Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2282-667X
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L'influenza della nuova disciplina dell'insolvenza sul diritto dell'impresa e delle società, con particolare riguardo alle s.r.l. (di Lorenzo De Angelis, Professore ordinario di Diritto commerciale, Università Ca’ Foscari Venezia)


Lo studio esamina l'influenza che il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza ha avuto sul diritto dell’impresa e delle società commerciali, con specifico riguardo alle s.r.l. Di particolare rilievo, fra le altre innovazioni, l’obbligo degli imprenditori e degli amministratori delle società di ogni tipo di accertarsi tempestivamente del venir meno della continuità aziendale e la novellata disciplina dell’organo sindacale nelle società di capitali: da quest’ul­tima dovranno trarsi significativi spunti di riflessione al fine di delineare una ricostruzione del ruolo e della funzione dei sindaci delle società per azioni e a responsabilità limitata.

The influence of the new insolvency regulation on business and company law, with particular regard to limited liability companies

This paper examines the influence that the Code of enterprise's crisis and the insolvency has upon Business and Company Law, mainly referring to the Limited Liability Companies. In particular, prominence has the duty of the entrepreneurs and directors of companies of any kind to ascertain as soon as possible a lack of going concern. And moreover the new discipline of statutory auditors of Joint Stock Companies, from which significant consideration should be drown on identifying the new role and task of statutory auditors both of the Limited Companies by Shares and the L.L.C.

KEYWORDS: limited liability company – business crisis and insolvency code – role of the statutory auditors

Sommario/Summary:

1. Introduzione. - 2. Il dovere dell'imprenditore di predisporre un’efficiente organizzazione aziendale. - 3. Agli amministratori spetta in via esclusiva la gestione dell’attività della società, qualunque ne sia il tipo. - 4. Altre disposizioni di portata innovativa: la denunzia al tribunale e l’azione creditoria di responsabilità contro gli amministratori, i sindaci, i direttori generali e i liquidatori. - 5. L'organo sindacale nelle s.r.l. - 6. Segue: lo status dei sindaci nelle società di capitali. - NOTE


1. Introduzione.

Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, emanato in attuazione della legge delega 19 ottobre 2017, n. 155, peraltro già scaduta) detta numerose disposizioni che hanno un impatto notevole su diverse norme contenute nel Libro quinto del Codice civile. In questo scritto verranno passate in rassegna alcune di tali disposizioni, senza indulgere – anche per comprensibili motivi di spazio – in una ricognizione esaustiva della loro finalità e della loro funzione nell’ambito del diritto concorsuale, circoscrivendone piuttosto l’esame agli aspetti più propriamente attinenti al diritto dell’impresa e al diritto societario.


2. Il dovere dell'imprenditore di predisporre un’efficiente organizzazione aziendale.

La principale di tali disposizioni – anche per il riferimento che ad essa vien fatto per ciascuno dei tipi societari, di persone come di capitali, previsti dal nostro ordinamento – è quella che completa, integrandolo, l’art. 2086 c.c.

Per vero piuttosto banale, in sé considerata, era la definizione – recata da questa norma – dell’imprenditore, ossia del soggetto “che esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi” (art. 2082 c.c.), quale “capo dell’impresa” (da intendersi, in questa accezione, non come attività, bensì come struttura organizzativa articolata in forma piramidale) da cui “dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori”. Era, sì, l’affermazione di un potere, certo non assoluto, al quale non faceva tuttavia pendant alcun dovere espressamente considerato e legislativamente sancito.

Si badi che il contenuto originario della norma in esame non era così scarno e lacunoso. Il dovere corrispondente al potere di governo dell’impresa esisteva ed era riconosciuto dalla legge: non era, però, affermato nel Codice civile del 1942, ma in un corpo normativo ad esso preesistente, sul quale la disciplina codicistica in materia di impresa si fondava e da cui traeva linfa ideale ed ispirazione. Si trattava della Carta del Lavoro del 1927, in cui si sostanziava la costituzione economica dell’ordinamento corporativo allora vigente [1], che all’art. VII, comma 2, disponeva: “L’organizzatore dell’impresa [cioè l’imprenditore, diremmo noi oggi] è responsabile dell’indirizzo della produzione di fronte allo Stato. Dalla collaborazione delle forze produttive deriva tra esse reciprocità di diritti e di doveri. Il prestatore d’opera – tecnico, impiegato od operaio – è un collaboratore attivo dell’impresa economica, la direzione della quale spetta al datore di lavoro che ne ha la responsabilità” [2]. Le vicende successive sono note: l’ordinamento corporativo è stato abrogato con il r.d.l. 9 agosto 1943, n. 721, ma non è stato sostituito, neppure nelle nor­me, come quella testè riportata, indiscutibili nella loro modernità per l’epoca e che nessuno, ancor oggi, potrebbe confutare, in quanto erano portatrici di concetti socialmente evoluti, le quali sarebbero state perfettamente compatibili con la stessa Costituzione repubblicana. Da allora l’art. 2086 è rimasto monco per ben 76 anni finché, con la cennata riforma del gennaio di quest’anno, è stato nuovamente riempito di sostanza: rivitalizzato, verrebbe da dire.

L’approccio della nuova disposizione segue ovviamente una linea direttrice assai diversa da quella che aveva ispirato la norma ablata a seguito dell’abro­gazione dell’ordinamento corporativo, che aveva affermato la responsabilità dell’imprenditore capo dell’impresa e artefice dell’indirizzo della produzione “di fronte allo Stato”, attesa la proiezione nel campo pubblicistico del corporativismo, per il quale il bene meritevole di tutela era l’economia nazionale, avendo – in quell’ordinamento – l’organizzazione privata della produzione anche una innegabile funzione di interesse pubblico. Oggi, in una concezione a mente della quale l’attività dell’impresa, individuale e collettiva, impinge in un ambito precipuamente – ancorché non esclusivamente – privatistico, i destinatari della tutela apprestata dalla legge sono il mercato e i soggetti che vi operano: segnatamente i clienti, che sono sovente consumatori, i creditori e i terzi in genere con cui l’impresa possa venire in contatto (ad es., gli stakeholders) e nelle imprese collettive – quali le società, ma non solo – gli stessi soci o partecipanti. A questi soggetti, anziché allo Stato (che pure non è totalmente avulso dal loro novero: basti pensare al dovere che ogni imprenditore ha di adempiere lealmente alle obbligazioni contributive verso gli enti previdenziali e a quelle tributarie verso l’erario), gli imprenditori – e con essi gli amministratori di società, qualunque ne sia il tipo – devono assicurare una tutela concretamente apprezzabile, sostanziantesi nell’istituzione di un assetto organizzativo – particolarmente, ma non solo, in campo amministrativo e contabile – “adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa”.

Anche al fine di giustificare la ratio dell’introduzione del nuovo precetto del comma 2 dell’art. 2086 c.c. ad opera del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza [3], a questo dovere – già sancito per gli amministratori delle s.p.a. dall’art. 2381 c.c., novellato a seguito della riforma della disciplina delle società di capitali e cooperative entrata in vigore il 1° gennaio 2004 (d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6) – è stato aggiunto per i medesimi soggetti quello “della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”. Tale nuova disposizione si pone in linea con la norma fondamentale dell’art. 3 dello stesso Codice della crisi d’im­presa, a mente della quale: “L’imprenditore individuale deve adottare misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e assumere senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte” (comma 1); e: “L’imprenditore collettivo deve adottare un assetto organizzativo adeguato ai sensi dell’arti­colo 2086 del codice civile, ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di idonee iniziative” (comma 2).

L’esplicitazione di tale precetto è senz’altro commendevole, ma va detto che questo non è affatto nuovo per il nostro diritto societario, il quale da lunga pezza – quanto meno dall’emanazione del Codice civile del 1942 in avanti – fa obbligo agli amministratori di società di accertare tempestivamente il verificarsi delle cause di scioglimento e, fra queste, la sopravvenuta impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale (cfr., ad es., l’attuale art. 2484, comma 1, n. 2, e il previgente art. 2449 c.c.), di cui il venir meno del requisito della continuità aziendale è un indice fra i più significativi; sanzionando altresì, nella coeva Legge fallimentare, con la pena edittale prevista per il reato di bancarotta semplice coloro – imprenditori falliti o amministratori, sindaci, direttori generali e liquidatori di società fallite – che abbiano aggravato il dissesto a causa della loro colpevole inerzia nel richiederne la constatazione giudiziale (art. 217, comma 1, n. 4, l. fall., ora tradotto nell’art. 323, comma 1, lett. d), del Codice della crisi).

Il dovere dell’imprenditore “che operi in forma societaria o collettiva” di “istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile, adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa” trova – come detto – il suo precedente immediato nella disposizione dell’art. 2381 c.c., riferito agli amministratori delle s.p.a. Con la differenza, però, che il legislatore del 2003 ha distinto le posizioni degli organi delegati (amministratori delegati o comitato esecutivo) e degli amministratori deleganti: i primi tenuti a “curare” la predisposizione di tale assetto (comma 5), cioè ad operare affinché questo sia apprestato e venga mantenuto efficiente; i secondi – la cui attività può svolgersi unicamente all’interno dell’organo collegiale di cui fanno parte e che non hanno facoltà individuali al di fuori delle attività espletate nelle adunanze collegiali del medesimo organo – tenuti invece a “valutare” se l’organizzazione aziendale sia adeguata, “sulla base delle informazioni ricevute” dagli organi delegati (comma 3). Il cerchio si chiude con il dovere dei sindaci di “vigilare” – con un’attività più penetrante di controllo, suscettibile di essere compiuta anche individualmente – non solo circa la sussistenza dell’adeguatezza del suddetto assetto organizzativo, ma anche “sul suo concreto funzionamento” (art. 2403, comma 1, c.c.).

Il verbo “istituire” usato per l’imprenditore – operante, si ripete, “in forma societaria o collettiva”, e non anche per l’imprenditore individuale – nella norma dell’art. 2086, comma 2, c.c. è una sintesi di due dei tre verbi testè menzionati: “curare” e “valutare”, riservando invece la vigilanza all’organo di controllo interno. A tale nuova norma è fatto rinvio per tutte le società commerciali: di persone, azionarie e a responsabilità limitata. Tuttavia, mentre per le s.p.a. restano ferme le funzioni degli organi delegati e degli amministratori deleganti (oltreché quelle dei sindaci), nessuna articolazione funzionale ulteriore di questo importante dovere complessivamente considerato è stata prevista per gli amministratori delle società di persone e delle s.r.l. per le quali – rispettivamente all’art. 2257, comma 1, e all’art. 2475, comma 1, c.c. – è ora genericamente stabilito che: “La gestione dell’impresa si svolge nel rispetto della disposizione di cui all’articolo 2086, secondo comma”.

La nuova disciplina delle s.r.l. connotate da una governance di stampo capitalistico, però, mutua la distinzione dei doveri contemplati, al riguardo, da quella tipica delle s.p.a. per i predetti organi delegati e amministratori deleganti, mediante il richiamo operato dall’ultimo comma dell’art. 2475 c.c., secondo il quale: “Si applica, in quanto compatibile, l’articolo 2381”; ove, appunto, tale compatibilità può ravvisarsi unicamente se l’organizzazione endosocietaria sia modellata su quella delle s.p.a. e non anche se la governance sia di stampo personalistico, giacché in questo caso trova applicazione l’art. 2257, espressamente richiamato dall’art. 2475, comma 3, c.c. per il quale nelle società di persone l’am­ministrazione spetta ai soci, e solo ai soci [4], gravati per di più dalla responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali in dipendenza della nota equazione fra potere, responsabilità e rischio, e non – come avviene invece nelle società azionarie, dotate della personalità giuridica – a un organo amministrativo concepito e funzionante conformemente alle regole dei collegi perfetti.


3. Agli amministratori spetta in via esclusiva la gestione dell’attività della società, qualunque ne sia il tipo.

Le norme novellate alle quali è stato fatto dianzi riferimento contengono però un altro elemento di estrema importanza. Invero, sia l’art. 2257, comma 1, c.c. per le società di persone, sia il susseguente art. 2475, comma 1, per le s.r.l. – al pari degli artt. 2380-bis, comma 1, e dell’art. 2409-novies, comma 1, per le s.p.a. rette rispettivamente dal modello tradizionale (a cui, sul punto, rinvia la disciplina del modello monistico) e dal modello dualistico di governance – ormai dispongono che “la gestione dell’impresa”, oltre a doversi svolgere nel rispetto della riferita disposizione dell’art. 2086, comma 2, “spetta esclusivamente agli amministratori [ossia, nel modello tradizionale, all’amministratore unico e al consiglio d’amministrazione; nel modello monistico, al solo consiglio d’am­ministrazione; e nel modello dualistico, al consiglio di gestione], i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale” [5].

Va detto subito, prima di entrare nel vivo della questione principale, che desta perplessità la locuzione “gestione dell’impresa” impiegata per le società – personali (art. 2257), per azioni (artt. 2380-bis e 2409-novies) e a responsabilità limitata (art. 2475) – dal momento che, se l’attività dell’imprenditore individuale non può essere che l’impresa, altrettanto non può dirsi per le società, moltissime delle quali esercitano l’impresa, ma non tutte, essendo ormai ammessa, quanto meno dalla prevalente corrente ermeneutica, l’esistenza di “società senza impresa” [6], di persone come di capitali, siano esse società di godimento dei beni sociali, specialmente immobili, o società tra professionisti (e, fra queste, la società tra avvocati, costituente un tipo autonomo di società personale), o società benefit, o società holding costituite per dare efficacia reale a patti parasociali, specialmente a sindacati di controllo o di voto, od ancora società – per azioni, questa volta – che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, aventi quale oggetto sociale la gestione, ad esclusivo beneficio dei propri soci o di loro ospiti, di servizi sportivi come campi da golf, impianti sciistici, natatori, tennistici e simili [7]. Con riguardo alle società, di qualsiasi tipo, sarebbe stato dunque preferibile fare riferimento alla gestione dell’attività contemplata dall’oggetto sociale anziché all’attività d’impresa, che non può considerarsi esaustiva per la generalità di queste.

Ciò posto per una doverosa precisione concettuale, occorre riconoscere che la nuova norma non assume un rilievo essenziale nell’applicazione della disciplina delle società di persone – e, con queste, delle s.r.l. a cui l’atto costitutivo abbia impresso un sistema personalistico di governance – nelle quali, si ripete, l’amministrazione compete esclusivamente ai soci illimitatamente responsabili che solo consensualmente possono accettare di esserne privati, anche in virtù di clausole del contratto sociale che consentano loro di non venire onerati dalla funzione amministrativa, quale ad es. quella che rimetta la nomina dei soci-amministratori successivi ai primi ad una maggioranza alla cui formazione i soci non amministratori non siano essenziali: soci-amministratori sottoposti appunto alla disciplina dell’art. 2257 c.c., con i possibili temperamenti pattuibili ai sensi del susseguente art. 2258.

Così non è, di contro, per le s.r.l. assoggettate ad un sistema di governancedi stampo capitalistico, o con forti connotazioni capitalistiche, alle quali si estende ora, in concreto, la disciplina delle società azionarie. Invero, una delle differenze più significative tra le discipline di questi tipi di società di capitali consisteva nel fatto che – a valle della riforma del 2003 – per gli azionisti in quanto tali (cioè che non fossero anche amministratori) non era più consentita alcuna ingerenza nelle funzioni gestorie, riservate “esclusivamente agli amministratori”; mentre nelle s.r.l. l’autonomia statutaria poteva continuare a riservare ai soci determinate facoltà di intervento nella gestione dell’impresa (rectius, dell’attività) sociale, così come avveniva per tutte le società di capitali anteriormente all’entrata in vigore della riforma anzidetta. In particolare, era ammesso che gli atti costitutivi delle s.r.l. riservassero ai soci – ovvero all’as­semblea dei soci – le decisioni su certe materie particolarmente delicate (quali ad es. la compravendita o l’ipoteca di beni immobili, l’assunzione o la dismissione di partecipazioni, l’instaurazione di procedimenti arbitrali, ecc.) o di rilevante valore (superiore cioè a una data soglia, al disotto della quale le decisioni erano di competenza degli amministratori); e che prevedessero altresì la facoltà degli amministratori di rimettere ai soci – o all’assemblea dei soci – le decisioni circa il compimento di determinate operazioni di significativa importanza per la società. Ora, nelle s.r.l., tutto ciò non è più possibile, come già dal 1° gennaio 2004 più non lo era nelle società azionarie; e ciò con effetto immediato, cioè dall’entrata in vigore del novellato art. 2475 c.c. (16 marzo 2019), non essendo, a questo proposito, stata prevista alcuna dilazione per l’adegua­mento degli atti costitutivi delle s.r.l. che diversamente dispongano, contrariamente a quanto stabilito, in tema di nomina obbligatoria dell’organo sindacale, dall’art. 379, comma 3, del Codice della crisi d’impresa e dell’insol­venza, di cui si dirà in appresso. È dunque lo jus superveniens che, nel caso di specie, priva di validità le disposizioni degli atti costitutivi delle s.r.l. che prevedano forme di ingerenza dei soci – o dell’assemblea dei soci – nelle decisioni concernenti la gestione dell’attività sociale, ormai di stretta ed esclusiva competenza degli amministratori.

Il che, se da un lato ha portato a ripristinare, nell’ambito delle società di capitali, l’omogeneità di un rilevante aspetto della disciplina in materia di am­ministrazione, dall’altro ha notevolmente limitato l’autonomia statutaria dei soci delle s.r.l., i quali non possono più riservare a sé alcun potere decisionale in materia gestoria, salvo che non attenga al compimento di operazioni comportanti sostanziali modificazioni dell’oggetto sociale determinato dall’atto costitutivo o rilevanti modificazioni dei diritti dei soci stessi (ex art. 2479, comma 2, n. 5, c.c.). E, non essendo la norma dell’art. 2364, comma 1, n. 5, c.c. richiamata per le s.r.l., né i soci di queste né l’assemblea dei medesimi possono – si ritiene – neppure essere legittimati dall’atto costitutivo ad esprimere autorizzazioni per il compimento di determinati atti di competenza degli amministratori. Siffatta compressione dell’autonomia statutaria non potrà non avere riflessi di rilievo sulla scelta del tipo della s.r.l., per la quale la permanenza della potestà dei soci di intervenire su talune decisioni essenziali attinenti la gestione della società ha sovente assunto, fino ad oggi, una valenza strategica.


4. Altre disposizioni di portata innovativa: la denunzia al tribunale e l’azione creditoria di responsabilità contro gli amministratori, i sindaci, i direttori generali e i liquidatori.

Fra le altre modifiche che esplicano influenza sul diritto societario, con specifico riguardo alle s.r.l., spicca la reintroduzione (finalmente, è il caso di dire!) della denunzia al tribunale da parte dei soci o dell’organo sindacale [8] quando sussista il fondato sospetto di gravi irregolarità degli amministratori nella gestione della società, suscettibili di arrecare danno alla stessa o a società da questa controllate ex art. 2409 c.c. [9]. Tale ablazione, operata con la riforma societaria del 2003, aveva dato origine – come noto – a una defatigante querelle fra gli interpreti, nel corso della quale era stato, pur con molte critiche, assodato che i soci delle s.r.l. non erano più legittimati – né individualmente né qualora raggiungessero, da soli o di concerto tra loro, una determinata quota di partecipazione al capitale sociale – a sporgere la predetta denunzia, mentre parte della giurisprudenza, di merito come di legittimità, si era pronunciata per il mantenimento di questa potestà in capo all’organo sindacale, contro altra parte che aveva espresso contrario avviso. Ora l’art. 2477, ultimo comma, c.c. stabilisce expressis verbis che alla s.r.l. “si applicano le disposizioni dell’arti­colo 2409 anche se la società è priva di organo di controllo” (interno, ossia di organo sindacale): il che ha troncato definitivamente il dibattito sul punto. Norma alla quale fa pendant quella dell’art. 92 disp. att. e trans. del c.c. che ormai include fra le società passibili dell’adozione dei provvedimenti previsti dall’art. 2409 c.c. – e fra essi in particolare quello concernente l’amministra­zione giudiziaria – anche le società di cui al capo VII del titolo V del libro V dello stesso Codice, ossia appunto le s.r.l., a cui la predetta disposizione ha esteso la potenziale nomina di un amministratore giudiziario.

Resta però ancora aperta la questione se, nelle società di questo tipo, i provvedimenti previsti dall’art. 2409 possano venire adottati anche su richiesta del pubblico ministero, come previsto – per le s.p.a. – dall’ultimo comma del suddetto articolo. In una prospettiva tradizionale, nell’ambito della quale le s.r.l. sono società chiuse, non ammesse a fare ricorso al mercato del capitale di rischio, dovrebbe evidentemente propendersi per la negativa. Tuttavia la progressiva “finanziarizzazione” delle s.r.l. [10], che si sostanzia in tutta una serie di disposizioni legislative recenti [11], induce a ritenere che se e nei limiti in cui talune s.r.l. faranno ricorso al mercato del capitale di rischio non potrà, per esse, che attribuirsi anche al pubblico ministero la legittimazione a richiedere, in presenza delle condizioni di legge, l’adozione dei provvedimenti di controllo giudiziario contemplati dal citato art. 2409 c.c.

Un’altra delle nuove norme contenute nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza pone fine a un diverso dubbio interpretativo a cui aveva dato adito la riforma societaria del 2003 allorché – ripetendo per le s.r.l. le disposizioni in materia di responsabilità di amministratori, sindaci e direttori generali un tempo dettate soltanto per le s.p.a. e da queste estese alle s.r.l. mediante la tecnica del rinvio – aveva esplicitato la fattispecie, e la disciplina, della responsabilità verso la società e verso i singoli soci e terzi, ma non anche quella verso i creditori sociali. Questa omissione aveva fatto propendere una corrente degli interpreti per ravvisare che il ceto creditorio – prevalentemente rappresentato, nella pratica, dagli organi delle procedure concorsuali – non avesse più azione nei confronti dei predetti esponenti societari (considerando dunque l’omissione stessa come scientemente voluta dal legislatore delegato); mentre un’altra corrente riteneva che, pur nel silenzio della legge, tale azione potesse venire comunque esercitata essendo intrinseca al “sistema” delle società, quanto meno delle società di capitali (considerando invece l’omissione in parola né più né meno che alla stregua di una semplice svista).

Ora – e anche in questo caso, finalmente – la materia del contendere è venuta definitivamente meno grazie all’inserzione, quale nuovo comma 6 del­l’art. 2476 c.c., delle tre identiche proposizioni che compongono, nel loro insieme, il testo integrale dell’art. 2394 sulla responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali [12], a cui vien fatto rinvio anche per quanto riguarda l’analoga responsabilità dei sindaci (art. 2407, comma 3, c.c.), dei direttori generali (art. 2396 c.c.) e dei liquidatori (art. 2491, comma 3, c.c.) [13]. Non è stato tuttavia ripreso – probabilmente dandolo per scontato – il disposto dell’art. 2394-bis c.c., di più recente introduzione (con la riforma del 2003) per le s.p.a., che attribuisce a determinati organi delle procedure concorsuali nelle quali le società fossero cadute (curatore, commissario liquidatore o commissario straordinario) la competenza ad esercitare le azioni sociale e creditoria di responsabilità [14]. Il principio, già affermato nella disciplina endosocietaria dalla norma da ultima menzionata, trova infatti palese applicazione con riguardo alle s.r.l. soggette ad altrui direzione e coordinamento giusta il disposto del­l’art. 2497, comma 4, c.c., riveduto nella forma per adeguarlo al lessico del Codice della crisi d’impresa, e a quelle versanti in stato di liquidazione (artt. 2485, comma 1, 2486, comma 2, e 2489, comma 2, c.c.); anche se non pare potersi dubitare che tale principio valesse pure – e valga –per tutte le s.r.l. assoggettate a liquidazione giudiziale e alle altre procedure concorsuali con finalità liquidatoria in virtù dell’esplicita previsione dell’art. 146, comma 2, lett. a), l. fall., non potendosi ravvisare sussistente, a tale proposito, alcun elemento suscettibile di lasciar intravvedere una disparità di situazione oggettiva – e quindi di disciplina applicabile – fra le s.p.a. e le s.r.l. cadute nelle suddette procedure concorsuali; e come appaiono ora altresì confermare gli artt. 115, 255 e 307 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, i quali espressamente attribuiscono al curatore nella liquidazione giudiziale, al liquidatore giudiziale nel concordato preventivo e al commissario liquidatore nella liquidazione coatta amministrativa, debitamente autorizzati, la potestà di promuovere o proseguire l’azione dei creditorisociali prevista dagli artt. 2394 e 2476 c.c. [15].

Non deve stupire, quanto meno sotto il profilo lessicale, che la citata norma dell’art. 2394-bis contenga ancora per ben due volte il sostantivo “fallimento” [16], ormai caduto in desuetudine e non presente nel Codice della crisi d’im­presa e dell’insolvenza. Per vero, soltanto con riferimento ad alcune specifiche norme contenute nel Codice civile il d.lgs. n. 14/2019 ha precisato – all’art. 382, destinato ad entrare in vigore il 15 agosto 2020, analogamente alla maggior parte delle disposizioni ivi contenute – che l’espressione “fallimento” è sostituita con “procedura di liquidazione giudiziale” e quella di “fallito” è sostituita con soggetto “nei confronti del quale sia stata aperta o estesa”tale procedura [17]: si tratta dei soli artt. 2288, 2308 e 2497 c.c. [18], concernenti essenzialmente la disciplina societaria (rispettivamente delle società semplici e in nome collettivo e di quelle sottoposte ad altrui direzione e coordinamento). Tuttavia, con una disposizione di carattere generale, l’art. 349 del Codice della crisi d’impresa – il quale pure entrerà in vigore il 15 agosto 2020 – sancisce che: “Nelle disposizioni normative vigenti i termini ‘fallimento’, ‘procedura fallimentare’, ‘fallito’ nonché le espressioni dagli stessi termini derivate devono intendersi sostituite, rispettivamente, con le espressioni ‘liquidazione giudiziale’, ‘procedura di liquidazione giudiziale’ e ‘debitore assoggettato a liquidazione giudiziale’ e loro derivati, con salvezza della continuità delle fattispecie” [19]; con ciò risolvendo una volta per tutte – sia pure dalla suddetta data – la questione del coordinamento linguistico fra il suddetto Codice ed il Codice civile e ogni altra legge vigente che detti disposizioni inerenti le procedure concorsuali e gli imprenditori commerciali (non piccoli) che vi siano assoggettati.


5. L'organo sindacale nelle s.r.l.

La “telenovela” del controllo interno nelle s.r.l. si è arricchita di nuove avvincenti puntate.

Dapprima è stato disconnesso, per la nomina del soggetto a cui compete il controllo interno su queste società, il collegamento con la soglia prevista dal Codice civile per la redazione del bilancio d’esercizio in forma abbreviata (art. 2435-bis, comma 1, c.c., richiamato dal previgente art. 2477, comma 3, lett. c), il quale attribuiva detta facoltà alle società non quotate che non fossero tenute alla redazione del bilancio consolidato, o che non controllassero una società obbligata alla revisione legale dei conti, o che per due esercizi consecutivi non avessero superato due dei seguenti limiti: totale dell’attivo 4.400.000 euro; ammontare dei ricavi della gestione caratteristica – vendite e prestazioni – 8.800.000 euro; numero medio di dipendenti 50 unità). Con l’avvento del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (art. 379, comma 1, lett. c) è stato fatto obbligo di nominare tale soggetto, oltre alle s.r.l. tenute alla redazione del consolidato o che controllino una società obbligata alla revisione legale dei conti, anche a quelle che abbiano superato per due esercizi consecutivi almeno uno dei seguenti limiti: totale dell’attivo 2 milioni di euro; ammontare dei ricavi della gestione caratteristica – vendite e prestazioni – 2 milioni di euro; numero medio di dipendenti 10 unità (novellato comma 2 dello stesso art. 2477). La soglia dell’obbligo di nomina dell’organo sindacale, dunque, si è così notevolmente abbassata. E – ulteriore differenza – è stato disposto che l’obbligo in questione venga meno non più quando per due esercizi consecutivi non siano superati i limiti indicati dal comma 1 dell’art. 2435-bis– come sancito dal comma 4 del menzionato art. 2477, nella versione anteriormente in vigore – bensì quando nessuno dei suddetti nuovi limiti stabiliti dall’art. 2477, comma 2, cc. venga superato per tre esercizi consecutivi, con ciò introducendosi, nelle s.r.l., una meno agevole eliminazione dell’obbligo di subire il controllo interno ad opera dell’organo o del soggetto all’uopo incaricato (novellato comma 3 del medesimo articolo) [20].

Peraltro, notevoli problemi sono rimasti per effetto della disposizione del medesimo art. 2477, comma 1 – non modificato rispetto alla stesura previgente, risalente alla riforma del 2003 – il quale prevede che le s.r.l. possono essere assoggettate al controllo di un organo di controllo interno, e dunque di un organo sindacale, solitamente monocratico (sindaco unico), a meno che l’auto­nomia statutaria dei soci non richieda la nomina di un collegio di sindaci, ovvero, in alternativa, di un revisore (individuale o società di revisione legale), che “organo”, nel senso tecnico-giuridico del termine, non è. Per vero, ci si sarebbe attesi che anche questa disposizione venisse riveduta, giacché una cosa è l’esercizio dell’attività di vigilanza spettante ai sindaci e tutt’altra cosa è il controllo contabile pertinente invece alla funzione del soggetto incaricato della revisione legale dei conti. Per meglio dire, mentre i sindaci delle s.r.l. – ove non diversamente disposto dallo statuto – possono normalmente esercitare la revisione legale dei conti (e dunque il controllo contabile, secondo l’accezione in uso anteriormente all’emanazione del d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 39), fra i compiti dei revisori legali dei conti non rientra l’attività di vigilanza, tipica del collegio – ora organo, per tener conto anche della figura del sindaco unico – sindacale, ex art. 2403 ss. c.c., a cui rinvia il successivo art. 2477, comma 4 (già comma 5).

Ciò significa che il revisore legale – il quale continua a poter essere nominato in alternativa all’organo sindacale (il comma 1 del suddetto art. 2477 parla infatti della nomina “di un organo di controllo o di un revisore”, tenendo così ben distinta la figura del revisore da quella dell’organo di controllo, beninteso interno alla società) – non vigila, per fare qualche esempio, sull’osservanza della legge e dell’atto costitutivo, né sul rispetto dei princìpi di corretta amministrazione, né sull’adeguatezza della struttura organizzativa, amministrativa e contabile della società e sul suo concreto funzionamento; non interviene alle adunanze dell’assemblea, del consiglio di amministrazione e alle riunioni del comitato esecutivo, ove esistente; non esercita, nei casi previsti dalla legge, funzioni di supplenza in attività spettanti agli amministratori qualora queste non vengano o non possano venire svolte; non redige, in aggiunta alla relazione di revisione, la relazione sull’approvazione del bilancio d’esercizio e sulla proposta di destinazione del risultato economico ex art. 2429, comma 2, c.c.; non può ricevere denunzie di fatti censurabili dai soci ex art. 2408 c.c., né può sporgere denunzie al tribunale di gravi irregolarità nella gestione compiute dagli amministratori ex art. 2409 c.c. (tanto più ora che, come s’è visto in precedenza, queste sono di nuovo pacificamente ammissibili anche nelle s.r.l.). Insomma, in estrema sintesi, allorché il controllo sulle s.r.l. è affidato dall’autonomia statutaria a un revisore legale nessuno svolge le funzioni di vigilanza proprie dei sindaci; mentre se tale controllo è affidato all’organo sindacale questo può svolgere anche la funzione di revisione legale dei conti.

Il che viene altresì affermato dal comma 4 (olim comma 5) del medesimo art. 2477 c.c., a mente del quale: “Nel caso di nomina di un organo di controllo, anche monocratico [i.e. di un sindaco unico o del collegio sindacale], si applicano le disposizioni sul collegio sindacale previste per la società per azioni”; mentre, per converso e per implicito, tali disposizioni non si applicano nel caso – alternativo – di nomina di un revisore. Con la conseguenza che, in questa seconda ipotesi, nessuno svolgerà le funzioni di vigilanza tipiche dell’organo sindacale che sarebbero vieppiù utili ed opportune nelle società chiuse, nelle quali il socio o i soci di maggioranza, non di rado rivestenti altresì cariche amministrative, possono con maggiore facilità prevaricare le minoranze in assenza di qualsiasi verifica sulla legalità del funzionamento della società e sulla correttezza dell’amministrazione, la cui mancanza conduce necessariamente a dover fare ricorso al rimedio consistente nell’adire il tribunale per richiederne lo scrutinio delle gravi irregolarità, pregiudizievoli per la società o per sue controllate, delle quali si sia maturato un fondato sospetto e – occorrendo – l’assunzione dei conseguenti provvedimenti [21].

A regime, nelle s.r.l. per le quali sia sopraggiunto l’obbligo di nominare l’organo di controllo (sindacale) o il revisore legale, tale nomina deve essere deliberata dall’assemblea entro trenta giorni dall’approvazione del bilancio in cui vengano superati i limiti di legge che il suddetto obbligo abbiano fatto sorgere (novellato comma 5 dell’art. 2477); in caso di inerzia dell’assemblea, provvederà alla nomina il tribunale su richiesta di qualunque interessato o su segnalazione del conservatore del registro delle imprese (ibidem, ove l’ultima proposizione è stata aggiunta rispetto alla versione previgente dell’ultimocomma dello stesso articolo). In questa seconda ipotesi dovrebbe ritenersi che il tribunale provveda alla nomina di un sindaco unico, essendo quella di un collegio sindacale o di un revisore legale dei conti riservata, nel considerato tipo societario, all’autonomia statutaria dei soci.

Nel diritto transitorio è stato invece espressamente previsto dall’art. 379, comma 3, del Codice della crisi d’impresa che le s.r.l. – e con esse le società cooperative – costituite alla data di entrata in vigore del novellato art. 2477 c.c. (16 marzo 2019) “devono provvedere a nominare gli organi di controllo o il revisoree, senecessario, ad uniformare l’atto costitutivo e lo statuto alle disposizioni di cui al predetto comma 1 entro nove mesi dalla predetta data. Fino alla scadenza del termine [cioè fino al 16 dicembre 2019] le previgenti disposizioni dell’atto costitutivo e dello statuto conservano la loro efficacia anche se non sono conformi alle inderogabili disposizioni di cui al comma 1. Al fine della prima applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 2477 del codice civile, commi terzo e quarto, come sostituiti dal comma 1, si ha riguardo ai due esercizi precedenti la scadenza indicata nel primo periodo”, ossia appunto quella del 16 dicembre 2019. Da ciò discende che, in base alla statuizione del Codice della crisi d’impresa, le società dei suddetti tipi – s.r.l. e cooperative – già esistenti al 16 marzo 2019 devono provvedere, verificandosene i presupposti, alla nomina dell’organo sindacale o del revisore entro il 16 dicembre 2019 ed entro la stessa data – occorrendo – devono altresì provvedere all’adeguamento dell’atto costitutivo e dell’annesso statuto alle nuove prescrizioni normative.

Tutta questa costruzione, tuttavia, non è durata che l’espace d’un matin. Neppure sei mesi dopo, infatti, nella legge 14 giugno 2019, n. 55, di conversione del decreto “Sblocca cantieri” (d.l. 18 aprile 2019, n. 32), è stata introdotta da un Parlamento ormai in balìa di un’orda scatenata di lobbisti una nuo­va norma – l’art. 2-bis, comma 2, neppure allocato nel corpo della stessa legge, bensì nel­l’appendice di questa, contenente le modificazioni apportate al predetto decreto legge in sede di conversione, secondo un modo di legiferare indegno di un Paese civile – con la quale l’art. 2477, comma 2, c.c. è stato nuovamente modificato [22] nel senso di sancire per le s.r.l. l’obbligo di dotarsi dell’organo di controllo sindacale o del revisore legale, oltreché nei casi in cui siano tenute alla redazione del bilancio consolidato o controllino una società obbligata alla revisione legale dei conti, qualora abbiano superato per due esercizi consecutivi almeno uno dei seguenti limiti: totale dell’attivo 4 milioni di euro; ammontare dei ricavi della gestione caratteristica – vendite e prestazioni – 4 milioni di euro; numero medio di dipendenti 20 unità. Con il che l’asticella dell’obbligo in parola, abbassatasi troppo, per i gusti di qualche “potere forte”, con il Codice della crisi, è stata riposizionata ad un livello esattamente doppio del precedente. Dio solo sa se l’ondata dei révirements normativi in materia può considerarsi conclusa o sarà destinata a variare ancora per approssimazioni successive …

Immutata è invece rimasta la disposizione ai sensi della quale l’obbligo delle s.r.l. di dotarsi dell’organo di controllo o del revisore cessa quando, per tre esercizi consecutivi, non sia superato alcuno dei suddetti limiti.

La questione, tuttavia, non può ancora considerarsi risolta semplicemente con il menzionato innalzamento della soglia dell’obbligo in riferimento. Per vero, la legge n. 55/2019 non è intervenuta a modificare la disposizione dettata dall’art. 379, comma 1, lett. c), del Codice della crisi d’impresa, bensì ha modificato direttamente – e unicamente – l’art. 2477 c.c. Nulla, in particolare, è stato detto da tale ultima legge con riguardo alla previsione, dianzi ricordata, del medesimo art. 379, comma 3, del suddetto Codice, concernente il termine di nove mesi per nominare i primi sindaci o revisori diventati obbligatori in virtù della (penultima) modificazione introdotta da tale Codice all’art. 2477 c.c. e per modificare conseguentemente gli atti costitutivi e gli statuti societari che diversamente avessero disposto. Resta, insomma, da stabilire se quel termine di nove mesi, che era stato concesso in relazione alla norma dell’art. 379, comma 3, del Codice della crisi d’impresa, non più in vigore in quanto implicitamente abrogata dall’art. 2-bis, comma 2, della legge n. 55/2019, sia ancora sussistente o non lo sia più.

Senza dubbio il mantenimento di questo termine avrebbe un senso; ma, ahinoi, non è soltanto con il buon senso che si fa il diritto, e tanto meno con la sbrigatività di lobbisti faciloni e la superficialità di legislatori dilettanti. E allora potrebbe essere tutt’altro che peregrina la tesi secondo cui, venuto meno il comma 2 dell’art. 379 del Codice della crisi, e non essendo stata prevista dalla legge n. 55/2019 alcuna disposizione transitoria in proposito, anche il 3° com­ma dello stesso art. 379 abbia perduto la sua vigenza e non resti che l’appli­cabilità alle s.r.l. della norma dell’art. 2477, comma 5, c.c. a mente della quale: “L’assemblea che approva il bilancio in cui vengono superati i limiti indicati al terzo comma deve provvedere, entro trenta giorni, alla nomina dell’or­gano di controllo o del revisore”. Ciò almeno con decorrenza dal 18 giugno 2019, data di entrata in vigore della nuova legge n. 55/2019.


6. Segue: lo status dei sindaci nelle società di capitali.

Le innovazioni normative suesposte, per quanto di notevole rilievo, non so­no peraltro le più importanti fra quelle che interessano l’organo sindacale delle società di capitali: non solo quindi delle s.r.l., ma anche delle stesse società azionarie. Intendo riferirmi al ruolo che, in virtù delle disposizioni del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, i sindaci hanno assunto nell’organizza­zione societaria e al loro stesso status giuridico.

Com’è noto, specie in un passato non molto recente, era stato assai dibattuto il ruolo del collegio sindacale (l’idea del sindaco unico era ancora di là da venire) nelle società di capitali. Qual era – si chiedevano gli interpreti – l’in­teresse tutelato dal collegio sindacale? E, a seconda della risposta che si opinasse dare a tale quesito, ne risultavano affermate una funzione piuttosto che un’altra dell’organo e una qualificazione soggettiva piuttosto che un’altra dei suoi componenti. A fronte di una dottrina tradizionale un tempo largamente condivisa – ma ora decisamente superata – la quale sosteneva che i sindaci tutelassero gli interessi della maggioranza della compagine sociale, dalla quale promana la loro nomina, v’era chi attribuiva ad essi una funzione di garanzia dei soci di minoranza attraverso la vigilanza sull’operato degli amministratori, che sono espressione della maggioranza (Galgano). Altri autori configuravano, a fianco della tutela dell’interesse sociale, una funzione di tutela di interessi diversi – extrasociali – e fra questi specialmente dei creditori (De Gregorio, Greco, Graziani, Colombo) o addirittura di salvaguardia del pubblico interesse ad una corretta gestione societaria e ad un soddisfacente funzionamento del sistema economico complessivamente considerato (Mossa, Frè, Portale), fino ad intravvedere nel controllo sindacale una funzione di generale tutela di tutti i terzi comunque interessati alle sorti della società (Franceschelli). Non mancava inoltre una corrente più estrema che si era spinta al punto di considerare talora legittima e doverosa un’azione del collegio sindacale volta a garantire interessi perfino contrastanti con quelli dei soci, nell’intento di assicurare ad ogni costo il comportamento giuridico della società (ancora Graziani e, dopo di lui, Sandulli).

Avverso queste tesi – pur diverse tra loro – miranti ad attribuire rilevanza esterna al controllo sindacale si erano tuttavia schierati giuristi non meno illustri i quali sostenevano che i sindaci non hanno alcun dovere di tutelare interessi estranei a quello sociale e che essi devono pertanto trovare il loro unico ed esclusivo referente nell’assemblea della società che li abbia nominati, intesa quale organo rappresentativo della collettività dei soci, senza avere alcun obbligo di segnalare eventuali irregolarità riscontrate nello svolgimento delle loro funzioni ad autorità esterne alla società stessa (Messineo, Ferri, De Martini, Foschini, Cavalli, seguiti da molti altri, fra cui Domenichini e chi scrive). Alla luce di questa impostazione concettuale – che ha poi finito con l’affer­marsi, anche grazie al sostegno della giurisprudenza – la dottrina assolutamente prevalente aveva negato che i sindaci delle società commerciali fossero pubblici ufficiali, tendendo a mantenere l’azione di vigilanza del collegio sindacale all’interno di un sistema squisitamente privatistico (Nuvolone, Vassalli) [23].

Questo inquadramento del ruolo e della funzione dell’organo sindacale si è consolidato nel tempo ed è durato senza significativi contrasti sul piano ermeneutico fino all’emanazione del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, non avendo subìto mutamenti sostanziali né con la riforma societaria del 2003 né con il disgiungimento del controllo contabile – poi revisione legale dei conti – dall’attività di vigilanza rimasta di esclusivo appannaggio del predetto organo (d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 39, come modificato dal d.lgs. 17 luglio 2016, n. 135). Non si riteneva, invero, che il ruolo e la funzione anzidetti fossero stati modificati nei loro lineamenti essenziali dall’introduzione di determinati obblighi di disclosure dei collegi sindacali di particolari categorie di società di diritto “speciale” verso le autorità preposte a vigilare sulla loro attività, quali quelli delle società quotate verso la CONSOB, delle società esercenti attività bancaria e di intermediazione finanziaria nei confronti del pubblico verso la Banca d’Italia e di quelle esercenti attività assicurativa verso l’IVASS [24].

Adesso però, con il Codice della crisi d’impresa, i collegi sindacali di tutte le società che, per obbligo di legge o in virtù dell’autonomia statutaria dei soci, ne siano dotati, e non solo quelli di alcune categorie di società di diritto “speciale”, hanno il dovere – condiviso con i soggetti incaricati della revisione legale dei conti, “ciascuno nell’ambito delle proprie funzioni” – dapprima di “segnalare immediatamente all’organo amministrativo l’esistenza di fondati indizi della crisi”, dando così avvio alla procedura di allerta contemplata dal­l’art. 12 ss. di detto Codice, e, successivamente, verificandosene i presupposti stabiliti dal successivo art. 14, comma 2, di informare senza indugio il competente organismo di composizione della crisi d’impresa (OCRI) “fornendo ogni elemento utile per le relative determinazioni”, anche in deroga all’obbligo di segretezza altrimenti sancito dall’art. 2407, comma 1, c.c. [25]. Dovere, dunque, di portata generale di rendere ampie informazioni sull’esistenza di una situazione di crisi imprenditoriale della società vigilata a un organismo che, per la sua composizione (artt. 16 e 17) e soprattutto per le mansioni affidategli dalla nuova disciplina concorsuale (art. 18 ss.), presenta spiccati caratteri per poter essere qualificato di pubblico rilievo [26]. Ciò senza omettere di evidenziare che l’OCRI, dopo che il suo intervento sia stato stimolato dall’organo sindacale o dal revisore legale – professionista individuale o società di revisione –, è a sua volta tenuto a segnalare al pubblico ministero la sussistenza dello stato di insolvenza del debitore per l’assunzione dei provvedimenti di sua competenza (art. 22, comma 1).

Dalla recente riforma del diritto concorsuale italiano, insomma, i sindaci – e con essi i soggetti incaricati della revisione legale dei conti – soprattutto per l’obbligo di cui sono stati onerati di dare impulso alla menzionata procedura di allerta sono stati vieppiù assimilati ai commissaires aux comptesfrancesi, le cui funzioni esorbitano da un ambito essenzialmente interno alle società in cui operano per impingere anche in un più ampio contesto pubblicistico. Questa considerazione riposa, tra le altre, sulle disposizioni dell’art. L. 234-1 e 234-2 del Code de commerce, a norma delle quali i commissaires aux comptes sono obbligati ad informarsi sui fatti suscettibili di compromettere la continuità aziendale [27]; fatti in presenza dei quali hanno altresì l’obbligo di avviare una procédure d’alerte mediante un’apposita segnalazione al presidente del consiglio d’amministrazione o al directoire (organo di amministrazione esecutiva corrispondente al consiglio di gestione nel modello dualistico di governance di diritto italiano). In caso di mancata risposta, o di risposta insoddisfacente, il commissaire aux comptes deve rivolgere al presidente o al directoire invito scritto a riunire, rispettivamente, il consiglio d’amministrazione o il consiglio di sorveglianza entro otto giorni per assumere idonee determinazioni sulle criticità segnalate. Tali determinazioni sono comunicate al comité d’entreprise e il commissaire aux comptes ne informa altresì il presidente del tribunale di commercio. Nel caso in cui non vengano assunte determinazioni al riguardo o, nonostante queste, la continuità aziendale rimanga compromessa, il commissaire, dopo aver allertato l’assemblea dei soci – che egli stesso ha la facoltà di convocare – e il comité d’entreprise, deve ulteriormente informare il presidente del tribunale di commercio delle iniziative assunte e dei risultati a cui queste hanno condotto [28]. Dunque tali misure – dalle quali non si discostano molto le procedure d’allerta recentemente introdotte nel diritto italiano – prevedono una stretta e costante collaborazione dei commissaires auxcomptes con il presidente del tribunale di commercio territorialmente competente; così come altrettanto stretta e costante è la prescritta collaborazione dei sindaci italiani con gli organismi di composizione delle crisi d’impresa e, attraverso questi, con i presidenti dei tribunali ordinari territorialmente competenti. Oltre a ciò i commissaires aux comptes hanno l’obbligo di rendere informazione al Parquet – ossia alla procura della Repubblica francese – su tutti i fatti penalmente rilevanti di cui vengano a conoscenza nel corso dei propri controlli (art. L. 823-12 C. com.) e che siano considerati come delitti o reati, anche contravvenzionali, dal diritto societario, dal diritto contabile, dal diritto tributario o da specifiche disposizioni in materia giuslavoristica, previdenziale e doganale, ed in genere di fatti criminosi che esplichino un significativo rilievo per la contabilità sociale, senza peraltro che tale obbligo si estenda ad ogni altra fattispecie contemplata dal diritto penale che esorbiti da quelle, testè riferite, rientranti nel­l’ambito dei controlli funzionalmente pertinenti ai medesimi commissaires aux comptes: obbligo la cui violazione è punita con la reclusione fino a cinque anni e con un’ammenda fino a 75.000 euro, oltre alle sanzioni accessorie [29].

È forse prematuro pretendere ora – a così poco tempo dall’introduzione della nuova disciplina delle procedure di allerta e senza che la questione sia stata sufficientemente delibata dalla giurisprudenza e dalla dottrina – di trarre dalle considerazioni che precedono, e dalle disposizioni normative da cui pro­manano, delle conclusioni sicure sul fatto che il collegio sindacale (od anche, nelle s.r.l., il sindaco unico) mantenga, come in passato, il proprio status di organo di controllo esclusivamente interno alla società vigilata, operante, come detto, entro un sistema squisitamente privatistico. Con buona probabilità sarebbe ancora condivisibile che ai sindaci non si attagli neppure adesso lo status di pubblici ufficiali; ma non altrettanto mi sentirei di dire a cuor leggero circa una loro possibile qualificazione come incaricati di un pubblico servizio. In una prospettiva fondamentalmente smithiana dell’economia, di certo non pare più possibile asserire che lo scopo del controllo sindacale sia ormai rimasto esclusivamente quello di quasi un secolo fa, ossia di vigilare che le singole società riescano a competere proficuamente sul mercato in cui operano; dovendo tale controllo spingersi oltre, e precisamente a tutelare l’affidabilità, la sicurezza e il buon funzionamento del mercato. Valori, questi, che intanto possono trovare affermazione in quanto i protagonisti delle attività che sul mercato si svolgono, o almeno la maggior parte di essi – ossia delle imprese e delle società –, siano osservanti della legalità e della correttezza nell’amministra­zione e nella pratica degli affari: in una parola, in quanto siano “sani”.

Senza dubbio questo scopo trascende quello strettamente privatistico ed endosocietario; così come, di conseguenza, il ruolo e la funzione dei sindaci nel contesto economico in cui espletano il proprio ufficio non pare potersi più dire essere rimasti immutati rispetto al tempo antecedente all’emanazione del Codice della crisi d’impresa. E su questo occorrerà riflettere attentamente, perché dagli esiti di tale introspezione dipenderà gran parte delle sorti dell’i­stituto del controllo sindacale nel nostro Paese.


NOTE

[1] Sul quale cfr. segnatamente gli studi di L. MOSSA, L’impresa nell’ordine corporativo con prefazione di G. Bottai, Firenze, 1935; U. SPIRITO, Capitalismo e corporativismo, Firenze, 1934; ID., L’efficacia costituzionale della Carta del Lavoro, in Arch. studi corp., 1931, 163 ss.; ID., Capitalismo, socialismo e corporativismoivi, 1934, 233 ss.; G. BOTTAI, La Carta del Lavoro e l’esperienza corporativaivi, 1937, 1 ss.; F. FERRARAsr.Nuovi sviluppi del diritto corporativoivi, 1931, 17 ss.; L. RIVA SANSEVERINO, A proposito del regime giuridico della Carta del Lavoroivi, 1941, 535 ss.; G. MAZZONI, Le fonti corporative del diritto e le fonti del diritto corporativo: concetto, classificazione e rapportiivi, 1941, 233 ss.; ed E. SOPRANO, Il diritto dell’economia corporativa come disciplina economicaivi, 1942, 321 ss.

[2] Per alcune considerazioni su questa norma e sulle prospettive che essa dischiuse nell’am­bito del diritto dell’impresa mi permetto rinviare a L. DE ANGELIS, Riflessioni sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, in Riv. dir. impr., 2012, 81 ss.

[3] Su cui v. N. ABRIANI, A. ROSSI, Nuova disciplina della crisi d’impresa e modificazioni del codice civile: prime letture, in Società, 2019, 393 ss.

[4] Fatta unicamente eccezione per la previsione residuale presa in considerazione dall’art. 2323, comma 2, c.c.

[5] N. ABRIANI, A. ROSSI, op. cit.,(nt. 3), 398 ss.; L. CALVOSA, Gestione dell’impresa e della società alla luce dei nuovi artt. 2086 e 2475 c.c., in Società, 2019, 799 ss.

[6] La letteratura, sul punto, è amplissima: fra i molti cfr. G. OPPO, voce Impresa e imprenditore, in Enc. giur. Treccani, XXII, Roma, 1987, spec. § 5; F. GALGANO, voce “Società (diritto privato)”, in Enc. del dir., XLII, Milano, 1990, 865 ss.; F. DI SABATO, Manuale delle società, Torino, 1995, 10 ss. e 25 ss.; G. MARASÀ, Le “società” senza scopo di lucro, Milano, 1984, 85 ss. e 424 ss.; ID., Società tra professionisti e impresa, in Riv. not., 1997, 1345 ss.; ID., Le società, Milano, 2000, 155 ss. e 210 ss.

[7] Sull’argomento, e sulla base di esempi concreti che in questa sede non sarebbe possibile ripercorrere funditus, mi sia consentito rinviare ancora a L. DE ANGELIS, L’oggetto sociale, in AA.VV., Trattato delle società di persone, a cura di F. Preite e C.A. Busi, I, Assago, 2015, 663 ss., ove riferimenti dottrinali e giurisprudenziali; ID., Le società in generale, in AA.VV., Diritto commerciale, I, Milano, 2017, 181 ss., spec. 186 ss.

[8] Nonché da parte del consiglio di sorveglianza (nelle s.r.l. che adottino il modello dualistico) o del comitato per il controllo della gestione (in quelle che adottino il modello monistico). Sul fatto che non sia precluso a questo tipo societario dotarsi di qualsiasi modello capitalistico di governance consentito dall’ordinamento – e quindi anche dei modelli dualistico e monistico, in alternativa a quello tradizionale – rinvio a quanto avevo osservato nell’immediatezza della riforma nel mio articolo Amministrazione e controllo nelle società a responsabilità limitata, in Riv. soc., 2003, 469 ss., spec. 478 s., che qui confermo.

[9] N. ABRIANI, A. ROSSI, op. cit., (nt. 3), 403 s.; V. SALAFIA, La società r.l. e l’art. 2409 c.c., in Società, 2019, 457 s.

[10] Su cui v. O. CAGNASSO, Il socio di s.r.l. privo del diritto di voto. Qualche riflessione in tema di proprietà e controllo nell’ambito delle società P.M.I., relazione al IX Convegno nazionale dell’associazione Orizzonti del Diritto commerciale, Roma, 23-24 febbraio 2018, nel Panel “S.r.l. e società chiuse”, in Il nuovo diritto societario, 2018, 915 ss., ove ampi riferimenti; N. ABRIANI, Que reste-t-il della s.r.l.?, relazione tenuta ai medesimi Convegno e Panel; L. DE ANGELIS, La s.r.l. cent’anni dopo: una società à la carte, intervento svolto in qualità di discussant della menzionata relazione di Oreste Cagnasso al Convegno anzidetto, in Società, 2018, 684 ss., spec. 687 ss.; cui addeG. FERRARINI, I costi dell’informazione societaria per le P.M.I.: mercati alternativi, crowdfunding e mercati privati, in AA.VV., Società, banche e crisi d’impresa, 3, Torino, 2014, 2077 ss., spec. 2089 ss.; A. GUACCERO, La start-up innovativa in forma di società a responsabilità limitata: raccolta del capitale di rischio ed equity crowdfunding, in Impresa e mercato. Studi dedicati a Mario Libertini, I, Milano, 2015, 245 ss.; L. SALVATORE, Le start-up innovative.Tra dato normativo e prassi contrattuale, in AA.VV., La folla e l’impresa, a cura di R. Colurcio e A. Laudonio, Bari, 2016, 197 ss.; M. CIAN, S.r.l. PMI, s.r.l., s.p.a.: schemi argomentativi per una ricostruzione del sistema, in Riv. soc., 2018, 818 ss., spec. 837 ss., ove ulteriori riferimenti; G.P. LA SALA, Start-up innovative: fattispecie e costituzione in forma di s.r.l.ivi, 2018, 1118 ss.; A. BUSANI, Massime notarili e orientamenti professionali. Categorie di quote nella S.r.l.-PMI, in Società, 2019, 493 ss.

[11] Disposizioni che vanno dall’ammissibilità che queste società emettano titoli di debito (art. 2483 c.c., novellato dalla riforma del 2003), a quella della facoltà che le p.m.i. innovative in forma di s.r.l. offrano proprie quote di partecipazione al pubblico specialmente con la tecnica del crowdfunding (d.l. n. 3/2015, convertito nella l. n. 33/2015), a quella della possibilità che le quote di partecipazione di queste medesime s.r.l. formino oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari attraverso i portali per la raccolta di capitali (d.l. n. 50/2017, art. 51, comma 1, convertito nella l. n. 96/2017), a quella dell’estensibilità del crowdfunding ai predetti titoli di debito in genere, comprese le obbligazioni (l. 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, comma 238, che ha inserito nel t.u.f. il nuovo art. 100-ter, comma 1-ter).

[12] È altresì significativo, al riguardo, l’ultimo comma dell’art. 115 del Codice della crisi d’impresa il quale, riferendosi al concordato preventivo, stabilisce: “Resta ferma in ogni caso, anche in pendenza della procedura e nel corso della sua esecuzione, la legittimazione di ciascun creditore sociale a esercitare o proseguirel’azione di responsabilità prevista dall’ar­ticolo 2394 del codicecivile”, e ciò con riguardo indifferentemente alle società – nella specie, di capitali – di qualunque tipo; segno evidente che anche in precedenza nelle stesse s.r.l. – fossero esse in bonis oppure già ammesse alla procedura concordataria – gli amministratori (e con questi i sindaci, i direttori generali e i liquidatori) potevano senza dubbio venire convenuti in giudizio dai creditori sociali ai sensi della citata norma. Cfr., sul punto, A. ZANARDO, Le azioni di responsabilità nel concordato preventivo, Torino, 2018, 115 ss., spec. 140 ss.

[13] N. ABRIANI, A. ROSSI, op. cit., (nt. 3), 403 s.

[14] Di tale norma la legge delega n. 155/2017, all’art. 14, lett. a), prevedeva però l’abroga­zione; anche se poi tale previsione è stata disattesa dal decreto delegato n. 14/2019.

[15] Non consta esistere un’analoga disposizione letterale nella disciplina dell’amministra­zione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza (d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, e ss.mm.) il cui art. 36, tuttavia, sussume – in quanto compatibili – “le disposizioni sulla liquidazione coatta amministrativa, sostituito al commissario liquidatore il commissario straordinario”, con ciò legittimando quest’ultimo ad esperire l’azione creditoria anche nel caso in cui la società in amministrazione straordinaria sia costituita secondo il tipo della s.r.l. Si ricorda che alla liquidazione straordinaria delle grandi imprese la cui crisi o insolvenza siano disciplinate in via esclusiva dal prefato decreto legislativo non trova applicazione il Codice della crisi d’impresa (art. 1, comma 2, lett. a).

[16] Al pari di quella dell’art. 2545-terdecies c.c. dedicata all’insolvenza delle società cooperative, di cui la “Proposta di decreto legislativo recante modifiche al codice civile, inattuazione della legge delega 19 ottobre 2017, n. 155” risalente al 22 dicembre 2017 aveva previsto l’abrogazione (art. 10, comma 1, lett. c) e che nel decreto delegato definitivo è invece rimasta in vigore, nella quale pure, al comma 2, il sostantivo “fallimento” ricorre due volte (mentre al comma 1 è stato sostituito con “liquidazione giudiziale”).

[17] La relazione illustrativa del decreto delegato, a commento del suddetto articolo, chiarisce che: “Le modificazioni disposte dalla norma servono ad adeguare, da un punto di vista lessicale, le disposizioni del codice civile al nuovo diritto della crisi di impresa, sostituendo le parole ‘fallito’ e ‘fallimento’ con liquidazione giudiziale”.

[18] È stato invece abrogato dal successivo art. 384 dello stesso Codice della crisi d’impresa – sempre con efficacia dal 15 agosto 2020 – l’art. 2221 c.c. recante la previsione dell’assogget­tamento alle procedure di fallimento e concordato preventivo degli imprenditori commerciali insolventi, con esclusione dei piccoli imprenditori e degli enti pubblici, salvo le disposizioni delle leggi speciali.

[19] Di tenore sostanzialmente analogo era l’art. 2 delle “Disposizioni per l’attuazione del Codice della crisi e dell’insolvenza: norme di coordinamento e disciplina transitoria”, an­ch’esse risalenti al 22 dicembre 2017.

[20] V. altresì N. ABRIANI, A. ROSSI, op. cit., (nt. 3), 405 ss.

[21] Ciò, tuttavia, senza contare che la riforma del 2003 ha inferto un grave limite al sistema del controllo giudiziario, poiché per frustrare il relativo procedimento è sufficiente la sostituzione degli amministratori – e con essi dei sindaci – in carica al momento della denunzia al tribunale con altri “soggetti di adeguata professionalità” (art. 2409, comma 3, c.c.), espressione con la quale possono intendersi anche semplicemente professionisti compiacenti, purché aventi la fedina penale pulita.

[22] Con decorrenza dal 18 giugno 2019, ossia dal giorno successivo alla pubblicazione della legge n. 55/2019 nella Gazzetta Ufficiale,come disposto dall’art. 1, comma 3, primo periodo, della stessa.

[23] Per un sintetico excursus sulle diverse teorie espresse in passato circa l’interesse tutelato dai sindaci delle s.p.a. e delle altre società di capitali cfr. L. DE ANGELIS, I limiti del controllo e i princìpi di comportamento del collegio sindacale, in Riv. dott. comm., 1989, 557 ss.

[24] G. PETROBONI, I doveri di segnalazione di sindaci e revisori alle autorità di vigilanza, Milano, 2018. Sulle possibili sanzioni per l’inosservanza di tali doveri cfr., da ultimo, Cass., 3 gennaio 2019, n. 5, in Riv. dott. comm., 2019, 51 s., riguardante una fattispecie omissiva della segnalazione alla CONSOB, da parte del collegio sindacale di una società di intermediazione fi­nanziaria, che un comunicato stampa concernente l’emissione di un prestito obbligazionario, costituente informazione privilegiata al pubblico, non era stato sottoposto all’esame del consiglio d’amministrazione, in violazione di una precisa disposizione di un regolamento interno della società.

[25] Fra i primi commenti sull’argomento v. M.C. CARDARELLI, Insolvenza e stato di crisi tra scienza giuridica e aziendalistica, in Dir. fall., 2019, I, 11 ss.; F. FERRANDI, Sentieri normativi verso l’introduzione delle misure di allerta e prevenzione della crisi di impresa nell’ordinamento italianoivi, I, 311 ss.; M. BINI, Procedura di allerta: indicatori della crisi ed obbligo di segnalazione da parte degli organi di controllo, in Società, 2019, 430 ss.; A. GUIOTTO, I sistemi di allerta e l’emersione tempestiva della crisi, in Fallimento, 2019, 409 ss.; M. FERRO, Allerta e composizione assistita della crisi nel D.Lgs. n. 14/2019: le istituzioni della concorsualità preventivaivi, 419 ss.; G. RACUGNO, Gli indicatori della crisi di impresa, in corso di pubblicazione negli Scritti dedicati a Pietro Masi, che ho potuto leggere in via anticipata grazie alla cortesia dell’autore.

[26] Dovere – merita evidenziare – il cui adempimento costituisce causa di esonero da responsabilità per i soggetti a cui incombe ex art. 14, comma 3, del Codice della crisi.

[27] Di “faits à compromettre la continuité de l’exploitation” parla specificamente l’art. L. 234-1 C. com.

[28] P. LE CANNU, B. DONDERO, Droit des sociétés, Paris, 2015, 346 s.;V. MAGNIER, Droit des sociétés, Paris, 2015, 346 s.; M. COZIAN, F. DEBOISSY, A. VIANDIER, Droit des sociétés, Paris, 2011, 448.

[29] M. COZIAN, F. DEBOISSY, A. VANDER,op. cit., (nt. 28), 447 e 449; P. LE CANNU, B. DONDERO, op. cit., (nt. 28), 347 e 349; J.M. MOULIN, Droit des sociétés et des groupes, Paris, 2011, 323.