ragioni politiche e teoriche che stanno dietro l'idea del primato della giurisprudenza e sulle opposte ragioni che impediscono la condivisione di questa idea.
Il primo punto riguarda il discredito del potere legislativo, cioè del Parlamento. Tale discredito è certo giustificato. Il punto è, però, che di fronte a un potere parlamentare screditato, è vano pensare che la supplenza, come decisore politico di ultima istanza, possa essere assunta da un corpo di (migliaia di) magistrati indipendenti. È ovvio che il primato politico, in situazioni del genere, sia assunto piuttosto da un potere di governo molto accentrato (gli esempi storici, anche attuali, abbondano), con un parallelo indebolimento e delle funzioni del Parlamento e di quelle della Magistratura. Il ruolo dei giudici non può essere svolto in modo degno se non nell'ambito di un ordine politico-istituzionale stabile[123]; e i giudici possono essere indipendenti solo se è rispettato il principio di divisione dei poteri e chi governa non è decisore di ultima istanza. Quindi, chi auspica l'azione di una magistratura indipendente e prestigiosa, dovrebbe avere ugualmente a cuore il recupero di indipendenza e di prestigio del potere legislativo[124]. Certo, ci vuole ottimismo della volontà per contrastare l'attuale crisi della democrazia, ma mi sembra dissennata l'idea di contrastare questa crisi per via giudiziaria.
Il secondo punto critico riguarda il riconoscimento della necessaria apertura del linguaggio normativo e il problema della "continuità" fra decisioni e testi normativi. Si è già detto che questo problema si pone - con diverse gradazioni - per tutti i testi normativi, dai più alti principi costituzionali alle più minute norme regolamentari. E si è anche detto che, per alcuni critici, il riconoscimento di questa apertura linguistica è sufficiente a confutare qualsiasi tesi giuspositivistica.
A questo argomento non si può opporre una replica valida sul piano logico (è anche dubbio che sia valida la replica, comunque parziale, che, nei testi normativi distingue un nucleo di certezza da una zona di "penombra"[125]). La sola replica possibile non è logica, bensì storico-sociologica: occorre che l'attribuzione di significato a un certo testo normativo sia condivisibile, e poi condivisa, in un contesto culturale di riferimento. Ciò è cosa diversa dal predicare una costruzione del diritto svincolata dalla coerenza ai testi normativi. Ma, in un clima culturale "postmoderno" e di inclinazioni verso il "pensiero debole", questo sforzo di ricerca condivisa di significati può concretamente mancare, così indebolendo l'intero ruolo della giurisprudenza, pratica e teorica[126].
Qui si deve ricordare che il tema della disgregazione interna dell'ordine giuridico, di fronte al moltiplicarsi delle norme e dei poteri, non si pone solo oggi. Al fine di costruire la coerenza interna di un ordinamento, la risposta "classica" della teoria generale del diritto è stata nel senso che la coerenza complessiva delle interpretazioni può essere data solo dalla dottrina giuridica, nella sua attività di "costruzione collettiva mai conclusa" dell'ordine giuridico[127]. In questa prospettiva possono leggersi trasversalmente posizioni teoriche molto diverse (da Atias a Monateri, per esempio; ma anche gli stessi Grossi e Lipari).
Il compito della dottrina può, a sua volta, leggersi in modi diversi: quello più antico vede la dottrina giuridica come depositaria di un sapere scientifico, cioè della conoscenza del diritto mediante concetti descrittivi di una base ontologica del diritto stesso; quello giuspositivistico vede il giurista come appartenente ad una istituzione determinata (e accettata) e interprete coerente, nelle sue argomentazioni interpretative, delle scelte politiche che, all'interno di questa, sono state fatte dalle istanze a ciò dedicate. Ambedue le versioni "alte" della dottrina giuridica sembrano, in effetti, ben distanti dalla prassi del nostro tempo. La dottrina giuridica è oggi frammentata e poco autorevole, oltre che incline a prediligere un approccio "esterno" allo studio dei fenomeni giuridici e ad assecondare il decisionismo giurisprudenziale.
Il recupero di un'attività dottrinale "alta", con ambizioni elevate soprattutto nella costruzione di significati precisi e razionalmente verificabili ai diversi principi (e ai diversi "sintagmi valutativi a contenuto indeterminato") si pone quindi come un obiettivo prioritario.
Per chi auspichi una evoluzione dell'attuale esperienza diversa dall'esaltazione della creatività della giurisprudenza, l'ottimismo della volontà deve dunque spingersi non solo ad auspicare un recupero delle istituzioni della democrazia e di un potere legislativo autorevole, ma anche (come parte integrante di un ordine politico democratico) un recupero di una dottrina giuridica più omogenea e più costruttiva. Una dottrina che indulga meno a riflessioni teoriche su principi e clausole generali e che si impegni soprattutto nel discutere razionalmente sull'attribuzione di significato ai diversi principi e alle diverse clausole generali. Per fare ciò non si può attingere ad una mitica coscienza sociale, ma si deve affrontare una discussione razionale sui valori e sul contenuto dei principi in cui essi si traducono giuridicamente.
Da questo punto di vista gli spazi per contributi dottrinali, anche nel campo del diritto commerciale, sarebbero ancora amplissimi, perché la discussione sul significato dei principi è di solito carente o è svolta in modo rudimentale[128].
Se la dottrina giuridica si dedicasse meno a studi autoreferenziali sulla nozione di principio generale o di clausola generale, e di più alla discussione razionale sul significato di singoli principi e clausole, questo sarebbe il segno che si è avviata una tendenza positiva, anche nel senso del rafforzamento dell'ordinamento nel suo complesso: la presenza di clausole generali non sarebbe più vista come segno di arretramento del potere politico[129], ma come espressione di una sinergia fra potere politico e giurisprudenza (intesa in senso lato) nella costruzione di un ordine giuridico condiviso, che vede pur sempre il potere legislativo come decisore di ultima istanza. È quanto, con tenace speranza, si può continuare ad auspicare e ad attendere.
* Questo scritto è destinato alla raccolta di studi in onore di Roberto Pardolesi.
** Professore emerito, Sapienza Università di Roma, indirizzo e-mail mlibertini@liblex.it.
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