L'articolo esamina le indicazioni ricavabili dall'esperienza degli Stati Uniti in merito a crescita del ruolo dei consulenti di voto, aspetti critici di tale attività, sua disciplina ed eventuale riforma. L'analisi mira a individuare possibili indicazioni per valutare la proposta dell'Unione Europea di modifica della direttiva sui diritti degli azionisti, che introdurrebbe una parziale regolamentazione dell'attività dei consulenti di voto. Sulla base di tale analisi, si propone una revisione critica dell'individuazione degli interessi che si vorrebbe tutelati con un intervento normativo sul tema e una riconsiderazione del ruolo degli investitori istituzionali, in funzione della correttezza del loro operato ed in particolare dell'esercizio del diritto di voto da parte del gestore.
The paper examines the increasing role of proxy advisors in the United States, the issues raised by their activity, the current regime and its possible reform. The analysis aims to assess the European Union proposal to amend the Shareholders' Rights Directive, which would introduce a partial regulation of the proxy advisors. The paper offers a critical review of the interests to be protected by a regulatory approach of proxy advisors as well as a reconsideration of the role of institutional investors, focused on their due diligence, with special reference to the exercise of voting rights by their managers.
KEYWORDS: proxy advisors – United States – proposal to amend the Shareholder Rights Directive – exercise of voting rights
CONTENUTI CORRELATI: consulenti di voto - Stati Uniti - proposta di modifica della Direttiva azionisti - esercizio del diritto di voto
1. La proposta europea sui consulenti di voto - 2. Il ruolo dei consulenti di voto nel mercato statunitense - 3. La natura oligopolistica dell’offerta - 4. La crescita dell’industria della consulenza di voto. I fattori di mercato - 5. (segue) I fattori normativi - 6. I limiti dell’attuale inquadramento normativo dei proxy advisors negli Stati Uniti. - 7. La querelle sull’effettiva influenza dei proxy advisors. - 8. Le iniziative statunitensi di (eventuale) riforma dei proxy advisors. - 9. Le possibili indicazioni per il diritto europeo in tema di consulenti di voto: l’incerta individuazione de-gli interessi tutelati. - 10. (segue): Il ruolo del consulente di voto e la diligenza del gestore. - NOTE
L'Unione Europea propone[1] di introdurre nella c.d. Direttiva azionisti[2] una parziale disciplina per i consulenti di voto (o proxy advisors) [3], ossia, secondo la definizione offerta dalle modifiche in discussione, le «persone giuridiche, che a titolo professionale, forniscono raccomandazioni agli azionisti riguardanti l'esercizio dei loro diritti di voto»[4].
L'intervento è articolato in norme di organizzazione dell'attività, norme di trasparenza, codice di condotta, senza creare una nuova attività riservata, né ricondurre la consulenza di voto ad attività riservate esistenti, come la consulenza in materia di investimenti.
A seguito del Libro Verde sul governo societario del 2011[5] e di una serie di iniziative lanciate dall'ESMA tra il 2011 e il 2013[6], che hanno sollevato l'attenzione sui consulenti di voto, questi ultimi avevano già adottato un codice di condotta, elaborato nel marzo 2014[7] da esponenti del mondo accademico e del mercato, sulla base di linee guida predisposte dall'ESMA[8]. L'Unione Europea rafforzerebbe il valore disoft law di tale testo, o dei successivi che dovessero venire adottati e applicati, mediante la previsione legislativa, e non solo autoregolamentare, del meccanismo c.d.comply-or-explain (art. 3-decies, comma 1-bis, testo 8 luglio 2015).
In punto di organizzazione dell'attività, l'Unione Europea intenderebbe prescrivere ai consulenti di voto misure volte a garantire, per quanto possibile, che «le ricerche e le raccomandazioni fornite siano accurate ed affidabili e basate su un'analisi approfondita» di tutte le informazioni disponibili, nonché «elaborate nell'esclusivo interesse dei propri clienti» (art. 3-decies, 1° comma, testo 8 luglio 2015).
Quanto alla trasparenza, i consulenti di voto dovrebbero pubblicare annualmente, e conservare gratuitamente a disposizione del pubblico per i tre anni successivi, informazioni in sintesi relative a: modalità di formulazione delle raccomandazioni di voto (fonti di informazione utilizzate; rilievo assegnato alle condizioni di mercato e dell'emittente; modelli applicati; eventuale dialogo con le società oggetto di analisi); politiche di voto praticate per ciascun mercato; dimensione dell'attività (sia per risorse impiegate, sia per raccomandazioni annualmente fornite); politiche di prevenzione e gestione di potenziali conflitti di interesse (art. 3-decies, 2° comma, testo 8 luglio 2015).
Con tali disposizioni, se confermate, l'Unione Europea sarebbe la prima istituzione in Europa a disciplinare specificamente i consulenti di voto, che sono al più oggetto di previsioni non imperative in alcuni Stati membri[9].
Negli Stati Uniti, invece, la figura dei consulenti di voto non è del tutto priva di un inquadramento normativo, ma i tentativi di disciplinarla specificamente sono rimasti parziali, per motivi forse solo in parte contingenti. Alcune indicazioni dagli Stati Uniti sulle ragioni della crescita del ruolo dei consulenti di voto, sugli aspetti critici di tale attività, sulla sua disciplina ed eventuale riforma appaiono utili per valutare la proposta dell'Unione Europea.
La figura del proxy advisor che, su abbonamento, esamina le proposte di deliberazione assembleari e suggerisce come votare ai soci di una società, non è recente nel mercato statunitense. Il consulente di voto più significativo per quota di mercato, noto con l'acronimo ISS (Institutional Shareholder Services), è attivo già dalla metà degli anni Ottanta del Novecento[9]. È tuttavia all'inizio degli anni 2000 che, per le ragioni esposte innanzi (§§ 4-5), il ruolo dei consulenti di voto si è consolidato negli Stati Uniti, tanto da far scrivere alla stampa economica di «racket dei consulenti di voto»[10]. Il mondo accademico si è diviso fra sostenitori dell'effetto benefico di tali protagonisti[11], detrattori più severi[12], alla stregua di quanto avvenuto con le agenzie di rating[13], e osservatori più pacati. Questi ultimi, restii a riconoscere l'avvento di un nuovo 'uomo nero' del mercato finanziario, riconducono anche il servizio della consulenza di voto ai meccanismi, premiali o disciplinari, del mercato[14] o, almeno, ne sconsigliano la regolamentazione espressa[15].
La categoria dei consulenti di voto negli Stati Uniti conta meno di una decina di operatori[17]. Due di questi (il già ricordato ISS, nel Maryland[18], e il più recente californiano[19] Glass Lewis & Co.[20]), attivi anche in Europa tramite società controllate[21], detengono ben più della maggioranza del mercato[22], costituito, dal lato della domanda, prevalentemente da investitori istituzionali[23]. Per tali si intendono (e il punto è rilevante anche ai fini delle proposte di modifica della Direttiva azionisti) soprattutto fondi pensione, fondi comuni di investimento, compagnie di assicurazione, fondi di contribuzione aziendale a favore dei dipendenti. La clientela annovererebbe anche consulenti di investimento e banche attive nella gestione ditrust.
È quindi un'offerta oligopolistica, se non un duopolio, e non solo per il ristretto numero di operatori. L'attività di esame e analisi delle proposte di deliberazioni assembleari di un numero sufficiente di società da soddisfare la richiesta della clientela istituzionale, con portafogli azionari per natura diversificati, richiede investimenti di studio e ricerca che possono costituire barriere all'entrata e generare anche "effetti di rete" così da rendere ancor più difficoltoso l'ingresso di nuovi concorrenti[24]. La limitata concorrenza tra consulenti di voto è una delle ragioni per cui parte della dottrina[25] ne auspica la regolamentazione.
Le ragioni del diffondersi della consulenza al voto consistono in fattori di mercato, ma anche di natura regolamentare, ulteriormente stimolati dall'orientamento favorevole all'attivismo degli azionisti[26].
La diffusione del servizio di consulenza al voto coincide con il rafforzarsi dell'attività degli investitori istituzionali[27]. Questi detengono portafogli di partecipazioni in numerose società e difficilmente sono in grado, se non a costi superiori ai benefici in rapporto alla percentuale di azioni detenute, di assumere in proprio decisioni di voto consapevoli e ponderate, con riguardo a un ampio numero di assemblee delle partecipate[28]. Di qui l'economia per tali investitori di affidarsi a un consulente per servizi che vanno dall'analisi degli argomenti all'ordine del giorno delle assemblee allo scrutinio delle proposte di deliberazione presentate, al suggerimento sulla posizione di voto (almeno in ipotesi) più conveniente per il cliente, fino (in taluni casi minoritari[29]) alla cura degli adempimenti preliminari alle operazioni di voto e, eventualmente, all'esercizio del voto per delega[30].
La tipologia di servizi offerti individua anche gli estremi della possibile qualificazione normativa del consulente di voto nel contesto statunitense: da un lato, l'eventuale qualità di consulente di investimento, ai sensi delle norme federali dell'Investment Adviser Actdel 1940; dall'altro lato, l'eventuale applicazione della regolamentazione federale in tema di proxy solicitation[31]. Peraltro, come si illustrerà appresso (§ 6), sono pochi i consulenti di voto che rientrano nell'applicazione piena dell'uno o dell'altro regime.
Oltre ai fattori di mercato il ruolo crescente dei consulenti di voto è attribuito ad alcune disposizioni in tema di diritto del mercato finanziario e di diritto societario[32].
Sono chiamati in causa[33] due interventi normativi della SEC del 2003, volti ad aumentare la trasparenza nell'esercizio del diritto di voto da parte dei fondi comuni di investimento[34], sulla scorta di una normativa precedente in tema di fondi pensione[35], nonché da parte degli intermediari, delegati al voto dalla clientela, a propria volta istituzionale o meno. La conseguenza di tali interventi, secondo alcuni[36] indesiderata e non adeguatamente considerata, è stata l'espansione delle attività di consulenza di voto.
Con riguardo ai fondi comuni, la SEC ha imposto alle società di gestione dei fondi (management investment company) di pubblicare entro il 31 agosto di ogni anno una relazione sull'esercizio del voto nei dodici mesi precedenti (fino al 30 giugno)[37].
Inoltre, nella documentazione periodica fornita[38] dai fondi la SEC prescrive la descrizione delle politiche e delle procedure predisposte dal fondo per decidere come votare con i propri strumenti finanziari, con particolare attenzione alle cautele per gestire eventuali conflitti di interesse. Il fondo deve altresì precisare se si avvale di un investment adviser o di una parte terza per stabilire come votare[39] e deve informare della possibilità di ottenere la documentazione relativa all'avvenuto esercizio del diritto di voto nell'ultimo anno senza costi, tra l'altro sul sitointernet del fondo e della SEC.
Con riguardo all'esercizio del voto per delega da parte di un intermediario[40] la SEC ha precisato[41] che i consulenti di investimento (investment advisers), delegati al voto dai loro clienti, sono autorizzati a esercitare tale potere solo se dotati di politiche e procedure scritte (descritte al cliente e su richiesta fornite in copia), che precisino come sono gestiti eventuali conflitti di interesse e assicurino che il voto sia espresso nel miglior interesse del cliente. Inoltre, il cliente deve essere reso edotto su come ottenere informazioni con riguardo all'esercizio del voto rispetto ai propri strumenti finanziari[42]. In assenza di tali adempimenti organizzativi e informativi, l'esercizio del voto delegato da parte dell'intermediario costituisce una pratica fraudolenta, sviante o manipolatoria vietata[43].
Tali interventi promuovono il ricorso ai consulenti di voto per predisporre le politiche e le procedure di voto richieste dalla legge. Ma l'impatto è stato ulteriormente amplificato, perché è prevalsa l'interpretazione secondo cui sussisterebbe, anche alla luce delle norme richiamate, un obbligo da parte dei gestori di votare con le azioni del fondo[44]. Solo di recente la SEC ha precisato che gli intermediari finanziari non sono sempre obbligati a votare su ogni questione[45].
Un impulso ancor più significativo al ruolo deiproxy advisorsè scaturito dall'interpretazione di tali disposizioni data dalla SEC. Essa ha finito per rendere il ricorso al consulente di voto un criterio di deresponsabilizzazione del gestore del fondo o dell'intermediario delegato al voto.
La Commissione ha affermato che per dimostrare di avere accuratamente gestito eventuali conflitti di interesse nell'esercizio del voto l'intermediario può dare prova di avere seguito un meccanismo "informazione-consenso" del cliente, ovvero di aver adottato politiche di voto che lascino ben poca discrezionalità al delegato, o, ancora, di aver seguito «una politica di voto predeterminata, per la cui formulazione si è avvalso delle raccomandazioni di una terza parte indipendente»[46]. In altri termini, l'investment adviser che si affidi a un consulente di voto per stabilire come votare per conto dei clienti si libera dal rischio che gli venga contestato un esercizio del voto in conflitto di interesse.
Il ricorso al consulente di voto come prova liberatoria da eventuali conflitti di interesse nel voto dell'intermediario è stato ancor più esplicitamente dichiarato dalla SEC in due pareri rilasciati nel 2004 a due consulenti di voto[47]. La SEC ha affermato espressamente che la raccomandazione di voto di un terzo soggetto (diverso dal delegante e dal delegato), purché indipendente, «può depurare il voto dal conflitto di interesse» del delegato[48]. A ben vedere, l'obbligazione dell'investment adviser nei confronti del cliente, che la Corte Suprema ha qualificato di natura fiduciaria[49], passa dal dover votare (in proprio o per delega) in assenza di conflitti di interesse al dover accertare che il consulente di voto sia indipendente. Così, in una sorta di rincorsa all'adozione di appropriate misure organizzative, l'intermediario deve dotarsi di politiche e procedure di voto nell'interesse del cliente scevre da conflitti di interesse. Per farlo può rivolgersi a un consulente di voto, a condizione però che si doti di procedure per verificare l'assenza di conflitti di interesse in capo a tale consulente.
Un altro impulso regolamentare è la modifica delle disposizioni del NYSE[50] (approvata nel 2009 dalla SEC ed efficace dal 2010[51]), per effetto del quale la nomina degli amministratori, in assenza di candidati avversari degli amministratori uscenti (c.d. uncontested elections), è divenuta una materia «non di routine». Poiché sulle materie non di routine i broker (membri del NYSE[52]) non possono esercitare il voto per delega con le azioni dei propri clienti senza specifiche istruzioni di voto, è fisiologico attendersi che il bacino di consensi per la conferma degli amministratori uscenti non sia più costituito in percentuale significativa dai broker. Ne deriva un aumento del peso relativo del voto degli investitori istituzionali, che più si rivolgono ai consulenti di voto, la cui influenza viene quindi rafforzata[53].
Sul fronte del diritto societario l'impulso al ruolo dei consulenti di voto appare invece una conseguenza della sollecitazione all'attivismo degli azionisti: più gli azionisti sono chiamati a votare, più i consulenti di voto hanno campo per offrire i propri servizi e esercitare la propria influenza.
L'esempio più significativo[54] è l'introduzione del voto consultivo in tema di politiche di remunerazione degli amministratori richiesto, di solito annualmente[55], all'assemblea delle società quotate che superino determinate soglie di flottante (il c.d. say-on-pay introdotto dal Dodd Frank Act[56]). Il say-on-pay costituisce una materia di rilievo rispetto alle quale gli investitori istituzionali sono chiamati a prendere posizione e conseguentemente i proxy advisors a fornire la propria consulenza, peraltro in tali casi particolarmente necessaria considerato il complesso contenuto tecnico dei piani di remunerazione[57].
Un diverso stimolo al ricorso ai consulenti di voto viene dal recente abbandono del sistema di nomina degli amministratori di tipo 'pluralistico' (c.d. plurality vote) - che nel Delaware[58] e nel Model Business Corporation Act[59] è ancora la regola di applicazione automatica - a favore di un sistema di nomina schiettamente maggioritario (c.d. majority vote)[60]. Nel primo caso, un candidato può essere nominato amministratore anche con un solo voto a favore, mentre astensioni e voti contrari sono insignificanti. Con il sistema maggioritario, invece, l'amministratore viene eletto solo se ha ottenuto il voto favorevole della maggioranza delle azioni presenti o rappresentate in assemblea, e i voti contrari e, a seconda di come viene risolta la questione nello statuto, le astensioni, possono precludere la nomina del consigliere. Il meccanismo maggioritario comporta la necessità di un maggior coinvolgimento da parte degli azionisti, e quindi, indirettamente, più spazio per i consulenti di voto.
Un ulteriore rafforzamento del ruolo dei consulenti di voto viene dall'opzione, oramai quasi prevalente[61], in favore di consigli di amministrazione rinnovati annualmente per intero, in luogo dei consigli di amministrazione, c.d. classified o staggered, nei quali ogni anno viene rinnovata solo parte dell'organo[62]. L'abbandono dello staggered board viene salutato quale scelta di buon governo societario perché favorisce la contendibilità della società[63], laddove il rinnovo periodico parziale costituisce una tipica poison pill, ma tale passaggio è in parte da attribuirsi[64] all'attivismo dei consulenti di voto, che, si potrebbe sospettare, in questo modo si procaccerebbero un'altra occasione di offerta di servizi.
In conclusione, se la congiuntura economica che ha rafforzato il risparmio gestito e i richiamati interventi normativi in tema di esercizio del voto da parte dei fondi comuni e degli intermediari hanno creato le condizioni per il fiorire dell'industria dei consulenti di voto, quest'ultima avrebbe trovato ulteriore linfa vitale nella filosofia dell'attivismo degli azionisti. I consulenti di voto offrono terreno di scontro tra i fautori dell'attivismo degli azionisti[65] e i campioni del diritto societario americano in senso tradizionale[66]. Questi ultimi, restii ad ampliare il ruolo degli azionisti ai danni del potere del consiglio di amministrazione, osteggiano i fautori di tale ampliamento per il timore che si finisca per consegnare il potere nelle mani non degli azionisti, bensì delle imprese di consulenza di voto[67], a cui si imputa di decidere come votare senza avere partecipazioni nelle imprese in cui si vota[68]. Altri affermano all'opposto che tra l'autocrazia del consiglio di amministrazione e l'influenza dei consulenti di voto, la seconda opzione sarebbe sebbene imperfetta preferibile[69].
La figura del consulente di voto non è priva di qualificazioni normative, per di più di rango federale. Essa rientra sia nella definizione di soggetto che svolge una sollecitazione di deleghe, sia nella definizione diinvestment adviser. Senonché, nella maggior parte dei casi, i singoli consulenti di voto godono di un'esenzione parziale dalle relative discipline.
Nel contesto statunitense la consulenza al voto è inclusa nella nozione di sollecitazione delle deleghe di voto: costituisce sollecitazione anche una raccomandazione che abbia ragionevolmente l'effetto di provocare l'affidamento, la revoca o la sospensione di una delega di voto[70]. Ne discenderebbe l'applicazione delle relative norme federali per la raccolta delle deleghe, che constano sia di un regime di registrazione e informazione[71], sia del divieto di dichiarazioni false o decettive nello svolgimento della sollecitazione[72].
Tuttavia il consulente di voto va esente almeno dal primo gruppo di norme[73] se: la consulenza è fornita nel corso della propria attività ordinaria di impresa; è remunerata esclusivamente da chi la riceve e non da terzi; non è offerta per conto di un soggetto che abbia lanciato una sollecitazione di deleghe; è accompagnata da un'apposita informativa in merito all'esistenza di qualsiasi «relazione significativa» tra il consulente e l'emittente, o tra il consulente e l'azionista che abbia proposto la deliberazione oggetto della consulenza, nonché di qualsiasi «interesse rilevante» che il consulente possa avere sull'oggetto della propria consulenza[74]. Si applica comunque il divieto di comportamenti mendaci, fraudolenti o decettivi, che vale per i consulenti di voto anche se esonerati dal resto della disciplina federale in tema di sollecitazione di deleghe[75].
Similmente, i consulenti di voto rientrano anche nella qualificazione di investment adviser, dalla quale discendono obblighi federali di registrazione[76], trasparenza e organizzazione dell'attività[77], nonché divieti di iniziative fraudolente o decettive[78], e, più in generale, obblighi fiduciari nei confronti della clientela[79].
È investment adviserogni soggetto che esercita a titolo oneroso l'attività di fornire consigli a terzi «sul valore di strumenti finanziari ovvero sull'opportunità di investire in, acquistare o vendere strumenti finanziari»[80]. Poiché la consulenza di voto è resa in favore di clienti interessati al valore degli strumenti finanziari la qualificazione di investment adviser non è controversa[81].
Tuttavia se, come è frequente, il consulente di voto non gestisce beni di clienti per un valore superiore ai venticinque milioni di dollari, non deve procedere alla registrazione federale come investment adviser. Tale registrazione gli è anzi vietata a livello federale[82], a meno che il soggetto non rientri in un altro gruppo di casi stabiliti dalla SEC[83], in cui la registrazione federale gli sarebbe consentita. Così, per esempio, possono registrarsi a livello federale i consulenti di voto che abbiano tra i propri clienti fondi pensione che gestiscono beni oltre determinate soglie. Sono tuttavia pochi i consulenti di voto che si registrano come investment adviser a livello federale[84]. È significativo però che il maggiore tra essi, ISS, sia registrato come tale.
In sintesi, il fatto che un consulente di voto rientri tanto nella definizione di soggetto che realizza una sollecitazione di deleghe di voto, quanto nella definizione di investment adviser, si risolve nella maggior parte dei casi nell'applicazione, in ragione dell'una[85] o dell'altra[86] qualificazione, del solo divieto federale di rendere la consulenza di voto in modo fraudolento o decettivo, senza obblighi di registrazione per svolgere l'attività e con modesti obblighi informativi riguardo l'esistenza di relazioni significative con l'emittente o i proponenti le deliberazioni di voto o la sussistenza di un altro interesse.
Nel contesto europeo né l'una né l'altra qualificazione sarebbe invece prospettabile. Entrambe le nozioni di sollecitazione delle deleghe e di consulenza in materia di investimenti hanno contenuto più ristretto. La sollecitazione consiste nella «richiesta di conferimento di deleghe di voto» su specifiche proposte (art. 136, lett. c, t.u.f.). Salvi i casi in cui al consulente sia anche conferita la delega di voto, si prescinde dall'applicazione della relativa disciplina. La nozione di consulenza in materia di investimenti è più ampia, ma anche in questo caso non idonea a includere la consulenza di voto. L'una e l'altra consulenza consistono nella prestazione di un consiglio di natura personalizzata, ma il tratto qualificante della consulenza in materia di investimenti è dato dal suo oggetto, che riguarda espressamente «una o più operazioni relative a un determinato strumento finanziario» (art. 1, comma 5-septies, t.u.f., in attuazione dell'art. 4, 1° comma, n. 4, Direttiva n. 2004/39), per tali intendendosi operazioni che consistono nella vendita o nell'acquisto di strumenti finanziari o l'esercizio di diritti che ne comportino vendita o acquisto[87].
La diversa impostazione non implica però che i consulenti di voto vadano esenti in Europa dal divieto di frode nell'attività resa: nei confronti degli investitori istituzionali loro clienti, ciò è implicito nel principio di adempimento diligente delle obbligazioni contrattuali assunte; nei confronti del mercato, è assicurato almeno nei termini della normativa contro la manipolazione del mercato[88] e più in generale penalistica.
Sulla base di tale contesto normativo, il ricordato sviluppo dell'industria dei proxy advisors ha stimolato studi empirici che ne hanno misurato l'influenza, in termini di capacità sia di determinare larghe percentuali di voto nelle assemblee, sia di costringere i consigli di amministrazione a rivedere le proprie scelte in vista delle raccomandazioni che i proxy advisorspotrebbero esprimere.
Con misurazioni diverse e con dati numerici non sempre coincidenti, tali contributi convengono[89] almeno che: i consulenti di voto coinvolgono quote significative delle compagini sociali delle società quotate; in caso di dissenso dei consulenti di voto su una proposta dell'organo amministrativo, la società può aspettarsi - ma il punto non è pacifico[90] - almeno una riduzione (tra il 13% e il 20%) dei voti a favore di tale proposta[91], se non circa un 20% di voti contrari[92]; nelle società partecipate da investitori con forte diversificazione dei portafogli, più inclini ad affidarsi ai consulenti di voto[93], l'influenza di questi ultimi è ancor più significativa[94]; le deliberazioni sulla remunerazione degli amministratori sono più di altre determinate dalle posizioni dei consulenti di voto[95]. Altri concludono più nettamente, senza l'ausilio di dati empirici, che una raccomandazione favorevole di voto da parte di ISS è spesso indispensabile per vincere[96].
Un'autorevole dottrina[97] ha però messo in discussione tali studi, ai quali contesta di confondere la mera correlazione fra consulenza di voto e risultati delle assemblee con la determinazione causale di tali risultati. Secondo questa tesi, i consulenti influenzano gli esiti del voto[98], ma non ne sono l'esclusiva causa efficiente[99]. In particolare i consulenti di voto formulano le proprie raccomandazioni sulla base degli stessi fattori che sarebbero comunque presi in considerazione dagli azionisti e dal mercato[100]. La loro consulenza non sarebbe quindi determinante[101]. In ogni caso non vi sarebbe nulla da temere nel potere dei proxy advisors fintanto che essi fondano la propria consulenza su elementi e criteri essenziali per i loro clienti[102].
Ancor più complesso è verificare se l'influenza dei consulenti di voto sia o meno benefica per le società. Alcuni studi[103] hanno rilevato una riduzione di valore delle azioni in casi in cui gli investitori istituzionali hanno votato secondo le raccomandazioni dei consulenti di voto; altri all'opposto segnalano[104] un incremento del valore delle azioni nei casi in cui ISS esprime raccomandazioni di voto contrarie alla posizione del consiglio di amministrazione della società.
Al di là di tali dati empirici, vanno poste in luce, da un lato, le criticità che possono mettere a repentaglio la qualità del servizio reso dai consulenti di voto e, dall'altro lato, l'individuazione di possibili correttivi.
Sul fronte delle criticità[105], si sottolineano i vincoli di risorse nell'offerta della consulenza di voto. I due consulenti più rilevanti vantano diverse migliaia di clienti cui suggeriscono su come votare su decine di migliaia di deliberazioni assembleari, per lo più concentrate nella stagione primaverile[106], il tutto affidato a qualche centinaio di dipendenti.
A causa di tali vincoli strutturali, i consulenti di voto non sarebbero in grado di formulare raccomandazioni di voto specifiche. Essi offrirebbero raccomandazioni di voto "a taglia unica", senza valorizzare le specificità delle singole società in cui si deve votare[107], oppure utilizzerebbero automatismi, quali apposite "check list", che, ad esempio, suggeriscono di votare contro la conferma di un amministratore il quale abbia rifiutato di dare corso a una proposta degli azionisti nell'anno precedente. A riprova della scarsa lungimiranza dei consulenti di voto viene ricordato come alcuni consulenti avessero sconsigliato la conferma di Warren Buffett nell'audit-commitee di Coca Cola[108], consiglio ignorato dal mercato. In senso opposto, altri ricorda[109] che ISS ha contribuito a far desistere Carl Icahn dalla sua campagna per costringere Apple a un enorme piano di riacquisto di azioni proprie, che avrebbe indebolito la società.
Alcuni studi hanno censurato[110] sia l'opacità delle informazioni fornite daiproxy advisors sulle metodologie seguite per formulare le loro raccomandazioni finali, spesso coperte da diritti di autore suisoftware utilizzati, sia la correttezza di tali metodologie.
L'operato dei proxy advisors è inoltre criticato[111] perché le raccomandazioni di voto vengono rese note con scarso anticipo rispetto alle assemblee, con l'effetto che la società non è in condizione di obiettare o di fornire chiarimenti.
Soprattutto, ai proxy advisorsviene contestato di essere afflitti a propria volta da conflitti di interessi, di almeno due generi.
Il primo ordine di conflitti concerne il più importante dei consulenti, ISS, che offre sia servizi di consulenza di voto a favore degli investitori, sia servizi di consulenza a favore degli emittenti sulle politiche di governo societario[112]. Si determina così una situazione nella quale è per lo meno possibile che il consulente di voto suggerisca di sostenere le proposte di deliberazione che più interessano alla società emittente, così da ottenere o conservare il contratto di consulenza con quest'ultima; o viceversa che la società emittente finisca con l'assoldare ISS quale consulente in tema di governo societario per ottenerne l'appoggio in assemblea[113]. Peraltro, ISS proclama di utilizzare il sistema delle muraglie cinesi per ovviare al conflitto di interessi, sistema che il mercato degli investitori ha giudicato, almeno in passato, sufficiente[114].
Il secondo ordine di conflitti di interesse viene ricondotto alla tipologia della clientela di investitori o all'assetto proprietario del proxy advisor[115]. Vi è la possibilità che i consulenti di voto si facciano sostenitori di proposte di deliberazioni congeniali alla quota più significativa della loro clientela (per esempio i fondi pensione), sacrificando le ragioni di clienti investitori di altra natura[116]. Il conflitto è accentuato quando lo stesso consulente di voto sia partecipato, o addirittura controllato, da investitori istituzionali appartenenti a una determinata tipologia. È il caso del secondo consulente di voto per quota di mercato, Glass Lewis & Co., in larga misura partecipato da un fondo pensione di insegnanti canadesi[117], che si teme consigli di votare in modo conforme ai desiderata del proprio socio di maggioranza[118].
Un orientamento[119] rimane scettico sull'opportunità di un intervento normativo per ovviare a tali problemi. Il solo approccio percorribile a costi accettabili per i destinatari sarebbe un incremento del livello di trasparenza richiesto ai consulenti. Ma in tal modo anziché accrescerne la responsabilità si finirebbe per allentare il controllo da parte del mercato. Si creerebbe un divario tra aspettative ed efficacia di tale intervento regolamentare (un c.d. «expectations gap»): nella convinzione che i consulenti di voto siano oggetto di controlli di legge, l'affidamento ai loro servizi avverrebbe con verifiche meno attente da parte degli operatori di mercato.
All'opposto si osserva[120] che le criticità segnalate non possono essere ovviate dal mercato. La minaccia da parte degli investitori istituzionali di cambiare consulente di voto sarebbe vana, considerata la natura oligopolistica dell'offerta e i costi sia di verificare con assiduità l'operato dei consulenti prescelti, sia di cambiare consulente. Lo stesso autore propone pertanto tre opzioni: imporre ai consulenti di voto di rendere note le informazioni e le metodologie adoperate per formulare le raccomandazioni di voto e di conservare la documentazione relativa a tutte le raccomandazioni espresse, alla stregua di quanto previsto per le agenzie dirating; istituire un apposito organismo di vigilanza indipendente sui consulenti di voto; chiarire che il ricorso al consulente di voto non ha l'effetto automatico di esimere l'intermediario da responsabilità per l'esercizio del diritto di voto con gli strumenti finanziari del fondo o della clientela.
Una posizione intermedia[121] conviene sull'opportunità di tale chiarimento ed eventualmente sulla necessità di migliorare alcuni profili di trasparenza, con l'argomento che il solo divieto di comportamenti mendaci non garantisce informazioni adeguate. Tale orientamento esclude però ogni soluzione che renda la consulenza di voto attività riservata soggetta a registrazione o ad apposita vigilanza. L'impostazione appare condivisibile soprattutto per il fatto che il consulente di voto più importante è già registrato come investment adviser a livello federale, proprio in ragione della dimensione della sua attività, sicché invocare una riserva di attività per tutti i consulenti di voto finirebbe per aggravare i consulenti di più ridotte dimensioni, con un'ulteriore contrazione della concorrenza[122].
Anche in base agli studi citati, la SEC ha intrapreso iniziative per valutare l'opportunità di un intervento regolamentare in tema di proxy advisors, dopo che una relazione del Gao[123] del 2007 aveva dato conto delle criticità richiamate, ma le aveva ritenute superabili con correttivi di mercato[124].
Nel 2010 la SEC ha promosso una consultazione pubblica[125] per stabilire se fosse necessario modificare la disciplina della sollecitazione delle deleghe di voto per imporre ai consulenti di voto una più estesa informativa sui conflitti di interesse, oppure, in aggiunta o in alternativa, incrementare il numero di casi in cui richiedere ai consulenti di voto la registrazione federale per l'esercizio dell'attività oppure, in via più generale, se tale figura necessitasse di una normativaad hoc volta a proibire specifici conflitti di interesse e comunque a fornire un'informazione periodica relativa a tali conflitti.
La consultazione è sfociata in nulla di fatto, accantonata dal complesso lavoro di attuazione del Dodd-Frank Actnel frattempo emanato[126].
Nel 2013 il tema è stato ripreso con un'audizione dinanzi al Congresso a giugno[127] e con una tavola rotonda organizzata dalla SEC a dicembre[128].
Tali iniziative hanno portato solo all'emanazione, nel 2014, da parte della SEC[129] di linee guida per risolvere singole questioni controverse in tema di affidamento dell'incarico di consulente di voto.
In particolare, la SEC ha chiarito[130] i termini dell'informativa che, per avvalersi dell'esenzione dalla disciplina delle deleghe di voto, ilproxy advisor deve rendere al cliente sull'esistenza di relazioni significative con l'emittente o con il proponente della deliberazione o di altri interessi rilevanti con riguardo alla materia oggetto della consulenza. Da un lato, la valutazione sulla natura significativa o rilevante di tali circostanze è rimessa al consulente sulla base di ogni elemento a tale fine utile; dall'altro lato, la relativa informazione, da rendersi pubblicamente o in via riservata al cliente, non può avvalersi di formule generiche, ma deve specificare natura e termini di tali relazioni e interessi.
Inoltre la SEC ha precisato[131] che, al di fuori di tale caso di esenzione, la possibilità per unproxy advisor di avvalersi di un'altra ipotesi di esenzione costituita dal fatto di non richiedere in alcun modo il rilascio di deleghe di voto è in sostanza circoscritta al solo caso in cui ilproxy advisor si limiti a fornire unreport con l'elenco delle proprie raccomandazioni di voto. Diversamente, le norme sulla sollecitazione delle deleghe tornano ad applicarsi anche nel caso in cui il cliente abbia stabilito preventivamente i criteri di voto per il consulente.
Infine, la SEC ha affermato che l'intermediario finanziario il quale si affidi a un consulente di voto per stabilire come votare nell'interesse dei propri clienti ha il dovere di selezionare il consulente sulla base della capacità e della competenza (dimostrata da criteri quali le dimensioni della struttura, la professionalità degli impiegati, la qualità delle metodologie). L'intermediario ha poi il dovere di vigilare adeguatamente e senza soluzione di continuità sull'attività del consulente, tra l'altro mediante la richiesta di chiarimenti in caso di errori commessi e di aggiornamenti sugli eventi che possano comprometterne la competenza o l'indipendenza.
Se negli Stati Uniti un impulso al ruolo dei consulenti di voto è dovuto all'affermazione, per quanto non del tutto pacifica, di un obbligo degli investitori istituzionali, in particolare dei fondi, di votare con le proprie azioni, l'Unione Europea e l'Italia vanno incontro allo stesso scenario.
La norma italiana stabilisce che gli investitori istituzionali italiani «provvedono, nell'interesse dei partecipanti, all'esercizio dei diritti di voto inerenti agli strumenti finanziari di pertinenza degli Oicr gestiti, salvo diversa disposizione di legge»[132], operando «secondo diligenza, correttezza e trasparenza nel miglior interesse degli Oicr gestiti, dei relativi partecipanti e dell'integrità del mercato» (art. 35-decies, lett. e ed a, t.u.f.). Per esercitare tali diritti, i gestori si dotano[133] di «strategie di voto adeguate ed efficaci per determinare quando e come vadano esercitati i diritti di voto» ad esclusivo beneficio dei partecipanti.
La previsione del t.u.f. - anche nelle versioni precedenti sostanzialmente identiche[134] - è stata per lo più interpretata[135] nel senso di escludere un obbligo di voto in capo ai gestori.
La conclusione sarebbe confermata dalle norme europee[136] attualmente in vigore. Esse richiedono ai gestori, tanto degli organismi di investimento collettivo del risparmio[137] quanto dei fondi di investimento alternativi[138], di «elaborare strategie adeguate ed efficaci per determinare quando e come vadano esercitati i diritti di voto», connessi con gli strumenti finanziari del fondo e a esclusivo beneficio dei partecipanti. Si ammette pertanto che il voto possa anche non essere esercitato.
Tuttavia, la proposta di modifica della Direttiva azionisti chiama gli investitori istituzionali[139] a dotarsi di un'organizzazione e documentazione dell'attività di voto molto simile a quella statunitense[140]. Il testo proposto, infatti, senza affermare la natura obbligatoria dell'esercizio del diritto di voto[141], richiede agli investitori istituzionali di sviluppare «politiche di impegno»[142], i cui risultati debbono essere annualmente pubblicati, che stabiliscano tra l'altro come si esercitano i diritti di voto e se vengono utilizzati consulenti di voto (art. 3f, 9 aprile 2014; art. 3-septies, 8 luglio 2015)[143] .
Peraltro, Assogestioni già suggerisce alle proprie associate una «politica documentata», a disposizione del pubblico, che illustri la strategia per l'esercizio dei diritti inerenti agli strumenti di pertinenza degli Oicr e dei portafogli gestiti e raccomanda di informare il pubblico su come tali diritti vengono esercitati e di precisare se la strategia adottata si avvalga o meno di «servizi di consulenza al voto»[144].
D'altra parte, la possibilità che un fondo adotti una strategia di voto completamente passiva è scarsa: una scelta di disinteresse sistematico al voto difficilmente supererebbe il vaglio di un esercizio diligente e corretto dell'incarico di gestione, a meno che il gestore riesca a dimostrare che tale costante disimpegno sia davvero nell'esclusivo interesse dei partecipanti[145].
Infine, se pure non vi è espresso obbligo di votare, nel momento in cui il gestore esercita il diritto di voto tale esercizio cessa di essere «il libero contenuto di una prerogativa, ma diviene l'oggetto di un potere in senso tecnico, di una funzione»[146], e un comportamento in quanto tale doveroso[147]. Per altro verso, l'esercizio del diritto di voto costituisce espletamento dell'obbligazione gestoria, pertanto soggetta alle regole di diligenza e trasparenza e di perseguimento dell'interesse esclusivo dei partecipanti, sancite dall'art. 35-decies t.u.f.
Si riscontra quindi anche in Europa la correlazione tra investitori istituzionali ed esercizio (normalmente) necessario del diritto di voto, che incentiva il ricorso ai consulenti di voto e ne esalta ruolo e limiti.
In aggiunta, i documenti preparatori della proposta di Direttiva descrivono[148] anche per l'Europa caratteristiche dell'attività dei consulenti di voto analoghe a quelle oggetto di critica negli Stati Uniti (concentrazione dell'offerta tra pochi operatori; limitate risorse umane e tempo ristretto dedicati alla formulazione delle raccomandazioni di voto; rischi della presenza di conflitti di interesse).
La circostanza che, nonostante tali somiglianze, gli Stati Uniti non abbiano predisposto una regolamentazione dei consulenti di voto dovrebbe però essere meditata, per verificare se non vi sia una latente incertezza sugli interessi che tale disciplina dovrebbe tutelare.
Al riguardo, il nuovo testo di Direttiva azionisti appare laconico, là dove afferma che le prescrizioni relative ai consulenti di voto avrebbero «il fine di migliorare l'informazione nella catena dell'investimento azionario» (considerando n. 14).
É eccessiva la posizione statunitense più apertamente contraria a ogni intervento[149], in quanto lo scopo implicito di un tale intervento sarebbe quello di proteggere gli amministratori delle società che, temendo di finire detronizzati, cercano di mutilare l'attività dei consulenti di voto per frustrare l'attivismo degli azionisti.
All'opposto però non è neppure persuasiva (o per lo meno richiederebbe di essere dimostrata sul piano della complessiva riduzione dei costi) la tesi secondo cui al fine di incentivare l'attivismo degli azionisti, e fra questi in particolare degli investitori istituzionali, sia necessario un intervento normativo, specie consistente in regole di trasparenza a carico dei consulenti di voto, sebbene l'incentivo al maggiore impegno dei soci ricorra in tutti i documenti relativi alle proposte di modifica[150].
Le norme di trasparenza dei consulenti di voto hanno un costo, per quanto probabilmente inferiore a quello che deriverebbe da un intervento normativo in termini di riserva di attività. Tale costo, sopportato dai consulenti di voto, se destinatari diretti della disciplina, verrà poi ribaltato sui gestori clienti dei consulenti. Sennonché il gestore di per sé incline a una politica di impegno attiva probabilmente già richiede al proprio consulente le informazioni necessarie a vagliarne caratteristiche e operato, sopportandone il relativo costo: in questo caso, quindi, la convenienza di una disciplina normativa sussisterebbe solo se le regole di trasparenza imposte per legge fossero in grado di ridurre tale costo. Diversamente, per i gestori meno inclini a una politica di impegno attiva, l'imposizione di regole di trasparenza sui consulenti di voto non costituisce di per sé uno sprone al maggior impegno del gestore, salvo che, ancora una volta, tali disposizioni riducano il costo dell'informazione e tale costo sia il solo ostacolo all'attivismo del gestore.
Ancora meno convincente sarebbe la lettura secondo cui l'opportunità di disciplinare i consulenti di voto deriva dalla necessità di tutelare gli investitori istituzionali, che si affidano a tale consulenza.
Non risulta - come è stato osservato - che «gli investitori istituzionali si lamentino delle politiche di ISS» o di Glass Lewis e «se non lo fanno loro, non dovrebbe farlo nessun altro»[151]. Soprattutto se affidarsi a un consulente di voto è una scelta razionale per un investitore istituzionale, non è una scelta obbligatoria[152]. Per quanto l'offerta sia ristretta, si tratta pur sempre di una relazione contrattuale, dove è possibile negoziare i termini del servizio e cambiare fornitore, come dimostra il fatto che alcuni investitori istituzionali assoldano più consulenti di voto[153]. La prescrizione di alcuni obblighi informativi (come quelli proposti dall'Unione Europea con riguardo alle modalità e ai criteri di formulazione delle raccomandazioni, alle risorse impiegate e alla gestione dei conflitti di interesse) agevola gli investitori istituzionali nella selezione e nella verifica dei propri consulenti di voto. Non sembra tuttavia una prescrizione indispensabile, perché non elimina il costo di tali informazioni, che l'investitore potrebbe in ogni caso contrattualmente richiedere e che comunque già appaiono tra quelle che il codice di condotta del 2014 suggerisce di fornire.
Gli obblighi di trasparenza così imposti ai consulenti di voto non appaiono neppure funzionali a proteggere gli interessi dei beneficiari ultimi dei fondi comuni o degli altri investitori istituzionali.
A questo scopo sarebbe preferibile un intervento sull'attività di questi ultimi (come nel caso della prescrizione della pubblicazione delle politiche di voto), piuttosto che sui consulenti di voto. Sul punto l'intervento statunitense e quello europeo differiscono. Nel primo caso, è l'investitore istituzionale che è gravato del compito di accertare come il consulente svolge la propria attività; nel caso europeo, è il consulente che deve fornire tali informazioni.
Si può allora ipotizzare che vi sia un ulteriore possibile interesse che si vorrebbe tutelato dalla proposta di regolamentazione, che è quello più genericamente del mercato.
Tuttavia, se per interesse del mercato si intende l'interesse a conoscere la dislocazione dei centri in cui si decide l'esercizio del diritto di voto e pertanto i luoghi di formazione delle volontà di voto, come sembra suggerire il considerando n. 14 della proposta di modifica della Direttiva, che richiama l'opportunità di migliorare l'informazione nella catena dell'investimento azionario, i destinatari dell'intervento dovrebbero essere piuttosto gli investitori istituzionali e non i consulenti di voto. Ai primi peraltro, già Assogestioni chiede di fornire informazioni sul ricorso a un consulente di voto. La proposta di Direttiva esalta tale profilo, con la richiesta agli investitori istituzionali di pubblicare nella c.d. «politica di impegno» informazioni relative all'impiego di consulenti di voto (art. 3-septies, testo 8 luglio 2015; art. 3f, 1° comma, lett. b, testo 20 maggio 2016).
Se invece per interesse del mercato si intende l'interesse generale a un elevatostandardqualitativo delle raccomandazioni di voto, per garantirne la bontà e l'imparzialità, la finalità del proposto intervento normativo sembra mal posta, perché volta a tutelare investitori diversi dai clienti del servizio di consulenza di voto. Al contrario, la raccomandazione di voto dovrebbe essere personalizzata, in ragione dell'investitore che la richiede, oltre che della società in cui si vota. Non si tratta quindi di garantire la qualità delle raccomandazioni verso terzi, che non siano clienti del servizio e i cui interessi nel voto potrebbero essere del tutto diversi. Tale distonia appare dovuta a un accostamento non convincente tra consulenti di voto e agenzie dirating, basato sulla considerazione che entrambi sarebbero collettori di informazioni e produttori di informazioni sintetiche. Sussiste però una rilevante differenza, poiché le agenzie diratingrilasciano, in genere su richiesta dello stesso emittente, un giudizio sintetico sul merito del credito di quest'ultimo, non facilmente surrogabile con altre informazioni, e astrattamente fruibile dai diversi investitori, per l'assunzione di scelte di vendita o di acquisto di strumenti finanziari. Diversamente la consulenza sul voto, se bene esercitata, non può non tenere conto della specifica posizione del singolo investitore e del suo specifico interesse alla gestione dell'investimento.
La considerazione dei diversi interessi coinvolti convince pertanto dell'opportunità di una regolamentazione incentrata sugli investitori istituzionali e i loro gestori, in funzione della correttezza del loro operato ed in particolare sull'esercizio del diritto di voto da parte del gestore, piuttosto che sui consulenti di voto; come in effetti è stato negli Stati Uniti.
Nonostante l'opacità nell'identificazione degli interessi che la proposta di Direttiva vorrebbe perseguire, i contesti europeo e italiano rispetto a quello statunitense possono offrire un diverso approccio al tema probatorio della cura diligente degli interessi della clientela nell'esercizio del diritto di voto, che può scongiurare gli effetti distorsivi invece segnalati negli Stati Uniti. Difficilmente si potrebbe ascrivere valore probatorio dell'assenza di colpa nell'esecuzione dell'incarico del gestore del fondo al fatto che il gestore, per votare, abbia seguito, pedissequamente, i suggerimenti di un consulente di voto.
Osterebbe a tale automatismo innanzitutto il principio della valutazione caso per caso della diligenza nell'adempimento all'incarico di gestione, nell'ambito del quale, verso i sottoscrittori del fondo, l'elezione di un soggetto qualificato per la definizione delle politiche di voto contribuisce ad alleggerire la responsabilità del gestore, nella misura in cui l'affidamento ad un esperto per lo svolgimento di una funzione tecnica costituisce uno degli indici per verificare l'accuratezza nell'espletamento delle funzioni gestorie, ma non ne esaurisce la prova. La valutazione della diligenza in questo caso dovrebbe includere non solo le modalità con le quali il gestore abbia individuato il consulente prescelto e lo abbia mantenuto nell'incarico, ma anche le modalità con le quali il gestore abbia recepito le raccomandazioni di voto formulate per verificarne l'effettiva congruenza con l'interesse dei partecipanti al fondo. Significativamente, le raccomandazioni francesi e inglesi in tema di consulenti di voto hanno cura di chiarire espressamente che l'incarico a un consulente di voto non ha alcun valore esimente da responsabilità per l'investitore istituzionale nello svolgimento del proprio incarico di gestore[154]. Si tratta però di una conclusione che dovrebbe discendere di per sé dall'esatta individuazione delle funzioni del gestore e della valutazione della sua diligenza. Se l'esercizio del diritto di voto nell'interesse dei partecipanti con gli strumenti di pertinenza del fondo è parte dei compiti del gestore (art. 35-decies, lett. e, t.u.f.), votare è una forma del gestire e pertanto o il gestore è all'altezza dell'esercizio della funzione con la diligenza e la correttezza professionali, nel miglior interesse del fondo e dei partecipanti, ovvero non lo è e come tale è inadempiente.
Un supporto in tale senso potrebbe venire anche dalle norme, di derivazione europea, sull'affidamento a terzi di funzioni di competenza del gestore. Secondo l'art. 33, 4° comma, t.u.f., Sgr, Sicav e Sicaf possono delegare a soggetti terzi specifiche funzioni inerenti alla prestazione dei propri servizi, e quindi anche funzioni relative all'esercizio del voto per gli strumenti finanziari dell'Oicr. Ma la delega, per un verso, è «effettuata con modalità tali da evitare lo svuotamento di attività della società stessa ed è esercitata nel rispetto delle disposizioni in materia di esternalizzazione di funzioni»; per altro verso, non esonera da responsabilità la Sgr, Sicav o Sicaf «nei confronti degli investitori per l'operato dei soggetti delegati»[155]. Resterebbe quindi a carico del gestore l'onere di provare la specifica diligenza richiesta, che non potrebbe esaurirsi nell'allegazione di aver affidato la determinazione delle scelte di voto a un apposito consulente di cui abbia pedissequamente seguito le indicazioni.
È stato tuttavia segnalato[156] che un ostacolo attuale alla possibilità di fare leva anche sulla disciplina dell'esternalizzazione di funzioni verrebbe dalle disposizioni di attuazione dell'art. 33, 4° comma, t.u.f., in base alle quali tale disciplina è circoscritta alle sole «funzioni operative essenziali o importanti» e tali non sono né i «servizi di consulenza e gli altri servizi che non rientrino nelle attività di investimento», che l'intermediario si procuri da terzi, né l'acquisto da parte del medesimo di «servizi standardizzati, compresi quelli relativi alla fornitura di informazioni di mercato o di informazioni sui prezzi»[157]. L'inclusione, almeno di principio, della consulenza al voto (quando consistente nella formulazione della raccomandazione di voto e senza espletamento delle operazioni di voto) nell'una o nell'altra categoria di attività non la qualificherebbe come funzione essenziale, con la conseguente incerta applicabilità del presidio della permanente responsabilità del delegante di funzioni importanti o essenziali. Di qui l'opportunità - comunque condivisibile - secondo l'orientamento richiamato di un chiarimento legislativo. In assenza di quest'ultimo, tuttavia, vi è da chiedersi se, nel caso della consulenza di voto, la natura essenziale della funzione non possa essere comunque ricavata dalla definizione generale, secondo cui una funzione operativa è importante quando, tra l'altro, una sua anomalia comprometterebbe gravemente la capacità dell'intermediario di conformarsi agli obblighi in materia di servizi e attività di investimento[158]. Ciò tenuto anche conto del fatto che la consulenza al voto non dovrebbe avere carattere standardizzato, ma al contrario personalizzato, sicché non sembra di per sé rientrare tra i servizi standardizzati di cui fa menzione la norma regolamentare. Per altro verso, la consulenza ha un connotato specifico inerente la gestione, tale per cui forse essa costituisce una tipologia di servizio diverso «dalla consulenza e d[agli] altri servizi che non rientr[a]no nelle attività di investimento» e che non sono funzioni essenziali o importanti. Più in generale, la definizione della posizione di voto e il suo esercizio possono avere ricadute significative sul valore della partecipazione, quindi sul valore del fondo: in tal modo costituiscono una componente essenziale dell'attività di investimento affidata al gestore. Incaricare il consulente della determinazione del voto implica esternalizzare una delle funzioni in cui si concreta l'attività di investimento, che pertanto assume carattere essenziale o almeno importante.
Le informazioni daiproxy advisors, che l'Unione Europea vorrebbe pubbliche, dovrebbero allora servire per un scrutinio più attento dell'attività del gestore (su che uso ne abbia fatto per scegliere il consulente, per negoziare i termini della consulenza, per verificarne l'operato e per rinnovarne l'incarico), e non per liberarlo dall'onere di aver agito diligentemente.
In questa ottica, secondo cui la trasparenza che l'Europa propone di prescrivere ai consulenti di voto, unitamente ad alcune regole di condotta, dovrebbe essere funzionale alla verifica dell'operato dei gestori e quindi alla tutela dei clienti di questi ultimi, lascia perplessi l'impostazione della proposta di modifica della Direttiva, che restringe la nozione di consulente di voto (e quindi l'applicazione del regime relativo) alle «persone giuridiche» che prestino professionalmente tale servizio. La limitazione della forma organizzativa appare impropria. Essa sarebbe coerente se l'impostazione della proposta di regolamentazione fosse quella di una riserva di attività, nella quale al modello della persona giuridica si assegna valore indicativo di una maggiore solidità, per lo meno organizzativa, dell'iniziativa e selettivo dell'accesso allo svolgimento dell'attività. Al contrario, se il modello di persona giuridica è - come si propone nella modifica alla Direttiva - presupposto applicativo delle disposizioni in tema di trasparenza e informazione, esso è facilmente eludibile, così frustrando l'intento protettivo perseguito.
1) Il riferimento è al testo del Parlamento europeo in prima lettura Emendamenti del Parlamento europeo, approvati l'8 luglio 2015, alla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 2007/36/CE per quanto riguarda l'incoraggiamento dell'impegno a lungo termine degli azionisti e la direttiva 2013/34/UE per quanto riguarda taluni elementi della relazione sul governo societario, 8 luglio 2015 (P8_TA-PROV(2015)0257): v. art. 1, 2), lett. i, «consulenti in materia di voto». Per il testo di proposta della Commissione, v. Commissione Europea, Commision Staff Working Document Impact Assessment, Accompanying the Proposal for a Directive on Amending Directive 2007/36, 2014/0121 (COD), 9 aprile 2014. Per il documento che contiene anche la posizione del Consiglio dell'Unione Europea del marzo 2015: http://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-11243-2015-INIT/en/pdf. Da ultimo, il Consiglio dell'Unione Europea ha predisposto un ulteriore testo di proposta di modifica della Direttiva 2007/36/CE, di cui si dà nel prosieguo soltanto conto essendo stato diffuso subito prima della pubblicazione del presente scritto (Consiglio dell'Unione Europea, Proposal for a Directive of the European Parliament and of the Council on amending Directive 2007/36/EC as regards the encouragement of longterm shareholder engagement and Directive 2013/34/EU as regards certain elements of the corporate governance statement. Preparation for an informal trilogue, 20 maggio 2016, 9029/16, nel testo e di seguito "testo 20 maggio 2016" [http://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-9029-2016-INIT/en/pdf]).
Nel 2007 l'industria della consulenza del voto coincideva sostanzialmente con l'offerta di cinque società: ISS, dominante con poco meno di duemila clienti investitori istituzionali; seguito da Glass Lewis & Co.; Proxy Governance, Inc. (attiva dal 2004, v. GAO, (nt.10), 8); Egan-Jones Proxy Services (attiva dal 2002, v. GAO, (nt.10), 8); Marco Consulting Group (di più risalente costituzione, perché attiva dal 1988, ma con clientela per lo più ristretta ai c.d. Taft-Hartley Funds, ossia a fondi di contribuzione e previdenza per lavoratori costituiti da più datori di lavoro ai sensi dell'omonima disciplina laburistica: v. GAO,(nt.9),8). Per una descrizione dell'offerta, v. anche J. Slaght,Whatever Happened to the Prudent Man? The Case for Limiting the Influence of Proxy Advisors through Fiduciary Duty Law, 9Rutgers Bus. L. Rev., 1 (2012), 11 ss. Sulle linee guida dei proxy advisors statunitensi per le raccomandazioni di voto del 2016, A. Borselli, Raccomandazioni di voto dei proxy advisors negli Stati Uniti: le novità per il 2016, in Riv. Soc., 2016, 216 ss.
T.C. Belinfanti, (nt. 13),413; v. anche L. Klöhn, P. Schwarz, The Regulation of Proxy Advisors, 7 giugno 2012, 3 ss. [http://ssrn.com/abstract=2079799].
17 CFR 240.14a-9 (c.d. Rule 14a-9, False or misleading statements).
A. Eckstein, (nt. 16), 96.
Sec,Proxy Voting, (nt. 45), domande e risposte n. 7, 8.
Per una rivisitazione critica di tale ricorrente prospettiva, F. Denozza,Quale quadro per lo sviluppo della corporate governance, in questa Rivista, 1/2015, 9 s.
G.W. Dent, (nt. 12), 1319 e 1326.
Art. 19, Reg. Congiunto Banca d'Italia-Consob.