Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2282-667X
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo pdf articolo pdf fascicolo


Scopo di lucro e di beneficio comune nel passaggio da società non benefit a società benefit (di Elisabetta Codazzi)


Il presente scritto, dopo aver evidenziato, alla luce del quadro normativo e sistematico vigente, l’essenzialità dello scopo di lucro nelle società di capitali, si propone di esaminare gli effetti che possono derivare a seguito del passaggio di una società lucrativa a società benefit e quindi del perseguimento anche di finalità di beneficio comune.

Dato che tale modifica si riflette anche su significativi aspetti della disciplina applicabile, si rende necessario, in primo luogo, stabilire con certezza i presupposti in base ai quali essa avviene e, in secondo luogo, precisare come distinguere una società benefit da una società non benefit che in modo non occasionale persegua atti di beneficio comune.

Pur in mancanza di una previsione di legge sul punto, pare, inoltre, innegabile che l’intro­duzione dello scopo di beneficio comune determini una parziale modifica della causa sociale, che, riflettendosi sulla posizione dei soci, ne può giustificare il recesso, sia nelle società di capitali che nelle società di persone, nei casi e nei modi che si è tentato di ricostruire nel presente lavoro.

Profit and common benefit purpose in the change from non-benefit to benefit companies

This paper, after having highlighted, in light of the regulatory and systematic framework in force, the essentiality of the profit-making purpose in joint-stock companies, proposes to examine the effects that may derive following the passage of a lucrative company to benefit companies and therefore also the pursuit of purposes of common benefit.

Since this change also affects significant aspects of the applicable regulations, it is necessary, first of all, to establish with certainty the conditions under which it occurs and, secondly, how to distinguish a benefit company from a non-benefit company that not occasionally pursue acts of common benefit.

Even in the absence of a legal provision on this point, it also seems undeniable that the introduction of the purpose of common benefit determines a partial modification of the corporate cause, which, reflecting on the position of the shareholders, can justify their withdrawal, both in the corporations and in partnerships, in the cases and in the ways that we have tried to reconstruct in the present work.

Keywords: lucrative company; change to benefit company; withdrawal of shareholders

Sommario/Summary:

1. Premessa. - 2. Lo scopo di lucro nelle società di capitali e la sua “resistenza” nell’attuale quadro sistematico e normativo. - 3. Le finalità di beneficio comune come «scopo aggiuntivo» nelle società benefit. - 4. Le finalità di beneficio comune tra scopo e oggetto sociale. - 5. Il perseguimento del beneficio comune nelle società lucrative (non benefit). - 6. Il passaggio da società lucrativa a società benefit ai sensi del comma 379. - 7. (segue). Gli effetti sotto il profilo della disciplina applicabile. - 8. (segue). Le conseguenze sulla posizione dei soci: considerazioni generali. - 9. Il recesso per cambiamento dell’oggetto sociale. - 10. Il recesso per cambiamento del tipo. - 11. Il recesso correlato alle modifiche dei diritti del socio. - 12. Il recesso convenzionale come forma di rinegoziazione della partecipazione del socio nella società benefit. - 13. Le società di persone tra benefit e non benefit e il recesso dei soci per giusta causa. - 14. Riflessioni conclusive. - NOTE


1. Premessa.

Nell’ambito del dibattito attualmente in corso a livello interno ed internazionale sullo scopo della società, nonché, più in generale, sull’individuazione di strumenti atti a coniugare la gestione dell’impresa lucrativa con obiettivi di sostenibilità, un apporto significativo, anche sotto il profilo sistematico, pare derivare dalla previsione della società benefit, modello societario specificamente preordinato al perseguimento di uno scopo “duale” (di lucro e di c.d. beneficio comune) [1].

Al di là delle diverse problematiche poste dalla disciplina di tale istituto (racchiusa nei commi 376-384, art. 1, l. n. 208/2015), pare interessante interrogarsi sulle possibili implicazioni sistematiche che la sua introduzione può determinare sulle ordinarie società lucrative, non essendo del tutto chiaro, in particolare, se ed entro che limiti le stesse, in presenza di uno strumento ad hoc per il perseguimento del beneficio comune, possano proseguire nel compiere atti a ciò diretti [2].

Come emergerà nelle pagine successive, se concettualmente i confini tra società benefit e società non benefit appaiono sotto questo profilo sufficientemente chiari, la scarsa precisione del dato normativo e le molteplici manifestazioni con cui nella prassi lo scopo di beneficio comune può concretamente essere configurato, nonché attuato, comportano l’esistenza di una “zona grigia”, che rende necessario effettuare alcune precisazioni atte ad individuare una linea di demarcazione tra le due fattispecie e a verificarne le conseguenze in termini di disciplina applicabile.

Nell’affrontare tali temi non si può prescindere dal considerare come l’at­tuale quadro normativo potrebbe mutare sotto la spinta del diritto comunitario, che, nell’ottica di indirizzare le imprese verso una gestione sostenibile, ha prospettato interventi volti ad incidere sui doveri fiduciari degli amministratori, esito che, come dimostra l’esperienza comparata, può essere realizzato, alternativamente, attraverso una revisione dello scopo della società (art. 169, Loi Pacte 2019-486 [3]) ovvero imponendo specifici obblighi a carico dell’organo amministrativo (Sect. 172 Comp. Act inglese) [4].

In questa prospettiva, non pare che una riflessione sul ruolo della società benefit e sulla sua rilevanza sistematica nell’ambito delle società di capitali possa perdere interesse, in primo luogo perché i nuovi sviluppi legislativi parrebbero destinati alla grande impresa azionaria, laddove il campo elettivo di applicazione della formula benefit – salvo alcune eccezioni – sembrerebbe quello delle società medio – piccole non quotate e, in secondo luogo, perché la parziale attenuazione dello scopo di lucro conseguente all’ampliamento della sfera degli interessi rilevanti (tanto nella società benefit, quanto nella società non benefit con scopo “allargato”) può comunque rendere necessario valutarne le conseguenze sotto il profilo della disciplina applicabile e, in particolare, del recesso dei soci [5].


2. Lo scopo di lucro nelle società di capitali e la sua “resistenza” nell’attuale quadro sistematico e normativo.

Al fine di meglio inquadrare le problematiche che ci si propone di approfondire nel presente scritto, pare necessario svolgere preliminarmente – pur se nei limiti consentiti in questa sede – alcune considerazioni sul tema (cruciale per il diritto societario e mai sopito nell’ambito del dibattito tradizionale) della rilevanza dello scopo di lucro nelle società di capitali [6].

Un autorevole punto di vista su tale questione è stato espresso in un recente parere dal Consiglio di Stato, il quale, dopo aver premesso la centralità sistematica dello scopo sociale, ha sottolineato come la stessa introduzione di novità normative, quali appunto le società benefit e le imprese sociali, abbia finito «per riaffermare (anziché sminuire) la forza della categoria giuridica tipizzante, imperniata (proprio e tra l’altro) sul fine di lucro», altresì precisando come la disciplina delle società benefit rinvenga il suo «centro connotativo» nella regolazione del fine di lucro e il suo «senso», nell’aggiunta, oltre allo scopo di dividere gli utili, anche di una o più finalità di beneficio comune [7].

In altri termini, le disposizioni che escludono o limitano lo scopo di lucro nelle società di capitali, configurandosi come eccezioni, sarebbero idonee a ribadire la portata generale della regola derogata [8].

Del resto, anche in quelle fattispecie in cui lo scopo di lucro è in via di principio escluso o limitato, non sempre l’assenza di lucratività è assoluta e coerentemente garantita dal legislatore: si pensi, in particolare, alla normativa sulle imprese sociali (in forma societaria), che, pur stabilendo quale regola generale il divieto di distribuzione degli utili, non impedisce però il perseguimento di un lucro (soggettivo) c.d. «nascosto» [9].

L’introduzione – sia pure di breve durata – delle società sportive dilettantistiche con finalità lucrative pare, invece, costituire segno di ripensamento da parte del legislatore rispetto alla scelta di totalmente escludere un requisito indefettibile della fattispecie societaria, nonché, la ragione essenziale dell’inve­stimento dei soci [10].

La normativa sulle start up innovative, a sua volta, prevede un divieto di distribuzione degli utili tra soci (art. 25, secondo comma, lett. e), d.l. n. 179/2012), limitato ad un periodo predefinito e strettamente correlato all’esi­genza di concentrare l’utilizzo delle risorse nel momento, più delicato, di avvio dell’iniziativa imprenditoriale [11].

Un apporto decisivo rispetto alla questione in esame pare però provenire dal d.lgs. n. 175/2016 («Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica»), il quale, stabilendo che le società partecipate, salvo deroghe previste dallo stesso decreto, sono sottoposte alle disposizioni codicistiche sulle società di capitali e alle altre «norme generali di diritto privato» (art. 1, terzo comma), consente di affermare anche in questo specifico contesto la centralità dello scopo di lucro ex art. 2247 c.c. (in quanto non espressamente derogato) [12].

Come, infatti, conferma la Cassazione in una recente pronuncia, solo in presenza di una espressa disposizione legislativa contenente specifiche deroghe al codice civile potrebbe affermarsi «la realizzazione di una struttura organizzata per attuare un fine pubblico incompatibile con la causa lucrativa prevista dall’art. 2247 c.c.», laddove, in mancanza di tale intervento esplicito, il fenomeno resterebbe quello di una «società di diritto comune, nella quale pubblico non è l’ente partecipato bensì il soggetto, o alcuni dei soggetti che vi partecipano e nella quale, perciò, la disciplina pubblicistica che regola il contegno del socio pubblico e quella privatistica che attiene al funzionamento della società convivono» [13].

Tali conclusioni paiono ulteriormente rafforzate dalla previsione di quel criterio di l. delega (n. 124/2015) volto a prevedere una «regolazione dei flussi finanziari, sotto qualsiasi forma, tra amministrazione pubblica e società partecipate secondo i criteri di parità di trattamento tra imprese pubbliche e private e operatore di mercato» (art. 18, primo comma, lett. l)), il quale, se interpretato in modo coerente con il sistema, può essere inteso nel senso di imporre al socio pubblico di operare come investitore c.d. razionale e quindi di valorizzare al massimo il proprio investimento in società [14].

In questi termini, la lucratività della società a partecipazione pubblica sembrerebbe addirittura rafforzata rispetto a quella di una qualsiasi società privata (ove non si prevede a carico dei soci un dovere di comportarsi in modo economicamente razionale) e questo aspetto pare tanto più significativo se si considera che proprio l’esperienza delle partecipate avrebbe rappresentato per alcuni caso emblematico di «tramonto» dello scopo lucrativo [15].

Pare, infine, che alcuni interessanti spunti di carattere sistematico possano derivare, a livello codicistico, anche dalla previsione di cui all’art. 2497 c.c., che, riconoscendo in capo ai soci della società diretta e coordinata la possibilità di far valere il danno alla «redditività e al valore della partecipazione sociale», sembrerebbe richiamare la prospettiva del c.d. «shareholder value» e qui­ndi confermare che l’interesse tipico dei soci di società lucrativa (anche al di fuori del contesto della direzione e coordinamento) è quello volto alla massimizzazione del profitto [16].

In definitiva, sulla base di tali spunti e in considerazione dei limiti posti in questa sede ad una più approfondita trattazione del tema, pare potersi ragionevolmente concludere che l’attuale quadro normativo conferma o comunque non consente di indiscutibilmente superare la centralità dello scopo lucrativo nelle società di capitali, dovendo una qualsiasi limitazione dello stesso basarsi su di una specifica disposizione di legge e quindi su di una ben precisa ratio normativa.


3. Le finalità di beneficio comune come «scopo aggiuntivo» nelle società benefit.

Alla luce delle considerazioni svolte nel precedente paragrafo e nell’ot­tica di verificare i margini di ammissibilità, entro le società ordinarie (non benefit), di finalità altruistiche o comunque non lucrative, pare necessario chiarire il rapporto tra scopo di lucro e scopo di beneficio comune nelle società benefit.

Ai sensi della normativa di riferimento, sono definite benefit le società che «nell’esercizio di una attività economica, oltre allo scopo di dividere gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse» (art. 1, comma 376), laddove per «beneficio comune» si intende «il perseguimento, nell’esercizio dell’attività economica delle società benefit, di uno o più effetti positivi, o la riduzione degli effetti negativi, su una o più categorie di cui al comma 376» (comma 378, lett. a)).

Come emerge dal tenore letterale della disposizione nonché dalla Relazione illustrativa al d.l. n. 1882, il beneficio comune è concepito dal legislatore come uno «scopo aggiuntivo» rispetto a quello di lucro («oltre allo scopo di dividere gli utili»), la cui introduzione porta perciò a qualificare in senso “duale” (o “ibrido”) lo scopo della società [17].

Sebbene lo scopo di lucro nella società benefit sia elemento essenziale, tanto sotto il profilo c.d. oggettivo (le società benefit perseguono il beneficio comune «nell’esercizio dell’attività economica» [18]), quanto sotto il profilo c.d. soggettivo (la finalità di beneficio comune è perseguita «oltre allo scopo di dividere gli utili»), pare innegabile, sulla base di una lettura complessiva delle disposizioni di cui alla l. n. 208/2015 (e, in particolare, dei commi 376, 377 e 380), che l’introduzione nell’atto costitutivo di una o più finalità di beneficio comune ne determini una compressione [19].

A differenza di alcuni interventi legislativi stranieri, ove si impone agli amministratori semplicemente di tener conto, nelle proprie scelte, anche del­l’interesse degli stakeholders, l’utilizzo dello stesso termine “bilanciamento”, che ritroviamo nella disciplina delle società benefit, allude, infatti, alla possibilità di realizzare un parziale sacrificio della prospettiva lucrativa, nelle singole operazioni, così come nell’intera attività, ove ciò si renda necessario al fine di garantire il perseguimento del beneficio comune [20].

Tale limitazione dello scopo lucrativo, rilevante livello di fattispecie, può assumere in concreto una geometria variabile a seconda della genericità (es. contribuire alla felicità dell’intera umanità) o della specificità (es. utilizzo di materie prime più costose ma non inquinanti) della clausola di beneficio comune e delle modalità con cui viene effettuato il bilanciamento da parte del­l’organo amministrativo, momento centrale, come ben noto, per la realizzazione dello scopo (“duale”) della società [21].

Sembrerebbero potersi considerare rilevanti a tal fine anche le clausole volte a realizzare una parziale destinazione degli utili a scopi altruistici o a finalità di interesse collettivo, sempre che si accompagnino ad una contestuale attività di bilanciamento tra scopo di lucro e di beneficio comune [22].


4. Le finalità di beneficio comune tra scopo e oggetto sociale.

Ulteriori precisazioni si rendono necessarie alla luce dei commi 377 e 379, previsioni con cui si stabilisce che le finalità di beneficio comune debbono essere specificamente inserite nell’oggetto sociale e che, per come formulate, potrebbero generare il dubbio di una confusione terminologica, da parte del legislatore, tra causa e oggetto (ovvero, tra le “finalità” perseguite dalla società e le “attività” dalla stessa esercitate) [23].

In realtà, non sarebbe il primo caso di inclusione dello scopo nell’oggetto sociale presente nel nostro ordinamento, disponendo, ad esempio, l’art. 2615-ter, primo comma, c.c., che le società consortili possono assumere come «oggetto sociale» gli «scopi indicati nell’articolo 2602» [24].

A tal riguardo, si è osservato come una tale formulazione, pur se apparentemente impropria, potrebbe invece ritenersi giustificata se inserita nel contesto della gestione mutualistica e quindi anche consortile, caratterizzata da una «compenetrazione» talmente forte tra oggetto e scopo dell’ente che lo scopo comune dei soci sarebbe appunto la gestione mutualistica dell’impresa [25].

Secondo altri, la previsione citata offrirebbe uno spunto sistematico di più ampia portata, consentendo di desumere che, per alcune norme e in particolari contesti, l’oggetto sociale può ricomprendere sia l’attività che lo scopo di un ente associativo, con implicazioni significative – sulle quali si porrà l’atten­zione in questa sede – sotto il profilo della disciplina applicabile (e in particolare, del recesso per cambiamento dell’oggetto sociale) [26].

Per quanto riguarda nello specifico la società benefit, l’introduzione delle finalità di beneficio comune nell’oggetto sociale avrebbe, sotto il profilo pratico, il duplice vantaggio di rendere tale previsione conoscibile ai terzi (stante le forme di pubblicità cui è sottoposto l’atto costitutivo) e di vincolare gli amministratori al suo perseguimento ex art. 2380-bis, primo comma, c.c. [27].

Detto ciò, è evidente che, come già accennato, la peculiarità della società benefit sembrerebbe riconducibile, non tanto o non solo ad un possibile ampliamento delle attività esercitabili rispetto a quelle inizialmente dedotte nel­l’oggetto sociale, ma anche e soprattutto ad un’alterazione sotto il profilo causale della generale fattispecie societaria ex art. 2247 c.c. [28].

Ciò implica che non necessariamente l’introduzione dello scopo di beneficio comune si riflette in una modifica dell’attività esercitata, potendo anche tradursi nello svolgimento di una stessa attività secondo modalità maggiormente compatibili con gli interessi degli stakeholders (ad esempio, impiego nel processo produttivo di sostanze non inquinanti al fine di determinare effetti positivi sull’ambiente, utilizzo di prodotti biologici nella produzione di alimenti al fine di ridurre gli effetti negativi per la salute dei consumatori, ecc.), aspetti che, come si vedrà, saranno idonei ad incidere sulla possibilità per i soci di esercitare il recesso per cambiamento dell’oggetto sociale (cfr. infra) [29].


5. Il perseguimento del beneficio comune nelle società lucrative (non benefit).

Alla luce di quanto precisato nei precedenti paragrafi, si rende necessario verificare entro quali limiti società lucrative (non benefit) possano perseguire scopi di diversa natura.

A tal riguardo, secondo autorevole dottrina, la possibilità per le società lucrative di porre in essere, entro determinati limiti, erogazioni a titolo gratuito o di destinare una parte degli utili distribuibili a scopi di beneficienza discenderebbe dal fatto che la causa sociale ha dei margini di elasticità tali per cui lo scopo lucrativo rappresenterebbe lo scopo principale ma non esclusivo della società [30].

Detto altrimenti, operazioni volte a realizzare finalità altruistiche sarebbero consentite solo nella misura in cui non compromettano, per natura e/o entità, la realizzazione dello scopo costituente la causa del contratto sociale (ovvero, lo scopo lucrativo), potendo perciò assumere una rilevanza occasionale e secondaria rispetto all’attività dedotta in via principale nell’oggetto sociale [31].

Il tema, come noto, è stato ripreso, con varietà di posizioni, a seguito del­l’introduzione delle società benefit.

Secondo la tesi più restrittiva, a seguito di tale intervento legislativo, la possibilità per le società non benefit di esercitare “in misura rilevante” attività volte al bene comune e prive di qualsiasi finalità lucrativa, non sarebbe più consentita (in quanto in espresso contrasto con il comma 379), potendosi semmai ammettere solo occasionali e marginali atti di beneficienza, a condizione che gli stessi, pur essendo nell’immediato non remunerativi, siano indirettamente strumentali rispetto ai fini lucrativi della società [32].

In termini non dissimili, si è precisato come le società lucrative che intendano perseguire finalità di carattere sociale siano tenute ad utilizzare il modello della società benefit solo nel caso di «opzione forte» di responsabilità sociale dell’impresa (ovvero, nel caso in cui si intendano «integrare stabilmente le finalità di bene comune nelle strategie aziendali»), non anche nel caso in cui gli impegni di responsabilità sociale non appartengano stabilmente al programma imprenditoriale concordato dai soci nello statuto e le relative iniziative siano comunque compatibili con obiettivi di massimizzazione del profitto [33].

Secondo una diversa prospettiva, invece, l’introduzione della società benefit nel nostro ordinamento non impedirebbe alle società ordinarie di realizzare anche scopi di beneficio comune, essendo una diversa lettura in contrasto con le finalità promozionali del legislatore, il quale, al di là dell’assunzione della qualifica formale di società benefit, intenderebbe favorire scopi di interesse generale e comportamenti responsabili da parte di tutte le imprese [34]. La differenza tra le società benefit e quelle non benefit starebbe, perciò, essenzialmente nel fatto che le une «devono» perseguire anche finalità di beneficio comune e le altre «possono» farlo [35].

Ferma restando la necessità di riprendere la discussione su tali temi alla luce di eventuali interventi normativi sullo scopo sociale, pare che, al momento, non si possa prescindere dal richiamare le intenzioni del legislatore, il quale ha inteso espressamente attribuire alla normativa sulle società benefit carattere innovativo, in quanto prima della sua introduzione non sarebbe stato possibile per le società lucrative perseguire stabilmente uno scopo «aggiuntivo» rispetto a quello di lucro [36].

Proprio la configurazione del bilanciamento tra scopo lucrativo e finalità di beneficio comune in termini di doverosità (e non di mera facoltà) sembrerebbe, inoltre, rappresentare quel quid in grado di rafforzare il carattere “innovativo” di tale normativa, rispetto, non solo alla disciplina societaria generale, ma anche a quella di carattere speciale contenuta negli interventi legislativi precedenti (si pensi, ad esempio, alla recente disciplina sulle informazioni di carattere non finanziario di cui al d.lgs. n. 254/2016, che, pur rappresentando un momento significativo di trasparenza sulle politiche sociali dell’impresa, non parrebbe – perlomeno in via immediata – mutare la natura degli interessi che gli amministratori sono tenuti a perseguire) [37].

Ciò non significa che le società non benefit non possano in assoluto compiere atti di beneficio comune, ma solo che tale opzione è consentita in una proporzione che, per qualità e quantità, si presenta come residuale e, in ogni caso, strettamente correlata alla realizzazione dello scopo primario di creazione e massimizzazione del profitto [38].

Volendo semplificare, si può allora ritenere che la differenza tra una società lucrativa che persegue scopi di beneficio comune e una società benefit sia riconducibile allo schema che distingue tra “atto” e “attività”: se può consentirsi ad una società lucrativa il compimento occasionale di atti rivolti al beneficio comune, conformemente a quanto sinora sostenuto dalla dottrina maggioritaria, solo la società benefit può e, anzi, deve realizzare una sistematica “attività” di bilanciamento tra interessi lucrativi e non lucrativi (sistematicità che pare emergere dal comma 382, lett. c), ove si stabilisce la necessità di dar conto nella apposita relazione, non solo di come è stato perseguito il beneficio comune, ma anche degli obiettivi che la società intende perseguire nell’eser­cizio successivo) [39].

Di conseguenza, se qualsiasi società potesse compiere, attraverso sistematici bilanciamenti, atti di beneficio comune potenzialmente idonei a limitare gli interessi lucrativi dei soci, l’aver creato un modello societario ad hoc (dotato di una propria disciplina e, in particolare, di un sistema apposito di controlli e di sanzioni) diverrebbe completamente inutile, laddove, come si è precisato, l’introduzione di tale normativa avrebbe appunto la funzione di legittimare tale opzione e, indirettamente, di riaffermare, quale regola generale, l’in­tangibilità dello scopo di lucro nelle altre società [40] .


6. Il passaggio da società lucrativa a società benefit ai sensi del comma 379.

Se, sulla base delle premesse sin qui formulate, la differenza tra una società benefit e una società lucrativa (non benefit) che persegua occasionalmente finalità altruistiche pare chiara, il problema si pone invece quando l’una non operi coerentemente con il suo scopo benefit (ipotesi che può rilevare sotto il profilo della responsabilità degli amministratori di cui al comma 381 o del­l’applicazione delle norme sulla pubblicità ingannevole di cui al comma 384) e l’altra ponga in essere significativi atti di beneficio comune, ritenendo conveniente sotto il profilo reputazionale presentarsi all’esterno come impresa operante in modo responsabile e sostenibile, senza però sopportare gli oneri derivanti dall’assunzione formale della qualifica benefit.

Ci si può perciò chiedere se, in quest’ultimo caso, la società possa essere assoggettata alla disciplina della società benefit o addirittura riqualificata come tale, questioni che rendono necessario chiarire, innanzitutto, in presenza di quali presupposti una società (costituendosi ex novo o già costituita) divenga formalmente benefit.

Posto che la l. n. 208/2015, non contempla per la società benefit particolari forme di pubblicità, laddove l’indicazione della dizione «benefit», nella denominazione (o ragione sociale), negli atti e nella corrispondenza, è meramente facoltativa, ne consegue che l’unico presupposto espressamente richiesto ai fini dell’assunzione della qualifica benefit è quello della modifica dell’atto costitutivo o dello statuto ai sensi del comma 379 [41].

Tale adempimento sarebbe allora condizione sufficiente al fine di assoggettare una determinata società allo statuto di società benefit, potendosi ritenere in qualche modo implicita nell’introduzione di una o più finalità di beneficio comune nell’oggetto sociale la volontà dei soci di adottare tale modello societario, con conseguente ridimensionamento dello scopo di lucro e affidamento agli amministratori della funzione di bilanciamento. Vedremo come, in alcuni casi, tale volontà presunta debba essere invece più puntualmente accertata.

Secondo l’interpretazione di alcuni, la formulazione non chiarissima del comma 379 si presterebbe però ad una diversa lettura, ovvero, quella per cui un’ordinaria società lucrativa (non benefit) che intende perseguire scopi di beneficio comune può farlo solo attraverso una previa modifica dell’atto costitutivo o dello statuto nel senso indicato dalla norma [42].

Per quanto si possa convenire sull’opportunità di recepire lo scopo di beneficio comune in apposite clausole statutarie, potendo tale opzione, oltre che rispondere ad un’esigenza di trasparenza nei confronti dei terzi, attribuire maggiore serietà e concretezza all’iniziativa rispetto ad un suo perseguimento in via di mero fatto (in quanto tale rimesso ad una scelta discrezionale dell’or­gano di gestione), pare che la previsione di cui al comma 379 debba essere riferita alle società non benefit che vogliono divenire benefit e non a quelle che intendono restare tali [43].

Una diversa ipotesi interpretativa, oltre a creare delle incertezze nella distinzione tra le due fattispecie, nonché una lacuna nella disciplina della costituzione delle società benefit, nulla sembrerebbe aggiungere rispetto alle conclusioni da tempo raggiunte da parte dell’opinione prevalente e già richiamate, secondo cui l’introduzione di clausole statutarie atte ad autorizzare il compimento di atti di beneficio comune da parte di società lucrative sarebbe – entro determinati limiti qualitativi e quantitativi – comunque ammissibile [44].

Oltretutto, se si volesse necessariamente subordinare alla previsione di una clausola statutaria la possibilità di compiere atti di beneficio comune, si finirebbe per penalizzare quelle società che scelgono di perseguire finalità altruistiche in via di mero fatto, nel quadro di una strategia imprenditoriale in tal senso intrapresa dal proprio organo amministrativo [45].

In definitiva, la previsione di cui al comma 379 sembrerebbe acquistare un significato se la si intende come volta a chiarire che il perseguimento in via sistematica del beneficio comune è prerogativa esclusiva della società benefit, qualifica che può essere assunta solo in virtù della modifica dell’oggetto sociale mediante l’inclusione di una o più finalità di beneficio comune; viceversa, ritenere che società non benefit, con una semplice modifica dell’atto costitutivo, possano perseguire in modo anche non occasionale scopi di beneficio comune parrebbe in contraddizione con il sistema, che ha inteso offrire all’au­tonomia privata uno strumento ad hoc per consentire di realizzare stabilmente tale esito.

Detto ciò, come accennato, possono verificarsi dei casi in cui l’indicazione statutaria della finalità di beneficio comune non è dirimente al fine di distinguere tra società benefit e società non benefit, né lo è l’elemento fattuale, posto che, in mancanza di una previsione di legge che subordini l’assunzione o il mantenimento della qualifica di società benefit ad una soglia minima di atti di beneficio comune, questa potrebbe limitarsi anche al compimento di un solo atto in tal senso [46].

Di conseguenza, venendo meno un fondamentale elemento distintivo tra fattispecie benefit e non benefit (ovvero quello, già ricordato, che poggia sulla distinzione tra “attività” e “atto”), può divenire essenziale l’accertamento del­l’effettiva volontà delle parti.

Per queste ragioni, non convince l’idea di procedere ad operazioni di automatica riqualificazione in società benefit nei confronti di quelle società che, di fatto o in via statutaria, abbiano espresso una volontà di perseguire finalità altruistiche, magari attraverso atti significativi in tal senso, essendo imprescindibile l’accertamento dell’intenzione delle parti di creare una tale formula organizzativa e quindi di affidare in modo stabile all’organo amministrativo la funzione di bilanciamento del lucro con scopi di diversa natura [47].


7. (segue). Gli effetti sotto il profilo della disciplina applicabile.

Se, alla luce delle considerazioni effettuate nel precedente paragrafo, la distinzione tra società benefit e società non benefit non sempre risulta netta sotto il profilo della fattispecie, le differenze sul piano della disciplina applicabile potrebbero costituire un sufficiente incentivo, per le società che intendano operare come benefit, ad assumere formalmente la relativa qualifica e per le altre a desistere dall’operare come tali [48].

Si pensi, ad esempio, alla possibilità che determinate società, compiendo o prevedendo di compiere atti rivolti al beneficio comune, vengano qualificate come società benefit e quindi assoggettate alle sanzioni previste per il mancato perseguimento del beneficio comune (commi 381, 384, l. n. 208/2015) [49].

L’aspetto che parrebbe maggiormente rilevante nella distinzione tra società benefit e non benefit e che potrebbe condizionare la scelta di adottare una forma o un’altra attiene, però, ai rapporti interni alla società. In particolare, mentre nelle ordinarie società lucrative la volontà di perseguire finalità altruistiche è in genere riconducibile ad una strategia degli amministratori o comunque del gruppo di comando, nelle società benefit, essa invece, perlomeno in linea di principio, discende da un programma previamente condiviso da tutti soci e per essi vincolante in quanto confluito nell’oggetto sociale [50].

Posto che il perseguimento dello scopo sociale “duale” potrebbe realizzarsi solo a seguito di un’attività di bilanciamento tra lucro e beneficio comune da parte degli amministratori, questi ultimi (in virtù di una sorta di c.d. «benefit judgement rule») non potrebbero essere poi chiamati a rispondere per il fatto di non aver operato nella prospettiva della creazione e massimizzazione del profitto [51].

Se tale premessa può essere condivisibile, pare, però, che l’operatività della c.d. «benefit judgement rule» non sia incondizionata, ma presupponga, non solo che le finalità di beneficio comune siano state formalmente recepite in apposita clausola statutaria (come discende dal comma 379), ma anche che le stesse siano realmente perseguite dall’organo amministrativo attraverso una sistematica attività di bilanciamento, nel rispetto delle procedure e degli adem­pimenti in materia di trasparenza e di rendicontazione (di cui al comma 382), nonché di tutte le altre regole di carattere organizzativo richieste dalla natura benefit della società (tra cui, in particolare, la nomina del responsabile del beneficio comune di cui al comma 380, parte seconda) [52].

In altri termini, una società può assumere lo status di benefit ed essere sottoposta alle conseguenti regole solo nella misura in cui il beneficio comune sia, non solo effettivamente perseguito, ma anche oggettivamente verificabile attraverso gli strumenti a tal fine previsti dal legislatore [53].

Viceversa, gli amministratori di società lucrativa che abbiano sacrificato la prospettiva di massimizzazione del profitto attraverso il complimento di sistematici e/o significativi atti rivolti al beneficio comune, saranno tenuti a risponderne nei confronti dei soci e, nei casi più gravi, anche degli stessi creditori sociali [54].

Pur potendosi presumere che iniziative di tal sorta possano avere scarsa rilevanza pratica (avendo i soci la possibilità di agire ex art. 2393-bis o attraverso un’azione individuale di cui all’art. 2395 c.c. ove ne sussistano i presupposti [55]), pare però verosimile che la stessa astratta esperibilità di tali rimedi possa costituire disincentivo rispetto alla gestione di una società non benefit come fosse benefit e, invece, incentivo ad adottare formalmente que­st’ultimo status [56].

Considerazioni non dissimili possono valere rispetto all’introduzione di clausole statutarie, delibere assembleari e consiliari volte a limitare in modo significativo il diritto all’utile in vista del perseguimento di altri interessi, che, nelle ordinarie società lucrative, potrebbero, nei casi più significativi, essere impugnate per violazione della causa societaria, mentre in quelle benefit sarebbero di per sé legittime in quanto conformi allo scopo “duale” della società [57].


8. (segue). Le conseguenze sulla posizione dei soci: considerazioni generali.

Alla luce delle considerazioni effettuate, si rende necessario valutare le implicazioni che il passaggio di una società da pienamente lucrativa a benefit può comportare sulla posizione dei soci, in mancanza di una previsione di legge che, al pari di quanto previsto in altri ordinamenti (tra cui, in particolare, alcuni Stati nord-americani), stabilisca a loro favore un qualche strumento di tutela in termini di exit o di voice [58].

Naturalmente, il problema si pone principalmente quando la società è già costituita e intenda divenire benefit, essendo abbastanza verosimile ritenere che, ove i soci scelgano di adottare tale modello ex novo, la compagine sociale sia sufficientemente coesa attorno all’idea di perseguire stabilmente scopi di beneficio comune [59].

In tale ipotesi, la maggioranza degli studiosi – in linea con quanto sostenuto in caso di mutamento dello scopo sociale – considera il recesso necessario contrappeso per i soci di una società lucrativa che si converte in benefit, essendo tale passaggio idoneo a cambiarne radicalmente la posizione e le condizioni di rischiosità del loro investimento [60].

Una tale esigenza potrà rilevare, tanto con riferimento a quei soci (c.d. «investitori»), per i quali uno scostamento dalla prospettiva del c.d. «shareholder value» può risultare determinante rispetto alla scelta di rimanere o meno in società, quanto e, a maggior ragione, con riferimento ai soci di società a compagine ristretta (s.r.l., in particolare) che si trovino a subire una modifica degli scopi sociali destinata a riflettersi sui propri diritti partecipativi [61].

Poste tali premesse in generale, si rende necessario verificare se la disciplina codicistica in materia di recesso possa supportare l’esigenza dei soci di recedere da una società lucrativa che divenga benefit [62].


9. Il recesso per cambiamento dell’oggetto sociale.

Se, come precisato, una società che intenda assumere la veste benefit è tenuta, in base a quanto previsto dal comma 379, ad inserire nell’oggetto sociale una o più finalità di beneficio comune, ci si può chiedere se la relativa delibera possa rilevare ai sensi dell’art. 2437, primo comma, lett. a), c.c., che appunto riconosce ai soci il diritto di recedere quando le modifiche dell’og­getto sociale consentono un «cambiamento significativo dell’attività della società» [63].

Come chiarito in sede interpretativa, il cambiamento (che può consistere nell’ampliamento o nella riduzione dell’oggetto sociale) è «significativo» se idoneo ad incidere, non necessariamente in termini di peggioramento, sulle condizioni di rischio dell’investimento dei soci [64].

La possibilità di invocare tale causa di recesso, nel caso di passaggio di una società da lucrativa a benefit, potrebbe incontrare una serie di difficoltà applicative, vuoi perché, come si è visto, le finalità di beneficio comune possono in concreto incidere, non sull’attività esercitata dalla società, che rimane inalterata, ma sulle relative modalità di svolgimento, vuoi perché, pur variando l’attività esercitata dalla società, ciò potrebbe avvenire in termini non così radicali o comunque apprezzabili da integrare il presupposto della «significatività» [65].

In realtà, secondo talune letture, potrebbero rilevare ai sensi della previsione sub lett. a) anche le modifiche concernenti le modalità di svolgimento delle attività, laddove siano previste (e quindi si incida sul «programma iniziale») ma anche ove non siano previste (e dunque si introduca una restrizione dell’oggetto sociale), nella misura in cui le stesse possano influire sull’entità del rischio che è stato alla base della decisione del socio di entrare in società [66].

D’altra parte, sarebbe ragionevole ipotizzare che l’inclusione nell’oggetto sociale di finalità di beneficio comune, con contestuale mutamento dello scopo sociale ed attenuazione della lucratività, renda la significatività del cambiamento in re ipsa [67].

L’introduzione di uno scopo «aggiuntivo», che, come si è visto, limita quello lucrativo, unitamente alla discrezionalità affidata all’organo amministrativo in sede di bilanciamento, sembrerebbero, infatti, fattori tali da determinare per i soci un incremento dell’alea (rispetto a quella inizialmente accettata investendo in un’ordinaria società lucrativa), nonché una possibile minore redditività dell’investimento [68].

Se, inoltre, si condivide la tesi secondo cui il mutamento delle condizioni di rischio sub lett. a) rileva già al momento dell’adozione della delibera di modifica dell’oggetto sociale, indipendentemente dal fatto che gli effetti possano prodursi successivamente (come parrebbe desumibile da una lettura congiunta degli artt. 2437, primo comma, lett. a), e 2497-quater, primo comma, lett. a), c.c.), i soci di una società lucrativa che dissentano dal suo passaggio a benefit potranno esercitare il recesso sulla base della mera delibera ex comma 379 [69].

Per quanto riguarda invece la s.r.l., l’art. 2473, primo comma, c.c., legittima («in ogni caso») l’esercizio del diritto di recesso dei soci che non hanno consentito al cambiamento dell’oggetto sociale, nonché, al compimento di operazioni che comportano una «sostanziale modificazione dell’oggetto della società determinato nell’atto costitutivo» [70].

Data la formulazione letterale della norma, si potrebbe sostenere che una semplice modifica dell’oggetto sociale, quale quella di cui al comma 379, possa essere sufficiente al fine di consentire il recesso dei soci, ma, alla luce delle considerazioni svolte, non pare che le conclusioni possano essere diverse se anche si ritenesse che il cambiamento dell’oggetto sociale, al pari di quanto previsto ai sensi dell’art. 2437, comma 1, lett. a), c.c., debba essere significativo [71].

Tenuto conto che, a differenza della disciplina delle s.p.a., quella dettata per le s.r.l. ex art. 2473 c.c. consente ai soci di s.r.l. di recedere anche nel caso di modifiche di fatto dell’oggetto sociale purché “sostanziali”, si potrebbe immaginare di far ricorso a tale causa di recesso anche nel caso in cui società non benefit operino quali benefit, determinando una modificazione delle attività previste nell’atto costitutivo destinata a riflettersi anche sullo scopo della società e sui diritti dei soci [72].


10. Il recesso per cambiamento del tipo.

Secondo un consolidato orientamento interpretativo, l’assunzione della qualifica benefit non implicherebbe l’adozione di un nuovo tipo sociale, ma semmai di uno speciale modello societario caratterizzato nei termini già descritti [73].

Di conseguenza, non sembrerebbe potersi dar luogo all’applicazione della causa di recesso correlata al cambiamento del tipo ex artt. 2437, primo comma, lett. b), c.c., né delle norme sulla trasformazione, neanche quelle relative alla trasformazione c.d. eterogenea, ritenuta dalla giurisprudenza configurabile solo nei casi tassativi previsti dalla legge [74].

Di diverso avviso è invece un’opinione dottrinale, del tutto minoritaria, secondo cui le disposizioni sulla trasformazione eterogenea potrebbero essere applicate anche alle modifiche dello scopo sociale, indipendentemente dal contestuale cambiamento della struttura organizzativa e quindi del tipo di società [75].

In tale prospettiva, è stata letta anche la previsione ex art. 2497-quater, primo comma, lett. a), c.c., che attribuisce il diritto di recesso ai soci della società diretta e coordinata quando la società o l’ente che esercita la direzione e coordinamento su di essa abbia deliberato «una trasformazione che implica il mutamento del suo scopo sociale» [76].

Tale disposizione partirebbe, infatti, dal presupposto che il passaggio da uno scopo lucrativo ad uno scopo di altra natura (es. consortile o ideale) possa riflettersi anche significativamente sulle società controllate (se, per esempio, le loro risorse vengano impegnate nel perseguimento di scopi ideali con conseguente contrazione delle prospettive reddituali) [77].

Se si ritenesse fondata tale ricostruzione, condivisa da una parte della dottrina ma al momento priva, a quanto consta, di riscontri in giurisprudenza, i soci di una società che diventi benefit (e che quindi muti lo scopo ma non la struttura organizzativa) potrebbero avvalersi, non solo del diritto di recesso (ex artt. 2437, primo comma, lett. b), 2473, primo comma, c.c.), ma anche delle specifiche forme di tutela previste per la trasformazione eterogenea ex art. 2500-septies, c.c. [78].


11. Il recesso correlato alle modifiche dei diritti del socio.

Se, come si è visto, il passaggio di una società da lucrativa a benefit determina una limitazione del diritto dei soci alla distribuzione degli utili o comunque autorizza gli amministratori ad operare in tal senso, ci si può chiedere se in tale ipotesi possa rilevare la causa di recesso ex art. 2437, primo comma, lett. g), c.c., correlata alle «modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione» [79].

In sede interpretativa, si è chiarito come l’espressione «diritti di partecipazione» possa essere riferita (in contrapposizione a quella concernente i «diritti di voto» e, secondo taluni, anche agli altri diritti amministrativi [80]) ai diritti patrimoniali e, in particolare, a quelli afferenti alla partecipazione agli utili [81]

In base alla tesi più restrittiva, inoltre, la modifica di cui alla lett. g) dovrebbe essere peggiorativa rispetto alle condizioni iniziali dell’investimento del socio [82].

Un’obiezione, rispetto alla possibilità di applicare tale causa di recesso nel caso che rileva in questa sede, potrebbe essere quella per cui il peggioramento dei diritti patrimoniali dei soci che entrano in una società benefit non sarebbe automatica conseguenza della modifica dell’atto costitutivo ai sensi del comma 379, ma potrebbe semmai discendere dall’attività di bilanciamento tra interessi lucrativi e non lucrativi [83]. E ciò a meno che non si ritengano rilevanti, ai sensi della stessa previsione, anche le modifiche potenzialmente peggiorative per i diritti dei soci e non solo quelle aventi un’incidenza attuale sugli stessi [84].

Interessanti spunti in materia sono offerti da una recente pronuncia della Cassazione, con cui si è riconosciuto il diritto di recesso ex art. 2437, primo comma, lett. g), c.c., a seguito della modifica di una clausola statutaria sulle regole di formazione delle riserve e della conseguente riduzione della percentuale di utili eventualmente distribuibili ai soci [85].

La ratio della previsione sub lett. g), secondo l’interpretazione della Corte, sarebbe essenzialmente quella di tutelare i soci di minoranza, pregiudicati da una riduzione della percentuale degli utili distribuibili più di quanto non lo possano essere, invece, i soci di controllo, che, ragionando tendenzialmente in un’ottica di lungo periodo, possono trovare conveniente un accantonamento a riserva [86].

In tale prospettiva, la decisione, da un lato, conferma che la causa di recesso in esame deve essere correlata ad una modifica in peius del diritto all’utile e, dall’altro, che il recesso può essere riconosciuto quando il pregiudizio colpisca, non solo i diritti già esistenti dei soci, ma anche la mera aspettativa al loro conseguimento.

Alla luce di tali precisazioni e tenuto conto dell’incertezza che tuttora caratterizza l’interpretazione della previsione sub lett. g), si può in linea di principio ammettere che i soci di una società lucrativa che divenga benefit possano far valere tale ipotesi di recesso, stante la limitazione del diritto (aspettativa) agli utili che deriva dall’introduzione di una o più finalità di beneficio comune e quindi dall’adozione della delibera di cui al comma 379 [87].

Tale causa di recesso sembrerebbe però più facilmente configurabile in tutte le ipotesi in cui le clausole di beneficio comune evidenzino una contrapposizione netta tra gli interessi (lucrativi) dei soci e quelli (non lucrativi) degli stakeholders e, in particolare, con le precisazioni che si sono già fatte a riguardo, in presenza di previsioni statutarie volte ad ammettere una parziale ma significativa etero-destinazione degli utili [88].

Una causa di recesso analoga a quella sub lett. g) non è invece riscontrabile nella disciplina della s.r.l., ove il diritto di recesso può essere esercitato nel caso di operazioni che comportano una rilevante modificazione dei diritti attribuiti ai soci a norma dell’art. 2468, quarto comma (art. 2473, primo comma, c.c.) e quindi non anche nel caso di modifiche che possono incidere sui diritti del socio in virtù della mera partecipazione alla società [89].


12. Il recesso convenzionale come forma di rinegoziazione della partecipazione del socio nella società benefit.

Alla luce delle considerazioni svolte, ci si può chiedere se la mancanza di una previsione ad hoc sul recesso da parte della l. n. 208/2015, debba essere intesa, non come una mera dimenticanza legislativa, ma come espressione di una precisa volontà del legislatore di non prendere posizione su una materia così delicata per la società e per i suoi soci, semmai rimettendo ogni valutazione a riguardo all’autonomia statutaria nei casi in cui ciò è consentito (ex artt. 2437, terzo comma, 2473 primo comma, c.c.) [90].

Un tale approccio potrebbe essere probabilmente coerente con l’intento legislativo, chiaramente espresso in apertura della legge (comma 376), di promuovere la costituzione e di favorire la diffusione di società benefit, laddove è evidente che la previsione di un diritto di recesso correlato alla mera assunzione di tale qualifica potrebbe essere un disincentivo al suo utilizzo, per le conseguenze che, come noto, possono derivarne sul patrimonio sociale [91].

In tale prospettiva, pare che, al di là della possibilità di ricorrere ad una delle ipotesi di recesso previste dalla legge, nel caso in cui ne sussistano i presupposti, sia opportuno, nel momento in cui le società decidono di assumere lo status di benefit, concedere ai soci la possibilità di valutare l’incidenza che tale modifica può avere sui loro interessi e quindi di eventualmente rinegoziare le condizioni di permanenza in società [92].

In questi termini, il recesso potrebbe essere perciò considerato un rimedio più o meno utile a seconda della compattezza che, all’interno della compagine sociale, può esservi attorno al progetto benefit [93].

Proprio al fine di contemperare le contrapposte esigenze di non disincentivare il ricorso al modello benefit, da un lato, e di garantire l’exit dei soci dissenzienti, dall’altro, potrebbe perciò risultare utile l’introduzione nello statuto della società benefit di un regime convenzionale di recesso correlato, non ad una singola operazione di beneficio comune, ma all’intera attività di bilanciamento realizzata dalla società benefit in un apprezzabile lasso di tempo (quantomeno nel termine annuale previsto per la predisposizione della relazione di cui al comma 382): solo alla luce dell’“attività” (e non del singolo atto) di bilanciamento è, infatti, possibile per i soci verificare fino a che punto l’inte­resse lucrativo sia stato opportunamente sacrificato e quindi se in concreto sussistano le condizioni per recedere [94].

Dal momento che, come noto, l’introduzione di cause convenzionali di recesso è consentita alle s.p.a. chiuse e alle s.r.l. (che rappresentano la forma in cui sono in massima parte costituite le società benefit) e non anche alle s.p.a. che ricorrono al mercato del capitale di rischio (le quali, sulla base di quanto risulta dalla prassi, sembrerebbero poco propense ad adottare tale modello, anche per il timore di un esercizio diffuso del recesso), il sistema potrebbe ritrovare in tal modo una propria coerenza interna.

Il recesso convenzionale, del resto, sul modello dell’esperienza straniera, potrebbe consentire ai soci di recedere anche nel caso opposto in cui il beneficio comune non sia stato effettivamente perseguito o quando la società decida di rinunciare alla qualifica di benefit [95].


13. Le società di persone tra benefit e non benefit e il recesso dei soci per giusta causa.

Sebbene sotto il profilo pratico la fattispecie delle società di persone in forma benefit abbia avuto sinora scarsa diffusione e, sotto il profilo teorico, il dibattito sullo scopo di lucro in tali società non sia stato sviluppato (o, perlomeno, non lo è stato nei termini in cui invece ha interessato le società di capitali), pare necessario riportare brevemente anche in tale contesto le principali problematiche affrontate nel presente scritto [96].

Un primo aspetto su cui soffermarsi è quello concernente le modalità di adozione della modifica del contratto sociale o dell’atto costitutivo di cui al comma 379, potendo essere decisiva, specie sotto il profilo dei soci, la circostanza che essa sia presa all’unanimità oppure (in virtù del «patto contrario» ex art. 2252 c.c.) a maggioranza.

Secondo una tesi nota e in passato autorevolmente sostenuta in dottrina, il potere della maggioranza di modificare il contratto sociale nelle società di persone troverebbe perlomeno due limiti, rappresentati, da un lato, dai diritti individuali dei soci (es. la scelta di esonerarli dalla partecipazione agli utili o alle perdite) e, dall’altro, da quelle decisioni che rivestono carattere essenziale per la società (es. modifica radicale dell’oggetto sociale), ipotesi che quindi presupporrebbero il consenso unanime dei soci per la loro adozione, salvo, eventualmente, il riconoscimento del diritto di recesso ai dissenzienti [97].

Partendo da tale prospettiva, ci si può perciò chiedere se la stessa alternativa tra decisione all’unanimità o recesso possa valere anche nel caso di una società di persone che a maggioranza decida di divenire benefit, posto che la modifica dello scopo attraverso l’introduzione di finalità di beneficio comune potrebbe essere intesa quale modifica delle «basi essenziali» della società idonea ad incidere sul diritto dei soci all’utile (spettante loro ex art. 2262 c.c., dopo l’approvazione del rendiconto) [98].

In particolare, precisa la dottrina tradizionale, mentre il lucro c.d. oggettivo sarebbe riscontrabile anche in altri modelli associativi (quali cooperative, consorzi con attività esterna, associazioni in senso stretto), il lucro c.d. soggettivo avrebbe invece una funzione identificativa della fattispecie societaria e ne rappresenterebbe perciò elemento essenziale [99].

Del resto, la stessa dottrina che ha affermato la neutralità funzionale delle società di capitali ha invece sostenuto l’essenzialità ex art. 2247 c.c. dello scopo di lucro nelle società di persone, la cui mancanza, determinando un difetto di causa, si tradurrebbe nella nullità del rapporto [100].

L’essenzialità dello scopo di lucro sarebbe, inoltre, rimarcata dal divieto del patto leonino di cui all’art. 2265 c.c., che, appunto, commina la nullità del patto che esclude completamente un socio dalla partecipazione agli utili o alle perdite [101]. E, tra l’altro, la rilevanza «trans-tipica» che tende a riconoscersi a tale previsione è tale da estendere la portata di tale principio anche al di fuori delle società di persone [102].

Alla luce di ciò, a prescindere dalla tesi – ritenuta da molti ormai superata – che predica l’immodificabilità a maggioranza delle «basi essenziali» della società, è evidente che lo scopo lucrativo nelle società di persone sarebbe, non solo essenziale, ma addirittura rafforzato rispetto alle società di capitali [103].

Nel caso di una gestione non lucrativa, i soci dissenzienti potranno, se amministratori, esercitare il potere di veto di cui all’art. 2257, secondo comma, c.c., o, se non lo sono, provocare la revoca giudiziale degli amministratori per giusta causa ex art. 2259 c.c. e chiedere loro il risarcimento danni ai sensi dell’art. 2260, secondo comma, c.c. [104].

Tali considerazioni sembrerebbero perciò confermare l’idea che la limitazione dello scopo di lucro, nonché la scelta di dare all’utile una diversa destinazione rispetto a quella della ripartizione tra soci, renda necessaria, in alternativa ad una decisione all’unanimità, il riconoscimento a questi ultimi del diritto di recesso [105].

Ciò potrebbe trovare un riscontro, a livello sistematico, nella previsione in materia di trasformazione da società di persone in società di capitali di cui all’art. 2500-ter, primo comma, c.c., che, rimessa alla decisione della maggioranza, attribuisce («in ogni caso») il diritto di recesso al socio che non ha concorso alla decisione [106].

In presenza di una modifica dello scopo sociale a maggioranza, il socio potrebbe, perciò, recedere ad nutum, ai sensi dell’art. 2285 c.c., se la società è a tempo indeterminato e, ovviamente, se il contratto sociale disponga il recesso convenzionale nel caso in cui determinate modifiche siano assunte a maggioranza [107].

Per quanto riguarda invece il recesso per giusta causa, pare necessario valutare l’esistenza di tale presupposto in un’ottica di sistema, dovendosi ritenere lo stesso sussistente, non solo quando la condotta degli altri soci, contraria a buona fede e correttezza, impedisca la prosecuzione del rapporto tra gli stessi, ma, in analogia con le ipotesi di recesso previste per le società di capitali, anche a fronte di ogni situazione oggettiva che aggravi, seppur indirettamente, la responsabilità del socio o le condizioni di rischio economico in base alle quali egli aveva aderito al contratto sociale [108].

Da qui, si potrebbe ulteriormente sostenere che anche nelle società di persone, ove la decisione sia assunta a maggioranza, debbano valere le stesse cause di recesso inderogabili previste per le s.p.a. dall’art. 2437 c.c., così da consentire ai soci la facoltà di recedere anche nel caso di cambiamento significativo dell’oggetto sociale, suscettibile di incidere sulle condizioni di rischio da essi accettate al momento del loro ingresso in società [109].

In tale prospettiva, si rinvia alle considerazioni fatte nei paragrafi precedenti in merito alla applicabilità alla società lucrativa che divenga benefit delle cause di recesso previste dalla disciplina delle società di capitali.


14. Riflessioni conclusive.

A conclusione del presente lavoro, pare utile ripercorrere brevemente i momenti essenziali della riflessione svolta, che, partendo dalla società benefit e dalla sua disciplina, ha tentato di metterne in luce la portata sistematica e quindi i riflessi sulle altre società lucrative.

Come ci si è sforzati di dimostrare nella parte iniziale, il vigente quadro normativo e sistematico non parrebbe mettere in dubbio la centralità dello scopo di lucro e la sua perdurante “resistenza” rispetto all’idea – che tende ad essere riproposta in diverse sedi – di una pretesa neutralizzazione causale delle società di capitali.

Proprio la legislazione speciale, di cui quella in materia di benefit sarebbe esempio emblematico, parrebbe, invece, confermare come, in base al nostro diritto societario, ogni esclusione o limitazione dello scopo lucrativo costituisce eccezione alla regola generale della lucratività e deve essere fondata su una disposizione di legge ad hoc.

Del resto, quegli stessi interventi legislativi, che, al fine di valorizzare la sostenibilità dell’impresa hanno di recente rivisitato lo scopo della società includendovi ulteriori finalità (così la «Loi Pacte» 2019-486), sembrerebbero in tal modo ribadire a loro volta la centralità della prospettiva lucrativa, dimostrando che lo scopo di lucro è tutt’altro che tramontato [110].

In questo quadro normativo, l’introduzione nel nostro ordinamento della società benefit (strumento tecnico specificamente destinato ad internalizzare il beneficio comune nella gestione sociale) sembrerebbe avere come conseguenza che le ordinarie società lucrative solo in via residuale potranno operare, in via di fatto o sulla base di una clausola statutaria ad hoc, in vista di finalità altruistiche o comunque non lucrative.

Per utilizzare un’espressione che ben riassume tale concetto, la distinzione – sotto il profilo del perseguimento del beneficio comune – tra società non benefit e società benefit potrebbe essere ricondotta allo schema che distingue tra “atto” e “attività”, nel senso che, mentre la prima avrebbe la possibilità di perseguire il beneficio comune solo occasionalmente, l’altra sarebbe invece tenuta a provvedervi in via continuativa attraverso una sistematica attività di bilanciamento da parte dei suoi amministratori.

Tuttavia, se la distinzione tra società benefit e società non benefit può apparire concettualmente chiara, non mancano, però, “zone grigie” (in cui si pos­sono collocare, sia società benefit che non perseguono concretamente il beneficio comune, sia società che, pur non essendo formalmente benefit, operano come tali). Dal momento che la qualificazione di una società in un senso o nell’altro non è indifferente sotto il profilo della disciplina applicabile, si rende necessario, in mancanza di indicazioni precise sul punto da parte del legislatore, individuare criteri oggettivi al fine di distinguere con certezza le due fattispecie.

Le riflessioni svolte portano, inoltre, a sottolineare come l’assunzione della qualifica di società benefit da parte di una società lucrativa possa avere degli effetti potenzialmente significativi per i soci, dovendosi infatti ritenere che l’attenuazione dello scopo lucrativo derivante dall’introduzione del beneficio comune, nonché la discrezionalità insita nel bilanciamento degli amministratori, siano fattori idonei a mutare le condizioni di rischio da essi inizialmente accettate al momento dell’ingresso in società.

Pur in mancanza di una specifica disposizione che, come previsto invece in altri ordinamenti, attribuisca espressamente ai soci il diritto di recesso, sia nel caso in cui la società lucrativa assuma la qualifica benefit sia quando la dismetta, pare che a tale esito si possa pervenire in via interpretativa: come si è, infatti, cercato di dimostrare, la disciplina codicistica in materia di recesso (sia nelle società di persone che nelle società di capitali) sarebbe in grado supportare la richiesta di exit dei soci in presenza di un mutamento dello scopo sociale (o, più precisamente, di una sua “duplicazione”), laddove, la possibilità di introdurre nello statuto della società benefit – ove consentito – cause convenzionali di recesso, correlate all’attività (e non al singolo atto) di bilanciamento da parte dell’organo amministrativo, ben potrebbe costituire utile incentivo rispetto al corretto svolgimento di tale funzione e quindi porsi quale strumento di negoziazione tra soci e società.

Infine, in attesa di possibili sviluppi legislativi volti ad incidere sullo scopo sociale (e che quindi potrebbero portare a rivedere alcune delle conclusioni raggiunte nel presente scritto), pare interessante osservare l’evoluzione della prassi statutaria delle società quotate con riguardo all’applicazione di quella previsione del nuovo Codice di Corporate Governance che pone a carico dell’organo amministrativo l’obiettivo del «successo sostenibile» («che si sostanzia nella creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti, tenendo conto degli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la società») [111].

Come, infatti, dimostrano alcuni recenti esempi, a seconda della concreta configurazione della clausola statutaria che recepisce l’obiettivo del «successo» sostenibile, della sua genericità o specificità, può derivarne un diverso impatto sullo scopo sociale (lucrativo) e quindi sul conseguente riconoscimento ai soci del diritto di recesso [112].


NOTE

[1] Per un quadro sull’evoluzione legislativa interna e comunitaria in materia di sostenibilità dell’impresa, si veda il recente studio di Assonime, Doveri degli amministratori e sostenibilità, Rapporto n. 6/2021 del 18 marzo 2021, reperibile in internet al seguente indirizzo: www.
assonime.it; sull’esperienza in materia dei diversi ordinamenti, si veda Aa.Vv., Corporate Law, Corporate Governance and Sustainability, Cambridge, Cambridge University Press, 2020. Per ulteriori approfondimenti sul tema, tra i molti, E. Pollman, The History and Revival of the Corporate Purpose Clause, Research Paper n. 15/2021, spec. 27 ss., reperibile in internet al seguente indirizzo: www.ssrn.com; F. Debenedetti, Fare Profitti, Etica dell’impresa, Venezia, Marsilio, 2021, spec. 93 ss.; Aa.Vv., Lo statement della Business Roundtable sugli scopi della società. Un dialogo a più voci, a cura di A. Perrone, in questa Rivista, 2019, 589 ss.; U. Tombari, “Potere” e “interessi” nella grande impresa azionaria, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre, 2019, spec. 57 ss. e 102 ss., C. Angelici, “Poteri” e “interessi” nella grande impresa azionaria: a proposito di un recente libro di Umberto Tombari, in Riv. soc., 2020, 4 ss.; P. Marchetti, Dalla Business Roundtable ai lavori della British Academy, ivi, 2019, 1303 ss.; K.J. Hopt, R.Veil, Gli stakeholders nel diritto azionario tedesco: il concetto e l’applicazione. Spunti comparatistici di diritto europeo e statunitense, ivi, 2020, 921 ss.

[2] Sulle diverse problematiche scaturenti dalla disciplina in materia di società benefit, si rinvia, in particolare, al volume Aa.Vv., Dalla benefit corporation alla società benefit, a cura di B. De Donno, L. Ventura, Bari, Cacucci, 2018; si vedano anche i contributi del Forum “virtuale” sulle società benefit in questa Rivista, 2/2017, 19 ss.; S. Ronco, La società benefit tra profit e non profit, Napoli, ESI, 2018, passim; E. Codazzi, Società benefit (di capitali) e bilanciamento di interessi: alcune considerazioni sull’organizzazione interna, in questa Rivista, 2020, 589 ss.; G. Marasà, Imprese sociali, altri enti del terzo settore, società benefit, Torino, Giappichelli, 2019, 13 ss.; S. Prataviera, Società benefit e responsabilità degli amministratori, in Riv. soc., 2018, 919 ss.; A. Bartolacelli, La società benefit: responsabilità sociale in chiaroscuro, in Non profit, 2017, 253 ss.; S. Corso, La società benefit nell’ordinamento italiano: una nuova “qualifica” tra profit e non-profit, in Nuove leggi civ. comm., 2016, 995 ss.; Assonime, La disciplina delle società benefit, circolare del 20 giugno 2016, n. 19, 5, reperibile in internet al seguente indirizzo: www.assonime.it. Sulla benefit corporation nell’ordinamento statunitense, si veda, in particolare, A. Daccò, Le società benefit tra interesse dei soci e interesse dei terzi: il ruolo degli amministratori e i profili di responsabilità in Italia e negli Stati Uniti, in Banca borsa tit. cred., 2021, I, 40 ss.

[3] Ai sensi dell’art. 169, Loi Pacte 2019-486 del 22 maggio 2019 «La société est gérée dans son intérêt social, en prenant en considération les enjeux sociaux et environnementaux de son activité».

[4] Evidenzia tale duplice prospettiva di intervento, Assonime, (nt. 1), 29 s. Come noto, la Commissione europea, dopo aver commissionato uno studio in materia a Ernst & Young («Study on Directors’ Duties and Sustainable Corporate Governance Final Report», pubblicato il 29 luglio 2020), ha annunciato possibili interventi volti a promuovere la sostenibilità dell’impresa e aventi ad oggetto, tra l’altro, i doveri fiduciari degli amministratori (in tal senso, la Roadmap dei futuri interventi normativi «Inception Impact Assessment, Legislative and possible guidance Q1 2021» e la Consultazione pubblica, conclusa nel mese di febbraio 2021, sulle ipotesi di riforma per realizzare una «governance societaria sostenibile»). Si veda anche la Risoluzione del Parlamento europeo del 10 marzo 2021 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti la dovuta diligenza e la responsabilità delle imprese (2020/2129 (INL)), specificamente indirizzata alle grandi imprese, alle società quotate di piccole e medie dimensioni o ad alto rischio (art. 2, commi 1 e 2). A completamento del quadro, pare interessante richiamare la Proposta di Risoluzione del Parlamento europeo del 15 settembre 2021 recante raccomandazioni alla Commissione su uno «Statuto delle associazioni e organizzazioni senza scopo di lucro transfrontaliere europee» cui è allegata la Proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea «sulle norme minime comuni per le organizzazioni senza scopo di lucro nell’UE (direttiva sulle norme minime)», reperibile in internet al seguente indirizzo: https://www.europarl.eu/doceo/document/JURI-PR-697560-IT.html.

[5] Del resto, significativa in tal senso pare la stessa legislazione francese, che, da un lato, ha rivisto nei termini anticipati il precedente art. 1833 e, dall’altro lato, ha introdotto con l’art. 176 della Loi Pacte un nuovo art. L.210-10 nel codice di commercio dedicato alla «société à mission», che rappresenta l’equivalente della società benefit. Una riflessione sul possibile ruolo della società benefit alla luce dei prospettati interventi a livello comunitario viene svolta anche da G. Ferrarini, S. Zhu, Is There a Role for Benefit Corporations in the New Sustainable Governance Framework?, ECGI, Working paper, June 2021, n. 588/2021, spec. 23 ss. e 32 ss., reperibile in internet al seguente indirizzo: https://ecgi.global/content/working-papers. Sebbene nel nostro ordinamento il modello benefit venga utilizzato principalmente dalle società di minori dimensioni (così anche L. Marchegiani, Piccole e medie imprese societarie con scopo lucrativo e responsabilità sociale. Spunti per una riflessione, in Riv. soc., 2020, 1481 ss., spec. 1504), si registrano alcuni esempi di società benefit quotate (così, Reti s.p.a., il cui statuto è reperibile in internet al seguente indirizzo: www.reti.it, e Labomar s.p.a., il cui statuto è reperibile in internet al seguente indirizzo: in www.labomar.com).

[6] Sull’affievolimento dello scopo di lucro nelle società di capitali, si rinvia, per tutti, al celebre saggio di G. Santini, Tramonto dello scopo lucrativo nelle società di capitali, in Riv. dir. civ., 1973, I, 151 ss., spec. 155 ss., che, come noto, sulla base di una serie di argomenti (tra cui, in particolare, la mancata rilevanza della causa societaria quale ipotesi di nullità ex art. 2232 c.c., ovvero, i diversi esempi di legislazione speciale che mostrano di prescindere da tale requisito), è giunto a concludere che le società di capitali, «già divenute pura struttura, destinate di volta in volta a servire scopi diversi» si prestano a corrispondere “non solo alla funzione tipica lucrativa, che ne rappresenta l’origine storica, ma ad altre funzioni diverse da essa ed eterogenee tra loro” (163); sembrerebbe porsi in una prospettiva non dissimile, M. Porzio, «... allo scopo di dividerne gli utili», in Giur. comm., 2014, I, 661 ss., spec. 662 ss.; con riguardo alla s.r.l. unipersonale, A. Rossi, S.r.l. unipersonale e tramonto dello scopo di lucrativo, ivi, 1997, I, 115 ss., spec. 124 ss. e 139 ss. Ritiene che l’inclusione dello scopo consortile nell’oggetto sociale di cui all’art. 2615-ter sia tappa di un più generale processo di “fading” dello scopo lucrativo, per cui le società tenderebbero a mutarsi in forme organizzative causalmente neutre, A. Borgioli, Consorzi e società consortili, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu, F. Messineo, Milano, Giuffrè, 1985, 130; afferma la non essenzialità dello scopo lucrativo, non solo nelle società consortili ma anche in quelle ordinarie, L. De Angelis, Ancora sullo scopo e sulla disciplina delle società consortili, in Società, 2018, 21 ss., 26 ss.; si veda anche M.S. Spolidoro, Le società consortili, Milano, Giuffrè, 1984, 80 ss., spec. 88, ove, pur riconoscendo che l’art. 2615-ter ha profondamente derogato l’art. 2247 c.c. e che società lucrative possono essere utilizzate da enti che non perseguono scopi lucrativi, riferisce però tale deroga alle sole società consortili. Nel senso dell’essenzialità dello scopo di lucro, tra gli altri, G. Marasà, Le “società” senza scopo di lucro, Milano, Giuffrè, 1984, spec. 83 s. e 643; nello stesso senso, P. Abbadessa, Le disposizioni generali sulle società, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Abbadessa, 16, Torino, Utet, 1985, 25 ss.; D. Preite, La destinazione dei risultati nei contratti associativi, Milano, Giuffrè, 1988, 193 ss.; G.F. Campobasso, Diritto commerciale, Diritto delle società, Torino, Utet Giuridica, 2015, 28 ss. (e successive edizioni), sottolineando come il sistema del codice civile non offra dati che consentono di affermare la derogabilità statutaria dello scopo di lucro, in generale o per le società di capitali, laddove le previsioni di legge speciale che prevedono società senza scopo di lucro devono essere invece valutate come norme eccezionali; A. Zoppini, Un raffronto tra società benefit ed enti non profit: implicazioni sistematiche e profili critici, in questa Rivista, 2/2017, 5 s.

[7] Cons. St., sez. atti norm., 14 maggio 2019, n. 1433, par. 10.3, in Foro amm., 2019, 827, par. 10.3.

[8] Precisa Cass., sez. I, 12 aprile 2005, n. 7536, in Foro. it., 2006, 2889, come sia impedita all’autonomia statutaria la creazione di società senza scopo di lucro, salvo i casi previsti dalla legge («L’insegnamento della dottrina, tuttavia, se descrive efficacemente una linea di tendenza della legislazione, non giustificherebbe la conclusione che, attualmente, l’autonomia statutaria delle società capitalistiche possa creare società per azioni o a responsabilità limitata senza scopo di lucro, fuori dei casi espressamente previsti da norme di legge»). Sulla rilevanza sistematica della disciplina sulle società benefit sotto il profilo più generale dell’essenzialità dello scopo di lucro, E. Codazzi, F. Goisis, Ancora sullo scopo di lucro nelle società a partecipazione pubblica: spunti alla luce della disciplina sulle società benefit, in Dir. econ., 2020, spec. 483 ss.).

[9] Si veda l’art. 3, terzo comma, lett. a), d.lgs. n. 112/2017, che prevede la distribuzione di utili, sia pure subordinata al doppio limite relativo agli utili e al rendimento dell’investimento (osserva come, al di là del dichiarato mancato perseguimento dello scopo di lucro, sia consentito perseguire uno scopo lucrativo «nascosto» da parte delle imprese sociali, G.D. Mosco, Scopo e oggetto nell’impresa sociale e nella società benefit, in AGE, 2018, 81 ss., 85 s.). Del resto, il lucro non è del tutto assente neppure nell’ambito delle cooperative, come emerge dalla previsione delle cooperative a mutualità non prevalente (c.d. spurie), e delle società consortili: per quanto riguarda la compatibilità tra lo scopo mutualistico e quello lucrativo, con la precisazione che il perseguimento di quest’ultimo debba avvenire in via secondaria, A. Borgioli, (nt. 6), 134 ss.; in quest’ultimo senso, anche G. Volpe Putzolu, I consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, Padova, Cedam, 1981, 345 s. Precisa Cass., sez. un., 14 giugno 2016, n. 12191, in D&G, 2016, come la causa consortile non precluda alla società consortile di esercitare una distinta attività commerciale con scopo di lucro (si veda il commento di M.S. Spolidoro, Società consortili: disciplina, mutualità spuria e ribaltamento dei costi e dei ricavi, in Società, 2016, 1202 ss.); sulla compatibilità tra scopo mutualistico e scopo di lucro, Comm. trib. reg. L’Aquila, 16 marzo 2017, n. 217, reperibile in internet al seguente indirizzo: www. dejure.it.

[10] Si veda da ultimo il d.lgs. n. 36/2021, art. 8 («Assenza dello scopo di lucro»), che dopo aver stabilito il divieto di distribuzione, anche indiretta, degli utili tra soci nelle società sportive dilettantistiche (secondo comma), fa comunque salva la possibilità per le società di cui al titolo V di destinare una quota inferiore al cinquanta per cento degli utili o degli avanzi di gestione annuali (tra l’altro) alla distribuzione degli utili nei limiti di cui al terzo comma. Il modello lucrativo, introdotto con l. 27 dicembre 2017, n. 205, è stato successivamente abrogato con d.l. 12 luglio 2018, n. 87, convertito in l. 9 agosto 2018, n. 96 (sul tema, si veda in particolare M. Rubino De Ritis, Riforma del terzo settore e attuali assetti societari delle imprese sportive: propositi e spropositi del legislatore, in Giust. civ., 2018, 763 ss.; e, più in generale, G. Volpe Putzolu, Le società sportive, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo, G.B. Portale, 8, Torino, Utet, 1992, 303 ss. spec. 316 ss.).

[11] Diversamente è da dirsi per le start-up innovative a vocazione sociale, ossia quelle che, ai sensi dell’art. 25, quarto comma, d.l. n. 179/2012 «[...] operano in via esclusiva nei settori indicati all’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 24 marzo 2006, n., 155», nelle quali l’assenza del lucro soggettivo è permanente. Sulle ragioni del divieto di distribuzione degli utili, in particolare, G. La Sala, Start-up innovative: fattispecie e costituzione in forma di s.r.l., in Riv. soc., 2017, 1118 ss., 1127 ss.

[12] Sulla rilettura in senso c.d. “privatistico” della disciplina delle società a partecipazione pubblica, si veda in particolare, C. Ibba, Diritto comune e diritto speciale nella disciplina delle società pubbliche, in Giur. comm., 2019, I, 968 ss. Parte della dottrina ritiene però, anche a seguito dell’introduzione del testo unico, che la causa sociale lucrativa possa essere influenzata e limitata dall’interesse pubblico: così, R. Guarino, La “causa pubblica” alla luce del testo unico 175 del 2016, in Aa.Vv., Le società pubbliche, a cura di F. Fimmanò, A. Catricalà, I, Roma, Universitas Mercatorum Press, 2016, 285 ss., e 304 ss., spec. 311 ss.

[13] Cass., sez. I, 7 febbraio 2017, n. 3196, par. 4, reperibile in internet al seguente indirizzo: www.dejure.it; si veda anche Cass., sez. un., 2 febbraio 2018, n. 2584, ivi.

[14] F. Goisis, L’ente pubblico come investitore privato razionale: natura e lucratività delle società in mano pubblica nel nuovo Testo unico sulle partecipate, in Dir. econ., 2017, 1 ss.; Id., Il problema della natura e della lucratività delle società in mano pubblica alla luce dei più recenti sviluppi dell’ordinamento nazionale ed europeo, ivi, 2013, 41 ss. Sottolinea in particolare, C. An­gelici, In tema di “socio pubblico”, in Riv. dir. comm., 2015, I, 175 ss., spec. 178, come il riferimento all’«investitore privato» contenuto nella disciplina degli aiuti di Stato caratterizzi in modo significativo la posizione del socio pubblico, distinguendola da quella del socio privato.

[15] In quest’ultimo senso, G. Santini, (nt. 6), spec. 166 ss. Ravvisa la non essenzialità dello scopo di lucro nelle società partecipate, rifacendosi appunto a tale tesi, G. Grüner, Enti pubblici a struttura di S.p.A., Contributo allo studio delle società “legali” in mano pubblica di rilievo nazionale, Torino, Giappichelli, 2009, 28 ss.

[16] Si veda R. Sacchi, Sulla responsabilità da direzione e coordinamento nella riforma delle società di capitali, in Giur. comm., 2003, 661 ss., che segnala il rilevante valore sistematico della norma introduttiva della responsabilità da direzione unitaria, in quanto riconducibile al principio del c.d. «shareholder value» (ossia della primaria attenzione agli interessi economici dei soci, anche se di minoranza), che costituirebbe «l’idea-guida del dibattito, che, raccogliendo gli stimoli della dottrina statunitense, ha influenzato il processo di riforma del diritto societario di questi ultimi anni […]». Ma si veda C. Angelici, La società per azioni e gli “altri”, in Aa.Vv., L’interesse sociale tra valorizzazione del capitale e protezione degli stakeholders, Milano, Giuffrè, 2010, 45 ss., 59 ss., ove sottolinea come il riferimento ex art. 2497 c.c. al principio di «correttezza imprenditoriale» costituisca un limite rispetto al perseguimento indiscriminato del profitto e della sua massimizzazione «in ogni caso e ad ogni costo».

[17] Cfr. Relazione illustrativa al disegno di legge, n. 1882, reperibile in internet al seguente indirizzo: www.senato.it. Sottolineano come lo scopo sociale delle società benefit abbia «natura bidimensionale» (lucro-interesse dei soci/beneficio comune-interesse di coloro sui quali l’attività sociale possa avere impatto), F. Denozza, A. Stabilini, La società benefit nell’era dell’investor capitalism, in questa Rivista, 2/2017, 13; sottolinea U. Tombari, L’organo amministrativo di S.p.A. tra “interessi dei soci” ed “altri interessi”, in Riv. soc., 2018, 25 e s., come il “beneficio comune” sia parte dello “scopo-fine” della società, accanto allo scopo di lucro. Sul fatto che la società benefit importi una deroga alla fattispecie di società lucrativa di cui all’art. 2247 c.c. (stante la duplicità di scopi, tra i quali il legislatore non avrebbe inteso instaurare una «graduazione»), G. Marasà, Scopo di lucro e scopo di beneficio comune nelle società benefit, in questa Rivista, 2/2017, 2 e 6 ss. La “dualità” dello scopo sociale non pare contraddetta dalle ulteriori previsioni (commi 376 e 380) che fanno riferimento anche all’interesse degli stakeholders: si ritiene, infatti, più corretto e conforme allo spirito dell’intervento legislativo che il bilanciamento debba avvenire tra «l’interesse dei soci al profitto» e «l’interesse dei terzi al perseguimento delle finalità di beneficio comune», interpretazione che consentirebbe di ritrovare una corrispondenza con la previsione di apertura secondo cui le società benefit «oltre allo scopo di dividere gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune»: in tal senso anche F. Denozza, A. Stabilini, cit., 13; F. Denozza, La società benefit e le preferenze degli investitori, in Aa.Vv., Dalla benefit corporation alla società benefit, (nt. 2), 33 s., ivi, 47.

[18] Considera l’«attività economica» di cui al comma 378, lett. a), un «limite di sistema» rispetto alle attività di beneficio comune perseguite, A. Bartolacelli, (nt. 2), 261.

[19] Ritiene che la soddisfazione dello scopo di beneficio comune debba comunque indirettamente avvantaggiare anche i soci, D. Stanzione, Profili ricostruttivi della gestione di società benefit, in Riv. dir. comm., 2018, I, 516; pare individuare una sorta di subalternità dell’inte­resse dei terzi rispetto a quello dei soci, M. Palmieri, L’interesse sociale: dallo shareholder value alle società benefit, in Banca impr. soc., 2017, 211 ss., ove precisa come il beneficio comune, al di là del dato letterale, vada letto come rivolto ad avvantaggiare, oltre a uno o più portatori di interesse, anche i soci della società che puntano a vedere realizzato lo scopo di dividere gli utili richiamato dal comma 376.

[20] Si pensi al c.d. «duty to consider», che si ritrova in diverse legislazioni statunitensi in tema di «benefit corporations», nonché alla Sect. 172.1 Comp. Act 2006, ove gli interessi degli stakeholders sono comunque funzionali al «duty to promote the success of the company», ma anche alla citata Loi Pacte francese, ove si richiede di tener conto dell’impatto in ambito sociale ed ambientale delle scelte di gestione. Sulla centralità del bilanciamento nella disciplina della società benefit, Assonime, (nt. 2), 5; e Linee Guida sul Reporting delle Società Benefit, a cura di Network Italiano Business Reporting (N.I.B.R.), gennaio 2019, reperibili all’indirizzo: www.assobenefit.org, 18 s. («Il bilanciamento degli interessi è un obbligo che caratterizza in modo specifico ed unico la Società Benefit […]»).

[21] Specifica G. Marasà, (nt. 2), 23 s., come le società benefit siano un “contenitore” funzionalmente assai elastico, potendo ricomprendere sia quelle ipotesi in cui lo scopo di beneficio comune assurge a scopo principale sia quelle ipotesi in cui esso è solo marginale e viene statutariamente previsto solo per poter accedere a benefici in termini di immagine: è solo nel primo caso, che, secondo l’A., avrebbe rilevanza soprattutto teorica, la fattispecie sarà funzionalmente diversa da un’ordinaria società lucrativa (o cooperativa). La prassi statutaria presenta ipotesi di clausole in cui l’incidenza sull’aspetto del lucro è evidente, perché, ad esempio, si prevede il compimento di atti a titolo gratuito o di atti di beneficienza e altri casi in cui gli obiettivi sono talmente generici (es. aumento della felicità di tutti coloro che interagiscono con la società: così Nativa s.r.l. o la Illycaffè s.p.a benefit, reperibile in internet al seguente indirizzo: www.societabenefit.net) che i loro riflessi sotto il profilo del lucro non sono evidenti né necessari, potendo venire in rilievo nella successiva fase di bilanciamento dell’organo amministrativo.

[22] Così, G. Marasà, (nt. 2), 23, che appunto precisa come il perseguimento del beneficio comune non rilevi nel momento della distribuzione degli utili ma in quello della gestione; nello stesso senso, G.D. Mosco, (nt. 9), 89, che non considera il bilanciamento realizzabile attraverso una mera attività di erogazione o beneficienza. Ritiene, invece, che il compimento di donazioni o di atti a titolo gratuito possa essere una delle modalità di perseguimento del beneficio comune, alternativa all’attività economica senza lucro soggettivo o all’attività non economica, A. Lupoi, L’ attività delle “società benefit”, in Riv. not., 2016, 823, 827, 831 ss.

[23] Si sofferma su tale “confusione terminologica” da parte del legislatore, tra gli altri, S. Corso, (nt. 2), 1008 s.

[24] Non è dubbio che lo scopo sociale consortile si riferisca alla causa e non all’oggetto sociale, come conferma la dottrina tradizionale, tra cui, G.D. Mosco, (nt. 9), 343 ss., che sottolinea l’atecnicità della norma evidenziata dal “bisticcio” tra oggetto e scopo sociale (343); si vedano anche: A. Borgioli, (nt. 6), 129 s.; M.S. Spolidoro, (nt. 6), 69 e 122 s. e 124 (ove precisa come, a differenza delle società lucrative, l’oggetto sociale nelle società consortili è lo svolgimento delle attività di cui all’art. 2602 c.c. ed implica una serie di diritti e di obblighi dei soci «che incidono sul contenuto del contratto e quindi sulla sua funzione»); considera impropria tale formulazione normativa anche L. De Angelis, (nt. 6), 26.

[25] Vedi anche G. Volpe Putzolu, Le società consortili, in Trattato delle società per azioni, (nt. 10), 269 ss., 271, secondo cui la disposizione può essere ritenuta meno imprecisa se si considera che essa non fa che ribadire la sostanziale coincidenza tra scopo e oggetto sociale che è propria della gestione mutualistica.

[26] Così, D. Preite, (nt. 6), 230 s.

[27]Precisa Assonime, (nt. 2), 13, come l’indicazione delle finalità di beneficio comune nell’oggetto sociale consenta di «cristallizzare gli obiettivi perseguiti nell’esercizio dell’attività economica rendendo immanente all’impresa l’impegno alla realizzazione del beneficio comune, a prescindere dalle vicende che interessano i soci e il management». Sottolinea come tale scelta del legislatore si accompagni ad una tendenza, già invalsa nella prassi, di inserire, in mancanza di una precisa clausola sullo scopo, ogni indicazione a riguardo nella previsione statutaria relativa all’oggetto sociale, G.D Mosco, (nt. 9), 89. Il fatto di ricondurre le finalità di beneficio comune nel novero delle attività esercitabili (e quindi al piano dell’oggetto e non dello scopo) avrebbe, del resto, anche il vantaggio di limitare, perlomeno in parte, l’incongruenza della legge, che, se da un lato, consente l’utilizzo del modello benefit anche alle società cooperative, dall’altro lato, però, incentra l’intera disciplina sul bilanciamento tra scopo di lucro e finalità di beneficio comune.

[28] Sottolineano tale aspetto, tra gli altri, S. Rossi, L’impegno multistakeholder della società benefit, in questa Rivista, 2/2017, 6; G. Riolfo, Le società “benefit” in Italia: prime riflessioni su una recente innovazione legislativa, in Studium iuris, 2016, 726 («Se pur il riferimento è all’oggetto sociale, come contenitore per l’indicazione delle finalità di beneficio comune, la vera ibridazione che realizza il legislatore attraverso le SB è quella della causa del contratto di società»); S. Corso, (nt. 2), 1010; D. Lenzi, Le società benefit, in Giur. comm., 2016, I, 899 e 900 ss.

[29] In questi termini, G. Marasà, (nt. 2), 22 s.

[30] Così, G. Marasà, (nt. 2), 19; Id., (nt. 6), 123 ss., ritenendo ammissibile una certa «elasticità della causa» che giustifica, accanto all’interesse lucrativo principale, anche interessi accessori di altra natura: le devoluzioni altruistiche parziali sarebbero perciò compatibili con la causa sociale anche quando assumono carattere continuativo. Ma vedi già V. Vivante, Trattato di diritto commerciale, II, Milano, Vallardi, 1923, 37 (non è necessario che «tutto il guadagno vada distribuito fra i soci», potendo in parte essere consacrato a «più nobili fini, come contributo dell’impresa a quei sensi di solidarietà sociale che ne agevolano l’esercizio»). Secondo diversa prospettiva, l’ammissibilità di finalità ideali nell’atto costitutivo della s.p.a. dovrebbe essere considerata, non un’ulteriore finalità della società, ma una specificazione dell’interesse sociale, che, da un lato, indicherebbe apprezzamento da parte dei soci per finalità benefiche o altruistiche al fine del miglioramento dell’immagine della società, e, dall’altro, preciserebbe i settori in cui gli amministratori debbono concentrare le attività pro bono: così, M. Stella Richter jr., Forma e contenuto dell’atto costitutivo della società per azioni, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo, G.B. Portale, 1*, Torino, Utet, 2004, 165 ss., ivi 242 ss.

[31] Si vedano, M. Lupoi, (nt. 22), 831 ss.; V. Caredda, Persone giuridiche ed atti a titolo gratuito: un percorso in ascesa dal futuro incerto, in Contr. impr., 2020, spec. 1469 ss.; M. Bianca, Oggetto sociale ed esercizio dell’impresa nelle società di capitali, Milano, Giuffrè, 2008, 122, 167, che riconosce la possibilità di inserire nell’oggetto sociale, accanto all’attività economica, anche attività ideali, prive di economicità e con scopi ideali; A. Ruotolo, Atti gratuiti e scopo lucrativo, in Cnn, Studi di impresa, Studio n. 26-2010/I, secondo cui la possibilità per le società di compiere atti gratuiti atterrebbe alla strumentalità rispetto allo scopo di lucro, non alla capacità; G. Oppo, Sulle erogazioni “gratuite” delle aziende di credito, in Banca borsa tit. cred., 1982, I, 926 ss.; G. Marasà, (nt. 6), 110 ss., 285 s., 498 ss.; C. Cicolani, Può una società di capitali compiere atti di donazione?, in Riv. not., 1971, 139 ss. e 141 s., che ritiene ammissibili clausole che destinano una parte degli utili in beneficienza. Reputa coerenti con la massimizzazione dell’utile nel lungo periodo anche forme di eterodestinazione a scopi non direttamente produttivi di ricchezza, D. Preite, (nt. 6), spec. 209 ss. e 212 s., precisando come il giudice abbia ampia discrezionalità nell’individuarne i limiti di ammissibilità, anche nell’ottica di poter qualificare o meno la fattispecie come società. Diversamente, G. Ferri jr., M. Stella Richter, L’oggetto sociale statutario, in Giust. civ., 2002, 483 ss., 488, i quali precisano, interpretando restrittivamente la nozione di «attività economica» di cui all’art. 2247 c.c., che possono rientrare nell’oggetto sociale esclusivamente (e non solo prevalentemente) attività dirette alla produzione del lucro. Sulla possibilità per la società di effettuare donazioni, si veda Cass., 21 settembre 2015, n. 18449, in Giur. it., 2016, 1151 ss., che appunto precisa come le società hanno una capacità giuridica generale di essere parte di qualsiasi atto o rapporto (e quindi anche della donazione), salvo che di quelli che presuppongono l’esistenza della persona fisica; l’oggetto sociale e lo scopo di lucro non costituirebbero un limite alla sua capacità giuridica (ma ai poteri di gestione e di rappresentanza degli amministratori). Sulla legittimità di una clausola statutaria che destina una parte di utili in beneficienza, Cass., 11 dicembre 2000, n. 15599, in Società, 2001, 675, con nota di G. Cabras; ma già Cass., 9 maggio 1936, in Riv. dir. civ., 1936, 243, che ha riconosciuto la pertinenza all’oggetto sociale della partecipazione di una s.p.a. ad un comitato di beneficienza per il restauro di un teatro locale.

[32] Così, F. Denozza, A. Stabilini, (nt. 17), 10; precisano P.G. Jaeger, F. Denozza, A. Toffoletto, Appunti di diritto commerciale, Impresa e società, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre, 2019, 729 s., come nelle società non benefit che non riportano nell’oggetto sociale alcuna indicazione in merito ad attività di beneficio comune gli amministratori debbano dimostrarne la strumentalità rispetto all’oggetto sociale e alla finalità lucrativa, mentre l’inserimento delle stesse nell’oggetto sociale attribuirebbe a costoro un’ampia discrezionalità senza la soggezione ai controlli cui è invece sottoposta la società benefit; U. Tombari, (nt. 17), 26 ss., secondo cui non vi sarebbe alcuno spazio per un contemperamento ed un bilanciamento tra interessi “lucrativi” e “non lucrativi” al di fuori del paradigma della società benefit, ragion per cui tutte le altre società (lucrative) potrebbero perseguire finalità di beneficio comune solo in via residuale rispetto agli interessi lucrativi dei soci, nonché in modo strumentale alle finalità di lucro della società; in questa direzione parrebbe anche G.B. Portale, Diritto societario tedesco e italiano in dialogo, in Banca borsa tit. cred., 2018, I, 607; contra, rispetto a tale tesi, che ravviserebbe una contrapposizione antinomica tra società benefit e non benefit, P. Montalenti, L’interesse sociale: una sintesi, in Riv. soc., 2018, 303 ss., 318.

[33] Così, S. Rossi, (nt. 28), 6. Desume dall’introduzione della normativa sulla società benefit un divieto di programmare il perseguimento di finalità di beneficio comune, non anche il compimento di singole operazioni volte a soddisfare finalità di questo tipo, C. Angelici, Società benefit, in questa Rivista, 2/2017, 8. Vedi anche Assonime, (nt. 2), 13 s., precisando come l’obbligo di modificare l’atto costitutivo o contratto sociale per le società che intendano divenire benefit si applichi solo a quelle società che «sviluppino in modo permanente politiche di lungo termine volte al perseguimento di benefici comuni, che siano pienamente integrate nel business model e nella cultura d’impresa».

[34] G. Marasà, (nt. 17), 4 ss., ritenendo che la previsione che impone la modifica statutaria per le società non benefit debba essere intesa come un “onere” per le imprese che intendano acquisire la qualifica di società benefit, non come un divieto per le altre di svolgere attività idonee a realizzare anche scopi di beneficio comune.

[35] M. Stella Richter jr., Società benefit e società non benefit, in questa Rivista, 2/2017, 5.

[36] Cfr. Relazione illustrativa, (nt. 17) («Un impegno della società, e quindi degli amministratori, a perseguire uno scopo aggiuntivo rispetto a quello del profitto non è stato finora contemplato e disciplinato nel nostro ordinamento e, pertanto, lo scopo di beneficio comune potrebbe risultare allo stato attuale incompatibile e incorrere in difficoltà nel caso di registrazione presso le camere di commercio»). Ma reputa «insincera (e comunque inesatta)» la Relazione illustrativa, M. Stella Richter jr., (nt. 35), 4, ritenendo che il perseguimento di finalità di beneficio comune fosse possibile anche prima di tale disciplina. Dubita del carattere “innovativo” della disciplina della società benefit, ritenendo che anche in assenza di tale normativa i soci potessero ricomprendere nell’oggetto sociale obiettivi di carattere ideale, vincolando gli amministratori al loro perseguimento, S. Prataviera, (nt. 2), spec. 949 ss.; considera invece potenzialmente “dirompente” l’introduzione della società benefit, tra gli altri, G.D. Mosco, L’im­presa non speculativa, in Giur. comm., 2017, I, 232.

[37] Sul fatto che la disciplina sulle dichiarazioni di carattere non finanziario di cui al d.lgs. n. 254/2016, non muti gli “interessi” che un amministratore di s.p.a. deve perseguire, U. Tombari, (nt. 17), 79; esclude che da tale normativa possa discendere, in capo agli amministratori di società quotate, il dovere di perseguire obiettivi non finanziari per finalità di interesse generale, M. Maugeri, Informazioni non finanziarie e interesse sociale, in Riv. soc., 2019, 992, 1002 ss.; nello stesso senso, G.B. Portale, (nt. 22), 606 s.; sottolinea N. Rondinone, Interesse sociale vs. interesse “sociale” nei modelli organizzativi di gruppo presupposti dal d.lgs. n. 254/2016, in Riv. soc., 2019, 368 ss., come il rispetto di tali obblighi di trasparenza però implichi, specie nell’ambito dei gruppi societari, il sorgere di doveri organizzativi in capo agli organi di amministrazione e controllo.

[38] Precisano F. Denozza, A. Stabilini, (nt. 17), 9, come la differenza tra società benefit e non benefit sarebbe innanzitutto quantitativa, con riguardo ai limiti con cui le une e le altre possono svolgere attività di beneficio comune.

[39] Si veda, in particolare, G. Marasà, (nt. 6), 111 s., ove precisa come lo scopo di lucro oggettivo andrebbe valutato nel suo complesso, potendo essere assente nel singolo atto (a dimostrazione di ciò, viene citato l’art. 7, l. n. 195/1974, che ammette, entro certi limiti, finanziamenti e contributi a partititi politici da parte di società), laddove il discorso cambierebbe quando il compimento di atti non lucrativi assuma carattere sistematico e costante. Lo stesso viene ribadito dall’a. con riferimento al lucro soggettivo, che, se sistematicamente devoluto ad altri fini, può configurare una società priva dello scopo di lucro (113). Richiama la distinzione tra “atti” e “attività” anche C. Angelici, (nt. 33), 8, il quale desume dal comma 379 il divieto, per le società non benefit, di programmare il perseguimento di finalità di beneficio comune, non anche il compimento di singole operazioni volte a soddisfare finalità di questo tipo.

[40] Si veda anche B. De Donno, Dalla benefit corporation alla società benefit, Note introduttive, in Aa.Vv., Dalla benefit corporation alla società benefit, (nt. 2), 13, che, constatando l’esistenza di “zone grigie con contorni non ben definiti”, auspica la modifica del testo di legge per creare la “possibilità” (invece dell’attuale obbligo) di divenire benefit per le società che vogliono perseguire finalità di lucro e di beneficio comune. La distinzione sarebbe molto meno netta per chi, invece, non ritendo che lo scopo di beneficio comune debba avere un ruolo necessariamente preminente nelle società benefit, lo considera perseguibile anche da quelle non benefit: così, in particolare, G. Marasà, (nt. 2), 24 s.

[41] Ai sensi del comma 379 la società benefit può introdurre, accanto alla denominazione sociale, le parole «Società benefit» o l’abbreviazione «SB» e utilizzare tale denominazione nei titoli emessi, nella documentazione e nelle comunicazioni verso terzi, mentre la relazione annuale concernente il perseguimento del beneficio comune, è pubblicata sul sito internet della società solo se questo è esistente (comma 383). Precisa la Circolare del Ministero dello Sviluppo Economico, 6 maggio 2016, n. 3689/C, recante «Nuove Istruzioni per la compilazione del Registro delle imprese e del rea» reperibile in internet al seguente indirizzo: www.mise.gov.it, che la società benefit, oltre ad essere iscritta in una sezione ordinaria e non speciale, non ha alcun obbligo di pubblicare la relazione nel registro delle imprese ma solo su sito internet. Si veda in argomento, in particolare, D. Caterino, Denominazione e labeling della società benefit, tra marketing “reputazionale” e alterazione delle dinamiche concorrenziali, in Giur. comm., 2020, I, 787 ss.

[42] Così, M. Stella Richter jr., L’impresa azionaria tra struttura societaria e funzione sociale, in Aa.Vv., La funzione sociale nel diritto privato tra XX e XXI secolo, a cura di F. Macario, M.N. Milletti, Roma, Roma Tre Press, 2017, 78 ss., ivi, 81 ss.

[43] Così, anche Assonime, (nt. 2), 13 s. Distingue, a seconda che la devoluzione degli utili sia prevista in via statutaria o di fatto, G. Marasà, (nt. 6), 126 s., precisando come, nel primo caso, la clausola del contratto sociale sarebbe valida se saltuaria e non sistematica e continuativa, mentre, nel secondo caso, l’interesse della maggioranza al conseguimento di maggiori utili in futuro, correlato al beneficio di immagine che potrebbe giustificare la destinazione di utili a terzi, potrebbe imporsi solo parzialmente a scapito della minoranza, non potendo legittimare una seppur saltuaria integrale devoluzione a terzi.

[44] Si veda F. Denozza, (nt. 17), 33 s., ivi, 47, che considera una inutile complicazione, specie sotto il profilo della disciplina applicabile, la tripartizione società benefit, società non benefit e società che hanno introdotto nello statuto finalità di beneficio comune. Secondo A. Bartolacelli, (nt. 2), 278, il comma 376 costituirebbe norma di interpretazione autentica dell’art. 2247 c.c. rispetto alla possibilità per la società lucrativa di compiere atti di beneficio comune.

[45] In tal senso, M. Stella Richter jr., (nt. 42), 83, facendo discendere dalla lettura del comma 379 l’ipotesi di un divieto di compiere atti di beneficio comune se non in base ad una previsione statutaria che lo consenta.

[46] La mancanza di una soglia di beneficio comune viene considerata “il punto debole della disciplina” da A. Bartolacelli, (nt. 2), 261. Sulla possibilità che lo scopo di beneficio comune sia meramente marginale, G. Marasà, (nt. 17), spec. 23 s. Alcune legislazioni straniere prevedono invece che la violazione delle disposizioni previste dalla disciplina sulla società benefit possa determinare addirittura la perdita della qualifica e, di conseguenza, la soggezione al diritto societario generale: così art. 10.1, della disciplina peruviana «Ley de la sociedad de beneficio e interés colectivo» («sociedad BIC»).

[47] In tal senso, G. Marasà, (nt. 17), 25 s., secondo cui non si potrebbe prescindere dall’ana­lisi complessiva del materiale statutario che mostri l’intento inequivoco dei soci di assumere la qualifica benefit; Id., (nt. 2), 25 s., ove precisa come la modifica dello statuto da parte di una società al fine di perseguire scopi di beneficio comune, ma senza l’adozione della dizione «benefit», non sarebbe sufficiente per riqualificarla come società benefit, se dall’interpre­tazione dello statuto non risulta l’intento dei soci in tal senso. In senso non dissimile, s. rossi, (nt. 28), 8, nt. 9, secondo cui nel caso in cui i soci indichino nello statuto di voler perseguire finalità di beneficio comune, senza assumere la qualifica benefit, si porrà un problema di interpretazione della volontà contrattuale, al fine di stabilire se abbiano inteso stabilmente modificare lo scopo (oggetto) sociale e accettare il bilanciamento di interessi (ipotesi in cui si applicherà la disciplina della società benefit), ovvero, non abbiano inteso compromettere la centralità dello scopo di lucro (ipotesi in cui si applicherà il diritto comune). Ma si vedano F. Denozza, A. Stabilini, (nt. 17), 9, (secondo cui la società non benefit che opera la modifica statutaria prevista dalla legge diventa benefit «a tutti gli effetti»).

[48] Ipotizza A. Bartolacelli, (nt. 2), 278 s., che le società che abbiano inserito nel proprio oggetto sociale finalità di beneficio comune, possano, per ciò solo, trovarsi “involontariamente” ad essere qualificate come benefit e assoggettate alla relativa disciplina. La previsione, inoltre, non distinguendo tra perseguimento del beneficio comune, a lungo, medio o breve termine, imporrebbe la trasformazione in benefit anche di società che intendano operare in tal senso per un periodo determinato, creando così, secondo l’a., disincentivo all’uso del modello, nonché un utilizzo opportunistico dello stesso (essendo l’acquisizione dello status subordinata ad un elemento formale e non all’effettivo perseguimento del beneficio comune).

[49] Così anche D. Caterino, (nt. 41), 801, sottolineando come i controlli previsti dalla legge di stabilità 2016 siano applicabili a tutte le società benefit, a prescindere dal nomen, per il fatto di aver volontariamente internalizzato finalità di beneficio comune nel loro statuto; sottolinea invece A. Bartolacelli, (nt. 2), spec. 279 e 281 s., come le sanzioni di cui al comma 384 siano comminate alla società inadempiente, indipendentemente dal fatto che la sua qualificazione in termini di benefit sia volontaria o meno.

[50] Per questi rilievi, F. Denozza, A. Stabilini, (nt. 17), 9 s.; F. Denozza, (nt. 17), 42.

[51] Del resto, anche i sostenitori della tesi più permissiva rispetto alla possibilità per le ordinarie società lucrative di perseguire finalità sociali non possono fare a meno di riconoscere che solo nella società benefit può valere un’attenuazione della responsabilità degli amministratori nei confronti dei soci per aver perseguito scopi diversi da quello di massimizzazione del profitto (accanto all’ordinaria «business judgment rule», si avrebbe perciò una sorta di «benefit judgment rule»): così, M. Stella Richter jr., (nt. 35), 6 s.; Id., Corporate social responsibility, social enterprise, benefit corporation: magia delle parole?, in Vita not., 2017, 962 s., nt. 14. Anche la dottrina statunitense riconosce che, in assenza di una disciplina sulla benefit corporation, non si sarebbe potuto deviare dalla regola fondamentale dello shareholder value: così, tra gli altri, K. Westaway, D. Sampselle, The benefit corporation: an economic analysis with raccomendations to Courts, boards, and legislatures, in Emory Law J., vol. 62, 2013, 1079 ss., 1084.

[52] Sull’organizzazione interna delle società benefit e, in particolare, sulla predisposizione di procedure volte a regolare l’attività di bilanciamento, E. Codazzi, (nt. 2), 615 ss. La disciplina francese sulla «société à mission» (art. 176 della Loi Pacte), per esempio, ha introdotto un comitato di missione, composto da almeno un dipendente della società, incaricato di redigere un rapporto annuale da presentare all’assemblea insieme alla relazione sulla gestione, laddove viene affidata ad un organismo terzo la verifica della realizzazione degli obiettivi sociali o ambientali.

[53] Si pensi, in particolare, alla relazione sul perseguimento del beneficio comune, che, pur in mancanza di una specifica sanzione per l’omessa redazione, pare costituire presupposto imprescindibile, sia per valutare, anche in chiave prospettica, l’operato degli amministratori e della società, sia per poter applicare a quest’ultima la relativa disciplina (sul tema, P. Butturini, La relazione annuale della società benefit nel sistema del bilancio d’esercizio, in Giur. comm., 2020, I, 572 ss., spec. 575 ss.).

[54] Si veda G. Marasà, (nt. 2), 20, il quale ritiene che gli amministratori in tale ipotesi non saranno necessariamente esposti ad un’azione di responsabilità dei soci, perlomeno fino a quando gli effetti di una gestione socialmente responsabile sul conseguimento di un «immediato fine di profitto» siano contenuti e quindi non tali da compromettere la preminenza dello scopo di lucro. Per quanto riguarda i riflessi della limitazione del lucro sui creditori sociali, si richiama D. Preite, (nt. 6), 211, testo e nota 33, il quale sottolinea come l’eterodestinazione degli utili, specie se parziale, costituisca una minaccia limitata per l’interesse dei creditori qualora l’attività sia comunque gestita con economicità, dovendosi ritenere che nel nostro ordinamento il debitore sia libero di compiere atti di disposizione nei confronti dei terzi (salvo che per gli abusi più gravi).

[55] Precisa ad esempio Trib. Milano, 15 aprile 2019, n. 3728, reperibile in internet al seguente indirizzo: www.dejure.it, che difetta il carattere del danno diretto richiesto dalla norma nell’ipotesi in cui gli amministratori abbiano impedito il conseguimento di utili, danneggiato il patrimonio della società e reso impossibile la liquidazione delle quote sociali, trattandosi di comportamenti dolosi o colposi che colpiscono in via diretta esclusivamente la società, avendo un effetto solo riflesso sui soci. Nello stesso senso, Trib. Roma, sez. spec. impresa, 22 ottobre 2018, n. 20164, in Foro it., 2018, I, 4077.

[56] Non a caso, anche nel dibattito attualmente in corso sui doveri fiduciari degli amministratori, si avverte, in particolare, la necessità di intervenire sul vigente sistema delle responsabilità, in quanto inadeguato a supportare un modello di gestione sociale “allargata” alla considerazione di interessi diversi da quelli lucrativi: vedi Assonime, (nt. 1), IV e 31 ss.

[57] Sottolinea G. Marasà, (nt. 6), 114, come solo quando «gli atti si ripetono e appaiono univocamente espressione di un intento non societario» è configurabile uno «sviamento causale», laddove se la singola delibera è altruistica la causa del contratto sociale non è definitivamente pregiudicata; vedi anche 132 ss., e 545 ss. ove l’a. considera annullabile e non nulla (non rientrando tra le cause tassative di cui all’art. 2379 c.c.), la delibera di devoluzione di tutti gli utili a terzi. Sull’orientamento giurisprudenziale che considerava nulle per illiceità dell’og­getto le delibere assunte in violazione delle norme dirette ad impedire una deviazione dallo scopo economico-pratico del contratto di società, G. Zanarone, L’invalidità delle delibere assembleari, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo, G.B. Portale, 3**, Torino, Utet, 1993, 433 ss.; e Id., Il ruolo del tipo societario dopo la riforma, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campobasso, 1, diretto da P. Abbadessa, G.B. Portale, Torino, Utet Giuridica, 2006, 58 ss., spec. 74 ss., in cui, qualificando come “atipiche” le clausole volte a prevedere l’eterodestinazione degli utili, ne fa discendere la nullità e l’automatica sostituzione ex art. 1339 c.c. dell’art. 2247 c.c. (norma che contiene la regola sulla ripartizione degli utili tra soci).

[58] Alcune legislazioni nord-americane prevedono il meccanismo del c.d. «minimum status vote», in virtù del quale sarebbe necessaria una maggioranza qualificata per il passaggio di una società ordinaria a benefit corporation e viceversa: così, Model Benefit Corporation Legislation, § 102, § 105; 805 ILCS 40/2.05, 2.10; New York Consolidated Laws, Business Corporation Law – BSC § 1704 – 1706 c); Cal. Corp. Code, § 14603 e 14604; Minn. Stat., Chapter 304A (Minn. Publ. Benefit Corp. Act), § 304A.102, subd. 1. Per quanto riguarda il Delaware, le previsioni del Del. Gen. Corp. Law, § 363(a) (c), che richiedevano per il passaggio da società ordinaria a benefit corporation (e viceversa) la maggioranza di 2/3, sono state eliminate da un emendamento del luglio 2020, il quale rinvia alle §§ 242(b) e 251, per le quali è sufficiente «majority voting unless the certificate of incorporation provides otherwise». Nelle legislazioni degli Stati nord-americani, si prevede il c.d. «appraisal right», che attribuisce agli azionisti dissenzienti rispetto al passaggio a società benefit o viceversa il diritto di vedere le proprie partecipazioni acquistate dalla società ad un “valore equo” di liquidazione (così, ad es. Cal. Corp. Code, § 14603 e 14604; Minn. Stat., Chapter 304A, § 304A.102, subd. 3; Del. Gen. Corp. Law, § 363(b), poi eliminato dall’emendamento sopra citato del 2020). Interessante è la recente disciplina introdotta in Ecuador sulle «Sociedades de Beneficio e Interés Colectivo» (cfr. art. 10, «Ley Orgánica de Emprendimiento e Innovación», n. 1526, 2020, e le istruzioni ministeriali di cui alla delibera, n. 21/2019), che attribuisce il diritto di recesso ai soci che dissentono sia dalla delibera assembleare che determina la conversione a società benefit (art. 3) sia dalla delibera che comporta la perdita di tale qualifica (art. 13). Sull’esigenza di introdurre a livello statutario maggioranze qualificate e particolari doveri informativi preassembleari, G. Riolfo, (nt. 28), 725 s.

[59] Talvolta enti non societari si trasformano in società benefit mantenendo medesimo progetto: così, ad esempio, la fondazione Maugeri trasformata in s.p.a. benefit (lo statuto è reperibile in internet al seguente indirizzo: https://www.icsmaugeri.it).

[60] Così, oltre agli Autori richiamati nei successivi §§, P.G. Jaeger, F. Denozza, A. Toffoletto, (nt. 32), 730. Sulla necessità di garantire l’esercizio del diritto di recesso ai soci di minoranza, in caso di eterodestinazione dell’utile da parte della maggioranza, D. Preite, (nt. 6), 229 ss.; in caso di violazione della causa lucrativa, sottolineava in una prospettiva de jure condendo, la possibilità di introdurre cause di recesso invece non consentite de jure condito, G. Marasà, (nt. 6), 650 s. Ritiene invece che il passaggio a società benefit non comporti un’al­terazione del tipo né della causa e quindi non legittimi il recesso dei soci, D. Siclari, “Trasformazione” in società benefit e diritto di recesso, in Riv. trim. dir. econ., 2019, 80 ss., spec. 85 ss.

[61] Un primo strumento di rinegoziazione può essere dato, nelle s.p.a., dalla possibilità di attribuire ad alcuni soci azioni privilegiate sotto il profilo della distribuzione degli utili o azioni correlate ad un determinato settore (particolarmente remunerativo); le azioni correlate potrebbero essere viceversa attribuite anche in relazione al settore che caratterizza l’attività benefit. Nella s.r.l. strumento per riequilibrare i rapporti tra soci può essere quella di attribuire ad alcuni soci particolari diritti patrimoniali ex art. 2468, terzo comma, c.c.

[62] Evidentemente, la prospettiva cambia nel caso in cui si ritenga che lo scopo di lucro nelle società di capitali sia in qualche modo “neutralizzato”, ipotesi che, non solo consentirebbe ad ordinarie società lucrative di compiere con maggiore facilità atti di beneficienza o comunque volti alla soddisfazione di interessi di natura non strettamente lucrativa (di carattere sociale, ambientale, ecc.), ma anche porterebbe ad escludere – perlomeno in via di principio – il diritto di recesso dei soci (questa è, ad esempio, la posizione di Assonime, (nt. 2), 16 s.).

[63] In tal senso, D. Preite, (nt. 6), spec. 230 ss.

[64] Così, ad esempio, P. Piscitiello, Recesso organizzativo e diritti patrimoniali del socio uscente nelle S.p.a., Torino, Giappichelli, 2018, 98 s., secondo cui tale causa di recesso sarebbe configurabile in caso di ampliamento o di riduzione delloggetto sociale, purché idonei a determinare una rilevante modificazione del rischio; e nello stesso senso Id., Recesso nei gruppi e tipologie dei soci di minoranza, in Riv. soc., 2020, spec. 1150 ss.; V. Di Cataldo, Il recesso del socio di società per azioni, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da P. Abbadessa, G.B. Portale, 3, Torino, Utet Giuridica, 2007, 219 ss., ivi, 226 s., secondo cui tale causa di recesso sarebbe configurabile in presenza di un mutamento significativo delle condizioni di rischio, non necessariamente un aggravamento delle stesse; Id., Il recesso del socio di società di capitali. È legittima una clausola statutaria di recesso per giusta causa?, in Giur. comm., 2015, I, 605 ss.,609; sulla rilevanza della riduzione e non solo dellampliamento del rischio, M. Ventoruzzo, Recesso e valore della partecipazione nelle società di capitali, Milano, Giuffrè, 2012, 13 s.; Id., I criteri di valutazione delle azioni in caso di recesso del socio, in Riv. soc., 2005, 319; in tal senso, già G. Grippo, Il recesso del socio, 6, Torino, 1993, 151 ss. Precisa però Trib. Milano, sez. spec. impresa, 30 gennaio 2020, n. 818, reperibile in internet al seguente indirizzo: www.giurisprudenzadelleimprese.it, come tale ipotesi di recesso si riferisca al cambiamento dell’attività della società, non al mutamento delle condizioni di rischio dellinvestimento (che, ne sarebbe un effetto indiretto), posto che quando il legislatore ha inteso sottoporre a valutazione tale elemento lo ha fatto (ex art. 2497-quater, primo comma, lett. c), c.c.); ritiene rientri nellipotesi sub art. 2437, lett. a), la riduzione e non solo lam­pliamento delloggetto sociale, Trib. Milano 21 luglio 2015, reperibile in internet al seguente indirizzo: www.giurisprudenzadelleimprese.it; ha escluso il configurarsi della causa di recesso di cui alla lett. a), in caso di assunzione di una partecipazione economicamente collegata a quella prevista nellatto costitutivo, Cass., 17 luglio 2007, n. 14963, in Società, 2008, 1368 ss.

[65] Vedi S. Ronco, (nt. 2), 75, la quale sottolinea come l’inserimento della finalità di beneficio comune non modifichi l’oggetto sociale ma aggiunga un obiettivo in più, per cui, se si interpreta in senso letterale la previsione di cui all’art. 2437, lett. a), in tale ipotesi non si potrebbe configurare una modifica dell’oggetto sociale. Sulla difficoltà di valutazione di quelle ipotesi in cui il programma economico venga integrato dallo svolgimento di attività apparentemente secondarie o strumentali, ma in realtà idonee a incidere sull’assetto patrimoniale e/o economico della società in misura maggiore rispetto all’attività principale, F. Chiappetta, Nuova disciplina del recesso di società di capitali: profili interpretativi e applicativi, in Riv. soc., 2005, 487 ss., ivi, 492.

[66] Così, D.U. Santosuosso, Gruppi di società basati sull’attività di direzione e coordinamento e diritto di recesso nelle ipotesi di trasformazione con mutamento dello scopo sociale e di modifica dell’oggetto sociale della capogruppo (art. 2497-quater, primo co., lett. a) c.c.), in Cnn, Studi di impresa, Studio n. 132-2009/I, 5 reperibile in internet al seguente indirizzo: www.notariato.it; sulla rilevanza delle modalità di svolgimento dell’attività, nell’ottica della modifica dell’oggetto sociale, U. Tombari, Il gruppo di società, Torino, Giappichelli, 1997, 175 ss. Più cauto, D. Galletti, sub art. 2497 quater, in Aa.Vv., Il nuovo diritto delle società, a cura di A. Maffei Alberti, III, Padova, Cedam, 2005, 2401 ss., per il quale, in assenza di una diversa espressa previsione di legge, la conclusione potrebbe non essere coerente con il concetto di oggetto sociale come settore di attività economica esercitato. In senso contrario, D. Siclari, (nt. 60), 87, il quale esclude la possibilità di ricorrere alla causa di recesso sub lett. a) quando si possa riscontrare una continuità sostanziale della volontà sociale nella conduzione e nel conseguimento, sia pure con modalità esecutive in parte diverse, delle finalità ora denominate di «beneficio comune».

[67] Vedi, P. Piscitiello, (nt. 64), 132, secondo cui la modifica del profilo del rischio è da ritenersi in re ipsa nel cambiamento del fine; e anche D. Galletti, sub art. 2437, in Aa.Vv., Il nuovo diritto delle società, a cura di A. Maffei Alberti, II, Padova, Cedam, 2005, 1502, secondo cui rientra nell’ipotesi di recesso sub a) anche la modifica dello scopo sociale nel­l’invarianza dell’oggetto (inteso come attività di impresa), come, ad esempio, quando una società sportiva o consortile diviene lucrativa e viceversa, senza la possibilità di escludere altre possibilità espansive; C. Pasquariello, Il recesso nei gruppi di società, Padova, Cedam, 2008, 132 s., ove precisa che lo stravolgimento della originaria prospettiva dell’investimento, realizzata dalla delibera di modifica dello scopo sociale, rende superfluo un accertamento concreto del mutamento del profilo del rischio, essendo questo in re ipsa. Secondo G. Marasà, Modifiche del contratto sociale e modifiche dell’atto costitutivo, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo, G.B. Portale, 6, Torino, Utet, 1993, 27 ss., spec. 32, e 92 ss., il mutamento dello scopo, che non rientrerebbe nella nozione di modifica statutaria in senso stretto, richiederebbe il consenso unanime dei soci quale alternativa allo scioglimento della società, precisando altresì come del resto la modifica dello scopo senza una modifica del tipo non porrebbe un problema di tutela dei terzi, le cui garanzie patrimoniali non subirebbero variazioni (96).

[68] Secondo S. Carmignani, sub art. 2437, in Aa.Vv., La riforma societaria, a cura di M. Sandulli, V. Santoro, II, Torino, Giappichelli, 2003, 879, la valutazione della significatività si baserebbe su un doppio parametro, ovvero, l’incremento del rischio, inteso come aumento dell’alea rispetto a quella conosciuta ed accettata dal socio nel momento di ingresso in società, e la variazione della convenienza dell’investimento, dato che la riduzione della redditività può determinare la non opportunità di rimanere. Sul fatto che la modifica dello statuto della società non benefit ai sensi del comma 379 comporti sicuramente una «sostanziale modifica della attività della società e delle condizioni dell’investimento del socio», F. Denozza, A. Stabilini, (nt. 17), 10; F. Denozza, (nt. 17), 48; nello stesso senso, S. Rossi, (nt. 28), 8, secondo cui la trasformazione in società benefit, sebbene inquadrata come modifica dell’oggetto sociale, non può non alterare l’originario profilo causale della società, in ragione del bilanciamento di interessi, che, in quanto idoneo a comportare una parziale rinuncia al profitto ove necessaria per il raggiungimento delle finalità di beneficio comune, porterebbe a ritenere sempre integrato quel «cambiamento significativo dell’attività della società», in grado di modificare le originarie condizioni di rischio dell’investimento, di cui all’art. 2437, primo comma, lett. a), c.c.; Assonime, (nt. 2), 18, sottolinea come, nel caso di una società che «sceglie ex novo di adeguare la propria attività – sin ora orientata in modo esclusivo alla massimizzazione del profitto di breve periodo – ad una visione imprenditoriale ibrida, in cui tale obiettivo viene temperato dal perseguimento di finalità ulteriori», si realizza un mutamento di prospettiva dal quale può derivare «una sostanziale modifica delle prospettive di redditività della partecipazione e delle originarie condizioni di rischio dell’investimento, che legittimano la tutela del socio dissenziente attraverso il riconoscimento del diritto di recesso». Per quanto riguarda la valutazione della significatività del cambiamento dell’oggetto sociale, ritiene preferibile adottare un approccio casistico, che porti ad esaminare in concreto le declinazioni dello scopo benefit, S. Corso, (nt. 2), 1013 ss.

[69] Spunti in tal senso sembrano derivare dall’art. 2497-quater, primo comma, lett. a), c.c, che attribuisce il diritto di recesso ai soci di una società diretta e coordinata quando la società che la dirige e coordina abbia deliberato una «modifica del suo oggetto sociale consentendo l’esercizio di attività che alterino in modo sensibile le condizioni economiche e patrimoniale» della stessa società: ritiene che l’ipotesi sub lett. a) dell’art. 2437 c.c. debba essere letta alla luce di tale previsione, P. Piscitiello, (nt. 64), 147 s., il quale precisa come non necessariamente il recesso sia correlato ad un peggioramento delle condizioni economiche delle società eterodirette o alla riduzione della redditività delle partecipazioni, circostanze che possono anche emergere a distanza di tempo, dovendo invece l’esercizio del recesso essere ancorato alla mera delibera di modifica dell’oggetto sociale; ritiene che il recesso di cui all’art. 2497-quater, lett. a), prescinda dalla modifica in melius o in peius della posizione degli investitori, M. Ventoruzzo, Brevi note sul diritto di recesso in caso di direzione e coordinamento di società (2497-quater), in Riv. soc., 2008, 1179 ss., 1183. Osserva come la “significatività” non debba essere ancorata solo al momento della delibera ma debba anche tener conto di elementi prognostici, M. Callegari, sub art. 2437, in Aa.Vv., Il nuovo diritto societario, diretto da G. Cottino, G. Bonfante, O. Cagnasso, P. Montalenti, II, Bologna, Zanichelli, 2004, 1389 ss.; così, S. Carmignani, (nt. 68), 879. Precisa Trib. Torino, sez. spec. impresa, 3 luglio 2017, n. 3473, reperibile in internet al seguente indirizzo: www.giurisprudenzadelleimprese.it, come il cambiamento dell’oggetto sociale per deliberazione dell’assemblea legittimi l’esercizio del recesso, perché consente un cambiamento significativo dell’attività della società, senza che occorra verificare se l’operatività degli amministratori successiva alla delibera abbia reso effettivo e attuale il mutamento del settore di attività.

[70] Sul tema, da ultimo, M. Stella Richter jr., In tema di recesso dalla società a responsabilità limitata, in Riv. dir. comm., 2020, I, 273 ss.

[71] Talune interpretazioni sottolineano come non sia « sufficiente una qualsiasi modifica dell’oggetto, anche se di lieve entità, per legittimare il socio non consenziente ad esercitare il recesso, benché l’art. 2473 c.c. parli semplicemente di «cambiamento dell’oggetto», ma sia invece necessario un cambiamento significativo dell’attività sociale (così come prescrive espressamente l’art. 2437 c.c. per le società per azioni)» (Orientamento Triveneto dei notai I.H.1, reperibile all’indirizzo: www.notaitriveneto.it); in tal senso, M. Stella Richter jr., (nt. 70), 286 s.; anche F. Annunziata, sub art. 2473, in Aa.Vv., Società a responsabilità limitata, a cura di L.A. Bianchi, Milano, Egea-Giuffrè, 2008, 451 ss., secondo cui, per ragioni di omogeneità con la disciplina delle s.p.a., la modifica dell’oggetto sociale deve essere rilevante; diversamente, M. Ventoruzzo, (nt. 64), 189 s., secondo cui il mancato richiamo del carattere della significatività per la s.r.l., invece previsto per la s.p.a., potrebbe discendere dalla volontà del legislatore di distinguere tra i due tipi sociali. In giurisprudenza, ritiene necessaria una modifica significativa dell’oggetto sociale, Trib. Torino, sez. spec. impresa, 3 luglio 2017, cit.; considera sufficiente anche una mera modifica formale Trib. Napoli, 11 marzo 2015, in Società, 2016, 62. Nel senso che la causa di recesso è configurabile, anche per l’art. 2473 c.c., in presenza di un ampliamento o di una restrizione dell’oggetto sociale, F. Annunziata, (nt. 71), 470; F. Chiappetta, (nt. 65), 492.

[72] Sull’inammissibilità delle modifiche di fatto dell’oggetto sociale ai sensi della lett. a) dell’art. 2437 c.c., per tutti, V. Di Cataldo, (nt. 64), 227.

[73] Sul fatto che la società benefit non costituisca un nuovo tipo, ma una “qualifica”, Assonime, (nt. 2), 4, escludendo pertanto la possibilità di configurare un recesso per trasformazione (18); nello stesso senso, Circolare del Ministero dello Sviluppo Economico, 6 maggio 2016, n. 3689, (nt. 41); in dottrina, tra gli altri, D. Siclari, (nt. 60), 84 s.; M. Stella Richter jr., (nt. 35), 7; G. Riolfo, (nt. 28), 723; S. Corso, (nt. 2), 999. Pone il problema della tutela dei creditori sociali di società che divenga benefit, D. Lenzi, Società benefit, in Ilsocietario.it, 2019, 6, rilevando come questo vuoto di tutela sia voluto dal legislatore, che si è premurato esclusivamente di tutelare consumatori e imprese concorrenti.

[74] Sulla tassatività delle ipotesi (eccezionali) di trasformazione eterogenea, da cui discende non solo il mutamento della struttura organizzativa dell’ente ma anche della sua causa associativa e del relativo scopo, Trib. Roma, sez. spec. impresa, 20 luglio 2017, in Foro it., 2018, I, 343; Trib. Piacenza, 22 dicembre 2011, in Giur. comm., 2013, II, 490; Trib. Piacenza, 2 dicembre 2011, ivi, 2012, II, 1033; App. Torino, 14 luglio 2010, in Vita not., 2010, 1442.

[75] Pare orientato in questo senso, ritenendo necessario offrire a soci e creditori, anche in caso di sole modiche dello scopo sociale, gli stessi strumenti di tutela, F. Franch, sub art. 2500-septies, in Aa.Vv., Trasformazione - Fusione - Scissione, a cura di L.A. Bianchi, Milano, Egea-Giuffrè, 2006, 286 s., e 289 ss. (in merito all’ammissibilità di trasformazioni eterogenee atipiche). Ma si veda G. Santini, (nt. 6), 165 s., secondo cui in presenza di una trasformazione eterogenea, il diritto di recesso sarebbe consentito solo quando la modifica dello scopo integri anche quella dell’oggetto (non potendo ipotizzarsi un diritto individuale del socio al perseguimento del lucro da parte della società). Pone però il dubbio che il passaggio dalla società ad un’organizzazione di gruppi caratterizzati anche da comuni necessità (riconducibile all’associazione), quale sarebbe la società benefit, possa richiamare una trasformazione eterogenea, M. Stella Richter jr., Società benefit e società non benefit, in Aa.Vv., Dalla benefit corporation alla società benefit, (nt. 2), 49 ss., 69 s.

[76] R. Pennisi, La disciplina delle società soggette a direzione unitaria e recesso nei gruppi, in Il nuovo diritto delle società, (nt. 64), 934 ss., che sottolinea come questa ipotesi, come quella di cui alla lett. c), abbia la stessa ratio di fornire al socio la possibilità di recedere nel caso di possibili alterazioni delle condizioni di rischio dell’investimento; P. Piscitiello, (nt. 64), 132, secondo cui il mutamento dello scopo della holding (da mutualistico a lucrativo o viceversa) si rifletterebbe attraverso un effetto “a cascata” sulle condizioni di rischio dell’inve­stimento delle società eterodirette.

[77] R. Pennisi, (nt. 76), 935.

[78] D.U. Santosuosso, (nt. 66), 4; D. Galletti, (nt. 66), 2411; non pare però condividere questa ipotesi, M. Ventoruzzo, (nt. 64), 247, secondo cui una tale interpretazione, pur essendo condivisibile dal punto di vista sostanziale, non sarebbe però compatibile con la previsione normativa e la sua finalità; Id., (nt. 69), 1181.

[79] Sull’interpretazione della previsione, si vedano tra gli altri, M. Stella Richter jr., Parere sul “punto g” dell’art. 2437 cod. civ. (e su altre questioni meno misteriose), in Riv. not., 2017, 383 ss.; C. Angelici, Sullart. 2437, primo comma, lettera g) del c.c., ivi, 2014, 865 ss.

[80] Esprime un orientamento restrittivo, specificando come ai sensi di tale previsione il recesso sia consentito solo nel caso in cui la delibera modifichi direttamente o forse indirettamente i diritti di voto o dei diritti patrimoniali e non che genericamente nuoccia all’azionista (come nel caso di modifica dei quorum previsti per l’assemblea straordinaria), Cass., 1° giugno 2017, n. 13875, in Società, 2017, 912; Trib. Milano, sez. spec. impresa, 31 luglio 2015, n. 9189, in Giur. comm., 2017, II, 169 ss., ha riconosciuto l’operatività di tale causa di recesso in caso di modifiche statutarie concernenti i diritti amministrativi (tra cui quello del socio di presentazione della lista per la nomina dell’organo amministrativo); in senso restrittivo, sostanzialmente escludendo le modifiche di fatto e indirette, App. Brescia, sez. I, 2 luglio 2014, reperibile in internet al seguente indirizzo: www.giurisprudenzadelleimprese.it.; Trib. Roma, sez. spec. impresa, 30 aprile 2014, ivi.

[81] Cass., 22 maggio 2019, n. 13845, in Società, 2019, 1273, con commento di P. Piscitiello; Cass., 1° giugno 2017, n. 13875, (nt. 80). In dottrina, A. Paciello, sub art. 2437, in Aa.Vv., Società di capitali. Commentario, a cura di G. Niccolini, A. Stagno D’Alcontres, Napoli, Jovene, 2004, 1114.

[82] In tal senso, in dottrina, E. Pedersoli, Il recesso ex art. 2437 c.c. e gli effetti “peggiorativi” per i soci, in Nuove leggi civ. comm., 2020, 163 ss. Secondo App. Napoli, 21 dicembre 2011, inedita (citata da U. Macrì, Il recesso del socio nelle società per azioni e nelle società a responsabilità limitata, in Società, 2016, 99) della previsione dev’essere data un’interpre­tazione restrittiva, nel senso che «modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione» cui fa riferimento l’art. 2437, primo comma, lett. g), c.c., sono in sintesi quelle che «(…) incidono direttamente e significativamente sui diritti amministrativi o patrimoniali attribuiti dallo statuto ai soci o sul loro esercizio».

[83] Posto che la norma fa riferimento alle modifiche realizzate in via statutaria e quindi formali, non rileverebbero ex art. 2437, primo comma, lett. g), quelle derivanti da decisioni di carattere gestionale, quali sarebbero quelle riconducibili all’attività di bilanciamento. Esclude la rilevanza delle modifiche di fatto, dovendosi considerare, ai fini della previsione solo quelle che incidono di diritto sulla posizione dei soci, tra gli altri, M. Ventoruzzo, (nt. 64), 20; Id., I criteri, (nt. 64), 325; e anche Id., Modifiche di diritto, indirette e di fatto del diritto di voto e recesso nelle s.p.a., in Giur. comm., 2015, II, 1055.

[84] Si veda E. Pedersoli, Le modifiche con effetti “attuali” e “potenziali” ai fini del diritto di recesso ex art. 2437, comma 1, lett. g c.c., in Giur. comm., 2019, I, 540 ss., il quale precisa come ai fini dell’applicazione di tale causa di recesso rilevino solo le modifiche con effetti “attuali” e non anche “potenziali” dei diritti dei soci. Uno spunto sistematico in tal senso potrebbe provenire dalla previsione sulle assemblee speciali di cui all’art. 2376 c.c., tenute ad approvare le delibere assembleari idonee a cagionare un pregiudizio “certo” ai diritti della categoria: così, M. Libertini, A. Mirone, P.M. Sanfilippo, L’assemblea di società per azioni, Artt. 2363-2379 ter, Milano, Giuffrè, 2016, 316; nello stesso senso, C. Costa, Le assemblee speciali, in Trattato delle società per azioni, (nt. 57), 519 e 529 ss., 530; G. Grippo, L’assemblea nella società per azioni, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, 16, II, Torino, Utet, 1985, 407. Per Cass., 1° giugno 2017, n. 13875, (nt. 80), il sorgere del diritto di recesso di cui alla lett. g) non sarebbe collegato ad un qualche pregiudizio per il socio ma al fatto della modifica in sé, posto che quando il legislatore ha inteso attribuire rilevanza a tale aspetto lo ha fatto espressamente (così nel caso ex art. 2497-quater, lett. c), c.c.).

[85] Precisa, Cass., 22 maggio 2019, n. 13845, (nt. 81), che «in tema di recesso dalla società di capitali, l’espressione «diritti di partecipazione» di cui all’art. 2437, lett. g), c.c., per quanto nell’ambito di una interpretazione restrittiva della norma tesa a non incrementare a dismisura le cause legittimanti l’exit, comprende in ogni caso i diritti patrimoniali implicati dal diritto di partecipazione, e tra questi quello afferente la percentuale dell’utile distribuibile in base allo statuto; ne consegue che la modifica di una clausola statutaria direttamente attinente alla distribuzione dell’utile, che influenzi in negativo i diritti patrimoniali dei soci prevedendo l’abbat­timento della percentuale ammissibile di distribuzione dell’utile di esercizio in considerazione dell’aumento della percentuale da destinare a riserva, giustifica il diritto di recesso dei soci di minoranza».

[86] Su questo punto, in particolare, P. Piscitiello, Recesso organizzativo ex art. 2437, comma 1, lett. g), c.c. e modifica delle regole di partecipazione ai risultati, in Società, 2019, spec. 1275 ss., il quale esclude una correlazione tra l’applicazione di tale causa di recesso e il carattere necessariamente pregiudizievole della delibera di modifica statutaria (potendo giustificarsi anche in casi in cui essa sia favorevole e non peggiorativa dei diritti dei soci); nello stesso senso, Id., (nt. 64), 75 s. e 100, ove pone tale causa di recesso in correlazione con l’obiettivo di tutela delle minoranze, e perciò la ritiene applicabile anche nei casi in cui la modifica statutaria incida sui diritti della minoranza anche diversi dal voto e dalla partecipazione ai risultati.

[87] Fonda l’esercizio del diritto di recesso su una modificazione statutaria concernente “i diritti di partecipazione” di cui all’art. 2437, lett. g), c.c., M. Stella Richter jr., (nt. 35), 10; Id., (nt. 75), 67 ss., ritenendo plausibile che una modifica dell’atto costitutivo che introduca nuovi destinatari di benefici finisca per incidere sui diritti partecipativi dei soci ai risultati dell’attività comune. Nello stesso senso, Assonime, (nt. 2), 15, nota 18, che cita l’esempio della modifica volta ad indicare che una determinata percentuale dei ricavi o degli utili sia destinato alle attività benefit; così anche A. Bartolacelli, (nt. 2), 280.

[88] Secondo M. Stella Richter jr., (nt. 75), 67, quando l’introduzione dei finalità di beneficio comune sia espressa in termini in qualche misura pregnanti, si pone un problema di alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento dei soci, ciò quantomeno nel caso in cui gli interessi dei terzi beneficiari si pongano in rapporto dialettico con quello dei soci (come normalmente dovrebbe essere), essendo il bilanciamento tra l’interesse altruistico degli uni e quello egoistico degli altri una modifica non insignificante del loro investimento. Non si ritiene invece condivisibile, in quanto non tiene conto dell’eterogeneità degli interessi dei soci, la posizione di D. Siclari, (nt. 60), 93 ss., il quale sembrerebbe escludere la possibilità per i soci di invocare la causa di recesso di cui alla lett. g), e quindi di far valere un mutamento pregiudizievole dei propri diritti partecipativi, in considerazione del fatto che dal passaggio a benefit deriverebbe un vantaggio reputazionale per la stessa società.

[89] Vedi F. Annunziata, (nt. 71), 491 ss. Sul rapporto tra modifica dei particolari diritti del socio e recesso, Cass., 2 ottobre 2015, n. 22349, reperibile in internet al seguente indirizzo: www.ilsocietario.it.

[90] Precisa P. Piscitiello, (nt. 64), 63 s. e 118 s., come il recesso convenzionale possa riguardare anche motivi attinenti alla gestione sociale, quali, ad esempio, decisioni del consiglio di amministrazione o fatti comunque relativi alla gestione dell’impresa aventi una rilevanza strategica che possa incidere sulle condizioni essenziali dell’investimento; ritiene che vi sia un’assoluta libertà dei soci nell’individuare casi convenzionali di recesso, funzionale ad una rinegoziazione di progetti aziendali e societari, V. Di Cataldo, (nt. 64), 231.

[91] Precisa la Relazione illustrativa al disegno di legge, n. 1882, (nt. 17), che «L’intento della proposta è, pertanto, proprio quello di consentire la diffusione nel nostro ordinamento di società che nell’esercizio della loro attività economica abbiano anche l’obiettivo di migliorare l’ambiente naturale e sociale nel quale operano, riducendo o annullando le esternalità negative o meglio utilizzando pratiche, processi di produzione e beni in grado di produrre esternalità positive, e che si prefiggano di destinare una parte delle proprie risorse gestionali ed economiche al perseguimento della crescita del benessere di persone e comunità, alla conservazione e al recupero di beni del patrimonio artistico e archeologico presenti nel luogo ove operano o sul territorio nazionale, alla diffusione e al sostegno delle attività culturali e sociali, nonché di enti ed associazioni con finalità rivolte alla collettività e al benessere sociale». Ritiene che l’ampliamento delle prospettive di ricorso alla società benefit trovi un ostacolo proprio nel recesso, specie per le società quotate o s.p.a. aperte, M. Stella Richter jr., (nt. 75), 70; considera il recesso un disincentivo all’ado­zione del modello benefit, D. Siclari, (nt. 60), 86 s., ritenendo i soci di minoranza comunque tutelati dalle maggioranze richieste per le modifiche dell’atto costitutivo.

[92] Pare, del resto, che, a fronte della scelta di adottare un modello societario che stabilmente introduca uno scopo di beneficio comune suscettibile di limitare, in modo più o meno significativo, gli interessi lucrativi dei soci, la necessità di mettere questi ultimi in condizione di condividere il progetto benefit o di rinegoziare le condizioni di permanenza in società derivi dagli stessi principi di buona fede e correttezza ex artt. 1175, 1375 c.c.: sul recesso come strumento di rinegoziazione del progetto societario, V. Di Cataldo, (nt. 64), 608; sul tema della rinegoziazione in ambito contrattuale, F. Macario, Rischio contrattuale e rapporti di durata nel nuovo diritto dei contratti: dalla presupposizione all’obbligo di rinegoziare, in Riv. dir. civ., 2002, 63 ss.; più generale, sulla buona fede nei rapporti contrattuali e, in particolare, sulla necessità di revisione in presenza di sopravvenienze contrattuali, P. Gallo, Buona fede oggettiva e trasformazioni del contratto, ivi, 2002, 239 ss., spec. 257 ss.

[93] Vedi S. Ronco, (nt. 2), spec. 75, ove precisa come, a fronte della modifica in società benefit, il socio deve effettuare un bilanciamento tra effetti positivi e negativi derivanti dall’in­troduzione dell’obiettivo benefit; se gli effetti negativi prevalgono su quelli positivi, il risultato sarà per lui inaccettabile e gli si dovrà garantire il recesso.

[94] Ci si potrebbe anche chiedere se sia ammissibile stabilire convenzionalmente un termine prima del quale il socio non può esercitare il diritto di recesso (posto che la nullità del patto volto ad escludere o rendere più gravoso il recesso sensi dell’art. 2437, quinto comma, c.c., si applica con riferimento alle ipotesi di cui al primo comma della norma e non a quelle di recesso convenzionale e, in ogni caso, tale previsione non è richiamata per la s.r.l. ex art. 2473 c.c.): in senso contrario, però, M. Ventoruzzo, (nt. 64), 33.

[95] Si vedano le citazioni in nt. 58.

[96] Riconduce l’estensione del modello benefit alle società di persone ad un «eccesso di zelo del legislatore, ansioso di non escludere la promozione dell’attività benefit, in qualsiasi forma venga esercitata», D. Corapi, Dalle benefit corporation alle società benefit, Note conclusive, in Aa.Vv., Dalla benefit corporation alla società benefit, (nt. 2), 111 ss., ivi, 116.

[97] Sul punto si vedano tra gli altri, G. Ferri, Delle società, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja, G. Branca, Bologna-Roma, Zanichelli-Soc. ed. Foro it., 1981, sub art. 2252, 119 ss. e sub art. 2285, 321, per l’ammissibilità del recesso derivante dalla modifica delle basi essenziali a maggioranza; sull’alternativa tra unanimità e recesso del socio per giusta causa in caso di modifica delle basi essenziali della partecipazione di socio, F. Di Sabato, La società semplice, in Trattato di diritto privato, (nt. 84), 49 ss., ivi, 54 s.; così L. Genghini, P. Simonetti, Le società di persone, Padova, Cedam, 2012, 237 s.; ritiene che la delibera a maggioranza di modifica delle caratteristiche essenziali della società di persone debba consentire il diritto di recesso, Associazione Disiano Preite, Il diritto delle società, Bologna, Il Mulino, 2004, 380. Non pare aderire a tale impostazione G.F. Campobasso, (nt. 6), 101 s., rilevando come la rimessione alla decisione della maggioranza derivi dalla volontà di tutti i soci, quale espressa dal contratto sociale, laddove le disposizioni introdotte dalla riforma societaria in materia di operazioni straordinarie ex artt. 2500-ter, 2502, primo comma, 2506-ter, quinto comma, c.c., che, appunto, prevedono, salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo, un criterio di maggioranza, dimostrerebbero come non esista un principio inderogabile in base al quale le «basi essenziali» delle società di persone non possono essere modificate senza il consenso di ciascun socio. Vedi Trib. Milano, sez. spec. impresa, 22 dicembre 2014, in Società, 2015, 365, secondo cui è esclusa la sussistenza di un principio di «necessaria unanimità» per tutte le decisioni assembleari idonee a coinvolgere i diritti dei soci.

[98] Così anche S. Ronco, (nt. 2), 72 ss., spec. 74, ove precisa che la modifica con l’aggiunta dell’obiettivo benefit deve essere approvata all’unanimità e, in presenza di patto contrario, il socio dissenziente deve poter recedere. Precisa come la norma configuri un diritto soggettivo alla percezione integrale dell’utile, che sorge una volta che l’utile sia stato prodotto e accertato in sede di bilancio, I. Capelli, in S. Patriarca, I. Capelli, Società semplice, in Commentario del Codice Civile e codici collegati Scialoja-Branca-Galgano, a cura di G. De Nova, Bologna, Zanichelli, 2021, sub art. 2262, 206 s.; e anche M. Bussoletti, Società semplice, in Enc. dir., XLII, Milano, Giuffrè, 1990, 914 s.

[99] Tra i molti, G. Ferri, (nt. 97), 65 ss.; G. Ghidini, Società semplice, in Enc. giur., XXXIX, Roma, Treccani, 1993, 1 ss., 12, precisando che se gli utili, per patto sociale, sono destinati a terzi (ad esempio, per scopi di beneficienza), non vi sarebbe società; così, M. Bussoletti, (nt. 98), 915; G. Marasà, Le società. Società in generale, in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica, P. Zatti, Milano, Giuffrè, 2000, 224; M. Marulli, La partecipazione sociale, in Aa.Vv., Le società in generale, Le società di persone, Le società tra professionisti, a cura di G. Cottino, Torino, Utet Giuridica, 2014, 372 ss., spec. 399 e 401, ove tra l’altro sottolinea come l’utile, per essere considerato tale, deve essere rispettoso della vocazione causale del contratto sociale e quindi derivare dall’attività economica.

[100] Così, G. Santini, (nt. 6), 171 s.

[101] Precisa P. Abbadessa, (nt. 6), 31, come l’essenzialità dello scopo di lucro ex art. 2247 c.c. sarebbe rimarcata appunto dall’art. 2265 c.c., che dichiara nullo il patto con cui uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione all’utile; così, G. Ferri, (nt. 97), 65 ss.; vedi anche G. Cottino, Le Società, 1, II, Padova, Cedam, 1999, 53.

[102] Per tutti, N. Abriani, Il divieto del patto leonino, Milano, Giuffrè, 1994, spec. 41 ss., che, individuando nel divieto una norma di ordine pubblico economico, ne riconosce l’appli­cabilità anche alle società di capitali (spec. 51 ss.). Sulle finalità della norma, I. Capelli, (nt. 98), sub art. 2265, 224 ss. e 235 ss. (per l’utilizzo del divieto in altri tipi di società, essendo l’esclusione degli utili in contrasto con la stessa nozione di società ex art. 2247 c.c.). Per un’applicazione della norma alle società di capitali, Cass., 4 luglio 2018, n. 17498, in Banca borsa tit. cred., 2019, II, 70, con nota di N. de Luca, Il socio «leone». Il revirement della Cassazione su opzioni put a prezzo definitive e divieto del patto leonino.

[103] Vedi S. Patriarca, in S. Patriarca, I. Capelli, Società semplice, (nt. 98), sub art. 2252, 44 ss., specificando come la tesi sarebbe superata dall’introduzione degli artt. 2500-ter e 2502, che, indubitabilmente riguarderebbero le “basi essenziali della società”, pur ritendo un limite al potere della maggioranza le modifiche che riguardano i diritti individuali dei soci (46 s.); in quest’ultimo senso, anche G. Cottino, M. Sarale, R. Weigmann, Società di persone e consorzi, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, Padova, Cedam, 2004, 155.

[104] Così, G. Marasà, (nt. 6), 642. La Cassazione (Cass., 25 gennaio 2016, n. 1261, reperibile in internet al seguente indirizzo: www.dejure.it) ha affermato che il socio di società di persone può agire ex art. 2395 c.c. nei confronti dell’amministratore in caso di mancata presentazione del rendiconto, dalla quale derivi la mancata percezione degli utili, configurandosi nei suoi confronti un danno diretto e immediato. Sull’applicabilità dell’azione di cui all’art. 2395 alle società di persone anche Trib. Milano, 31 maggio 2001, in Società, 2002, 372.

[105] S. Patriarca, (nt. 98), sub art. 2252, 47 testo e nota 25, ritenendo potersi richiamare la disciplina della s.p.a., ove si tende ad evitare che il socio rimanga “prigioniero” di un ente le cui connotazioni siano radicalmente mutate rispetto a quelle iniziali, appunto prevedendo il diritto di recesso; M. Marulli, (nt. 99), 401.

[106] G. Ferri jr., La nuova disciplina della trasformazione omogenea e le società di persone: un primo confronto, Studio 5619/2005-I, reperibile in internet al seguente indirizzo: www.
notariato.it, 13; L. Genghini, P. Simonetti, (nt. 97), 238.

[107] Nel senso di ritenere il recesso del socio dissenziente ammissibile, in caso di modifiche a maggioranza, solo se previsto dal contratto sociale, G. Ferri, (nt. 97), sub art. 2252, 119 ss.; ma in senso critico, D. Preite, (nt. 6), 244 ss.; per le diverse tesi in materia, L. Genghini, P. Simonetti, (nt. 97), 240.

[108] Così, N. Pisani, La s.n.c. Lo scioglimento del singolo rapporto sociale e della società, in Aa.Vv., Manuale di diritto commerciale, a cura di M. Cian, Torino, Giappichelli, 2019, 368; Associazione Disiano Preite, (nt. 97), 380, che legittima il recesso anche in caso di un comportamento formalmente legittimo degli altri soci che però alteri sensibilmente le prospettive di rischio a sua volta condivise con il socio recedente; F. Galgano, Diritto commerciale, Le società**, Bologna, Zanichelli, 2012, 85, che, appunto, considera legittimo il recesso nel caso in cui siano state modificate le condizioni di rischio economico rispetto alle quali il socio aveva aderito al contratto sociale; S. Patriarca, (nt. 98), sub art. 2285, 404, che, prendendo spunto dall’art. 2500-ter, primo comma, in tema di trasformazione, ritiene che il recesso per giusta causa debba essere riconosciuto in caso di cambiamento delle “condizioni di fondo” che hanno convinto il socio ad aderire all’iniziativa societaria. Si vedano anche: D. Preite, (nt. 6), 248 ss., che prospetta la possibilità di far valere il recesso, in caso di eterodestinazione di una parte consistente di utili da parte della maggioranza, per violazione degli artt. 1175, 1375 c.c.; R. Bolaffi, La società semplice, Milano, Giuffrè, 1947, 403, il quale riconosce il recesso per giusta causa al socio dissenziente qualora si sia modificata «una clausola in mancanza della quale si può ragionevolmente ritenere che il contraente» dissenziente «non avrebbe aderito alla società». Limita la giusta causa ai comportamenti degli altri soci consistenti nella violazione di obblighi contrattuali o doveri di buona fede e correttezza, ma anche vicende personali che oggettivamente non consentano la prosecuzione del rapporto sociale, F. Di Sabato, Società in generale, Società di persone, Napoli, ESI, 2004, 187 s. L’interpretazione della giurisprudenza, in senso più restrittivo, tende invece a limitare i casi di recesso per giusta causa, considerando rilevante a tal fine il comportamento degli altri soci che, facendo venir meno «obiettivamente, ragionevolmente e irreparabilmente» la reciproca fiducia, rende impossibile il proseguimento dell’attività sociale: tra le altre, Cass., 14 febbraio 2000, n. 1602, in Giur. it., 2000, 1659; Cass., 10 giugno 1999, n. 5732, in Società, 2000, 55; Trib. Milano, 10 giugno 2013, ivi, 2013, 999; Trib. Milano, 31 agosto 2012, ivi, 2012, 1246.

[109] M. Stella Richter jr., (nt. 75), 66 s., secondo cui nella giusta causa rientrerebbero le ipotesi di recesso previste dalla disciplina delle società di capitali, perlomeno quando la modifica porti ad un’alterazione del rischio economico della società o delle sue basi essenziali; G. Ferri jr., (nt. 106), 13; N. Pisani, (nt. 108), 369, secondo il quale le disposizioni sulla trasformazione esprimerebbero un principio valido anche per le altre modifiche a maggioranza, quantomeno nel caso in cui si tratti di modifiche particolarmente incisive; nello stesso senso, M. Garcea, I gruppi di società di persone, Napoli, Jovene, 2008, 83 ss.; G. Cottino, M. Sarale, R. Weigmann, (nt. 103), 268 s., che, in analogia con le società di capitali, ritengono rilevante ai fini del recesso il cambiamento dell’oggetto sociale; in senso contrario rispetto all’appli­cazione analogica dell’art. 2437 c.c., G. Ferri, (nt. 97), 120, considerando come già esista una previsione sul recesso nelle società di persone (art. 2285 c.c.). Escludeva, prima della riforma societaria, che la trasformazione della società di persone costituisse una giusta causa di recesso, Trib. Trento, 2 dicembre, 2002, in Società, 2003, 440 ss.

[110] Come è stato rilevato da più parti, un intervento legislativo che, conformemente all’esperienza francese, si proponesse di incidere sullo scopo della società non potrebbe prescindere dall’affrontare altre problematiche connesse, e, in particolare, quelle relative alla ridefinizione dei doveri fiduciari degli amministratori e alle conseguenti responsabilità (sul punto, in particolare, S. Rossi, Il diritto della Corporate Social Responsibility, in questa Rivista, 2021, spec. 125, testo e nota 35). Un altro tema che meriterebbe di essere approfondito è quello relativo al possibile coinvolgimento degli stakeholders nella governance societaria (su cui da ultimo F. Denozza, Lo “scopo” della società, tra short-termism e stakeholders’ empowerment, in questa Rivista, 2021, 56 ss.; S. Rossi, cit., 123 ss.). A tal riguardo, ai sensi dell’art. 5 della Risoluzione del Parlamento europeo 10 marzo 2021, (nt. 4), gli Stati membri dovrebbero assicurare, da un lato, che «le imprese procedano in buona fede a discussioni proficue, significative e informate con i portatori di interessi pertinenti quando stabiliscono e attuano la loro strategia di dovuta diligenza» e, dall’altro, che i portatori di interessi abbiano «il diritto di chiedere all’impresa di discutere degli impatti negativi potenziali o effettivi sui diritti umani, sull’am­biente o sulla buona governance che li riguardano [...]». Il Codice di Autodisciplina delle società quotate prevede, invece, che, al fine di perseguire il successo sostenibile dell’impresa, l’organo di amministrazione «promuove, nelle forme più opportune, il dialogo con gli azionisti e gli altri stakeholder rilevanti per la società») (Principio IV).

[111] Art. 1, Principio I.

[112] Così, Assonime, (nt. 1), 21 ss. Specifica come, al fine di riconoscere il diritto di recesso, sia necessario distinguere, a seconda che la formula volta ad introdurre il successo sostenibile sia vaga o sufficientemente precisa (e quindi tale da incidere sull’oggetto sociale), M. Stella Richter jr., Il “successo sostenibile” del Codice di corporate governance. Prove tecniche di attuazione, reperibile in internet al seguente indirizzo: www.dirittobancario.it., febbraio 2020. Un caso particolare è quello relativo a Snam s.p.a., ove il consiglio d’amministrazione ha proposto ai soci di introdurre un “corporate purpose” al fine di attribuire un «rilievo organizzativo al perseguimento degli obiettivi di sostenibilità dell’impresa» che si sostanziano nella creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti in un quadro che, al contempo, «sarà volto a preservare gli interessi degli altri stakeholders rilevanti della società»; in presenza di tali presupposti, il consiglio di amministrazione ha riconosciuto ai soci il diritto di recesso, in quanto tale ampliamento dell’oggetto sociale comporterebbe una significativa modificazione delle attività esercitate ai sensi dell’art. 2437, primo comma, lett. a), c.c. (Relazione illustrativa del Consiglio di Amministrazione sulle proposte concernenti le materie poste all’ordine del giorno dell’Assemblea 2 febbraio 2021, 4, reperibile in internet al seguente indirizzo: www.
snam.it). Prevede l’art. 2.1 dello statuto di Snam che «La Società svolge attività d’impresa con la finalità di favorire la transizione energetica verso forme di utilizzo delle risorse e delle fonti di energia compatibili con la tutela dell’ambiente e la progressiva decarbonizzazione (Energia per ispirare il mondo). A tal fine, la Società esercita e organizza l’attività d’impresa con lo scopo di perseguire il successo sostenibile attraverso la creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti, tenendo conto degli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la Società».

Non viene invece ritenuto configurabile il recesso per la modifica dello statuto di Sesa s.p.a., con cui si è stabilito che «L’organo amministrativo guida la società perseguendo il successo e la crescita sostenibile a beneficio degli azionisti» (art.19.1) (Relazione illustrativa del­l’organo amministrativo reperibile in internet al seguente indirizzo: www.sesa.it).