Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2282-667X
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La disciplina europea dei doveri degli amministratori nella società in crisi: problemi e prospettive (di Giovanni Strampelli,  Professore ordinario di diritto commerciale presso l’Università Bocconi di Milano)


L’articolo esamina la disciplina dei doveri degli amministratori della crisi societaria contenuta nell’art. 19 della Direttiva 2019/1023/UE. Muovendo dall’analisi delle differenze esistenti tra gli ordinamenti nazionali in materia (ulteriormente accentuate dalle norme emergenziali adottate per fronteggiare gli effetti della pandemia da Covid-19) e delle conseguenze negative derivanti dall’assenza di una disciplina armonizzata, l’articolo dimostra che l’art. 19 della Direttiva 2019/1023/UE non è in grado di condurre ad un’effettiva armonizzazione a livello europeo dei doveri degli amministratori nella crisi societaria. Le previsioni dell’articolo 19 sono eccessivamente generiche in relazione sia al momento di attivazione degli specifici doveri degli amministratori nella fase di crisi sia alla configurazione dei doveri medesimi. In conclusione, l’articolo delinea i criteri che il legislatore europeo potrebbe seguire al fine di definire una disciplina maggiormente idonea ad assicurare il superamento delle differenze esistenti tra le legislazioni nazionali riguardo ai doveri degli amministratori nella crisi societaria.

The European regime of directors’ duties in the twilight zone: problems and perspectives

The article examines the discipline of directors’ duties in the vicinity of insolvency set out in Article 19 of Directive 2019/1023/EU. Based on the analysis of the differences existing between the national rules concerning directors’ duties in the vicinity of insolvency (further accentuated by the emergency rules adopted to cope with the effects of the Covid-19 pandemic) and the negative consequences deriving from the lack of a harmonized discipline, the article shows that Article 19 of Directive 2019/1023/EU cannot lead to an effective harmonization at the European level of the duties of directors in the twilight zone. The provisions of Article 19 are excessively generic in relation both to the moment of activation of the specific duties of the directors in the vicinity of insolvency and to the configuration of the duties themselves. In conclusion, the article outlines the criteria that the European legislator could follow in order to provide a harmonized regime of the duties of directors in the vicinity of insolvency.

Keywords: directors’ duties – cooperative company crisis – insolvency – Forum Shopping

Sommario/Summary:

1. Premessa. - 2. I doveri degli amministratori nella società in crisi: i diversi approcci regolatori adottati dagli Stati membri. - 3. Le conseguenze della mancata armonizzazione dei doveri degli amministratori nella crisi societaria: il forum shopping nel diritto societario della crisi. - 4. Segue: l’incidenza delle norme emergenziali introdotte a seguito della pandemia da Covid-19 e gli effetti della mancanza di una disciplina armonizzata al di là del forum shopping. - 5. Verso una disciplina europea dei doveri degli amministratori nella crisi societaria: dal Report dell’High Level Group of Company Law Experts alla Direttiva 2019/1023/UE. - 6. La limitata portata armonizzatrice della Direttiva 2019/1023/UE in relazione ai doveri degli amministratori nella società in crisi. - 6.1. Il momento di “attivazione” degli specifici doveri degli amministratori nella crisi societaria. - 6.2. La configurazione dei doveri degli amministratori nella crisi societaria. - 7. Conclusioni: spunti per un regime effettivamente armonizzato dei doveri degli amministratori nella crisi societaria. - NOTE


1. Premessa.

Le gravi conseguenze economiche della pandemia da Covid-19 e, ancor prima, delle crisi finanziarie che si sono succedute negli ultimi anni hanno posto al centro dell’attenzione della prassi e degli studiosi la disciplina della crisi d’impresa, al fine di individuare gli strumenti più idonei al tempestivo accertamento e, ove possibile, al superamento della medesima. Sul piano giuridico l’attenzione si concentra, dunque, sull’insieme delle norme che regolano la fase che segna il passaggio dall’ordinario svolgimento dell’attività d’impresa al dissesto e che, da una parte della dottrina italiana, è stata denominato diritto societario della crisi [1], definizione che chiaramente indica come tale ambito normativo – sulla cui ampiezza non v’è peraltro un’opinione unanime [2] – si collochi nell’area di confine tra il diritto societario e il diritto dell’insolvenza.

Non è dubbio che, in tale ambito, uno dei profili oggetto di maggiore attenzione (come dimostra il consistente numero di studi pubblicati in materia [3]) è rappresentato dai doveri degli amministratori. Nella fase di crisi che precede l’insolvenza questi ultimi subiscono, infatti, una modificazione, poiché coloro che gestiscono la società devono tenere in considerazione gli interessi non soltanto dei soci (dei quali sono espressione) ma anche dei creditori sociali (ed, eventualmente, di altre parti interessate), atteso che il declino delle condizioni della società (sino all’eventuale insolvenza) determina il progressivo spostamento del rischio d’impresa dai soci verso i creditori sociali [4].

Sebbene il dibattito concernente i doveri degli amministratori nella crisi societaria sia particolarmente intenso non soltanto in Italia ma anche negli altri Stati membri e diverse proposte di armonizzazione siano state avanzate a livello europeo nel corso degli anni, sembra tuttora difettare una disciplina effettivamente armonizzata della materia a livello europeo, data anche la difficoltà di trovare una sintesi tra le non coincidenti soluzioni accolte nei diversi ordinamenti nazionali.

Il più rilevante passo verso l’armonizzazione dei doveri degli amministratori della società in crisi è stato, indubbiamente, compiuto con la Direttiva 2019/1023/UE in materia di ristrutturazione ed insolvenza [5], diretta ad armonizzare i profili sostanziali del diritto dell’insolvenza e della crisi d’impresa. In linea con il generale obiettivo di offrire alle imprese ed agli imprenditori che versano in difficoltà finanziarie la possibilità di accedere a quadri nazionali efficaci in materia di ristrutturazione preventiva che consentano loro di continuare a operare, la Direttiva regola anche i doveri degli amministratori nella fase di crisi riconoscendo espressamente l’importanza di tale profilo che può, in molti casi, rivelarsi cruciale per evitare l’aggravarsi dello stato di crisi e favorire l’efficacia delle misure dirette al risanamento dell’impresa.

Pur non essendo in discussione la rilevanza della Direttiva quale primo, significativo, passo verso una disciplina europea dei doveri degli amministratori nella crisi della società, diversi elementi inducono - come di seguito più ampiamente illustrato - a dubitare che essa sia effettivamente in grado di favorire il superamento delle significative differenze esistenti in materia tra gli ordinamenti nazionali e conseguire così l’obiettivo di un’effettiva armonizzazione.

Preso atto della potenziale inadeguatezza della Direttiva 2019/1023/UE a tal fine, è, tuttavia, da osservare che l’assenza di una disciplina realmente armonizzata dei doveri degli amministratori nella crisi societaria, divenuta ancor più evidente per effetto delle norme emergenziali adottate per contrastare le ripercussioni economiche della pandemia da Covid-19, porta con sé non trascurabili conseguenze negative ed esige l’elaborazione di soluzioni alternative che possano condurre alla riduzione delle differenze esistenti tra le legislazioni nazionali e contenere i negativi effetti che possono derivare dal persistere di tali differenze nonché dalla concorrenza tra ordinamenti che esse alimentano.


2. I doveri degli amministratori nella società in crisi: i diversi approcci regolatori adottati dagli Stati membri.

Alla luce delle precedenti osservazioni, ai fini dell’inquadramento della materia in esame occorre considerare, soffermandosi sulle loro caratteristiche più rilevanti, i diversi approcci ai quali si ispirano le previsioni relative ai doveri degli amministratori nella crisi societaria vigenti negli Stati membri. Sebbene le diversità esistenti tra legislazioni nazionali siano molteplici, la distinzione può essere, essenzialmente, tracciata tra gli ordinamenti che, per tutelare i creditori nel periodo che precede l’insolvenza, fanno affidamento sul giudizio discrezionale degli amministratori e quelli che pongono, invece, a carico dei medesimi specifici obblighi, riducendo così significativamente il margine di discrezionalità loro concesso [6].

Secondo quest’ultima impostazione sugli amministratori grava l’onere di richiedere l’apertura del fallimento entro un prefissato termine decorrente dal manifestarsi dell’insolvenza. Ad esempio, l’art. 15a della legge fallimentare tedesca (Insolvenzordnung) prevede l’obbligo di richiedere l’apertura del fallimento entro tre settimane dalla manifestazione dell’insol­venza [7]. Il medesimo obbligo è previsto in altri Stati membri tra i quali l’Austria, dove il § 69, Abs. 2KO stabilisce un termine di 60 giorni, la Francia, dove sono concessi agli amministratori 45 giorni per avanzare la richiesta di fallimento (art. L631-4, Code de Commerce), e la Spagna (art. 5, Ley Concorsual).

Diversamente, altri Stati membri [8] accolgono un approccio maggiormente flessibile sul modello del wrongful trading previsto dalla section 214 dello UK Insolvency Act ai sensi della quale sugli amministratori grava il dovere di cessare l’attività quando gli interessi dei creditori sono a rischio, ossia quanto diviene ragionevolmente prevedibile che non ci sono alternative al fallimento [9]. Gli amministratori possono, dunque, essere dichiarati responsabili in caso di insolvenza della società qualora, pur sapendo o avendo dovuto sapere che non v’erano alternative all’insolvenza, abbiano omesso di adottare adeguate precauzioni per limitare il potenziale danno per i creditori [10].

Poiché il regime del wrongful trading è basato sulle previsioni elaborate dagli amministratori circa le prospettive della società, l’obbligo dei medesimi di interrompere l’attività d’impresa può (e, di regola, dovrebbe) divenire attuale prima che la società sia insolvente. Da questo punto di vista soluzioni analoghe al wrongful trading sono perciò - almeno sul piano teorico - maggiormente idonee a prevenire l’insolvenza rispetto alla fissazione dell’obbligo di richiedere il fallimento entro un determinato termine decorrente dal manifestarsi dall’insolvenza. Infatti, secondo l’impostazione accolta dal legislatore in­glese, gli amministratori sono tenuti ad adottare ogni misura diretta a limitare le perdite gravanti sui creditori sociali, qualora - pur non essendo la società ancora insolvente - si ritenga (sulla base delle informazioni disponibili) inevitabile l’insolvenza della società.

La maggiore flessibilità garantita dal wrongful trading si manifesta anche in una diversa prospettiva e, precisamente, nella misura in cui può far sì che gli amministratori non debbano richiedere il fallimento in presenza di una condizione di insolvenza soltanto temporanea. L’obbligo degli amministratori di interrompere l’attività non sussiste, infatti, là dove la società, pur essendo attualmente insolvente, abbia concrete prospettive di superare la condizione di insolvenza in cui versa. L’assenza di una rigida scadenza entro la quale è imposto agli amministratori di richiedere il ricorso ad una procedura concorsuale, può pertanto favorire l’attuazione di misure volte al risanamento della società, concedendo il tempo necessario a tal fine [11].

A fronte di tali potenziali vantaggi è, tuttavia, ricorrente il rilievo che la difficoltà per i giudici di verificare la sussistenza dei presupposti previsti dalla section 214 dell’Insolvency Act e, segnatamente, il grado di prevedibilità dell’insolvenza e la capacità degli amministratori di prevederla, ha determinato il parziale insuccesso del wrongful trading la cui applicazione risulta circoscritta ad un numero assai esiguo di casi a favore di altri rimedi quali la directors’ disqualification [12]. Inoltre, in concreto, i giudici tendono ad imporre l’applicazione del wrongful trading (e ad accertare la connessa responsabilità degli amministratori) in relazione a società che già versano in condizioni di insolvenza. Non può, dunque, escludersi che, in concreto, il divieto di continuazione dell’attività imposto dal wrongful trading sia attivato più tardivamente rispetto all’obbligo, previsto in altri ordinamenti, di richiedere il fallimento una volta che si siano verificati i presupposti dell’insolvenza [13].

Tanto osservato, è però da notare come la contrapposizione tra gli ordinamenti che adottano una rule (ossia l’obbligo di ricorrere ad una procedura concorsuale entro un determinato termine dal manifestarsi dell’insolvenza) e quelli che privilegiano uno standard (ossia gli obblighi di condotta posti dalla disciplina in materia di wrongful trading) vada, in parte, ridimensionata se si considera l’intero complesso delle disposizioni societarie e fallimentari suscettibili di incidere sulla condotta degli amministratori durante la crisi della società.

Ad esempio, in Germania l’obbligo di richiedere il fallimento entro il termine di tre settimane dal manifestarsi dell’insolvenza deve essere coordinato con le previsioni (inequivocabilmente dirette alla prevenzione dell’insolvenza e destinate perciò ad operare prima del manifestarsi della stessa) del § 64, Abs. 1Satz 3, GmbHG e del § 92, Abs. 2AktG, che sanciscono la responsabilità degli amministratori che diano luogo a «pagamenti» a favore dei soci che rendano la società insolvente. In questa prospettiva si colloca, inoltre, l’orienta­mento giurisprudenziale che stabilisce la responsabilità dei soci nei confronti dei creditori (c.d. Existenzvernichtungshaftung) per ogni distribuzione che (seppur conforme ai limiti posti dalla disciplina del capitale sociale) pregiudica la solvibilità della società, compromettendone la capacità di far fronte ai debiti e causandone il fallimento [14].

Inoltre, non può trascurarsi che alcuni Stati membri (tra i quali l’Italia [15]) non aderiscono espressamente ad alcuno degli approcci indicati e non dettano norme concernenti i doveri degli amministratori nella crisi societaria, i quali, tuttavia, sono, indirettamente, definiti dalle norme in materia di responsabilità [16]. Per quanto concerne l’ordinamento italiano, ad esempio, secondo la ricostruzione prevalente, il dovere dell’organo amministrativo di richiedere tempestivamente l’apertura della procedura fallimentare al verificarsi dell’insol­venza può essere desunto, in via interpretativa, dall’art. 217, primo comma, n. 4 l. fall., che regola il reato di bancarotta semplice sanzionando l’imprenditore e (per effetto del rinvio operato dall’art. 224 l. fall.) gli amministratori, i sindaci, i direttori generali e i liquidatori che abbiano «aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione di fallimento o con altra colpa grave». Si ritiene, infatti, che l’art. 217, primo comma, n. 4, l. fall. ponga una norma di condotta la cui violazione comporta anche una responsabilità degli amministratori sul piano civile. Inoltre, l’obbligo degli amministratori di non aggravare il dissesto, là dove la società versi in condizione di insolvenza irrimediabile, appare in ogni caso espressione del dovere di corretta gestione imprenditoriale, per l’esercizio del quale residua in tale eventualità un ridotto margine di discrezionalità, in relazione alla possibilità di richiedere l’ammis­sio­ne al concordato preventivo anziché al fallimento.

Inoltre, pur in mancanza di previsioni coincidenti con quelle in materia di wrongful trading contenute dall’Insolvency Act inglese, obblighi di condotta analoghi a quelli ivi previsti sono ora dettati dall’art. 2086, secondo comma, c.c. ai sensi del quale l’imprenditore, indipendentemente dal fatto che operi in forma societaria o collettiva, ha il duplice dovere «di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi del­l’impresa e della perdita della continuità aziendale» nonché «di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’or­dinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale» [17]. In base alla norma appena richiamata – ma tanto era sostenuto da parte della dottrina già prima che questa fosse introdotta [18] – è dunque possibile ravvisare anche alla luce della legislazione nazionale il dovere degli amministratori di affrontare tempestivamente la crisi (la quale non necessariamente si manifestata unitamente ad una grave perdita del capitale sociale) al fine di evitare – all’approssimarsi dell’insolvenza – un’impropria traslazione del rischio dai soci verso i creditori e limitare così le perdite gravanti su questi ultimi.

Inoltre, il compimento di atti gestori lesivi dell’integrità del patrimonio sociale e destinati pertanto ad aggravare il deficit patrimoniale sono evidentemente contrari al principio di corretta gestione imprenditoriale (enunciato dal­l’art. 2497 c.c. nell’ambito della disciplina della direzione e coordinamento ma al quale deve essere riconosciuta portata generale [19]) e non conformi al canone della diligenza di cui all’arti. 2392, primo comma, c.c. Concorrono altresì a determinare un siffatto obbligo di condotta a carico degli amministratori le disposizioni degli artt. 2485, secondo comma, e 2486, secondo comma, c.c., le quali prevedono la responsabilità degli amministratori rispettivamente ove essi omettano di accertare tempestivamente una causa di scioglimento della società (e di compiere i correlati adempimenti ex art. 2484, terzo comma, c.c.) ovvero violino il precetto dell’art. 2486, primo comma, il quale, al verificarsi del­lo scioglimento, orienta la gestione all’unico fine della conservazione del­l’in­tegrità del patrimonio sociale.


3. Le conseguenze della mancata armonizzazione dei doveri degli amministratori nella crisi societaria: il forum shopping nel diritto societario della crisi.

Le diversità esistenti tra gli ordinamenti nazionali in merito ai doveri degli amministratori nella crisi societaria possono dare luogo a non trascurabili conseguenze negative, l’incidenza delle quali sembra essersi acuita a seguito della crisi da Covid-19, per effetto delle norme emergenziali introdotte nei diversi Stati membri.

Muovendo dalla disciplina “ordinaria”, l’assenza di un regime effettivamente armonizzato dei doveri degli amministratori nella crisi societaria può favorire condotte opportunistiche ed innescare una c.d. race to the bottom per effetto dell’introduzione da parte dei legislatori nazionali di previsioni meno stringenti con l’obiettivo di attrarre società estere. Si è evidenziato, infatti, che la mancanza di un livello minimo di armonizzazione in materia rende possibili forme di forum shopping che possono consentire agli amministratori di evitare di incorrere in responsabilità qualora non abbiano, dolosamente o colpevolmente, adottato azioni idonee al tempestivo accertamento e (ove possibile) alla prevenzione del­l’insolvenza, determinando un aggravamento delle perdite subite dai creditori [20]. Come noto, ciò è reso possibile dal criterio indicato dagli artt. 3 e 7 del Regolamento 2015/848/UE relativo alle procedure di insolvenza in forza del quale la competenza giurisdizionale internazionale e la legge nazionale applicabili sono, in linea generale, determinate sulla base della collocazione del centro degli interessi principali della società (c.d. Centre of Main Interests - COMI [21][22].

Ad esempio, gli amministratori di una società inglese che non hanno interrotto tempestivamente l’attività sociale pur sapendo (o avendo dovuto sapere, in base ad una condotta diligente) che l’insolvenza era inevitabile e siano perciò responsabili ai sensi della section 214 dell’Insolvency Act potrebbero favorire lo spostamento del COMI in Germania per avviarvi la procedura di insolvenza. Così facendo, gli amministratori non incorrerebbero in responsabilità qualora, in conformità alla legislazione tedesca, essi richiedano l’apertura del fallimento entro il termine di tre settimane dall’insolvenza.

Lo spostamento del COMI nella fase antecedente la dichiarazione di fallimento può pregiudicare i creditori in diversi modi. Oltre a limitare o escludere la respon­sabilità degli amministratori connessa al mancato accertamento del­l’insol­ven­za e/o alla mancata richiesta di apertura del fallimento, le forme di forum shopping poc’anzi prospettate possono determinare un ritardo nell’av­vio della pro­cedura concorsuale e condurre perciò al possibile aggravamento della situazio­ne finanziaria e patrimoniale della società con il conseguente pregiudizio dei creditori sociali.

A prevenire spostamenti opportunistici del COMI [23] non paiono sufficienti le previsioni – dirette a tal fine – dell’art. 3 del Regolamento 2015/848/UE ai sensi del quale, «se la sede legale non è stata spostata in un altro Stato membro entro il periodo di tre mesi precedente la domanda di apertura della procedura d’insolvenza», «per le società e le persone giuridiche si presume che il centro degli interessi principali sia, fino a prova contraria, il luogo in cui si trova la sede legale». Tale presunzione non è, infatti, in grado di contrastare gli spostamenti più pericolosi del COMI, ossia quelli che avvengono di fatto senza il contestuale trasferimento della sede legale nello stato estero [24].


4. Segue: l’incidenza delle norme emergenziali introdotte a seguito della pandemia da Covid-19 e gli effetti della mancanza di una disciplina armonizzata al di là del forum shopping.

Gli effetti negativi della mancanza di una disciplina armonizzata sembrano assumere ancor maggiore rilievo a seguito degli interventi normativi emergenziali, adottati dai legislatori nazionali per fronteggiare le conseguenze economiche della pandemia da Covid-19, che hanno inciso sulla disciplina dei doveri degli amministratori nella crisi societaria vigente nei diversi Stati membri.

Salve alcune eccezioni, tra le quali l’Italia, generalizzata è stata la scelta di sospendere temporaneamente (per un arco di tempo non coincidente nei diversi Paesi) le nome in materia, al fine di non aggravare eccessivamente - e in alcuni casi ingiustificatamente - il regime di responsabilità degli amministratori nella fase di eccezionale crisi determinata dal Covid-19 e, al contempo, garantire loro un più ampio margine di manovra per adottare le misure necessarie per il superamento della crisi e il risanamento dell’impresa. Comune a tali interventi emergenziali è, infatti, l’obiettivo di evitare – nell’intento di preservare società strutturalmente sane [25] – che gli amministratori si trovino nella condizione di dover richiedere il fallimento o decidere l’interruzione dell’attività nei casi in cui la società versi in una situazione di crisi temporanea, essenzialmente riconducibile agli effetti della pandemia e perciò, tendenzialmente, superabile (anche in forza dell’ingente sostegno finanziario assicurato dallo Stato) in quanto non imputabile a “debolezze” strutturali della società [26].

Circoscrivendo l’esame ad alcuni dei principali ordinamenti europei, in Ger­mania è stato sospeso, per il periodo compreso tra il primo marzo e il 30 settembre 2020 – e successivamente prorogato fino al 31 dicembre 2020 per le sole imprese che presentano una condizione di Überschuldung ma sono solventi [27] – l’obbligo degli amministratori (di cui al § 15a dell’Insolvenzordnung) di richiedere il fallimento in caso di insolvenza o di squilibrio patrimoniale (c.d. Überschuldung) qualora la società versi in tali condizioni in forza di perdite che sono conseguenza della pandemia e vi siano prospettive di rimedio alla situazione in tal modo determinatasi; condizioni, queste, che entrambe si presumono nel caso in cui il debitore non fosse insolvente il 31 dicembre 2019 [28]. Inoltre, nel definire una serie di atti che gli amministratori possono legittimamente compiere in caso di sospensione del dovere di presentare istanza di fallimento, il secondo comma dell’art. 1 del COVInsAG prevede «che i pagamenti effettuati nell’ambito dell’ordinaria attività, in particolare i pagamenti che servono a mantenere o riprendere le operazioni commerciali o ad attuare un programma di risanamento, sono considerati eseguiti con la diligenza di un amministratore prudente, secondo i termini del paragrafo 64, secondo periodo, legge sulle società a responsabilità limitata, del paragrafo 92 (2) secondo periodo, legge sulle società per azioni, del paragrafo 130a (1) secondo periodo, anche in combinato disposto con la paragrafo 177a, primo periodo, codice del commercio e del paragrafo 99, seconda frase, legge sulle società cooperative».

Nel Regno Unito mediante il Corporate Insolvency and Governance Bill, approvato il 20 maggio 2020, è stata temporaneamente sospesa la responsabilità degli amministratori per wrongful trading per il periodo di emergenza compreso tra il primo marzo e il 30 settembre 2020. Precisamente, ai sensi della section 12 del Corporate Insolvency and Governance Bill, per il periodo di sospensione suddetto, «the court is to assume that the person is not responsible for any worsening of the financial position of the company or its creditors».

In Spagna, pur non essendo stata introdotta una specifica previsione in merito alla responsabilità degli amministratori, sono stati sospesi l’obbligo di richiedere la dichiarazione di fallimento [29] e la regola ricapitalizza o liquida [30]. Analoga impostazione caratterizza gli interventi emergenziali adottati dal legislatore italiano. L’art. 6 del d.l. 8 aprile 2020, n. 23 (c.d. Decreto Liquidità) prevede la temporanea sospensione, sino al 31 dicembre 2020, degli artt. 2447 e 2482-ter c.c. che dettano la c.d. regola ricapitalizza o liquida [31]. Inoltre, l’art. 10 del Decreto Liquidità ha disposto, per il periodo compreso tra il 9 marzo e 30 giugno 2020, l’improcedibilità dei ricorsi (presentati da terzi ovvero, quando l’insolvenza è conseguenza dell’epidemia di Covid-19, in proprio dall’im­prenditore [32]), per la dichiarazione di fallimento e di liquidazione coatta amministrativa nonché per l’accertamento dello stato di insolvenza nell’ammini­strazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.

Ancorché le misure emergenziali adottate nei diversi ordinamenti siano accumunate dalla medesima ratio e siano perciò volte a sospendere l’appli­ca­zio­ne delle disposizioni che regolano i doveri (e le correlate responsabilità) degli amministratori nella crisi societaria che potrebbero rivelarsi inadeguate nella congiuntura economica straordinaria determinata dalla pandemia, gli effetti che tali misure determinano in termini di effettiva protezione degli amministratori da eventuali responsabilità sembrano differire nei diversi Stati membri. E ciò in ragione sia della configurazione delle previsioni emergenziali sia delle già illustrate difformità esistenti tra le norme nazionali “ordinarie” che regolano i doveri degli amministratori nella c.d. twilight zone.

Ad esempio, in forza delle disposizioni emergenziali contenute nel COVInsAG in precedenza richiamate, la legislazione tedesca delinea un safe harbour sufficientemente ampio per gli amministratori delle società che versano in crisi per effetto della pandemia, al fine di porli in condizione di adottare le misure necessarie per il superamento della crisi, anche utilizzando le risorse messe a disposizione a tal fine dello Stato [33]. Oltre a sospendere (così come stabilito in molti altri ordinamenti) l’obbligo di richiedere il fallimento, le disposizioni del COVInsAG connettono a tale sospensione un sostanziale alleviamento della responsabilità per i pagamenti effettuati nell’ambito dell’ordinaria attività e, in particolare, per quelli che servono a mantenere o riprendere le operazioni commerciali ovvero ad attuare un programma di risanamento, i quali sono considerati ex lege rispondenti ai canoni di diligenza ai quali deve conformarsi l’operato degli amministratori [34].

Diversamente la protezione assicurata agli amministratori dalle norme emer­genziali non sembra essere altrettanto estesa in altri ordinamenti quali, ad esempio, quelli inglese ed italiano.

Per quanto concerne il Regno Unito, si è osservato che la sospensione delle norme in materia di wrongful trading ha un effetto limitato sul regime di responsabilità degli amministratori [35] i quali potrebbero comunque essere considerati responsabili per i medesimi atti in forza delle previsioni contenute nella Section 15A del Company Directors Disqualification Act 1986 (introdotta dallo Small Business, Enterprise and Employment Act 2015) nonché, soprattutto, della common law rule basata sulla nota sentenza West Mercia Safetywear v Dodd, in base alla quale, in prossimità dell’insolvenza (dunque, in un momento potenzialmente antecedente quello al quale si connettono gli obblighi di condotta previsti dalla disciplina del wrongful trading), si determinata un mutamento dei doveri degli amministratori che, da tale momento, devono tenere in adeguata considerazione gli interessi dei creditori [36].

Analoghe perplessità circa l’effettiva capacità delle norme emergenziali di limitare la responsabilità degli amministratori per le decisioni assunte nella fase di crisi dell’impresa sociale sembrano sussistere anche nel­l’ordinamento italiano. Come già altrove osservato [37], nonostante l’affermazio­ne in tal senso contenuta nella Relazione al Decreto Liquidità [38], è da dubitare, infatti, che la sospensione, prevista dall’art. 6 del Decreto, della regola ricapitalizza o liquida e della correlata causa di scioglimento di cui agli artt. 2484, primo comma, n. 4) e 2545-duodecies c.c. sia sufficiente a far venir meno la responsabilità degli amministratori per la violazione dei doveri fissati dall’art. 2486 c.c., ai sensi del quale, verificatasi una causa di scioglimento, gli amministratori devono attenersi ad una gestione conservativa per la conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale.

In questa prospettiva non può trascurarsi che simili obblighi di condotta nonché il generale dovere di agire nel rispetto dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale non si connettono esclusivamente alle condizioni patrimoniali della società – e, in particolare, alla riduzione del capitale al di sotto del minimo legale – bensì anche alla situazione finanziaria della società [39]. Sulla scorta di tale generale rilievo sembra che le previsioni dell’art. 6 del Decreto Liquidità non facciano venir meno l’obbligo – ora espressamente previsto dall’art. 2086, secondo comma, c.c. – degli amministratori di monitorare costantemente la situazione finanziaria della società e di adottare, al manifestarsi di gravi tensioni di liquidità, una gestione conservativa volta a preservare la solvibilità della società anche mediante il ricorso a soluzioni concordate della crisi ovvero, ove la solvibilità sia irrimediabilmente compromessa, presentare domanda di fallimento. Come già ricordato, del resto, ancor prima dell’introduzione del nuovo secondo comma dell’art. 2086 c.c. si riteneva che un siffatto dovere trova comunque fondamento nelle previsioni, non derogate dal Decreto Liquidità, dell’art. 2394 c.c. nonché nel combinato disposto degli artt. 217, primo comma, nn. 3 e 4, e 224 l. fall [40].

Alla stregua delle precedenti osservazioni sembra pertanto ragionevole con­cludere che la differente portata delle misure emergenziali introdotte nei diversi ordinamenti europei è suscettibile di dare luogo ad un ampliamento delle difformità esistenti tra di essi in relazione al regime di responsabilità degli amministratori nella fase di crisi della società.

Ciò detto, è altresì da notare che nella straordinaria congiuntura determinata dalla pandemia gli effetti della mancanza di una disciplina armonizzata sembrano, tuttavia, differire da quelli osservabili in tempi ordinari. Nella fase pandemica a rilevare principalmente non sono i possibili fenomeni di forum shopping bensì le potenziali difformità che possono venire a crearsi tra gli Stati membri in relazione all’effettiva capacità delle società in crisi di superare gli effetti della crisi, con inevitabili ripercussioni sul sistema produttivo nazionale, il quale è destinato ad essere tanto più in sofferenza quanto più sono numerosi i soggetti incapaci di fronteggiare efficacemente le conseguenze economiche della pandemia. È evidente che un regime di responsabilità più rigido (ovvero maggiormente incerto) può in questa fase ostacolare la ripresa economica se agli amministratori non è concessa la necessaria flessibilità – mediante la previsione di un adeguato safe harbour – per compiere le scelte (caratterizzate da un elevato grado di rischio ed incertezza) funzionali al superamento della crisi. Il rischio di incorrere in responsabilità potrebbe, infatti, indurre gli amministratori ad essere eccessivamente avversi al rischio e, quindi, all’adozione di decisioni che modificano lo status quo [41].

Ciò è tanto più rilevante se si considera che per molte imprese il risanamento impone, nel contesto della pandemia caratterizzato da estrema incertezza (sull’andamento della situazione sanitaria nonché sui suoi potenziali riflessi economici), l’effettuazione di investimenti e di scelte gestionali di natura non conservativa diretti all’adozione dei necessari presidi di sicurezza per il contenimento e la prevenzione del contagio o, in molti casi, ad un più radicale adattamento del modello di business al contesto economico e sociale determinatosi a seguito della pandemia [42]. Ne risulta pertanto che gli Stati membri dove non è stato previsto un chiaro ed adeguato safe harbour per gli amministratori potrebbero trovarsi a soffrire uno “svantaggio competitivo” in termini di efficacia delle misure volte a favorire il superamento della crisi da parte delle imprese colpite dagli effetti economici della pandemia.

Sebbene la situazione emergenziale determinata da quest’ultima sia (auspicabilmente) destinata ad avere una durata limitata, quanto in precedenza osservato conferma la necessità di delineare una disciplina armonizzata dei doveri degli amministratori nella crisi societaria, anche al fine di prevenire i potenziali effetti distorsivi determinati dal concorso di legislazioni nazionali che (anche quando orientate al perseguimento dei medesimi obiettivi) presentano significative difformità.

Che gli effetti dell’assenza di una disciplina armonizzata in tale ambito vadano oltre i possibili fenomeni di forum shopping e rappresentino, anzitutto, un ostacolo alla creazione di un «level playing field» a livello europeo, è stato, del resto, sottolineato già nel 2010 da uno studio promosso dal Direttorato generale per le politiche interne del Parlamento europeo [43]. Inoltre, recentemente, pur non essendovi uno specifico riferimento ai doveri degli amministratori nella crisi societaria, una ancora più esplicita indicazione in tal senso è contenuta nel nuovo action plan per la creazione della Capital market union dove - in linea con le proposte avanzate dal gruppo di esperti incaricato dalla Commissione di delineare un piano di iniziative in materia [44] - si osserva che le divergenze tra le legislazioni nazionali in materia di insolvenza rappresentano una delle «significant barriers to a well-functioning CMU» [45].


5. Verso una disciplina europea dei doveri degli amministratori nella crisi societaria: dal Report dell’High Level Group of Company Law Experts alla Direttiva 2019/1023/UE.

Anche in ragione della progressiva presa di consapevolezza delle non trascurabili conseguenze negative determinate dall’insufficiente grado di armonizzazione in relazione a tale profilo di disciplina, diversi tentativi sono stati compiuti al fine di limitare le differenze esistenti tra i diversi ordinamenti in merito ai doveri degli amministratori nella fase di crisi della società. Le previsioni contenute nell’art. 19 della Direttiva 2019/1023/UE rappresentano, infatti, l’esito di numerose iniziative promosse nel tempo dalla Commissione in tale direzione.

Una prima proposta per una disciplina armonizzata della materia è stata avanzata dall’High Level Group of Company Law Experts incaricato dalla Commissione europea di avanzare un piano d’azione per una complessiva riforma e l’ammo­dernamento del diritto societario europeo.

Nel report pubblicato nel 2002, muovendo dal presupposto che la disciplina dei doveri degli amministratori nella fase di crisi rappresenta un essenziale elemento di un appropriato sistema di corporate governance, il gruppo di esperti ha suggerito l’introduzione di una norma sul wrongful trading analoga a quella contenuta nella legge sull’insolvenza inglese [46]. Una simile soluzione era considerata, infatti, sufficientemente flessibile per adattarsi alle diverse legislazioni nazionali. In primo luogo, le previsioni in materia di wrongful trading non interferiscono con le decisioni degli amministratori fino a quando l’insolvenza non è prevedibile e, dunque, sin quando i doveri degli amministratori sono funzionali (anzitutto) al perseguimento degli interessi dei soci. Inoltre, una regola europea sul wrongful trading consente di definire un equivalente livello di protezione dei creditori sociali nella fase di prossimità all’insolvenza senza, tuttavia, la necessità di armonizzare il complessivo regime di responsabilità degli amministratori che, come noto, non è oggetto di disciplina da parte del legislatore europeo ed è rimesso interamente agli ordinamenti nazionali. Alla luce di ciò, ad avviso del gruppo di esperti di alto livello, l’introduzione di una norma europea sul wrongful trading avrebbe potuto pertanto aumentare la fiducia dei creditori e la disponibilità di finanziamenti per la società [47].

La Commissione europea ha fatto propria la proposta del gruppo di esperti di alto livello trasponendola nella sua comunicazione al Parlamento sulla modernizzazione del diritto delle società, la quale indicava il «rafforzamento delle responsabilità dei membri del consiglio di amministrazione» tra gli interventi da realizzare nel medio periodo (tra il 2006 e il 2008) [48]. Il piano di azione prospettato dalla Commissione non ha trovato, tuttavia, attuazione secondo i tempi previsti.

La materia esula dall’oggetto del Regolamento 2015/848/UE concernente la competenza, il riconoscimento, l’esecuzione, la legge applicabile e la cooperazione nelle procedure d’insolvenza transfrontaliere nonché l’interconnes­sione dei registri fallimentari. Benché il suo ambito di applicazione comprenda le procedure di prevenzione dirette a promuovere il salvataggio del debitore economicamente sostenibile, il regolamento non affronta il problema delle differenze esistenti tra i vari ordinamenti in relazione a tale profilo. Il regolamento, infatti, si concentra sulla risoluzione dei conflitti di giurisdizione e di leggi nelle procedure d’insolvenza transfrontaliere e garantisce il riconoscimento delle decisioni in materia di insolvenza in tutta l’UE, senza armonizzare le norme sostanziali sull’insolvenza applicabili negli Stati membri.

Posto che per definire un (seppur minimo) grado di armonizzazione occorre andare oltre la cooperazione giudiziaria e stabilire norme sostanziali comuni, la Commissione, nel 2014, ha adottato la Raccomandazione relativa alla ristrutturazione e alla seconda opportunità, con la quale ha invitato gli Stati membri a dotarsi di i) procedure efficaci di pre-insolvenza per aiutare i debitori economicamente validi ad essere ristrutturati e quindi evitare l’insolvenza, e ii) disposizioni sulla seconda opportunità per gli imprenditori, che consentano loro di essere ammessi al beneficio della liberazione dai debiti entro tre anni dalla dichiarazione di insolvenza. La Commissione ha però riscontrato - sulla base di un’indagine da essa promossa [49] - che la Raccomandazione, pur avendo costituito un’utile guida per gli Stati membri impegnati in riforme nel settore dell’insolvenza, non ha ottenuto gli effetti auspicati.

Anche in ragione del limitato impatto avuto dalla Raccomandazione, nel­l’ambito del piano d’azione del 2015 per la creazione di un’Unione dei mercati dei capitali [50] la Commissione ha annunciato, tra le misure volte a favorire gli investimenti transfrontalieri all’interno dell’Unione, un’iniziativa legislativa «in materia di insolvenza, ristrutturazione precoce e “seconda possibilità” sulla base dell’esperienza maturata con la raccomandazione». Nel 2016 la Commissione ha, quindi, pubblicato la Proposta di direttiva [51] che, nel riconoscere l’importanza delle norme sul dovere di diligenza degli amministratori in prossimità dell’insolvenza al fine di favorire la tempestiva ristrutturazione e prevenire perdite per i creditori, mirava al raggiungimento di un livello minimo di armonizzazione mediante l’introduzione di alcune specifiche disposizioni contenute nell’art. 18 [52].

Non senza significative incertezze che hanno visto la norma sui doveri degli amministratori dapprima eliminata dal Consiglio europeo e, successivamente, reintrodotta dal Parlamento [53], i principi fissati dalla Proposta di direttiva sono stati trasfusi nell’art. 19 della Direttiva 2019/1023/UE ai sensi del quale «gli Stati membri provvedono affinché, qualora sussista una probabilità di insolvenza, i dirigenti tengano debitamente conto come minimo dei seguenti elementi: a) gli interessi dei creditori, e dei detentori di strumenti di capitale e degli altri portatori di interessi; b) la necessità di prendere misure per evitare l’insolvenza; e c) la necessità di evitare condotte che, deliberatamente o per grave negligenza, mettono in pericolo la sostenibilità economica dell’im­presa».

Tale formulazione presenta talune non trascurabili differenze rispetto al testo dell’art. 18 della Proposta di direttiva che denotano come la Commissione abbia, nel testo finale, privilegiato un’impostazione ancor più flessile, che costituisce probabilmente frutto di compromesso viste le incertezze che hanno caratterizzato l’inserimento di tale norma [54]. Mentre l’art. 18 della Proposta prevedeva specifici obblighi a carico degli amministratori in prossimità del­l’insolvenza, l’art. 19 della Direttiva, con formulazione più permissiva, si limita a richiedere che, qualora sussista una probabilità di insolvenza, gli amministratori «tengano debitamente conto» come minimo degli elementi ivi previsti. Inoltre, è stato sfoltito l’insieme delle condotte alle quali gli amministratori dovrebbero attenersi essendo state espunte le previsioni, contenute nella Proposta, secondo le quali gli amministratori dovevano «prendere misure immediate per ridurre al minimo le perdite per i creditori, i lavoratori, gli azionisti e le altre parti interessate»; «ottemperare a tutti i loro obblighi nei confronti dei creditori, dei lavoratori, delle altre parti interessate, dello Stato e delle sue emanazioni»; «non ridurre intenzionalmente il valore dell’attivo netto della società» [55].


6. La limitata portata armonizzatrice della Direttiva 2019/1023/UE in relazione ai doveri degli amministratori nella società in crisi.

Ancorché costituisca, indubbiamente, il più significativo passo sinora compiuto dal legislatore europeo verso la definizione di una disciplina armonizzata dei doveri degli amministratori nella crisi societaria, le previsioni dell’art. 19 della Direttiva 2019/1023/UE non sembrano in grado di consentire un effettivo superamento delle differenze esistenti tra le legislazioni nazionali.

Pur fissando alcuni principi generali ai quali gli Stati Membri dovrebbero attenersi nel definire i doveri degli amministratori nella crisi della società ed il connesso regime di responsabilità in caso di loro violazione, l’art. 19 della Direttiva concede un significativo margine di flessibilità agli Stati membri. Tanto si evince chiaramente, del resto, dalle affermazioni contenute nel Considerando n. 71 in base alle quali la Direttiva, oltre a «lasciare impregiudicate le norme nazionali degli Stati membri relative ai processi decisionali all’interno di una società», «non intende stabilire alcuna gerarchia tra le varie parti i cui interessi devono essere tenuti in debita considerazione», rimettendo ai legislatori nazionali le decisioni a tale riguardo [56].

Tali prese di posizione non si discostano peraltro dall’impostazione delineata nella Proposta di direttiva la quale, dichiaratamente, si prefiggeva lo scopo di «raggiungere la necessaria coerenza dei quadri in tutta l’UE, lasciando tuttavia agli Stati membri la flessibilità necessaria per conseguire gli obiettivi applicando i principi e le norme mirate secondo modalità adeguate ai contesti nazionali» [57].

In considerazione della scelta della Commissione di limitarsi ad indicare alcuni principi generali senza dettare «norme mirate dettagliate» [58], appare probabile, come già osservato, che il recepimento della Direttiva 2019/1023/
UE consentirà il persistere delle differenze esistenti tra le legislazioni nazionali in merito ai doveri (ed alla responsabilità) degli amministratori di società in crisi.

Per illustrare in modo maggiormente puntuale le ragioni che inducono a tale negativa valutazione è opportuno tenere presente quanto suggerito dalla Legislative Guide on Insolvency Law dell’Uncitral [59] che contiene alcune raccomandazioni sui doveri degli amministratori nella fase di crisi precedente l’insolvenza e, in particolare, fissa i principi ai quali i legislatori nazionali possono attenersi nel definire i relativi doveri degli amministratori e le connesse responsabilità in caso di loro inadempimento. Secondo il modello proposto dall’Uncitral, gli amministratori nella fase di crisi dovrebbero prevenire l’in­solvenza o, quando ciò non è possibile, minimizzare le conseguenze dell’in­solvenza. Inoltre, la Legislative Guide on Insolvency Law fornisce indicazioni di carattere maggiormente operativo in merito alle azioni che gli amministratori possono intraprendere al fine di conseguire tali obiettivi [60] e prevedono, in particolare, che la disciplina dei doveri degli amministratori di società in crisi impone di considerare, almeno, i seguenti elementi: i) la natura e la portata di tali doveri; ii) il momento in cui tali doveri divengono attuali; iii) i soggetti ai quali tali obblighi di condotta si applicano; iv) le responsabilità conseguenti all’inesatto adempimento da parte di costoro dei doveri su di essi gravanti; v) le modalità di enforcement della disciplina; vi) i soggetti che possono esercitare le azioni di responsabilità.

Prendendo a riferimento tale quadro concettuale e concentrando, ai presenti fini, l’attenzione sui primi due elementi menzionati che, di per sé, valgono a connotare in modo decisivo i doveri degli amministratori nella fase di crisi, emerge, con evidenza, che le previsioni dell’art. 19 della Direttiva 2019/1023/
UE si prestano ad essere attuate secondo diverse modalità da parte degli Stati membri e, di fatto, possono consentire loro di conservare i diversi approcci regolatori attualmente accolti a livello nazionale.


6.1. Il momento di “attivazione” degli specifici doveri degli amministratori nella crisi societaria.

Per quanto concerne il momento di attivazione degli specifici doveri imposti agli amministratori di società in crisi, l’art. 19 della Direttiva 2019/1023/
UE indica quale trigger event la sussistenza di «una probabilità di insolvenza». Come è stato correttamente osservato in relazione alla Proposta di Direttiva che già faceva riferimento a tale presupposto [61], la formulazione dell’art. 19 è imprecisa in quanto una probabilità di insolvenza (in linea teorica) esiste sempre, essendo perciò più corretto ricondurre i doveri di condotta degli amministratori al­l’ipotesi in cui l’insolvenza costituisce l’esito maggiormente probabile, sebbene un siffatto calcolo di probabilità sia, per definizione, incerto e discrezionale [62]. Di conseguenza, pur optando chiaramente per una disciplina di portata preventiva destinata ad operare prima che la società divenga insolvente, l’art. 19 rimette agli Stati membri l’individuazione dell’evento al ricorrere del quale associare la manifestazione della probabilità di insolvenza.

Data l’evidente impossibilità di determinare con esattezza il momento a partire dal quale l’insolvenza deve ritenersi probabile, è necessario ricorrere ad un’approssimazione di tale momento “ideale”, la quale può basarsi su un test patrimoniale ovvero su un test di solvibilità o di liquidità [63].

In alcuni paesi, tra i quali l’Italia, la perdita del capitale sociale oltre il minimo legale pone specifici obblighi a carico di amministratori e soci, imponendo ai primi di convocare tempestivamente l’assemblea sottoponendo alla stessa una situazione patrimoniale che illustri la perdita ed ai soci di decidere se procedere alla ricapitalizzazione ovvero allo scioglimento della società.

Le disposizioni degli artt. 2447 e 2482-ter c.c. costituiscono pertanto – quantomeno sul piano teorico – un rimedio idoneo a limitare l’aggravamento delle perdite gravanti sui soci, con l’ulteriore vantaggio che la sua attivazione è legata ad un presupposto di accertamento generalmente agevole. La regola “ricapitalizza o liquida” è diretta ad evitare che, in presenza di un inadeguato livello di mezzi propri (evidenziato, appunto, dall’erosione del capitale sociale minimo), la continuazione dell’esercizio dell’attività senza ricapitalizzazione costituisca una consapevole traslazione impropria del rischio di impresa sui creditori o, più in generale, sui terzi che vengano in contatto volontariamente o involontariamente con l’impresa. Inoltre, la regola “ricapitalizza o liquida” assolve una fondamentale funzione informativa nei confronti dei creditori sociali, giacché la decisione dei soci di ricapitalizzare la società segnala che la situazione economico-finanziaria e le potenzialità future della società sono tali da giustificare ulteriori investimenti, nonostante le perdite patrimoniali registrate [64].

Tuttavia, la duplice constatazione dell’incapacità dello stato patrimoniale e del conto economico (sulle risultanze dei quali gli artt. 2447 e 2482-ter c.c. si fondano) di riflettere la situazione finanziaria della società e dell’inadegua­tezza del capitale minimo a fungere da campanello di allarme in ragione del suo ridotto ammontare rende certamente condivisibile il rilievo che la regola “ricapitalizza o liquida” non è idonea a far emergere tempestivamente situazioni di “tensione” finanziaria e a prevenire il concretizzarsi dell’insolvenza [65], sì che il sistema di prevenzione degli artt. 2447 e 2482-ter c.c. può entrare in funzione tardivamente, quando la capacità solutoria della società è ormai compromessa.

Che il funzionamento dell’art. 2447 c.c. (e 2482-ter c.c.) prescinde dalla situazione finanziaria della società può essere osservato anche da un’opposta prospettiva, notando che la regola “ricapitalizza o liquida” può attivarsi ancorché la società – nonostante la perdita del capitale o lo squilibrio patrimoniale – sia ancora in grado di soddisfare regolarmente i propri debiti. L’attivazione della regola “ricapitalizza o liquida” è, infatti, legata non al concretizzarsi del­l’ef­fettivo pregiudizio dei creditori, che ha luogo soltanto qualora la capacità solutoria della società sia compromessa o sia destinata ad esserlo entro breve, bensì all’esigenza (che assume dunque portata preventiva rispetto al concretizzarsi dell’insolvenza) di conservare un investimento minimo a titolo di capitale di rischio, sì da determinare un incentivo ai soci a promuovere la corretta gestione dell’impresa sociale. L’utilizzo delle regole contabili prudenziali imposto dal codice civile può far sì che il “sistema di allarme” previsto dagli artt. 2447 e 2482-ter c.c. entri in funzione soltanto allorché la società versa già in stato di crisi finanziaria o di insolvenza.

In alternativa, visti i limiti di un test patrimoniale quale quello alla base della regola ricapitalizza o liquida, l’attivazione dei doveri degli amministratori può essere ricondotta al deterioramento della situazione finanziaria della società e, precisamente, al manifestarsi di una situazione in cui la liquidità attuale e prospettica della società è o si prevede essere insufficiente al regolare pagamento dei debiti, essendo perciò certo o probabile il manifestarsi dell’insol­venza. Non v’è dubbio, come segnalato anche dall’Uncitral [66], che al fine di assolvere i loro doveri nella fase di crisi e, in particolare, di prevenire l’in­solvenza o, ove ciò sia impossibile, di limitarne le conseguenze, gli amministratori sono tenuti ad implementare un adeguato sistema di programmazione e monitoraggio della dinamica finanziaria dell’impresa, strumentale al tempestivo accertamento dell’insolvenza ovvero all’emersione della situazione di crisi che rende inevitabile l’insolvenza, la quale deve essere resa nota ai soci affinché essi possano tempestivamente decidere (sì da evitare il protrarsi dell’at­ti­vità in condizioni di disequilibrio finanziario) se liquidare la società ovvero adottare i provvedimenti ragionevolmente idonei al suo risanamento. Inoltre, pur essendo basato su presupposti maggiormente soggettivi, un trigger event legato alla situazione finanziaria della società si caratterizza, almeno in teoria, per una maggiore flessibilità ed efficacia (rispetto ad un test patrimoniale volto ad accertare una perdita grave del capitale sociale minimo fissato per legge), in quanto il momento di attivazione dei doveri degli amministratori di società in crisi può essere determinato sulla base della situazione specifica dell’impresa o delle caratteristiche dell’atti­vi­tà svolta.

Nonostante ciò, l’individuazione del momento in cui gli amministratori hanno (o avrebbero dovuto avere, in base ad una condotta diligente) conoscenza che la società è insolvente o che l’insolvenza è imminente presenta indubbi profili di difficoltà ed è influenzata, inevitabilmente, da un certo grado di discrezionalità. Come dimostra l’esperienza inglese relativa alle norme sul wrongful trading – ma considerazioni analoghe possono ora svolgersi in relazione al secondo comma dell’art. 2086 c.c. –, al quale è chiaramente ispirato l’art. 19 della Direttiva 2019/1023/UE, connettere i doveri degli amministratori alla conoscenza della probabilità di insolvenza può condurre alla tardiva emersione dell’insolvenza, presentando perciò sotto tale profilo limitazioni non dissimili da quelle che caratterizzano un test patrimoniale, basato sulle risultanze contabili.

Quanto precede, oltre a dimostrare che anche in relazione al profilo in esame si pone la tradizionale alternativa tra rules e standards [67], sembra con­fermare che l’art. 19 della Direttiva, facendo riferimento alla «probabilità di insolvenza», garantisce agli Stati una flessibilità sì ampia in sede di recepimento da consentire il permanere di rilevanti differenze tra le legislazioni nazionali in merito al momento di attivazione dei doveri degli amministratori in fase di crisi. Il presupposto indicato dall’art. 19 appare, infatti, a tal punto generico da poter essere ricondotto tanto ad una situazione di crisi finanziaria quanto ad una condizione di squilibrio o di grave perdita patrimoniale.

Ad esempio, dal punto di vista dell’ordinamento italiano non sembrerebbero esservi dubbi in merito al fatto che l’art. 19 della Direttiva 2019/1023/UE, in ragione del riferimento alla probabilità di insolvenza, richiede l’effettua­zione di un test di liquidità, la quale, come in precedenza notato, deve ritenersi già rientrante tra gli obblighi degli amministratori nella fase di crisi societaria in forza della previsione del secondo comma dell’art. 2086 c.c. nonché delle ulteriori previsioni supra richiamate [68]. Secondo la legislazione interna, infatti, le nozioni di insolvenza [69] e di crisi [70] sono legate alla situazione finanziaria della società [71]. Tuttavia, se si amplia l’ambito di osservazione agli altri Stati membri, il quadro risulta maggiormente articolato, in quanto alcuni ordinamenti nazionali (come quello tedesco) accolgono una nozione (anche) patrimoniale di insolvenza consistente nell’eccedenza del passivo patrimoniale rispetto all’attivo [72].

Il fatto che tanto un test di solvibilità quanto uno patrimoniale possano ritenersi astrattamente idonei a dare recepimento all’art. 19 della Direttiva – consentendo così ai legislatori nazionali di mantenere lo status quo – è, del resto, in linea con la scelta del legislatore europeo di non fornire una definizione di insolvenza e di probabilità di insolvenza. Ai sensi dell’art. 2, paragrafo 2, della Direttiva 2019/1023/UE tali concetti sono, infatti, da intendersi come definiti ai sensi del diritto nazionale. Per tale motivo sembra doversi senz’altro condividere la proposta recentemente avanzata dall’High Level Forum on the Capital Markets Union [73] di definire a livello europeo una «common terminology» per le principali nozioni del diritto dell’insolvenza e della crisi.


6.2. La configurazione dei doveri degli amministratori nella crisi societaria.

Come già accennato, anche riguardo alla natura ed alla portata dei doveri degli amministratori durante la crisi della società l’art. 19 della Direttiva 2019/1023/UE si astiene dal definire la condotta in concreto richiesta agli amministratori, limitandosi ad indicare alcuni elementi dei quali costoro devono tenere conto al manifestarsi della probabilità di insolvenza [74]. In ragione della genericità della loro formulazione, le previsioni in questione concedono, tuttavia, ampia flessibilità agli Stati membri in sede di recepimento.

Soltanto parzialmente idonee – anche in ragione della loro collocazione [75] – a prevenire significative differenze tra gli ordinamenti europei sembrano le indicazioni contenute nel Considerando n. 70 della direttiva che menzionano alcune delle possibili azioni che gli amministratori possono intraprendere nella fase di crisi al fine di prevenire l’insolvenza tra le quali: il ricorso a strumenti di allerta; l’adozione di misure volte a proteggere gli attivi della società in modo da massimizzarne il valore ed evitare perdite di attivi fondamentali; l’esame della struttura e delle funzioni dell’impresa per valutarne la sostenibilità economica e ridurre le spese; la prosecuzione degli scambi commerciali nelle circostanze in cui è opportuno preservare la continuità aziendale. Inoltre, secondo lo stesso considerando 70, gli amministratori, quando la società è in crisi, dovrebbero evitare di porre in essere operazioni che possono essere oggetto di azioni revocatorie ovvero ridurre intenzionalmente il valore dell’im­presa.

In considerazione di quanto osservato sembra pertanto dubbio che l’art. 19 della Direttiva 2019/1023/UE sia in grado di condurre ad un’effettiva armonizzazione in relazione alla definizione dei doveri degli amministratori nella fase di crisi che precede l’insolvenza.

In primo luogo, è da notare come i doveri degli amministratori indicati dall’art. 19, lett. b) e c) sono già ravvisabili nella gran parte degli ordinamenti europei, anche là dove difetta la loro esplicita affermazione in via normativa [76]. Di conseguenza, sembra che la norma in esame possa (al più) condurre ad esplicitare doveri degli amministratori che già devono ritenersi sussistenti ed assuma perciò una portata armonizzatrice, essenzialmente di carattere formale, destinata, probabilmente, a risolversi nella esplicitazione normativa di doveri degli amministratori già riconosciuti negli ordinamenti europei. Pur non incidendo sulla natura e sulla portata dei doveri degli amministratori, una siffatta armonizzazione potrebbe consentire di dare maggiore certezza all’azione degli amministratori per effetto dell’esplicitazione di alcune delle condotte richieste agli amministratori all’ap­prossimarsi del­l’in­solvenza [77].

Pur prendendo atto di tale possibile positiva ricaduta, al fine di valutare l’effettiva portata armonizzatrice dell’art. 19 della Direttiva, è, tuttavia, essenziale tenere conto del fatto che l’approccio particolarmente flessibile prescelto dal legislatore europeo nel delineare i principi ispiratori dei doveri degli amministratori nella crisi societaria non pare in grado di condurre al superamento delle differenze esistenti tra gli ordinamenti che prevedono una responsabilità per wrongful trading e quelli che dettano, invece, un termine rigido, decorrente dalla data di manifestazione di insolvenza, entro il quale agli amministratori sono tenuti a richiedere il fallimento.

Anche se ispirato alle disposizioni dell’Insolvency Act inglese in materia di wrongful trading, l’art. 19 adotta un’impostazione meno stringente, in quanto, a differenza del legislatore inglese, non richiede (essendo stata espunta dal testo finale la previsione in tal senso contenuta nella Proposta di direttiva [78]) agli amministratori di prendere ogni possibile misura diretta a minimizzare le perdite dei creditori [79], limitandosi a prevedere che gli interessi di questi ultimi siano adeguatamente presi in considerazione [80].

La natura dei doveri imposti dalle lett. b) e c) dell’art. 19 agli amministratori nella fase di crisi è, pertanto, tale da non essere incompatibile con le norme, vigenti in alcuni ordinamenti europei, che dettano l’obbligo di richiedere l’apertura di una procedura concorsuale decorso un certo periodo dalla manifestazione dell’insolvenza. I doveri di cui alle lett. b) e c) dell’art. 19 sono infatti destinati ad operare (data la loro funzione preventiva) nella fase antecedente all’insolvenza (quando questa è ancora probabile) e non precludono la possibilità di prevedere che, divenuta la società insolvente, debba farsi tempestivo ricorso ad una procedura concorsuale. Ciò trova riscontro, ad esempio, nell’ordinamento tedesco dove l’obbligo di richiedere il fallimento entro tre settimane dal manifestarsi dell’insolvenza coesiste con norme, quali quelli già richiamate di cui al § 64 GmbHG e al § 92 AktG, che pongono a carico degli amministratori doveri di condotta nel corso della crisi, in parte, analoghi a quelli delineati dall’art. 19, lett. b) e c) della Direttiva 2019/1023/UE.

Tanto osservato, alcune ulteriori considerazioni devono essere svolte in merito alla ancor più generica previsione della lett. a) dell’art. 19 ai sensi della quale, qualora sussista una probabilità di insolvenza, gli amministratori devono tener conto degli interessi dei creditori, dei detentori di strumenti di capitale e degli altri portatori di interessi. Per un verso tale previsione ribadisce (essendo tale conclusione ormai largamente condivisa e trovando anche esplicito riconoscimento normativo in alcuni ordinamenti europei [81]) che, all’approssi­marsi dell’insolvenza, i doveri degli amministratori subiscono una modificazione poiché coloro che gestiscono la società devono tenere in considerazione gli interessi non soltanto dei soci (dei quali sono espressione) ma anche dei creditori sociali, per altro verso suscita talune incertezze là dove estende sensibilmente il novero dei soggetti oggetto di tutela includendovi tutti gli altri (non meglio precisati) «portatori di interessi».

Un siffatto ampliamento degli interessi rilevanti può condurre ad esiti indesiderabili in ragione della difficoltà di bilanciare istanze potenzialmente divergenti, che potrebbe indurre gli amministratori a compiere scelte eccessivamente prudenziali nel timore di ledere gli interessi di una o più categorie di stakeholder. Specularmente, l’ampliamento del novero degli interessi tutelati potrebbe concedere agli amministratori una maggiore discrezionalità rendendo meno agevole l’eventuale valutazione ex post della loro condotta qualora venga ad essi imputata, da alcuni dei soggetti tutelari, una violazione dei loro doveri [82]. Infine, per quanto tale profilo meriti una più ampia riflessione che esula dalle finalità della presente analisi, è da tenere in considerazione che il recepimento della previsione della lett. a) dell’art. 19 potrebbe rivelarsi maggiormente difficoltoso negli ordinamenti europei dove non è previsto il dovere degli amministratori di tener conto degli interessi degli stakeholders nel corso della ordinaria vita della società.

Per tali ragioni l’art. 19 della Direttiva 2019/1023/UE non sembra, in conclusione, poter effettivamente contribuire alla prevenzione dei fenomeni di forum shopping e degli ulteriori effetti distorsivi imputabili alla mancanza di una disciplina armonizzata dei doveri degli amministratori nella crisi societaria.


7. Conclusioni: spunti per un regime effettivamente armonizzato dei doveri degli amministratori nella crisi societaria.

Benché le incertezze che hanno accompagnato l’introduzione nella Direttiva 2019/1023/UE dell’art. 19 recante la disciplina dei doveri degli amministratori nella fase di crisi rendano improbabile - almeno nel breve termine - un ulteriore intervento legislativo, le precedenti osservazioni richiedono di considerare secondo quali direttrici potrebbe orientarsi il legislatore europeo al fine di delineare una disciplina maggiormente idonea ad assicurare un’effetti­va convergenza delle legislazioni nazionali.

Seguendo l’impostazione in precedenza prospettata, anche a tal fine sembra che gli elementi sui quali è necessario soffermare l’attenzione siano, in particolare, la configurazione dei doveri degli amministratori quando la società versa in condizioni di crisi e il presupposto per l’attivazione di tali doveri.

In relazione al primo punto, l’art. 19 della Direttiva, nonostante il carattere ge­nerale delle previsioni ivi contenute, indica con chiarezza che (coerentemente con la complessiva impostazione della Direttiva) il legislatore europeo pri­vilegia una soluzione orientata al tempestivo accertamento ed alla previsione dell’insolvenza e basata su standard di condotta (sul modello del wrongful trading) piuttosto che sullo specifico dovere di richiedere il fallimento entro un termine predeterminato.

Preso atto di tale scelta di fondo, è da ribadire come il precetto dell’articolo 19 secondo cui gli amministratori devono tener conto della «necessità di prendere misure per evitare l’insolvenza» sia eccessivamente generico, non precisando in modo sufficientemente definito la natura e la portata dei doveri degli amministratori nella fase di crisi [83].

Sotto questo profilo maggiormente specifico risultava l’art. 18 della Proposta che conteneva il duplice precetto – non riprodotto nell’art. 19 della Direttiva – secondo il quale, al ricorrere della probabilità di insolvenza, gli amministratori avevano l’obbligo di «prendere misure immediate per ridurre al minimo le perdite per i creditori, i lavoratori, gli azionisti e le altre parti interessate» e «di evitare condotte che, deliberatamente o per grave negligenza, mettono in pericolo la sostenibilità economica dell’impresa».

Per quanto tali previsioni siano maggiormente puntuali, sembra condivisibile il rilievo secondo cui l’obiettivo di minimizzare le perdite per le diverse categorie di soggetti possa essere difficilmente realizzabile e potrebbe concedere agli amministratori un eccessivo margine di manovra, rendendoli di fatto “non responsabili” verso i soggetti interessanti [84]. Per tale motivo si è suggerito che potrebbe risultare maggiormente opportuno (essendo un simile precetto tendenzialmente in grado di soddisfare tutte le categorie di soggetti) porre a carico degli amministratori il dovere di prendere le necessarie misure per prevenire l’insolvenza e massimizzare il valore dell’azienda [85], tenendo conto, ove possibile, di altre istanze, quale, ad esempio, la preservazione del livello occupazionale [86]. L’obbligo di massimizzazione del valore, pur ponendo un preciso standard di condotta per gli amministratori (anche ai fini della eventuale valutazione ex post del loro operato), lascia loro un adeguato margine di flessibilità in merito alle misure che a tal fine possono essere adottate. Non è dubbio, infatti, che tra queste ultime possa esservi tanto la cessione di attività, la rinegoziazione dei rapporti contrattuali quanto il ricorso agli strumenti per superamento della crisi previsti dall’ordinamento nonché, diversamente, la richiesta di apertura di una procedura con finalità liquidatoria, nel­l’eventualità in cui, mancando adeguate prospettive di risanamento, questa sia l’opzione considerata maggiormente idonea alla preservazione del valore residuo del complesso aziendale. Tuttavia, il dovere di massimizzazione del valore deve essere correttamente inteso tenendo conto dell’esigenza di evitare l’attuazione da parte degli amministratori di operazioni eccessivamente rischiose che possono dare luogo a perdite suscettibili di incidere sulla posizione dei creditori, dei soci e degli altri stakeholders nonché della conseguente modificazione in senso conservativo che, per tale ragione, i doveri degli amministratori subiscono all’approssimarsi dell’insolvenza. In questa prospettiva, sembra pertanto che l’obiettivo di massimizzazione del valore debba essere ricostruito in termini prudenziali o conservativi. In altri termini, atteso il dovere degli amministratori di astenersi dal compimento di operazioni che, in ragione del loro significativo grado di rischio, possono (con elevata probabilità) dare luogo a perdite destinate ad incidere sugli interessi dei creditori, dei soci e degli altri stakeholders, l’obiettivo prefigurato dovrebbe, di regola, ritenersi conseguito qualora gli amministratori adottino mi­sure che possono essere giudicate astrattamente idonee (almeno) alla preservazio­ne del valore del complesso aziendale in assenza di opzioni alternative (caratterizzate da un livello di rischiosità adeguato) che ne consentano l’ul­te­rio­re massimizzazione [87].

Anche alla luce di quanto appena osservato, il recepimento da parte degli Stati membri di una siffatta impostazione – che potrebbe favorire un maggior grado di armonizzazione a livello europeo – non dovrebbe risultare, di regola, problematico poiché, come già osservato, un simile obbligo appare configurabile anche negli ordinamenti che non contengono una espressa previsione in tal senso e, in particolare, in quelli che prevedono l’obbligo degli amministratori di richiedere il fallimento entro un determinato termine [88].

Maggiormente innovativa – e per questo motivo, prevedibilmente, di difficile accoglimento da parte del legislatore europeo – potrebbe rivelarsi la proposta di introdurre una previsione volta a garantire un safe harbour per gli amministratori destinato ad operare qualora costoro, nel rispetto del generale dovere di agire con diligenza e in modo informato, adottino misure dirette al superamento della crisi che, seppur orientate alla massimizzazione del valore del complesso aziendale, si rivelino ex post inefficaci e possano determinare una riduzione del valore del medesimo [89].

La configurazione e l’introduzione di una simile previsione risultano intrinsecamente problematiche in quanto, per un verso, possono contribuire a limitare il rischio che il regime di responsabilità previsto durante la fase di crisi precedente l’insolvenza possa condurre ad una condotta degli amministratori eccessivamente avversa al rischio ostacolando l’adozione di misure volte al risanamento anche qualora vi siano consistenti prospettive di successo [90]. Per altro verso, come ovvio, una siffatta previsione può favorire condotte opportunistiche o, comunque, imprudenti da parte degli amministratori, potenzialmente lesive degli interessi dei soggetti coinvolti.

La configurazione dell’eventuale safe harbour richiede pertanto particolare cautela, sembrando necessario in primo luogo escludere dalla portata del medesimo ogni ipotesi in cui la responsabilità degli amministratori derivi (oltre che da dolo) da colpa grave, là dove essi hanno assunto le decisioni rivelatesi dannose senza la necessaria diligenza e in assenza di un’adeguata base informativa. In tale direzione potrebbe costituire un rilevante punto di riferimento – nonostante che vi siano discordanti vedute riguardo all’efficacia del medesimo e l’espe­rienza pratica in materia sia ancora limitata [91] – il modello offerto dalla legislazione australiana e, segnatamente, dalla section 588GA del Corporations Act 2001 [92] la quale prevede un safe harbour per gli amministratori che, nel momento in cui inizino a «suspect the company may become or be insolvent», attuino misure stragiudiziali volte al superamento della crisi a condizione che tali iniziative possano ragionevolmente ritenersi idonee a condurre ad un «better outcome for the company» rispetto a soluzioni alternative quali, in particolare, l’avvio di una procedura liquidatoria. La section 588GA (2) chiarisce, inoltre, che le misure adottate dagli amministratori dovrebbero ritenersi (ex post) adeguate al raggiungimento di tale obiettivo qualora, ad esempio, gli amministratori si siano adeguatamente informati sulla situazione finanziaria della società; abbiano richiesto l’assistenza da un soggetto qualificato al quale hanno fornito sufficienti informazioni; abbiano sviluppato un piano per la ristrutturazione della società e il miglioramento della sua situazione finanziaria. In ogni caso, il safe harbour non è offerto agli amministratori per le operazioni compiute quando la società non era più in grado di soddisfare i debiti da lavoro e tributari [93].

Qualora il legislatore europeo adottasse un modello analogo a quello appena illustrato sarebbe di centrale importanza chiarire se l’attivazione del safe harbour a favore degli amministratori debba estendersi anche alle ipotesi di ricorso a soluzioni stragiudiziali che non prevedono l’intervento del Tribunale o la nomina di un professionista incaricato dell’attestazione del piano.

La definizione della natura e della portata dei doveri degli amministratori durante la fase di crisi pur costituendo un elemento essenziale di ogni opzione legislativa diretta a favorire l’armonizzazione del regime dei directors’ duties nella fase di crisi non è, di per sé, sufficiente a conseguire tale obiettivo. A tal fine è, infatti, essenziale l’individuazione del momento in cui gli obblighi degli amministratori trovano attivazione; in assenza di una regolazione armonizzata di tale profilo, significative differenze di disciplina tra gli Stati membri sarebbero destinate a persistere anche nel caso in cui il legislatore europeo definisse con maggior precisione la portata e la natura dei doveri degli amministratori nella crisi societaria.

Come già notato, al fine di favorire l’adozione di misure di ristrutturazione preventiva, l’art. 19 della Direttiva riconduce l’attivazione di tali doveri alla sussistenza di «una probabilità di insolvenza», nell’intento di anticipare il momento di attivazione rispetto al manifestarsi (formalmente o soltanto in via di fatto) dell’insolvenza. In tale prospettiva la previsione del­l’art. 19 appare pertanto condivisibile in quanto in linea con il generale obiettivo – che evidentemente, di regola, presuppone la tempestiva implementazione di piani di ristrutturazione – di massimizzare il valore del complesso aziendale, ove possibile preservandolo in funzionamento. Ciò detto, restano, tuttavia, le menzionate perplessità relative alla eccessiva genericità del presupposto indicato dall’art. 19 che, in quanto tale, si presta al recepimento secondo modalità significativamente difformi da parte degli Stati membri, non sembrando perciò idoneo ad assicurare un’effettiva armonizzazione in relazione a tale profilo.

Alla luce di ciò, per raggiungere tale obiettivo, sarebbe pertanto necessario muovere proprio dalla nozione di insolvenza in quanto – anche qualora il legisla­tore europeo intendesse adottare una definizione flessibile che lascia un mar­gine di discrezionalità agli Stati membri in sede di recepimento – sarebbe ne­cessario chiarire che la nozione di insolvenza e, conseguentemente, quella di crisi attengono alla dimensione finanziaria dell’impresa (e non a quella patrimoniale), come peraltro già previsto dalla maggior parte degli ordinamenti nazionali.

Preso atto di ciò, una prima alternativa potrebbe essere rappresentata, come suggerito anche dalla Legislative Guide on Insolvency Law dell’Uncitral [94], dall’adozione di una previsione analoga a quella della section 214 del­l’In­sol­vency Act inglese che riconduce l’attivazione dei doveri degli amministratori al momento in cui essi hanno contezza o (in base ad una condotta diligente) dovrebbero avere contezza che l’insolvenza è imminente o inevitabile. Fermo restando che una simile previsione – in quanto configurata come uno standard e non come una rule – determina un certo margine di discrezionalità in merito all’individuazione del momento di attivazione dei doveri degli amministratori [95], non del tutto fondato sembra essere il timore che essa possa condurre ad un condotta eccessivamente avversa al rischio da parte di costoro, potendo determinare la prematura liquidazione di imprese economicamente sane [96] e così, in ultima analisi, contrastare con l’impostazione di fondo della Direttiva espressamente favorevole all’adozione di misure dirette al risanamento delle imprese. Come chiarito dalla stessa Legislative Guide on Insolvency Law del­l’Uncitral [97], l’attivazione dei doveri degli amministratori non dovrebbe essere determinata da una condizione di temporanea insufficienza della liquidità bensì da una situazione di crisi “strutturale” che tenga conto della compressiva situazione finanziaria della società, considerati anche la capacità di raccogliere nuovi capitali, l’entità delle entrate e delle uscite finanziarie, nonché i debiti attuali e potenziali [98].

Di converso, anche alla luce dell’orientamento della giurisprudenza inglese nel tempo consolidatosi in relazione alla section 214 dell’Insolvency Act, non meramente teorico sembra essere il rischio che l’impostazione in esame possa condurre ad un’attivazione eccessivamente tardiva dei doveri degli amministratori. Lo dimostra, ad esempio, l’interpretazione delle Corti inglesi in base alla quale la situazione in cui gli amministratori dovrebbero avere contezza che l’insolvenza è imminente o inevitabile non sussiste sin quando la società è in grado di far fronte ai propri debiti in tempi accettabili (seppur più lunghi di quelli contrattualmente previsti) per i creditori [99].

Al fine di superare tali possibili incertezze, la definizione di crisi di cui all’art. 2 del Codice della crisi e dell’insolvenza - anche alla luce delle modifiche introdotte dal d.lgs. 26 ottobre 2020, n. 147 [100] - sembra poter costituire un importante punto di riferimento per meglio precisare, a livello europeo, il presupposto di attivazione dei doveri degli amministratori. Per un verso la definizione di crisi contenuta nell’art. 2 del Codice della crisi e dell’insolvenza si pone in linea di continuità con l’attuale art. 19 della Direttiva richiamando il concetto di probabilità di insolvenza («lo stato di squilibrio economico-fi­nanziario che rende probabile l’insolvenza del debitore»), per altro verso puntualizza che una siffatta probabilità, per le imprese, «si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate». Pur rinviando ad una condizione, nella sostanza, non difforme da quella di cui alla section 214 dell’Insolvency Act inglese, la norma italiana ha il pregio di chiarire che la situazione di crisi non presuppone l’attuale incapacità di fronteggiare regolarmente i propri debiti ma sussiste già nel momento in cui tale incapacità è prevedibile sulla base della diligente analisi della documentazione contabile, dei piani previsionali e del costante monitoraggio della situazione finanziaria. Di conseguenza, il presupposto di cui al­l’art. 2 del Codice della crisi e dell’insolvenza è pienamente funzionale al­l’obiettivo della Direttiva – e che, non a caso, caratterizza anche del Codice del­la crisi e dell’insolvenza – di favorire l’attuazione di piani di ristrutturazione preventiva.


NOTE

[1] L’espressione è stata utilizzata inizialmente da U. TOMBARI, I finanziamenti dei soci e i finanziamenti infragruppo dopo il decreto sviluppo. Prime considerazioni sul diritto societario della crisi, reperibile in internet al seguente indirizzo: www.ilfallimentarista.it, 20 dicembre 2012; ID., Principi e problemi di “diritto societario della crisi”, in U. TOMBARI (a cura di), Diritto societario e crisi di impresa, Torino, Giappichelli, 2014, 6; G.B. PORTALE, Verso un “diritto societario della crisi”?ivi, 1 ss.; P. MONTALENTI, I doveri degli amministratori, degli organi di controllo e della società di revisione nella fase di emersione della crisi, ivi, 40. Vedi anche, più recentemente, P. MONTALENTI, Diritto dell’impresa in crisi, diritto societario concorsuale, diritto societario della crisi: appunti, in Giur. comm., 2018, I, 62 ss.; R. SACCHI, Sul così detto diritto societario della crisi: una categoria concettuale inutile o dannosa?, in Nuove leggi civ. comm., 2018, 1280 ss.; A. NIGRO, Il «diritto societario della crisi»: nuovi orizzonti?, in Riv. soc., 2018, 1207.

[2] Segnala, infatti, A. NIGRO, (nt. 1), 1207 ss., che alla diffusione dell’uso di tale definizione non corrisponde l’attribuzione alla medesima di un identico significato. Ad avviso dell’Autore richiamato, «la nozione non tanto più corretta quanto più utile di «diritto societario della crisi» è … da riferire … al complesso – all’intero complesso – delle regole che, con riguardo alla situazione di crisi della società e/o in relazione al loro assoggettamento a procedure o procedimenti di soluzione di quella crisi, investano contestualmente profili di diritto societario e profili di diritto concorsuale».

[3] Limitando i riferimenti alle sole opere monografiche, tra i contributi più recenti vi sono F. BRIZZI, Doveri degli amministratori e tutela dei creditori nel diritto societario della crisi, Torino, Giappichelli, 2015; A. LUCIANO, La gestione della S.P.A. nella crisi pre-con­cor­suale, Milano, Giuffrè, 2016; G. BERTOLOTTI, Poteri e responsabilità nella gestione di società in crisi, Torino, Giappichelli, 2017; F. PACILEO, Continuità e solvenza nella crisi di impresa, Milano, 2017; M. SPIOTTA, Continuità aziendale e doveri degli organi sociali, Milano, Giuffrè, 2017.

[4] P. DAVIES, Directors’ Creditor-Regarding Duties in respect of Trading Decisions Taken in the Vicinity of Insolvency, in EBOR, 2006, 303 ss.

[5] Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, e che modifica la Direttiva (UE) 2017/1132 (direttiva sulla ristrutturazione e sull’insolvenza).

[6] Per una compiuta ricognizione della disciplina dei doveri degli amministratori nelle società in crisi vigente nei diversi Stati membri si vedano gli studi di G. MCCORMACK, A. KEAY, S. BROWN, J. DAHLGREEN, Study on a new approach to business failure and insolvency Comparative legal analysis of the Member States’ relevant provisions and practices, 2016, reperibile in internet al seguente indirizzo: https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/
insolvency_study_2016_final_en.pdf; C. GERNER-BEUERLE, P. PAECH, E. P. SCHUSTER, Study on Directors’ Duties and Liability, 2013, reperibile in internet al seguente indirizzo: ec.europa.eu/internal_market/company/docs/board/2013-study-analysis_en.pdf.; EUROPEAN LAW INSTITUTE, Rescue of Business in Insolvency Law, 2017, reperibile in internet al seguente indirizzo: https://www.europeanlawinstitute.eu/fileadmin/user.../Instrument_INSOL
VENCY.pdf; A. GURREA MARTINEZ, Towards an Optimal Model of Directors’ Duties in the Zone of Insolvency: An Economic and Comparative Approach, (October 2020), reperibile in internet al seguente indirizzo: https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3717631. Nella dottrina italiana, per una sintesi, si veda P. MONTALENTI, Diritto dell’impresa in crisi, (nt. 1), 72 ss.

[7] Come noto l’ordinamento tedesco prevede una duplice nozione di insolvenza la quale si identifica con l’incapacità della società di soddisfare regolarmente i propri debiti (§ 17 InsO) ovvero con la situazione di squilibrio patrimoniale ricorrente quando le passività eccedono le attività (§ 19 InsO).

[8] Per l’individuazione dei Paesi (oltre al Regno Unito) che accolgono tale impostazione si rinvia gli studi comparatistici di cui alla precedente nota 6.

[9] La section 214 dell’Insolvency Act prevede che le disposizioni ivi contenute si applicano, tra l’altro, qualora «at some time before the commencement of the winding up of the company, [directors] knew or ought to have concluded that there was no reasonable prospect that the company would avoid going into insolvent liquidation».

[10] Precisamente, ai sensi della section 214 dell’Insolvency Act, gli amministratori sono tenuti a compiere «every step with a view to minimising the potential loss to the company’s creditors».

[11] R. GOOSENS, The European Initiative on the Harmonisation of Directors’ Duties in the Vicinity of Insolvency, in NIBLeJ, 2017, 3 s.

[12] K. VAN ZWIETEN, The Wrong Target? COVID-19 and the Wrongful Trading Rule, in Oxford Business Law Blog, 25 marzo, reperibile in internet al seguente indirizzo: https://www.
law.ox.ac.uk/business-law-blog/blog/2020/03/wrong-target-covid-19-and-wrongful-trading-rule.

[13] Cfr. C. GERNER-BEUERLE, P. PAECH, E.P. SCHUSTER, (nt. 6), xiv, i quali osservano però che «recovery rates in the United Kingdom – a jurisdiction relying on the wrongful trading prohibition – are higher than in France and Germany – two jurisdictions adopting the “duty to file” strategy». Questa affermazione, data la sua genericità, non appare, tuttavia, risolutiva in assenza di riscontri empirici, in quanto il maggior tasso di ristrutturazioni nel Regno Unito potrebbe essere imputato a fattori diversi dalla presenza delle disposizioni in materia di wrongful trading.

[14] Sia consentito rinviare sul punto a G. STRAMPELLI, Distribuzioni ai soci e tutela dei creditori, Torino, Giappichelli, 2009, 154, anche per i necessari riferimenti.

[15] Nella ricostruzione operata da alcuni studiosi stranieri l’Italia viene inclusa tra i paesi che pongono uno specifico dovere a carico degli amministratori in forza della previsione della c.d. regola ricapitalizza o liquida. Pur non essendo dubbio che gli artt. 2447 e 2482-ter c.c. prevedono un preciso obbligo a carico dell’organo amministrativo, l’assimilazione dell’ordinamento italiano a quello tedesco appare fuorviante, in quanto, mentre quest’ultimo connette i doveri di attivazione degli amministratori al manifestarsi dell’insolvenza, la regola ricapitalizza o liquida opera in una fase precedente che, almeno in teoria, può non implicare lo stato di insolvenza né, invero, una situazione di crisi tanto intensa quanto quella che determina l’attivazione dei doveri degli amministratori previsti dalla disciplina del wrongful trading.

[16] Cfr. HIGH LEVEL GROUP OF COMPANY LAW EXPERTS, Report on a Modern Regulatory Framework for Company Law in Europe, 2002, reperibile in internet al seguente indirizzo: http://www.ecgi.org/publications/documents/report_en.pdf, 68.

[17] Per un commento del secondo comma dell’articolo 2086 c.c. si vedano, tra molti, C. IBBA, Codice della crisi e codice civile, in Rivista ODC, 2019, 243; M.S. SPOLIDORO, Note critiche sulla “gestione dell’impresa” nel nuovo art. 2086 c.c. (con una postilla sul ruolo dei soci), in Riv. soc., 2019, 253; E. GINEVRA, C. PRESCIANI, Il dovere di istituire assetti adeguati ex art. 2086 c.c., in Nuove leggi civ. comm., 2019, 1209 ss.

[18] Sia consentito rinviare sul punto, anche per i necessari riferimenti, a G. STRAMPELLI, Capitale sociale e struttura finanziaria nella società in crisi, in Riv. soc., 2012, 617 ss.

[19] Cfr., tra molti, A. MAZZONI, La responsabilità gestoria per scorretto esercizio dell’im­presa priva della prospettiva di continuità aziendale, in AA.VV., Amministrazione e controllo nel diritto delle società. Liber amicorum Antonio Piras, Torino, Giappichelli, 2010, 829 s., secondo il quale tale principio concorre con la buona fede e la diligenza quale criterio di valutazione in concreto del modo in cui si comportano i destinatari dei principi stessi; G. SCOGNAMIGLIO, “Clausole generali”, principi di diritto e disciplina dei gruppi di società, in Studi in ricordo di Pier Giusto Jaeger, Milano, Giuffrè, 2011, 590 ss.; P. MONTALENTI, Diritto dell’im­presa in crisi, (nt. 1), 74 ss.

[20] H. EIDENMÜLLER, Comparative Corporate Insolvency Law, in J.N. GORDON, W.G. RINGE (Eds.), The Oxford Handbook of Corporate Law and Governance, Oxford, 2018, 1017 s.; INSOL EUROPE, Harmonisation of Insolvency Law at EU Level, 2010, reperibile in internet al seguente indirizzo: http://www.europarl.europa.eu/meetdocs/2009_2014/documents/empl/dv/empl_study_
insolvencyproceedings_/empl_study_insolvencyproceedings_en.pdf, 22, dove si osserva che le diversità esistenti tra gli ordinamenti nazionali in materia di doveri e responsabilità degli amministratori durante la crisi della società «may elicit “insolvency tourism” (forum shopping) by the attempted shift of the COMI of the company». Sull’argomento si veda anche I. MEVORACH, Forum Shopping in Times of Crisis: A Directors’ Duties Perspective, in ECFR, 2013, 523 ss.

[21] In base all’art. 3, paragrafo 1, del Regolamento 2015/848/UE, «il centro degli interessi principali è il luogo in cui il debitore esercita la gestione dei suoi interessi in modo abituale e riconoscibile dai terzi».

[22] Per quanto l’esame di tale profilo esuli dalle finalità della presente indagine, è da osservare che quanto ipotizzato nel testo presuppone la qualificazione delle norme sui doveri degli amministratori di società in crisi come norme di diritto “fallimentare” e non di diritto societario. Come noto, infatti, mentre la disciplina fallimentare dipende dalla collocazione del COMI, il diritto societario applicabile è quello dello stato di incorporazione. Nel silenzio della Direttiva 2019/1023/UE sul punto (che rende incerta l’attrazione delle norme in questione alla lex concorsus), in relazione a tale profilo viene, anzitutto, in rilievo la previsione dell’articolo 6 del Regolamento 2015/848/UE ai sensi della quale «i giudici dello Stato membro nel cui territorio è aperta una procedura d'insolvenza ai sensi dell'articolo 3 sono competenti a conoscere delle azioni che derivano direttamente dalla procedura e che vi si inseriscono strettamente, come le azioni revocatorie»; inoltre, ai sensi dell’articolo 1, l’ambito di applicazione del Regolamento 2015/848/UE comprendere anche le procedure che possono «essere avviate in situazioni in cui sussiste soltanto una probabilità di insolvenza». Rilevante in materia è altresì l’orien­tamento della Corte di Giustizia europea che, con la controversa sentenza Kornhaas (Corte giust. UE, 10 dicembre 2015, causa C-594/14, Simona Kornhaas c. Thomas Dithmar, EU:C:
2015:806) - la quale affrontava però un caso di responsabilità per condotte successive all’in­solvenza -, ha affermato che le previsioni del § 64 GmbHG - in base alla quale gli amministratori sono tenuti a rimborsare la società per i pagamenti a terzi effettuati dopo il manifestarsi dell’insolvenza - sono da qualificare come norme di diritto dell’insolvenza e, in quanto tali, si applicano anche alle società straniere operanti in Germania in forza dell’art. 4 del regolamento 2015/848/UE, precisando che tale conclusione non contrasta con il principio di libertà di stabilimento. Cfr. più ampiamente sul punto F.M. MUCCIARELLI, Doveri degli amministratori di società in crisi, lex concursus e sovranità nazionale, in Nuove leggi civ. comm., 2020, 698, 719 ss.; in senso particolarmente critico verso l’orientamento della Corte, W.G. RINGE, Kornhaas and the Limits of Corporate Establishment, in Oxford Business Law Blog, 25 maggio 2016, reperibile in internet al seguente indirizzo: https://www.law.ox.ac.uk/business-law-blog/blog/
2016/05/kornhaas-and-limits-corporate-establishment. In materia si veda anche P. KINDLER, La responsabilità degli organi di amministrazione nella crisi dell’impresa. Note a margine del piano d’azione della Commissione UE alla luce della crisi finanziaria, in Riv. dir. civ., 2010, I, 449 s.

[23] Sul piano pratico è, peraltro, da notare che il trasferimento del COMI può, non infrequentemente, risultare complesso ed oneroso, costituendo ciò un elemento di per sé in grado di scoraggiare condotte opportunistiche.

[24] In questo senso H. EIDENMÜLLER, (nt. 20), 1017 s.

[25] K. VAN ZWIETEN, (nt. 12).

[26] Cfr. A. GURREA MARTINEZ, Directors’ Duties of Financially Distressed Companies in the Time of COVID–19, in Oxford Business Law Blog, 24 marzo 2020, reperibile in internet al seguente indirizzo: https://www.law.ox.ac.uk/business-law-blog/blog/2020/03/directors-duties-financially-distressed-companies-time-covid-19.

[27] Per effetto delle modifiche apportate al COVInsAG mediante il Gesetz zur Änderung des COVID-19-Insolvenzaussetzungsgesetzes del 25 settembre 2020, a partire dal primo ottobre 2020 le società che versano in stato di insolvenza a causa di insufficiente liquidità sono pertanto tenute a richiedere la dichiarazione di fallimento. Come spiegato da fonti ministeriali, la modifica dell’ampiezza dell’esenzione è dettata dalla volontà di evitare di mantenere in vita c.d. zombie-companies, ossia società che versano in uno stato di insolvenza sì grave (e, perciò, non rimediabile) da non essere stato superato neppure con l’ausilio delle (ingenti) risorse finanziarie messe a disposizione dalla Stato a seguito dello scoppio della pandemia. Cfr. A. BANGHA-SZABO, E. FIETZ, Germany continues insolvency filing suspension for some companies, 24 settembre 2020, reperibile in internet al seguente indirizzo: https://www.pinsentmasons.
com/out-law/news/insolvenzantragspflicht-bleibt-fuer-einige-unternehmen-ausgesetzt.

[28] Gesetz zur vorübergehenden Aussetzung der Insolvenzantragspflicht und zur Begrenzung der Organhaftung bei einer durch die COVID-19-Pandemie bedingten Insolvenz (COVID-19-Insolvenzaussetzungsgesetz – COVInsAG), Art. 1, § 1. Cfr. per un commento di tale previsione G. HÖLZLE, A. SCHULENBERG, Das „Gesetz zur vorübergehenden Aussetzung der Insolvenzantragspfl icht und zur Begrenzung der Organhaftung bei einer durch die COVID-19-Pandemie bedingten Insolvenz (COVID-19-Insolvenzaussetzungsgesetz – COVInsAG)“ – Kommentar, in ZIP, 2020, 633 ss.

[29] V. Real Decreto-ley 8/2020, de medidas urgentes extraordinarias para hacer frente al impacto económico y social del COVID-19 17 marzo 2020, art. 43.

[30] V. Real Decreto-ley 8/2020, (nt. 29), artt. 40.11 e 40.12.

[31] Nonché delle previsioni degli artt. 2446, secondo e terzo comma e 2482-bis, quinto e sesto comma c.c. ai sensi delle quali in caso di perdite eccedenti un terzo del capitale sociale l'assemblea deve essere convocata senza indugio per gli opportuni provvedimenti e obbligatoriamente procedere alla riduzione del capitale se queste non risultano diminuite a meno di un terzo entro l’approvazione del bilancio dell’esercizio successivo.

[32] In sede di conversione del Decreto Liquidità, l’articolo 10 è stato modificato in relazione al profilo in questione prevedendo che l’improcedibilità non si estende «al ricorso presentato dall’imprenditore in proprio, quando l’insolvenza non è conseguenza dell’epidemia di COVID-19». Tale soluzione non pare, tuttavia, idonea a superare le diffuse perplessità in quanto sono tutt’altro che chiare le ragioni che hanno indotto ad escludere la procedibilità delle istanze di fallimento qualora l’insolvenza sia conseguenza della pandemia. Oltre che per la sua scarsa razionalità, tale impostazione solleva dubbi anche sul piano applicativo poiché in molti casi è problematico stabilire se l’insolvenza sia conseguenza (soltanto) della pandemia potendo essa derivare da un concorso di cause tra le quali, appunto, la pandemia stessa, a meno di ritenere che ogni insolvenza verificatasi dopo l’inizio di quest’ultima sia effetto della crisi economica determinata dall’emergenza sanitaria (ma in tal caso la precisazione contenute nella nuova formulazione della norma sarebbe, nella sostanza, irrilevante). Cfr., per alcune prime riflessioni sul punto, M. IRRERA, Le novità in tema di procedure concorsuali nella conversione in legge del decreto liquidità (ovvero di quando i rimedi sono peggiori del male o inefficaci), 2020, disponibile sul sito www.ilcaso.it, 1 ss.

[33] Si veda la Relazione al COVInsAG: BT-Drucks. 19/18110, 17, 23.

[34] Cfr. G. HÖLZLE, A. SCHULENBERG, (nt. 28), 633 ss.; NORTON ROSE FULBRIGHT, German legislation to mitigate COVID-19 pandemic helps legal transactions through temporary “shut down” (March 2020), reperibile in internet al seguente indirizzo: https://www.nortonroseful
bright.com.

[35] Cfr. K. VAN ZWIETEN, (nt. 12).

[36] C. VAN ZWIETEN, Director Liability in Insolvency and Its Vicinity, in Oxford Journal of Legal Studies, 2018, 382 ss. Si veda sul punto anche L. ENRIQUES, Pandemic-Resistant Corporate Law: How to Help Companies Cope with Existential Threats and Extreme Uncertainty During the Covid-19 Crisis, in ECFR, 2020, 257, 269 s.

[37] Sia consentito rinviare sul punto a G. STRAMPELLI, La preservazione (?) della continuità aziendale nella crisi da Covid-19: Capitale sociale e bilanci nei Decreti “Liquidità” e “Rilancio”, in Riv. soc., 2020, 377 ss.

[38] Nella Relazione si afferma che la sospensione della regola ricapitalizza o liquida mira a evitare che la perdita del capitale dovuta alla crisi da Covid-19 esponga gli amministratori alla eventuale responsabilità «per gestione non conservativa ai sensi dell’articolo 2486 del codice civile».

[39] V. supra par. 2.

[40] Osserva che sull’applicazione di tali norme non incide la sospensione della regola ricapitalizza o liquida e della correlata causa di scioglimento G. D’ATTORRE, Disposizioni temporanee in materia di riduzione del capitale ed obblighi degli amministratori di società in crisi, in Fall., 2020, 600.

[41] Cfr. L. ENRIQUES, (nt. 36), 268 richiamando sul punto H. SPAMANN, Monetary Liability for Breach of the Duty of Care?, in Journal of Legal Analysis, 2016, 337, 353; L. STANGHELLINI, La legislazione d’emergenza in materia di crisi d’impresa, in Riv. soc., 2020, 353, 363.

[42] L. ENRIQUES, (nt. 36), 268, il quale correttamente osserva che «when a shift in strategy is in fact needed, a mix of risk-aversion and extreme uncertainty creates a status quo bias that may well make insolvency a likelier outcome than swift action».

[43] DIRECTORATE GENERAL FOR INTERNAL POLICIES, Harmonisation of insolvency law at EU level, 2010, reperibile in internet al seguente indirizzo: http://www.europarl.europa.eu/studies, 114 ss.

[44] HIGH LEVEL FORUM ON THE CAPITAL MARKETS UNION, A new Vision for Europe’s capital markets. Final Report (June 2020), reperibile in internet al seguente indirizzo: https://
europa.eu/!gU33Hm., 114 s., il quale ha raccomandato a tal fine l’adozione di un provvedimento legislativo finalizzato all’armonizzazione di alcuni elementi essenziali della disciplina della crisi e dell’insolvenza, tra i quali la definizione di insolvenza e, più in generale, all’ado­zione di una terminologia condivisa per i principali elementi delle leggi adottate a livello nazionale.

[45] European Commission, A Capital Markets Union for people and businesses – New Action Plan, COM(2020) 590 final, 2020, 12 s.

[46] HIGH LEVEL GROUP OF COMPANY LAW EXPERTS, (nt. 16), 12, 68. Tale proposta non è rimasta isolata ed ha ricevuto il consenso di diversi studiosi. Si veda, ad esempio, recentemente, H. EIDENMÜLLER, (nt. 20), 1019, secondo il quale «a uniform European wrongful trading rule appears to be sensible, and it would also be within the competence of the EU to enact it».

[47] HIGH LEVEL GROUP OF COMPANY LAW EXPERTS, (nt. 16), 69.

[48] COMMISSIONE EUROPEA, Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo –Modernizzare il diritto delle società e rafforzare il governo societario nell'Unione europea – Un piano per progredire, COM (2003) 284 final.

[49] Cfr. G. MCCORMACK, A. KEAY, S. BROWN, J. DAHLGREEN, (nt. 6).

[50] Commissione Europea, Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni. Piano di azione per la creazione dell'Unione dei mercati dei capitali, COM(2015) 468 final.

[51] Per una complessiva analisi della Proposta si vedano A. NIGRO, La proposta di direttiva comunitaria in materia di disciplina della crisi delle imprese, in Riv. dir. comm., 2017, 201 ss.; L. STANGHELLINI, La proposta di Direttiva UE in materia di insolvenza, in Fall., 2017, 873 ss.; L. PANZANI, La proposta di Direttiva della Commissione UE: early warning, ristrutturazione e seconda chance, in Fall., 2017, 129 ss.

[52] L’art. 18 della Proposta di direttiva - così come modificato dal Parlamento europeo -, prevedeva che, «qualora sussista una probabilità di insolvenza”, gli amministratori sono tenuti a: i) “prendere misure immediate per ridurre al minimo le perdite per i creditori, i lavoratori, gli azionisti e le altre parti interessate”; ii) “tenere debitamente conto degli interessi dei creditori, dei lavoratori e delle altre parti interessate”; iii) “ottemperare a tutti i loro obblighi nei confronti dei creditori, dei lavoratori, delle altre parti interessate, dello Stato e delle sue emanazioni; iv) “prendere misure ragionevoli per evitare l’insolvenza”; v) “evitare condotte che, deliberatamente o per grave negligenza, mettono in pericolo la sostenibilità economica dell'impresa”; vi) “non ridurre intenzionalmente il valore dell’attivo netto della società».

[53] V. ROTARU, The Restructuring Directive: a functional law and economics analysis from a French law perspective (October 2019), reperibile in internet al seguente indirizzo: https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3461716, 51; P. VELLA, L’impatto della Direttiva UE 2019/1023 sull’ordinamento concorsuale interno, in Fall., 2020, 756, la quale riferisce che la norma è stata reintrodotta anche con il sostegno della delegazione italiana.

[54] P. VELLA, (nt. 53), 756.

[55] Tali istanze sono ora menzionate, con formulazione maggiormente generica, esclusivamente nel Considerando 70 della Direttiva 2019/1023/UE in base al quale «è inoltre importante proteggere i legittimi interessi dei creditori da decisioni di gestione che potrebbero ripercuotersi sulla costituzione della massa fallimentare, in particolare se tali decisioni possono avere l’effetto di diminuire ulteriormente il valore della massa disponibile per la ristrutturazione o la distribuzione ai creditori. È pertanto necessario assicurarsi che, in tali circostanze, i dirigenti evitino condotte che, deliberatamente o per grave negligenza, determinino l’arricchimento personale a spese dei portatori di interessi, evitare che accettino operazioni sotto il valore di mercato o intraprendano azioni che possano portare a ingiusta preferenza di uno o più portatori di interessi».

[56] Nella medesima direzione deve, inoltre, essere letta l’ulteriore affermazione contenuta nel Considerando 70 secondo cui «gli Stati membri dovrebbero poter attuare le corrispondenti disposizioni della presente direttiva provvedendo affinché l'autorità giudiziaria o amministrativa, nel valutare se un dirigente debba esser ritenuto colpevole di violazioni del dovere di diligenza, tenga conto delle norme in materia di obblighi dei dirigenti di cui alla presente direttiva». Cfr. P. VELLA, (nt. 53), 757.

[57] Proposta di direttiva, 7.

[58] Proposta di direttiva, 7.

[59] UNCITRAL, Legislative Guide on Insolvency Law. Part four: Directors’ obligations in the period approaching insolvency, Vienna, 2013, 1. In generale sugli standard internazionali in materia di insolvenza A. MAZZONI, Procedure concorsuali e standards internazionali: norme e principi di fonte Uncitral e Banca Mondiale, in Giur. comm., 2018, I, 43 ss.; I. MEVORACH, (nt. 20), 533 ss.

[60] UNCITRAL, (nt. 59), 10 s.

[61] AA.VV., Comments to the Proposal for Directive, 2018, reperibile in internet al seguente indirizzo: https://www.codire.eu/materials, 10 ss.

[62] La genericità della previsione in esame risulta evidente se la si confronta, ad esempio, con la definizione di crisi accolta dall’art. 2 del Codice della crisi e dell’insolvenza.

[63] EUROPEAN LAW INSTITUTE, (nt. 6), 164 ss.

[64] EUROPEAN LAW INSTITUTE, (nt. 6), 168.

[65] Funzione che, in linea teorica, potrebbe essere svolta soltanto da una regola che connette l’alternativa tra la ricapitalizzazione e lo scioglimento all’assottigliarsi al di sotto di un minimo prestabilito non della differenza tra attivo e passivo bensì del margine di liquidità della società.

[66] UNCITRAL, (nt. 59), 10 s., 10.

[67] Cfr. in senso analogo P. MONTALENTI, Diritto dell’impresa in crisi, (nt. 1), 72 ss.

[68] Cfr. supra paragrafo 2.

[69] Cfr. supra nt. 62.

[70] Ai sensi dell’art. 2, lett. b), del codice della crisi e dell’insolvenza, l’insolvenza coincide con «lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni».

[71] In base al secondo comma dell’art. 5 della legge fallimentare, «lo stato d’insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni».

[72] Cfr. per una completa ricognizione comparatistica G. MCCORMACK, A. KEAY, S. BROWN, J. DAHLGREEN, (nt. 6), 184 ss.

[73] V. HIGH LEVEL FORUM ON THE CAPITAL MARKETS UNION, (nt. 44), 114.

[74] V. supra paragrafo 5.

[75] È da notare, infatti, che il legislatore europeo nel definire i contenuti della Direttiva si è mosso in direzione opposta a quella indicata da quanti ravvisavano la necessità di definire più compiutamente i doveri di condotta degli amministratori. A tal fine si era suggerito di inserire nella norma relativa ai doveri degli amministratori (e non, dunque, nei considerando) una lista (non esaustiva) delle misure che costoro possono essere chiamati ad adottare durante la crisi, assumendo come modello quanto previsto in materia la Legislative Guide on Insolvency Law dell’Uncitral. Cfr. AA.VV., (nt. 61), 10 ss. Per una proposta analoga si veda altresì R. GOOSENS, (nt. 11), 5.

[76] V. ROTARU, (nt. 53), 51.

[77] Cfr. L. STANGHELLINI, (nt. 51), 877, ove un cenno al fatto che l’obiettivo dell’art. 18 della Proposta di direttiva era quello di dare certezza agli amministratori di società in crisi.

[78] Come già ricordato, l’art. 18 della Proposta includeva tra i doveri degli amministratori quello di «prendere misure immediate per ridurre al minimo le perdite per i creditori, i lavoratori, gli azionisti e le altre parti interessate».

[79] Formulazione che, peraltro, già era frutto della scelta della Commissione a favore di un approccio maggiormente flessibile nell’intento di evitare che la previsione di un regime di responsabilità eccessivamente rigido possa dissuadere gli amministratori «dal prendere decisioni commerciali ragionevoli o dal correre rischi commerciali ragionevoli, in particolare ove potrebbero migliorare le probabilità di successo della ristrutturazione di un’impresa potenzialmente economicamente sostenibile». Cfr. Proposta di direttiva, Considerando 36.

[80] R. GOOSENS, (nt. 11), 5.

[81] Ad esempio, il § 3 della section 172 del Companies Act inglese prevede che «the duty imposed by this section has effect subject to any enactment or rule of law requiring directors, in certain circumstances, to consider or act in the interests of creditors of the company».

[82] V. ROTARU, (nt. 53), 51, secondo cui «either managements would end up having too much of a leeway, or the costs of justifying its actions in the event of the debtor’s subsequent default would prevent optimal risk-taking».

[83] Sul rischio che l’assenza di chiare indicazioni normative sulla condotta che deve essere tenuta nel corso della crisi possa creare incertezza per gli amministratori e determinare un’ec­cessiva avversione al rischio dei medesimi si veda A. GURREA MARTINEZ, (nt. 6), 16.

[84] Cfr. la nota 82 e il relativo testo.

[85] H. EIDENMÜLLER, Contracting for a European Insolvency Regime, in EBOR, 2017, 285, secondo il quale «the lawmaker should strive to maximise the net asset value that, in principle, can be distributed amongst the firm’s creditors».

[86] I. MEVORACH, (nt. 20), 536.

[87] A. LICHT, My Creditor’s Keeper: Escalation of Commitment and Custodial Fiduciary Duties in the Vicinity of Insolvency (October 2020). ECGI – Law Working Paper No. 551/2020, reperibile in internet al seguente indirizzo: https://papers.ssrn.com/sol3/papers.
cfm?abstract_id=3680768, 28 s.

[88] I. MEVORACH, (nt. 20), 550.

[89] Per una proposta in tal senso si veda EUROPEAN LAW INSTITUTE, (nt. 6), 170, ove si osserva che «Member States should introduce a ‘safe harbour’ defence to allow directors of a solvent company in financial distress to explore, with certain guidelines to be set, restructuring options without the risk of liability for insolvent (wrongful) trading».

[90] Istanza questa espressamente considerata dalla Direttiva 2019/1023/UE in quanto al Considerando 70 espressamente si afferma che «è importante garantire che i dirigenti non siano dissuasi dal prendere decisioni commerciali ragionevoli o dal correre rischi commerciali ragionevoli, in particolare ove tali pratiche potrebbero migliorare le probabilità di successo della ristrutturazione di un'impresa potenzialmente sana».

[91] Si veda, anche per una più analitica illustrazione delle previsioni della section 588GA del Corporations Act 2001 ed un’ampia analisi dell’opinione degli operatori sulle medesime, I. RAMSAY, S. STEELE, The ‘Safe Harbour’ Reform of Directors’ Insolvent Trading Liability in Australia: Insolvency Professionals’ Views, in Australian Business Law Review, 2020, 7 ss.

[92] Introdotta dal Treasury Laws Amendment (2017 Enterprise Incentives No. 2) Act 2017.

[93] Indicazioni di analogo tenore, come già ricordato, sono offerte da UNCITRAL, (nt. 59), 10 ss.

[94] UNCITRAL, (nt. 59), 15 s.

[95] R. GOOSENS, (nt. 11), 7 ss.; I. MEVORACH, (nt. 20), 534 ss.

[96] Si vedano in tal senso, ad esempio, le opinioni riportate da P. DAVIES, (nt. 4), 317 s.

[97] UNCITRAL, (nt. 59), 15.

[98] Si veda sul punto I. MEVORACH, (nt. 20), 536 la quale osserva che il momento di attivazione dei doveri degli amministratori indicato dalla Legislative Guide on Insolvency Law dell’Uncitral non è sufficientemente definito.

[99] P. DAVIES, (nt. 4), 319 s.

[100] Il quale ha modificato la definizione di crisi di cui all’articolo 2, comma 1, lett, a) del Codice della crisi e dell’insolvenza al fine di precisare che la crisi coincide con lo stato di «squilibrio economico-finanziario» (e non, come in precedenza previsto, di mera «difficoltà  economico-finanziaria») che rende probabile l'insolvenza del debitore.