L’articolo si concentra su due dei problemi più rilevanti sollevati dalla nuova disciplina: cosa distingue realmente una società benefit da una società non-benefit (la finalità di beneficio comune? L’equilibrio tra interessi degli azionisti e degli altri stakeholders? Entrambi?) e dove dovrebbe essere fissato il relativo confine; e, in secondo luogo, se la trasformazione di una società non-benefit in una società benefit debba essere considerata una causa legale di recesso per gli azionisti dissenzienti – questione, quest’ultima, molto critica nell’utilizzazione concreta del modello della società benefit -
The paper focuses on two of the most relevant questions raised by the new legislation: what really distinguishes a benefit corporation from a non-benefit corporation (the common benefit objective? The balance between shareholders’ and other stakeholders’ interest? Both?) and where should the boundaries be set; and, secondly, whether the transformation of a non-benefit into a benefit corporation should qualify as a legal cause of withdrawal for dissenting shareholders – a very critical issue in the practical usage of the benefit form.
KEYWORDS: benefit company – shareholder withdrawal – interests to be pursued
CONTENUTI CORRELATI: società benefit - recesso del socio - interessi perseguiti
È il testo, marginalmente riveduto, della relazione svolta al convegno "Dalla Benefit corporation alla Società benefit", tenutosi alla Luiss G. Carli di Roma il 21 aprile 2017.
1. Premessa - 2. Alcuni dati normativi - 3. Società benefit, società non benefit e beneficio comune - 4. Previsione delle finalità di beneficio comune, modificazioni statutarie e diritto di recesso - NOTE -
Il titolo "società benefit e società non benefit" non è stato chiaramente scelto per trattare l'intera disciplina delle società benefit… e di tutte le altre società che benefit non sono. Con esso desidero solamente richiamare due questioni (tra loro almeno in parte collegate), che sin dalla prima lettura della legge di stabilità del 2016[1] e, in particolare, dei commi da 376 a 384 del suo articolo unico mi hanno incuriosito e mi sono parse rilevanti. Mi riferisco alle seguenti:
(i) in cosa si sostanzi la distinzione tra società benefit e società non benefit, il che presuppone precisare quale sia la fattispecie normativa di società benefit e, in particolare, quale sia il senso del secondo periodo del comma 379 (a mente del quale «le società diverse dalle società benefit, qualora intendano perseguire anche finalità di beneficio comune, sono tenute a modificare l'atto costitutivo o lo statuto, nel rispetto delle disposizioni che regolano le modificazioni del contratto sociale o dello statuto, proprie di ciascun tipo di società»); e
(ii) come avviene il passaggio dalla società benefit alla società non benefit e comunque la inclusione nello statuto della previsione del perseguimento della finalità di beneficio comune, il che comporterà all'atto pratico stabilire se l'inclusione successiva alla costituzione della società di tale previsione nel contratto, atto costitutivo o statuto sociale presupponga il riconoscimento del diritto di recesso in capo ai soci non consenzienti rispetto alla correlativa modificazione.
Sono benefit, secondo lo stesso legislatore che si incarica di definirle, le società che «nell'esercizio di una attività economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse» (comma 376); società, dunque, che finalizzano lo svolgimento dell'attività economica non solo allo scopo di lucro ma anche a finalità altruistiche, di «beneficio comune».
Le società benefit diventano tali, e si assoggettano dunque alla relativa (scarna) disciplina, indicando nella clausola statutaria dell'oggetto sociale finalità di beneficio comune o altruistiche, che dire si vogliano (commi 377 e 379, primo periodo). L'essere società benefit consente (e non impone) di «introdurre, accanto alla denominazione sociale, le parole: 'Società benefit' o l'abbreviazione: 'SB' e utilizzare tale denominazione nei titoli emessi, nella documentazione e nelle comunicazioni verso terzi» (comma 379, quarto periodo); consente quindi di fregiarsi del titolo di società benefit, sia inserendolo che non inserendolo nella denominazione o ragione sociale; ma la inclusione del riferimento alla società benefit nel nome della società non è presupposto per la sua qualificazione. Intendo cioè dire che - a differenza di quanto avviene per la identificazione dei tipi sociali - non è attraverso la spendita di un certo nomen juris che si concretizza l'antecedente logico per l'applicazione della disciplina delle società benefit.
Del secondo periodo del comma 379 ho già detto.
Tanto premesso, per tentare di stabilire che rapporto ci sia tra le società benefit e le società non benefit, mi pare necessario fare un passo indietro e distinguere diverse ipotesi di fatto (che invece sono state spesso confusamente accostate e accomunate in alcuni dei primi commenti sulla nuova disciplina delle società benefit). Intendo dire che ci possono essere, e di fatto ci sono, società - ma in questo caso sarebbe più corretto parlare in generale di imprese comunque organizzate - le quali, nell'ambito della loro libertà di iniziativa economica e della loro autonomia di impresa, scelgono di svolgere la (propria) attività economica bilanciandola con il perseguimento di interessi esterni e cioè con finalità di beneficio comune, nella convinzione che questa scelta gestionale possa portare vantaggi (reputazionali o di altro genere) idonei a tradursi, magari in un orizzonte temporale di più lungo periodo, anche in vantaggi di natura economica per la impresa. È appena il caso di aggiungere che si tratta di una scelta che, al pari di tutte quelle imprenditoriali, può portare o non portare all'atto pratico quegli sperati risultati di ordine economico, ma che tutto ciò, in ogni caso, non contraddice affatto lo scopo proprio, tipico e tradizionale dell'attività di impresa, e cioè lo svolgimento di una attività economica, così come non contraddice lo scopo di lucro oggettivo di tutte le società (e quello di lucro soggettivo delle società a causa lucrativa). Trattandosi di scelta prettamente gestionale essa ricade nella competenza dell'organo o degli organi cui è affidata la funzione gestoria dell'impresa sociale. Sempre in quanto scelta gestionale, ad essa si applica la business judgment rule.
Dalla ipotesi appena fatta si può distinguere quella in cui alcune scelte di carattere ideale, che possono andare a vantaggio di interessi generali o collettivi ecomunque esterni alla società, sono fissate nello statuto(-atto costitutivo). Ciò avverrà, nella più parte dei casi, circoscrivendo l'oggetto dell'attività sociale e quindi operando sulla clausola relativa all'oggetto sociale[2]. Solo per fare qualche esempio, si potrà prevedere che l'attività di produzione di energia elettrica possa consistere solo nello sfruttamento di fonti rinnovabili; che una attività industriale nel settore della meccanica escluda la produzione di armamenti; oppure che una attività editoriale escluda la pubblicazione di testi con certe connotazioni politiche o ideologiche. Anche in questi casi la scelta potrebbe essere ispirata (anche o solo) al legittimo convincimento (in questo caso anzitutto dei soci, trattandosi di scelta riflessa nello statuto o nell'atto costitutivo della società) che essa possa tradursi in vantaggi di natura economica. E tuttavia, ciò che distingue questa ipotesi dalla precedente è che: per un verso, la previsione statutaria rende la scelta più vincolante, nel senso che essa si impone agli organi sociali; e, per altro verso, il motivo che ha ispirato la previsione della limitazione diviene in certo senso irrilevante. Non conta dunque stabilire (attraverso una improbabile ricerca della mens dei soci e anzi di quei soci che hanno approvato la clausola statutaria) in base a quali valutazioni sia stato ritenuto opportuno prevedere la specificazione statutaria, ma la previsione statutaria rileva in sé tanto per la società quanto per coloro che vengono in contatto con essa. E così, ad esempio, investitori di un certo tipo (fondi etici, investitori istituzionali con determinate caratteristiche, tutto l'universo sensibile alle tematiche del socially responsible investing, ecc.) potranno fondare le loro scelte d'investimento in quella società proprio in ragione della presenza di una clausola statutaria che programma l'esercizio dell'attività sociale con specifiche limitazioni o esclusioni (la produzione di armi; la stampa di materiale pornografico; la pubblicazione di libri di autori con idee antisemite; l'esercizio di case da gioco o di piacere; la produzione e il commercio di tabacco da fumo; ecc.); così come gli amministratori della stessa risulteranno vincolati nell'esercizio della funzione gestoria dalla previsione statutaria. Resta il fatto che la previsione di elementi ideali nell'atto costitutivo non contraddice, nella ipotesi che stiamo facendo, lo scopo tradizionale della società, che resta quello di svolgere una attività economica per un fine di lucro.
Possiamo allora fissare un primo punto. In base ad autonome scelte imprenditoriali le società possono ritenere economicamente conveniente programmare la propria attività tenendo in considerazione interessi, benefici o altri elementi di carattere ideale, che sono quindi anche interessi più generali e, nella terminologia del recente legislatore, «benefici comuni». Tali società possono altresì fissare queste valutazioni nello statuto, tipicamente traducendole in specificazioni (tali essendo anche le limitazioni) della attività economica che costituisce l'oggetto sociale. In tutti questi casi il perseguimento di finalità di beneficio comune, lungi dal contraddire la finalità lucrativa (in senso oggettivo) della società, può essere il risultato di una scelta strategica alla stessa funzionale.
Il secondo punto che mi sentirei di stabilire è il seguente. Tutte le ipotesi appena fatte erano perfettamente lecite e praticabili anche in assenza delle specifiche previsioni sulla società benefit; sicché pare insincera (e comunque inesatta) la ragione che si legge nella relazione illustrativa al disegno di legge che originariamente previde le ricordate disposizioni, poi rifluite nella legge di stabilità per il 2016 (cfr. A.S. n. 1882), ove si spiega che lo scopo è di consentire alle società di perseguire uno scopo aggiuntivo a quello del profitto e cioè lo scopo di beneficio comune, la cui previsione statutaria avrebbe incontrato, in assenza di apposita previsione normativa, difficoltà di «registrazione presso le camere di commercio» (recte: di iscrizione nel registro delle imprese). In realtà, la sensazione è che vi sia anche una ragione non confessata: quella di dare vita o rafforzare la industria delle «certificazioni» e «valutazioni» delle società benefit[3].
Ma allora in cosa oggi si distinguono le società benefit rispetto ai casi di specie appena elencati? La differenza con la prima ipotesi è più evidente, posto che la società benefit sarebbe tale solo se la previsione della finalità di beneficio comune, e quindi l'esigenza di perseguire anche un interesse altruistico, sia preveduta dallo statuto (mentre la prima ipotesi si caratterizza solo per una scelta gestionale e per l'assenza di specifiche previsioni statutarie). Più sfuggente è invece la distinzione con la seconda ipotesi, che si caratterizza, appunto, per la menzione di elementi ideali nell'atto costitutivo. E, come si accennava, il problema è oggi ulteriormente complicato dalla previsione del secondo periodo del comma 379. Si tratta di una disposizione, a mio avviso, particolarmente infelice, che tuttavia esiste e che non si può completamente ignorare nel tentare di ricostruire il sistema. Essa statuisce in modo nettissimo quanto meno due cose[4]: da un lato, che società che perseguono anche finalità di beneficio comune possono anche essere società non benefit («le società diverse dalle società benefit, qualora intendano perseguire anche finalità di beneficio comune… »); e, dall'altro, che società, ancorché non benefit, che intendano perseguire anche finalità di beneficio comune sarebbero tenute a prevederlo nello statuto («le società diverse dalle società benefit, qualora intendano perseguire anche finalità di beneficio comune, sono tenute a modificare l'atto costitutivo o lo statuto … »). Donde i seguenti interrogativi:
(i) in cosa si distinguono società benefit che perseguono anche finalità di beneficio comune da società non benefit che, del pari, perseguiranno anche finalità di beneficio comune, una volta che tanto le prime quanto le seconde avranno statuti che parleranno di perseguimento di finalità di beneficio comune?
(ii) una società che non abbia modificato (e che non intenda modificare) il suo statuto per prevedere la possibilità di perseguire finalità di beneficio comune potrà porre in essere un atto (o una attività) che abbia «uno o più effetti positivi, o la riduzione degli effetti negativi, su una o più categorie di cui al comma 376» (e quindi «nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse»), tale essendo appunto la definizione legislativa di beneficio comune?
Quanto alla prima questione, la risposta mi pare che debba necessariamente consistere in ciò, che mentre le società benefit devono perseguire anche le finalità di beneficio comune, le società non benefit possono perseguire anche finalità di beneficio comune. In buona sostanza, quindi, la differenza riposa nella lettera dello statuto e anzi origina dal tenore della relativa clausola: nel primo caso, si farà ricorso al verbo servile "dovere" nel secondo, al modale "potere". Ciò spiega perché la legge preveda per i soli amministratori di società benefit, e non anche per quelli delle società non benefit, lo specifico obbligo di «bilanciare l'interesse dei soci, il perseguimento delle finalità di beneficio comune e gli interessi» degli stakeholder (comma 380).
Più problematica la soluzione della seconda questione, e cioè se una società che nulla preveda al riguardo nello statuto possa porre in essere atti volti a conseguire «unoo più effetti positivi, o la riduzione degli effetti negativi, su una o più categorie» di stakeholder. Per un verso, infatti, la lettera della norma parrebbe chiarissima nell'escluderlo. Per altro verso è evidente che, stante il fatto che la stragrande maggioranza delle società non modificherà il proprio statuto per prevedere la possibilità di porre in essere atti finalizzati anche al soddisfacimento di benefici comuni (e quindi nell'interesse di stakeholder) - e questo per le ragioni che si diranno nel paragrafo seguente -, il risultato paradossale di una interpretazione strettamente letterale della legge di stabilità consisterebbe nel vietare quanto oggi è considerato pacifico che qualsiasi società possa fare a prescindere da specifiche previsioni statutarie. Nessuno invero più dubita, almeno a far data dal tramonto della teoria degli atti ultra vires, che la capacità giuridica delle società commerciali sia generale; che, quindi, gli amministratori possano porre in essere tutti i tipi di atti (compresi quelli a titolo gratuito) e che comunque non esista un problema di valutazione se il singolo atto è ricompreso nell'attività sociale. Soprattutto le grandi società pongono in essere da tempo e con continuità una quantità di attività che oggi potrebbero dirsi di beneficio comune e questo per ragioni varie, anzitutto di immagine e reputazionali, sulle quali non è d'uopo qui soffermarsi. Queste attività vòlte a conseguire «uno o più effetti positivi o la riduzione degli effetti negativi» per diverse categorie di stakeholder sono così sistematicamente poste in essere, perdendo quindi spesso il carattere della episodicità, che in un numero crescente di società esse trovano formale e periodica esposizione nei così detti bilanci di sostenibilità. D'altra parte, sono ormai numerose le legislazioni societarie che definiscono l'interesse sociale, che gli amministratori sono tenuti a perseguire in tutte le società (o perlomeno in tutte le società azionarie), in termini così vasti da ricomprendervi una adeguata considerazione degli interessi, inter alia, dei dipendenti, dei fornitori, dei clienti, della comunità, dell'ambiente (e si veda, ad esempio, la Sect. 172 (1) del Companies Act 2006 o i così detti constituencies statutes nord-americani). Tutto questo per dire che una interpretazione strettamente letterale sia insostenibile alla stregua di una visione che tenga conto del sistema del diritto societario italiano e di tendenze ed esigenze ancora più generali.
Si potrebbe però opporre che così facendo si confondono i singoli atti, che pur possono essere di beneficio comune, con le modalità di esercizio dell'attività sociale che la società decida di adottare. Altro è la sponsorizzazione del singolo evento culturale o il restauro del singolo monumento, altro è considerare l'impatto sociale parte integrante della strategia d'impresa in modo da porre in essere scelte che mirino alla realizzazione del beneficio comune nell'ambito dello svolgimento della attività economica propria della società. In assenza della previsione statutaria la società comunque potrebbe porre in essere singoli atti di beneficio comune, ma non una vera e propria attività a ciò finalizzata. Ma mi chiedo: si può sempre così facilmente distinguere? E soprattutto, ammesso che ciò si riesca in ogni caso a fare, avrebbe senso consentire i singoli (anche numerosi e consistenti) atti alla società che nulla preveda nello statuto e vietare alla stessa società l'adozione di quelle strategie imprenditoriali che tengano in conto le ricadute sociali e ambientali? Evidentemente no. La risposta che deve continuare a darsi è che tutte le società possono porre in essere non solo atti ma anche attività che, nel rispetto delle finalità di lucro oggettivo della società e nell'ambito del perseguimento di un oggetto sociale avente a contenuto una attività economica produttiva di nuova ricchezza, siano anche di interesse per categorie di soggetti diversi dai soci e che quindi possano qualificarsi di beneficio comune. D'altra parte mi pare significativo il fatto che la stessa legge di stabilità esordisca sul tema premettendo, al comma 376, che «le disposizioni previste dai commi dal presente al comma 382 hanno lo scopo di promuovere la costituzione e favorire la diffusione di società… che nell'esercizio dell'attività economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune»; sicché sarebbe, a ben vedere, anche contrario allo spirito della stessa legge impedire, in forza di una interpretazione della stessa, che le società "ordinarie" (cioè non benefit), che non abbiano apportato al proprio atto costitutivo-statuto modificazioni, possano continuare a porre in essere atti o attività con finalità altruistiche e cioè di beneficio comune.
Tanto stabilito, potrebbe sorgere l'ulteriore dubbio se però la nuova disciplina delle società benefit modifichi qualcosa in punto di regime della responsabilità degli amministratori. La mia impressione è che la risposta possa essere positiva, ma nel senso che la discrezionalità di cui godono gli amministratori è ampliata e la loro responsabilità diminuita (con un conseguente accrescimento dei costi di agenzia in queste realtà societarie). Nel caso della società benefit (o anche non benefit, ma con previsione della finalità di beneficio comune nello statuto) alla business judgment rule si affianca quella che si è proposto di chiamare la benefit judgment rule[5]: gli amministratori sono in pratica meno responsabili delle loro scelte nei confronti dei soci e sostanzialmente irresponsabili nei confronti dei terzi[6]. Nel caso della società non benefit e senza previsione statutaria di finalità di beneficio comune, invece, gli amministratori dovranno porre in essere le loro scelte solo alla luce della ordinaria business judgment rule: una gestione socialmente responsabile degli amministratori che funzioni anche dal punto di vista economico non farà sorgere contraddizione tra scopo tipico della società e scopo di beneficio comune; ma una scelta gestoria socialmente utile che non funzioni economicamente potrà costituire giusta causa di revoca degli amministratori (fermo restando che, se assunta nel rispetto della business judgment rule, non ne comporterà la responsabilità).
Lascio questi primi (e - mi rendo conto - del tutto approssimativi e insoddisfacenti) spunti di riflessione per affrontare la seconda questione; e quindi chiedermi come avviene il passaggio (potremmo dire, seppure in senso non necessariamente tecnico, la "trasformazione") dalla società benefit alla società non benefit e comunque la inclusione nello statuto della previsione del perseguimento della finalità di beneficio comune; il che comporterà stabilire se l'inclusione successiva alla costituzione della società di tale previsione nel contratto, atto costitutivo o statuto sociale comporti il riconoscimento del diritto di recesso in capo ai soci non consenzienti rispetto alla modificazione. La rilevanza pratica della questione consiste, come è chiaro, in ciò che a seconda delle soluzioni fornite si potrà ipotizzare un più o meno significativo ricorso alla qualifica di "benefit" per le grandi realtà societarie, ad iniziare dalle società quotate.
Muovo da un dato che mi pare pacifico: che la società benefit non è pensata e disciplinata come autonomo (e ulteriore) tipo sociale (ma appunto come semplice qualifica che le società di tutti i tipi possono attraverso acconce previsioni statutarie acquisire); con la conseguenza che, in caso di successivo acquisto della qualifica di società benefit, non si pone un tema di recesso per "modificazione del tipo". Direi anzi che proprio la circostanza che tutti i tipi di società di diritto italiano possano acquistare la qualificazione di società benefit impone di affrontare la nostra questione in modo analitico.
Per quanto attiene ai tipi sociali appartenenti alla classe delle società di persone, mi pare che il discorso si riduca a ciò. La regola dispositiva della unanimità per la modificazione del contratto sociale non porrà di norma un problema di recesso o di tutela del socio dissenziente rispetto alla ipotizzata modificazione. Qualora invece il contratto preveda la sua modificazione a maggioranza si tratterà anzitutto di vedere se lo stesso disciplini cause convenzionali di recesso (potrebbe, per esempio, prevedere che in caso di alterazione delle basi essenziali della società o nel caso di cambiamento dell'oggetto sociale siano legittimati a recedere i soci non consenzienti) e poi comunque se, a prescindere dalla eventuale previsione di un regime convenzionale di recesso, l'acquisto della qualifica di società benefit possa rientrare tra le ipotesi di giusta causa. Se, come io credo, nella nozione di giusta causa di cui all'art. 2285 cod. civ. si debbono far rientrare, per analogia, anche le ipotesi di recesso legale previste dal codice civile per le società di capitali (artt. 2437, comma 1, e 2473, comma 1, cod. civ.) perlomeno quando ciò determini un'alterazione del rischio economico della società o «delle basi essenziali» della stessa[7], allora la questione del recesso si porrebbe in queste società così come si pone nelle società di capitali, delle quali, dunque, si passa a dire.
Per quanto attiene appunto alla introduzione di clausole benefit negli atti costitutivi e negli statuti delle società di capitali si deve ulteriormente sottolineare che un ragionamento in astratto - come è necessariamente quello qui condotto - ben difficilmente può svolgersi fino alle sue ultime conseguenze; due dei migliori commenti sin qui pubblicati sulla disciplina delle società benefit, sottolineano con particolare rigore che molto dipende dalla specifico tenore della clausola e dunque della concreta modificazione statutaria[8]. Si tratta in altre parole di valutare, caso da caso, la significatività del cambiamento[9].
Lasciando in disparte la questione se il mancato riferimento nella disciplina della società a responsabilità limitata alla significatività del cambiamento dell'oggetto sociale si traduca effettivamente in una regola diversa (o se, invece, sia da considerarsi anche per le società a responsabilità limitata la "significatività" rilevante[10]), si tratta di valutare, almeno per quanto riguarda le società azionarie, se la introduzione dell'obbligo di perseguire anche il beneficio comune si concretizzi in una alterazione delle condizioni di rischio dell'investimento effettuato dai soci in quella specifica realtà societaria. Ed infatti in ciò si traduce la ratio sottostante al riconoscimento delle ipotesi legali di recesso e, conseguentemente, il parametro sul quale misurare la significatività della modificazione della clausola dell'oggetto sociale. Ora, se si volesse tentare una prima e seppure inevitabilmente generica conclusione sul punto, diremmo che la introduzione di una finalità di beneficio comune, se espressa in termini in qualche misura pregnanti, pone tendenzialmente un problema di alterazione delle condizioni di rischio dell'investimento effettuato dai soci. Ciò avviene, quanto meno, tutte le volte in cui lo statuto individui dei destinatari del beneficio comune in soggetti i cui interessi da perseguire si pongano in rapporto dialettico con quello dei soci (come peraltro normalmente dovrebbe essere): la circostanza che gli amministratori debbano, in esecuzione della loro funzione, contemperare ed equilibrare il perseguimento dell'interesse altruistico (degli stakeholder) con quello egoistico (degli shareholder) sembra, infatti, rappresentare una non certo insignificante modifica delle condizioni dell'investimento effettuato da questi ultimi e cioè dai soci.
D'altra parte, almeno per quanto riguarda le società per azioni, mi sembra che il riconoscimento del diritto di recesso, prima ancora che alla lett. a) dell'art. 2437, comma 1, cod. civ., debba ricondursi a una modificazione statutaria concernente «i diritti di partecipazione». Infatti, per quanto la disposizione della lett. g) dell'art. 2437 cod. civ. si caratterizzi soprattutto per la sua estrema ambiguità[11] e sia dunque suscettibile di interpretazioni quanto mai varie[12], è più che plausibile che comunque vi rientrino quelle modificazioni che, introducendo nuovi destinatari di benefici provenienti dalla società, finiscano per incidere sui diritti di partecipazione dei soci ai risultati dell'attività comune.
Infine, potrebbe anche porsi il dubbio se divenire benefit rappresenti per una società lucrativa il passaggio da una organizzazione di interessi che nascono dal contratto e in virtù del contratto ad una organizzazione di una comunione di interessi preesistenti (quelli appunto dei soggetti appartenenti alla categoria dei destinatari dei "benefici comuni"); il passaggio da una comune società (che non è organizzazione di interessi di categoria) a una organizzazione che è anche di gruppi contraddistinti da comuni necessità e cioè ad un qualcosa che - per riportarci alla concettuologia ascarelliana[13] - sarebbe altresì associazione. Se così fosse, si potrebbe addirittura pensare di avere a che fare con una sorta di quantomeno parziale trasformazione eterogenea, con tutte le conseguenze del caso in punto di diritto di recesso.
Ad ogni modo (e al di là delle singole soluzioni che si ritenga di potere accogliere con riguardo ai vari dubbi che ho posto, senza volerne fornire una vera e propria soluzione), ciò che in definitiva mi pare di poter dire è che le prospettive di un ricorso allargato alla forma della benefit da parte di società nate prive di tale qualifica appaiano seriamente ostacolate dalla operatività del diritto di recesso; il che mi sembra possa contribuire a spiegare perché nessuna società con azioni quotate in un mercato regolamentato, pur essendocene molte che all'atto pratico perseguono politiche aziendali socialmente responsabili e pongono in essere cospicue attività di beneficio comune, non solo non sia divenuta benefit ma non abbia neanche provato a intraprendere il percorso per acquisire tale qualificazione[14]. E, nella medesima prospettiva, non mi pare neppure un caso che le società benefit sin qui costituite in Italia (al 12 aprile 2017 erano 89) siano nella quasi totalità società a responsabilità limitata con ristrettissima compagine sociale e comunque sempre imprese medie o piccole[15].
** Professore ordinario, Università di Roma Tor Vergata, stellarichter@yahoo.com
1) L. 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato».
2) Oppure attraverso l'autonoma previsione di "Principi di conduzione dell'impresa". È questo il caso dello statuto della celebre società editrice Axel Springer SE (già Springer Verlag AG): § 3 - «Principi di conduzione dell'impresa - 1. L'impresa si informa ai seguenti principi: a) la difesa della libertà e del diritto in Germania, un paese appartenente alla famiglia occidentale delle nazioni, e il progresso della unificazione dei popoli europei; b) la ricerca della riconciliazione tra ebrei e tedeschi, ivi compreso l'appoggio al diritto all'esistenza del Popolo di Israele; c) l'appoggio alla alleanza atlantica e il mantenimento della solidarietà con gli Stati Uniti d'America; d) il rifiuto di ogni forma di totalitarismo politico; e) la difesa di una libera economia di mercato sociale (freie soziale Marktwirtschaft). 2. Gli organi della Società sono vincolati alla stretta osservanza e alla esecuzione di questi principi». Per qualche ulteriore approfondimento sulla disciplina degli "elementi ideali" dell'atto costitutivo mi permetto di rinviare al mio Forma e contenuto dell'atto costitutivo della società per azioni, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, vol. 1*, Torino, 2004, 165 ss., a 242 ss.
3) Infatti, le società benefit sono tenute a sottoporsi a un processo di valutazione quantitativa e qualitativa delle performance sociali e ambientali, ricorrendo ad uno standard di valutazione esterno in possesso di specifici requisiti. In particolare, tale standard deve essere sviluppato da un ente che non sia controllato dalla società benefit o collegato con la stessa e che abbia le competenze necessarie per valutare l'impatto sociale e ambientale delle attività di una società nel suo complesso e che utilizzi un approccio scientifico e multidisciplinare per sviluppare lo standard. Sono dunque questi enti (ma in realtà ne esiste allo stato uno solo) ad essere i primi interessati alla diffusione della società benefit.
4) A prescindere da quelle che sono state le intenzioni del legislatore storico (e ringrazio l'avv. Livia Ventura che me le ha illustrate, posto che esse non sono in alcun modo deducibili dalla lettera della legge), il quale legislatore storico pare abbia voluto, attraverso la previsione in parola, statuire che società non benefit sarebbero potute divenire benefit attraverso una modificazione del contratto, atto costitutivo o statuto sociale. E' infatti evidente che tali intenzioni risultano del tutto irrilevanti sol che si consideri: da un lato, che quanto voluto era ed è del tutto ovvio e comunque chiaramente discendente da quanto già previsto nei commi 377 e 379, primo periodo; e, dall'altro, che al tenore letterale del secondo periodo del comma 379 non può in alcun modo ricondursi, alla stregua della lingua italiana, un significato neanche lontanamente simile a quello che sarebbe stato nella mens legislatoris.
5) C. Sertoli, La società benefit: tendenze e problematiche in prospettiva comparatistica, Roma, 2017 (dattil.), pp. 90 s. [dove si ricorda come il § 301 della Model Benefit Corporation Legislation espressamente specifichi che «anche agli amministratori della benefit corporation si applica la… business judgment rule; il che significa che non è data la possibilità di sindacare, da parte del giudice, le scelte operate dagli amministratori quando queste non siano state compiute in conflitto di interessi, quando queste siano state scelte informate e siano state adottate sul convincimento di rappresentare il migliore interesse per la società. Si attua così una perfetta equiparazione nell'esonero da responsabilità per le scelte informate degli amministratori sia che riguardino il "business", in forza della tradizionale business judgment rule, sia che riguardino l'attività benefit, in forza della speciale e aggiuntiva regola di cui al §301 (e); regola che, allora, si potrebbe forse chiamare benefit judgment rule»] e 110 s. (dove si afferma che anche per la società benefit di diritto italiano vale «il combinato disposto della business e della "benefit" judgment rule»).
6) D'altra parte, è chiaro, per dirla con le parole di Carlo Angelici, che «almeno sul piano di un'analisi della realtà empirica… la possibilità di tenere conto anche di interessi diversi da quegli degli azionisti consiste in una sorta di incidental by-product della business judgment rule» (così C. Angelici, La società per azioni e gli "altri", in L'interesse sociale tra valorizzazione del capitale e protezione degli stakeholders. In ricordo di Pier Giusto Jaeger, a cura di R. Sacchi, Milano, Giuffrè, 2010, 45 ss., a nt. 12 di p. 51, dove anche ricostruzione del dibattito sul punto nella dottrina nord-americana).
6) Così G. Ferri, Delle società (artt. 2247-2324), in Commentario del Codice Civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna - Roma, Zanichelli, 1968 (II ed.), p. 285 (ed ivi anche gli ulteriori riferimenti).
8) Mi riferisco ad Assonime, Circolare n. 19 del 20 giugno 2016, p. 15 ss., e S. Corso, Le società benefit nell'ordinamento italiano: una nuova "qualifica" tra profit e non-profit, in Nuove leggi civ. comm., 2016, 995 ss., a 1013 ss.
9) Cfr. S. Corso,Le società benefit nell'ordinamento italiano, (nt. 8), p. 1013, secondo la quale occorre «verificare caso per caso in che termini la modifica dell'oggetto sociale incida sulla complessiva attività della società ed è verosimile che l'esito di tale verifica dipenderà da come è stato configurato in concreto l'obiettivo di beneficio comune».
D'altra parte, può ricordarsi di sfuggita che nelle prime applicazioni pratiche si presentano diversissimi modi di tradurre sul piano statutario la richiesta previsione della finalità di beneficio comune e in molti casi si tratta di disposizioni vaghissime suscettibili di ogni possibile implicazione concreta. E si veda per tutti la clausola dell'oggetto sociale dell'atto costitutivo di Nativa s.r.l. SB: «Lo scopo ultimo della società è la felicità di tutti quanti ne facciano parte, sia come soci che in altri ruoli, attraverso un motivante e soddisfacente impegno di una prospera attività economica. In qualità di società benefit la società intende perseguire una o più finalità di beneficio comune e operare in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse. La società ha per oggetto le seguenti specifiche finalità di beneficio comune:
- la promozione e diffusione di modelli e sistemi economici e sociali a prova di futuro, in particolare il modello di B Corp e la forma giuridica di Società Benefit in diversi settori economici italiani;
- il design e l'introduzione di pratiche e modelli di innovazione sostenibile nelle imprese e nelle istituzioni per accelerare una trasformazione positiva dei paradigmi economici, di produzione, consumo e culturali, in modo che tendano verso la sistematica rigenerazione dei sistemi naturali e sociali;
- la collaborazione e la sinergia con organizzazioni non profit, fondazioni e simili il cui scopo sia allineato e sinergico con quello delle Società, per contribuire al loro sviluppo e amplificare l'impatto positivo del loro operato».
In questa prospettiva è molto interessante segnalare la vicenda di Vita Società Editoriale s.p.a. (società quotata sul segmento AIM Italia), la quale nel settembre 2016 è divenuta società benefit, modificando il proprio statuto senza riconoscere il diritto di recesso ai soci assenti o dissenzienti (questi ultimi, peraltro, non vi sono in concreto stati, essendo stata la deliberazione assunta alla unanimità dei presenti). La società in questione, infatti, ha ritenuto di prevedere come uniche finalità di beneficio comune le seguenti: «promuovere e diffondere modelli economici e sociali sostenibili con particolare attenzione alle forme di impresa sociale e al loro sviluppo attraverso la narrazione multimediale e le iniziative di community per la loro messa in rete off line e online; dare voce ai gruppi sociali intermedi, alle realtà non profit italiane ed europee e alle libere aggregazioni di cittadini che esercitano la propria responsabilità di fronte ai bisogni senza delegarne ad altri la risposta; collaborare con le organizzazioni profit e non profit per contribuire al loro sviluppo e amplificare l'impatto sociale positivo del loro operato». Si tratta - se non mi inganno - di previsioni di estrema genericità ed indeterminatezza che non solo non contraddicono lo scopo economico della società (dal momento che tutte quelle cose potrebbero essere fatte facendosi remunerare), ma che non determinano alcuna reale pretesa in capo a categorie di terzi interessati. Esse inoltre non modificano nella sostanza l'attività sociale che era quella di pubblicare un mensile «dedicato al racconto sociale, al volontariato, alla sostenibilità economica e ambientale e, in generale, al mondo non profit» e nella realizzazione di prodotti editoriali "collaterali" di approfondimento. Se poi si aggiunge che in quel particolare caso lo statuto già conteneva la peculiare previsione secondo cui «la società non intende distribuire ai soci remunerazioni periodiche dell'investimento azionario sotto forma di dividendi di utili. In questa ottica, nella misura e sino a che ciò sia previsto dall'art. 3 della legge 7 agosto 1990 n. 250, è vietata la distribuzione di utili. In ogni caso, anche in mancanza di tale presupposto normativo, non può essere deliberata la distribuzione di utili se non con il voto favorevole di almeno il novanta per cento del capitale sociale, sia in prima convocazione che nelle convocazioni successive alla prima» (art. 25), risulta allora chiaro perché nella specifica ipotesi sia stato plausibile ritenere non ricorrente una causa di recesso. Per tutti i documenti e informazioni relativi alla Società cfr. http://investor.vita.it/it/.
10) Nel senso che anche nella società a responsabilità limitata il cambiamento dell'oggetto debba essere significativo, come nella società per azioni, per legittimare il diritto di recesso cfr. M. Stella Richter jr, Diritto di recesso e autonomia statutaria, in Riv. dir. comm., 2004, I, p. 405; F. Chiappetta, Nuova disciplina del recesso di società di capitali: profili interpretativi e applicativi, in Riv. soc., 2005 p. 492 s.; F. Annunziata, Sub art. 2473, in Commentario alla riforma delle società, diretto da P. Marchetti e altri, Milano, Egea, 2008, p. 469. Nel senso invece che il recesso dalla società a responsabilità limitata sia consentito in presenza di qualsiasi modifica della clausola dell'oggetto sociale (ancorché non significativa) v. invece G. Zanarone, Delle società a responsabilità limitata, in Il Codice Civile. Commentario, fondato da P. Schlesinger e continuato da F.D. Busnelli, tomo I, Milano, Giuffrè 2010, nt. 29 a 789 s.
11) Così, tra gli altri, A. Paciello, Commento sub art. 2437 c.c., in Società di capitali. Commentario, a cura di G. Niccolini e A. Stagno d'Alcontres, Napoli, Jovene, 2004, 1113; V. Di Cataldo, Il recesso del socio di società per azioni, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G. B. Portale, 3, Torino, 2006, 219 ss., a 228; M. Ventoruzzo, Modifiche di diritto, indirette e di fatto del diritto di voto e recesso nelle s.p.a., in Giur. comm., 2015, II, 1055 ss.
12) Cfr. ad esempio A. Abu Awwad, I "diritti di voto e di partecipazione" fra recesso e assemblee speciali, in Banca borsa tit. cred., 2009, I, 312 ss.; C. Angelici, Sull'art. 2437, primo comma, lettera g) del c.c., in Riv. not., 2014, I, 865 ss.; C. Angelici - M. Libertini, Un dialogo su voto plurimo e diritto di recesso, in Riv. dir. comm., 2015, I, p. 1 ss.; F. Annunziata, Sub art. 2437, in Commentario alla riforma delle società, (nt. 10)., 101; Assonime, Il diritto di recesso nella società per azioni, Circolare n. 68/2005, in Riv. soc., 2005, 390 ss.; O. Cagnasso, Il recesso, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, vol. IV*, Padova, Cedam, 2010, 961 s.; V. Calandra Buonaura, Il recesso del socio di società di capitali, in Giur. comm., 2005, II, 291 ss.; S. Cappiello, Commento sub art. 2437 c.c., in Codice commentato delle nuove società, a cura di V. Salafia, D. Corapi, G. Marziale, R. Rordorf e G. Bonfante, Milano, Giuffrè, 2004, p. 844 s.; L. Cavalaglio, Sub art. 2347, in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Torino, Utet, 2015, 1183 ss.; F. Chiappetta, Nuova disciplina del recesso di società di capitali: profili interpretativi e applicativi, (nt. 10)., p. 487 ss., spec. 495 ss.; V. Di Cataldo, Il recesso del socio di società per azioni, (nt. 11), 228 s.; G. Marasà , Commento sub artt. 2437, 2437-bis, 2437-ter, 2437-quater, 2437-quinquies, in Commentario romano al nuovo diritto delle società, a cura di F. d'Alessandro, vol. II, Padova, Piccin, 2011, 784 s.; A. Paciello, Sub art. 2437 c.c., (nt. 11); P. Piscitello, Sub art. 2437 c.c., in Le società per azioni, diretto P. Abbadessa e G.B. Portale, Milano, 2016, p. 2591 ss.; M. Ventoruzzo, Modifiche di diritto, indirette e di fatto del diritto di voto e recesso nelle s.p.a., (nt. 11).
13) Cfr. T. Ascarelli, Cooperativa e società. Concettualismo giuridico e magia delle parole, in Riv. soc., 1957, 397 ss., e poi in Id., Problemi giuridici, tomo II, Milano, Giuffrè, 1959, 379 ss.
14) Esiste tuttavia una società benefit quotata sull'AIM, il mercato di Borsa Italiana non regolamentato dedicato alle piccole e medie imprese (e ringrazio la dott. L. Brunelli dell'Assonime per la segnalazione): si tratta di Vita Società Editoriale s.p.a. (su cui v. supra nt. 9).
15) Un quadro costantemente aggiornato delle società benefit si può avere consultando il sito http://www.societabenefit.net/registro-ufficiale-societa-benefit/.