Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeISSN 2282-667X
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«Control enhancing mechanisms» e «governance» della società a responsabilità limitata: quali limiti all'autonomia privata? (di Eugenio Barcellona, Professore associato di Diritto commerciale, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro)


Consente il nostro diritto della «società a responsabilità limitata» una sconnessione totale fra “diritti patrimoniali”(cash flow rights) e “diritti amministrativi”(votingrights)? È cioè ammissibile che una quotista disponga del diritto statutario di controllo unilaterale sulla gestione pur quando egli disponga di una frazione infinitesima del capitale sociale (cd. golden quota)?

Il presente saggio mette in questione le risposte sostanzialmente positive che la dottrina domestica ha per lo più reso agli anzidetti interrogativi. E lofa alla luce di un esame sistematico, innanzitutto, del diritto societario (segnatamente, diritto della «società per azioni») e, in secondo luogo, del generale diritto privato. In particolare, l’esame delle recenti disposizioni in materia di azioni a voto multiplo e cc.dd. loyaltyshares conferma, ad avviso dell’autore, l’esi­stenza/resistenza di una “cittadella” di diritto imperativo che istituisce un limite inderogabile di correlazione fra «rischio» (cash-flow rights) e «potere» (voting rights).

«Control enhancing mechanisms» and «governance» of the limited liability company: what are the limits on the freedom of contract?

Does Italian corporate law of limited liability companies («società a responsabilità limitata») authorize total decoupling of cash flow rights and voting rights? In other word: is it legitimate for a «quotaholder» holding an infinitesimal fraction of such company’s capital to unilaterally control the management thereof pursuant to the relevant bylaws (s.c. golden quota)?

This article questions the affirmative response of the majority of Italian scholars to the above questions. It does so by systematically examining, firstly, Italian corporate law (namely, Italian law of corporations «società per azioni») and, secondly, private law as a whole.

In particular, the analysis of recent provisions regarding multiple voting shares and s.c. loyalty shares confirms, in the author’s view, the existence/ resistance of a “citadel” of mandatory law imposing imperative limits on the degree of decoupling between «ownership» (i.e. cash flow right) and «control»(i.e. voting rights).

KEYWORDS: governance of limited liability companies («società a responsabilità limitata») – golden quota – decoupling between «ownership» (i.e. cash flow right) and «control» (i.e. voting rights) – control enhancing mechanisms – mandatory limitation to freedom of contract in the field of limited liability companies («società a responsabilità limitata»)

Sommario/Summary:

1. Oggetto dell'indagine: «diritti particolari riguardanti l'amministra­zione» e eventuali limiti all'autonomia privata. - 2. Gli orientamenti della dottrina circa la possibile ampiezza del «diritto particolare riguardante l'amministrazione». - 2.1. Diritto particolare quale «riserva» al socio privilegiato della carica gestoria (anche) a tempo indeterminato. - 2.2. Diritto particolare quale diritto di nomina della maggioranza o della totalità degli amministratori. - 3. La «riserva di esclusiva spettanza della gestione» agli amministratori (a seguito delle modifiche introdotte dal «Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza») e la sua eventuale incidenza sui «diritti particolari riguardanti l’amministrazione». - 4. Le potenzialità operative di un CEM illimitato nella governance della società a responsabilità limitata: estate planning e cc.dd. club deals. - 5. La correlazione fra «rischio» e «potere» nel sistema: diritto societario, diritto dell'impresa e diritto privato. - 5.1. Sulla (persistente) correlazione imperativa fra «rischio» e «potere» nella disciplina della società per azioni pur a seguito dell'introduzione delle «azioni a voto plurimo» e delle cc.dd. loyalty shares. - 5.2. Sulla correlazione fra «rischio» e «potere» nella disciplina delle società personali. - 5.3. Sulla correlazione fra «rischio» e «potere» nella disciplina del fallimento. - 5.4. Sulla correlazione fra «rischio» e «potere» in alcuni fondamentali istituti di diritto privato. - 5.4.1. La decadenza dal beneficio del termine. - 5.4.2. La disciplina del mandato. - 5.4.3. Tipicità dei diritti reali e disciplina dell'usufrutto. - 6. Conclusioni. - NOTE


1. Oggetto dell'indagine: «diritti particolari riguardanti l'amministra­zione» e eventuali limiti all'autonomia privata.

Consente la “nuova” disciplina della «società a responsabilità limitata» di condurre la «dissociazione» fra «rischio» e «potere» ad una intensità (significativamente) maggiore rispetto a quella consentita al modello societario “concorrente” e segnatamente quello della «società per azioni»? o è vero, piuttosto, l’esatto contrario e cioè che i «limiti imperativi» di tale «dissociazione» debbano valere in termini sostanzialmente omogenei nell’intero ambito del diritto societario (quanto meno, delle cc.dd. società di capitali), sicché, in linea di ipotesi, i «vincoli di sistema» applicabili alla «società per azioni» devono intendersi altresì applicabili anche alla «società a responsabilità limitata»? È questa la domanda-chiave che costituisce oggetto della presente indagine e rispetto alla quale ci riterremo soddisfatti se riuscissimo quanto meno a porre le basi affinché ad essa si dia una risoluzione (quale che essa sia) di maggiore consapevolezza «sistematica» di quanto non si soglia fare per lo più. Intendiamoci, dunque ed innanzitutto, sull’oggetto della questione. Quando si pone nei termini in cui lo si è appena fatto il «tema» della dissociazione «rischio»/«potere», è evidente (come dovrebbe risultare ovvio ad un lettore minimamente avveduto) che ci si riferisce a quel dibattitto, vecchio quasi quanto il diritto societario, che ha indagato ed indaga – non solo de iure condito, ma anche (e soprattutto) de iure condendo – l’an e il quomodo di ciò che, nella letteratura anglosassone (ove il tema è stato oggetto di studi grande pregio) [1], è descritto in termini di decoupling fra cash-flow rights e voting rights (dissociazione “asimmetrica” fra diritti patrimoniali e diritti di voto). Precisamente: in linea di principio e cioè conformemente al “classico” prin­cipio «un’azione [o una “quota”], un voto» (one share, one vote), se il soggetto X effettua un investimento societario di 100 su un complessivo investimento (da parte [...]


2. Gli orientamenti della dottrina circa la possibile ampiezza del «diritto particolare riguardante l'amministrazione».

Prima di esaminare in dettaglio i variegati orientamenti della nostra dottrina in ordine all’ampiezza dei «diritti particolari riguardanti l’amministra­zio­ne» ci paiono doverose due notazioni preliminari. Una prima notazione è diretta a ribadire, per così dire, il movente metodologico del presente studio. Ebbene: nel contribuire a definire il “perimetro” dei «diritti particolari» in questione, la nostra dottrina ha per lo più mostrato un at­teggiamento che potremmo definire meramente “esegetico”: con ciò volendosi sottolineare (con qualche arbitrarietà da parte nostra) che il piano dell’inter­pretazione prescelto è rimasto quello della mera «interpretazione letterale» con assai sporadici tentativi di giustificare gli esiti ermeneutici (quali che essi fossero) su un piano, per così dire, «teleologico» e/o «sistematico». È invece rimasta largamente assente – come ci accingiamo a vedere in dettaglio – ogni valutazione circa gli effetti che l’una o l’altra soluzione prospettata potesse avere sul piano della «dissociazione» fra «rischio e potere». Ed è, per l’appun­to, proprio questo deficit di analisi o consapevolezza critica che si vorrebbe (provare a) colmare. Una seconda notazione preliminare riguarda, invece, la sottolineatura delle due “direttrici ermeneutiche di fondo” che, in modo più o meno marcato e più o meno esplicito, hanno ispirato le soluzioni interpretative poi concretamente prospettate e che ci si accinge ad esaminare. Si tratta in particolare: – per un verso, del condiviso maggior rilievo “personalistico” che connoterebbe la figura del socio nella società a responsabilità limitata post-riforma alla luce della legge-delega che della riforma ha costituito la premessa [6]; e – per altro verso, dell’altrettanto condiviso maggior orientamento “filo-li­berale” (=ampliamento dell’autonomia privata) che percorrerebbe funditus l’intera riforma del 2003 [7]. Per dirla in modo un po’ grossolano: favor al “personalismo” e favor alla «autonomia» privata costituiscono, insieme, il terreno sul quale hanno poi ger­mogliato le [...]


2.1. Diritto particolare quale «riserva» al socio privilegiato della carica gestoria (anche) a tempo indeterminato.

Che il diritto particolare del socio possa – innanzitutto – acquisire le forme di una «riserva» a tempo indeterminato della carica gestoria a beneficio di un socio (il “beneficiario” del «privilegio»), è conclusione che, dopo la sua prima espressione da parte di assai autorevole dottrina [9], è stata poi condivisa da pressoché tutti i successivi interpreti [10]. Ad una simile conclusione si è pervenuti, in primis, valorizzando la dizione dell’art. 2479, comma 2, n. 2, c.c.: se è, infatti, vero che tale norma esordisce riservando certe materie “in ogni caso” alla competenza dei soci, è anche vero che, quando poi essa individua la specifica materia della «nomina degli amministratori», la disposizione ha modo di precisare “se prevista nell’atto costitutivo”. Pare, dunque, gioco forza concludere che il sistema normativo consenta senz’altro all’autonomia statutaria la diversa scelta di non riservare ai soci la nomina dei gestori. Ma alla stessa conclusione si è pervenuti, altresì, anche alla luce dell’art. 2475, comma 3, c.c.: norma che consente alla «società a responsabilità limitata» l’adozione di una governance amministrativa del tutto analoga a quella delle c.d. società di persone, ove – come ben noto – l’assunzione del potere gestorio prescinde (di regola) da un atto di nomina ed inerisce invece, a monte, alla stessa qualità di «socio». A fronte, dunque, di una (pacifica) non-imperatività del meccanismo che riserva alla compagine sociale (tramite assemblea o tramite altra forma di espressione del consenso) la «nomina» del titolare della carica gestoria, la dottrina non esita a concludere che nulla osta (o osterebbe) a che, grazie al meccanismo del diritto particolare ex art. 2468, comma 3, c.c., una società a responsabilità limitata possa adottare una governance che veda il socio X titolare sine die del potere di amministrare. Due notazioni paiono subito assai rilevanti ai nostri fini: in primis, è importante sottolineare come l’orientamento in esame ritiene espressamente possibile l’attribuzione diretta dell’ufficio di amministratore al singolo socio del tutto a [...]


2.2. Diritto particolare quale diritto di nomina della maggioranza o della totalità degli amministratori.

Coerentemente con l’orientamento che si è appena rappresentato, la dottrina largamente maggioritaria [16] ritiene altresì possibile che il «diritto particolare» possa consistere – in luogo dell’assegnazione diretta dell’ufficio di amministratore – nell’attribuzione del potere di nomina dei membri dell’organo gestorio [17]. Al rilievo critico sollevato da dottrina minoritaria [18], fondato, tuttavia, niente affatto in nome di un principio di correlazione «rischio»/«potere», bensì, meno sistematicamente, su un mero dato testuale – segnatamente: dal disposto dell’art. 2479, comma 2, c.c., «in ogni caso, [è] riservat[a] alla competenza dei soci, …, la nomina, se prevista nell’atto costitutivo, degli amministratori» e, in particolare, dall’inciso iniziale «in ogni caso» si trarrebbe l’indicazione (questo l’argomento testuale) dell’inderogabile competenza sociale, sia essa assembleare o extra-assembleare, in subiecta materia –, a tale rilievo, si diceva, la dottrina maggioritaria ha avuto buon gioco nell’opporre un facile argomento testuale di segno diametralmente opposto qual è quello desumibile dal­l’inciso finale «se prevista nell’atto costitutivo» contenuto nella stessa disposizione di legge (art. 2479 c.c.). Tale “precisazione”, si è constatato, varrebbe a circoscrivere la – si dice – niente affatto inderogabile competenza sociale ai soli casi nei quali l’atto costitutivo non contenga una diversa disciplina di governance, qual è, ad esempio e per l’appunto, quella conseguente all’attribu­zione ad un singolo socio di un «diritto particolare». Non dunque di norma imperativa si tratterebbe, ma di semplice clausola di default rimessa pienamente all’autonomia privata. Anche, in tal caso, ciò che conta ai nostri fini è che l’ammissibilità di una simile speciale prerogativa (potere di nomina degli amministratori attribuito ad personam) è affermata dalla dottrina maggioritaria del tutto a prescindere dall’entità della partecipazione capitalistica detenuta dal socio privilegiato; ed è affermata non solo con riguardo [...]


3. La «riserva di esclusiva spettanza della gestione» agli amministratori (a seguito delle modifiche introdotte dal «Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza») e la sua eventuale incidenza sui «diritti particolari riguardanti l’amministrazione».

La recentissima approvazione del «codice della crisi di impresa e dell’in­solvenza» (con d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14) [25] ha determinato, inter alia, la modifica di una norma di cui è ora opportuno valutare l’eventuale impatto sul tema di cui qui si discute. Ci si riferisce, in particolare, al “nuovo” art. 2475 c.c., che, nella nuova formulazione, sancisce il principio secondo cui la «gestione dell’impresa …. spetta esclusivamente agli amministratori i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale». Sebbene, invero, le modifiche apportate dal «codice della crisi» abbiano lasciato del tutto inalterato l’art. 2468, comma 2, c.c. (la norma, cioè, sui «diritti particolari»), appare comunque doveroso chiedersi se il principio, ormai esplicito [26], secondo cui la gestione dell’impresa competa esclusivamente agli amministratori possa avere un qualche impatto sulla portata dei «diritti particolari dei soci riguardanti l’amministrazione» e, in particolare, sul loro utilizzo quale “illimitato” control enhancing mechanism (CEM). Ci sembra che alla domanda [27] possa senz’altro rispondersi negativamente: la circostanza che il legislatore abbia voluto esplicitare la “esclusività” dei poteri di gestione in capo agli amministratori può, a tutto voler concedere, avere effetti sui criteri generali di riparto di competenze interne fra «soci» in quanto tali (o assemblea) e «amministratori» in quanto tali (organo di amministrazione) [28]; ma appare del tutto insuscettibile di incidere sulla intensità dei «diritti particolari» o, per essere più precisi, sul loro utilizzo – ciò che unicamente conta ai nostri fini – come strumento di separazione (potenzialmente illimitata) fra «rischio» (entità dell’investimento) e «potere» (potere di influenza sulla gestione). Questo è, innanzitutto, del tutto evidente nel caso in cui il «diritto particolare» si atteggi sub specie di attribuzione sine die del ruolo di «amministratore unico» ad un certo socio (che, in ipotesi, sia titolare di una frazione infinitesima del capitale). Qui, la [...]


4. Le potenzialità operative di un CEM illimitato nella governance della società a responsabilità limitata: estate planning e cc.dd. club deals.

È indubbio che, se la conclusione cui è pervenuta la nostra pressoché unanime dottrina in ordine alla illimitatezza dei CEM nella società a responsabilità limitata potesse essere assunta come valida senza riserve (ciò che sarà precipuo oggetto di analisi nel prosieguo), le potenzialità in termini di (massima) flessibilità della governance della società a responsabilità limitata, sotto lo specifico profilo di un illimitato decoupling fra ownership e control, diventano enormi. Basti qui menzionare quanto meno due possibili usi nella prassi. Il primo – assai rilevante – degno di nota è quello connesso alle esigenze di estate planning (pianificazione successoria) soprattutto negli ordinamenti, qual è il nostro, che continuano ad essere ispirati, in materia successoria, al «principio di legittima» (forced heirship)(superabile anche, ma solo in parte, con lo strumento dei «patti di famiglia»). È, invero, ben noto che il principio di legittima può costituire un grosso ostacolo rispetto a quel titolare di un significativo patrimonio per lo più concentrato in un’unica firm (impresa societaria in quale forma che sia) che, da una parte, voglia assicurare un trattamento patrimoniale fair a tutti i propri eredi, ma che, dall’altra parte, voglia altresì preservare una gestione adeguata (=rimessa cioè nelle mani di chi risulti essere maggiormente dotato di entrepreneurial skills) di quell’impresa. Il problema, in tali casi, è per l’appunto quello di dissociare la “linea” del passaggio puramente proprietario (=cash flow rights e cioè ownership) rispetto alla “linea” del passaggio delle leve gestorie (=voting rights e cioè control); dissociazione, peraltro, che, in linea di principio, il fondatore di una firm può auspicare – si faccia bene attenzione – non solo con riguardo al “primo” passaggio generazionale (allorquando la dispersione proprietaria è verosimilmente minore, per quanto ampia possa essere la schiera dei legittimari), ma anche, ed anzi soprattutto, per quelli successivi e, dunque, potenzialmente per saecula saeculorum (allorquando, invece, la dispersione proprietaria [...]


5. La correlazione fra «rischio» e «potere» nel sistema: diritto societario, diritto dell'impresa e diritto privato.

Abbiamo già rilevato come la conclusione (condivisibile o meno nel merito) circa la portata potenzialmente illimitata della dissociazione fra «rischio» e «potere» nella “nuova” società a responsabilità limitata – grazie al medium dei «diritti particolari riguardanti l’amministrazione» – sia stata raggiunta dalla nostra dottrina senza che la stessa fosse sottoposta ad un rigoroso test di «tenuta sistematica». Abbiamo, inoltre, appena rilevato come sul fondo di tale conclusione dottrinale “liberista” abbiano preso piede nella prassi italiana (almeno) due “tipologie sociali” di utilizzo dello schema della società a responsabilità limitata con totale dissociazione fra «rischio» e «potere»: a) la società a responsabilità limitata utilizzata in prospettiva di pianificazione successoria (estate planning) e b) la società a responsabilità limitata utilizzata come veicolo di club deals. È, dunque, ormai giunto il momento per eseguire quel test di tenuta sistematica che ci siamo riproposti di condurre in esordio. Ed è un compito cui qui di seguito assolveremo, muovendo innanzitutto dal diritto della «società per azioni» (anche alla luce di importanti recenti evoluzioni normative), passando poi per il diritto societario tout court (con particolare riguardo al diritto delle società personali) e il diritto dell’impresa (con particolare riguardo alla disciplina del fallimento), per concludere, infine, con il diritto privato generale.


5.1. Sulla (persistente) correlazione imperativa fra «rischio» e «potere» nella disciplina della società per azioni pur a seguito dell'introduzione delle «azioni a voto plurimo» e delle cc.dd. loyalty shares.

Orbene, indagare il fenomeno della dissociazione fra «proprietà» e «controllo» nella società per azioni [30] significa, all’evidenza, occuparsi delle regole che disciplinano i limiti entro cui l’ordinamento consente di deviare dal principio-base in forza del quale ciascuna «azione» è dotata di identici diritti: tanto patrimoniali (=cash-flow rights) (art. 2350 c.c.), quanto c.d. amministrativi (=voting rights) (art. 2351 c.c.). Se, infatti, da tale principio-base non fosse in alcun modo consentito deviare, ci si troverebbe dinanzi ad un diritto azionario istitutivo del più rigoroso principio di correlazione fra «rischio» e «potere» e cioè di un principio imperativo che, ove fosse disposto in questi termini, risulterebbe di segno diametralmente opposto rispetto a quello – i.e., di totale dissociazione – implicitamente adottato da pressoché tutta la dottrina che si è occupata dei «diritti particolari riguardanti l’amministrazione» in società a responsabilità limitata. In realtà, come è ben noto, quel principio di rigorosa correlazione fra «rischio» e «potere», che pure ha “governato” il nostro diritto azionario per oltre mezzo secolo (dal codice civile alla riforma del diritto societario del 2003), ha certamente subito progressivi smottamenti ed erosioni nel corso degli ultimi vent’anni. Ma tali smottamenti ed erosioni non sono affatto stati tali (almeno ad oggi) da elidere del tutto un “nocciolo duro” di disciplina imperativa, la cui valenza sistematica non può non essere adeguatamente considerata ai nostri fini. È vero, infatti, che, già con la mini-riforma della società per azioni degli anni ’70 del secolo scorso (legge 7 giugno 1974, n. 216), il legislatore domestico aveva consentito alle (sole) società con azioni quotate l’emissione di azioni prive di diritto di voto (le cc.dd. azioni di risparmio): primo importante vulnus al principio un’azione, un voto (=rigorosa correlazione fra «rischio» e «potere»). È poi vero che, con la riforma del diritto societario di quasi quarant’anni successiva (d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), tale facoltà di [...]


5.2. Sulla correlazione fra «rischio» e «potere» nella disciplina delle società personali.

Le norme in materia di società personali cui occorre ora volgere lo sguardo per misurare la disciplina normativa, in tale contesto, circa la correlazione fra «rischio» e «potere» sono, essenzialmente, le due seguenti: a) quella che istituisce l’equazione «socio»=«amministratore» (art. 2257, comma 1, c.c.) e b) quella che definisce i poteri di «controllo» del socio/non-amministratore (art. 2261 c.c.). Quanto alla prima norma richiamata, è notorio come l’equazione anzidetta costituisca oggetto non di un vincolo imperativo, bensì di una presunzione semplice: l’autonomia statutaria può ben attribuire il ruolo di amministratore soltanto ad uno o più soci e, soprattutto, si badi bene, può attribuire un simile ruolo al socio o ai soci “eletti alla carica” (lo si dice, ovviamente, figurativamente), del tutto a prescindere dall’entità della relativa partecipazione proprietaria [44]. Per il nostro diritto delle società personali, insomma, non si dà formalmente alcun vincolo quantitativo imperativo fra l’apporto dell’investi­mento e quindi del «rischio» e il quantum di «potere»: il socio amministratore unico di società personale può disporre di prerogative gestorie assolute (=control tendenzialmente massimo), pure quando, in ipotesi, esso risulti titolare di una quota capitalisticamente marginale del patrimonio complessivamente conferito (=ownership tendenzialmente nulla) [45]. Né – ed eccoci all’altra norma sopra individuata – i poteri di «controllo» da parte dei soci/non-amministratori sono tali da limitare le prerogative di control del socio amministratore: il “controllo” regolato dall’art. 2261 c.c. attiene, infatti, non ad un controllo di merito suscettibile di influenzare la conduzione imprenditoriale della società (cioè al control nell’accezione che qui rileva), bensì allo stesso tipo di controllo informativo e di legittimità che in società per azioni è lato sensu esercitato dal collegio sindacale o (più in generale) dal­l’organo di controllo [46]. Insomma: può confermarsi che, là dove la governance di [...]


5.3. Sulla correlazione fra «rischio» e «potere» nella disciplina del fallimento.

Sebbene, sulle prime, ciò possa risultare meno evidente, in realtà, anche la «disciplina del fallimento» – e cioè, se si vuole, la disciplina (nei suoi termini essenziali) del credito concesso all’imprenditore commerciale – risulta assai rilevante ai nostri fini: quelli della ricostruzione sistematica della correlazione fra «rischio» e «potere» nel sistema e, in tal caso, non più il sotto-sistema del «diritto delle società» (di capitali e di persone), ma il più ampio sistema del «diritto dell’impresa» (individuale o collettiva). Se, infatti, si guarda al rapporto fra l’imprenditore (commerciale) X e il ceto creditorio Y, ci si rende subito conto di come esso ben possa risultare sostanzialmente assimilabile al rapporto che, nel diritto societario, si dà fra, da una parte, «soci che hanno potere ma non rischiano» (=il socio che, grazie ad una frazione infinitesima del capitale, dispone del potere di influenza sulla gestione) e, dall’altra, «soci che rischiano ma non hanno potere» (=i soci che, a dispetto dell’apporto pressoché totale del capitale, non hanno poteri di influenza sulla gestione). Si immagini, ad esempio, la seguente situazione-limite: quella di una certa impresa (commerciale) che sia “finanziata”: a) in misura infinitesimale dall’equity “apportata” dall’imprenditore X [53] e b) in misura assolutamente preponderante dal debt “apportato” dal ceto creditorio Y. Come noto, l’ordinamento non stabilisce – né nel diritto dell’impresa individuale, né nel diritto dell’impresa societaria – alcun limite imperativo in ordine al rapporto fra capitale proprio (equity) e mezzi di terzi (debt) [54]; ma proprio per questo, nulla esclude che una certa impresa commerciale possa essere finanziatain misura assolutamente preponderante dal debt (=credito fornito dal ceto creditorio) e in misura sostanzialmente marginale dall’equity (=apporto patrimoniale dell’imprenditore, sia esso individuale o collettivo). Ci si chieda ora: non è forse questa una situazione di totale divaricazione fra «rischio» e «potere» del tutto simile a quella dissociazione, la cui ammissibilità sistematica [...]


5.4. Sulla correlazione fra «rischio» e «potere» in alcuni fondamentali istituti di diritto privato.

È giunto ora il momento di lasciare la (importante) “provincia” del «diritto societario» e del «diritto dell’impresa» (cui speriamo di aver prestato sufficiente attenzione) per innalzare finalmente lo sguardo al «diritto privato tout court»: e ciò, beninteso, sempre con l’obbiettivo di verificare – come sembra già stia emergendo dall’esame del diritto della società di capitali, delle società di persone e del fallimento – se anche nel “centro” del complesso territorio gius-privatistico si trovino indizi di un principio imperativo di correlazione «rischio» e «potere», che possano poi consentirci di far ritorno, al nostro tema di partenza, con maggiore consapevolezza sistematica.


5.4.1. La decadenza dal beneficio del termine.

Una certa dissociazione fra «rischio» e «potere», nel diritto privato comune, è, innanzitutto, et pour cause,quella che si realizza “tipicamente” nel rapporto obbligatorio di debito/credito. Ed infatti: allorquando il soggetto «X» (creditore) si spoglia di propria ricchezza a favore di «Y» (debitore) – è facile rendersene conto –, ne consegue una situazione ove, in linea di principio, «Y» (=debitore) dispone di pieno «potere» sulla ricchezza (altrui) che è stata oggetto di prestito, mentre «X» (=creditore) è, sì, esposto al «rischio», ma, su quella ricchezza che ha fatto oggetto di prestito, ha perso ogni «potere». La situazione è, all’evidenza, sia pure mutatis mutandis, del tutto simile a quella dell’imprenditore commerciale che finanzi la sua impresa in parte (anche, in ipotesi, minimale) con «mezzi propri» (equity) e in parte (anche, in ipotesi, massimale) con mezzi di terzi (debt). Orbene, nel diritto dell’impresa commerciale, lo abbiamo appena visto, la correlazione «rischio»/«potere» è in tal caso preservata attraverso il medium del «cambio di controllo fallimentare»: i creditori non hanno alcun «potere» sulla ricchezza finanziaria apportata fintantoché l’imprenditore sia solvente; ma, non appena tale presupposto cessi di essere vero, essi riacquistano subito quella voice che (sempre attraverso il medium del controllo giudiziario) torna ad allineare con perfetta simmetria «rischio» e «potere». Nel diritto privato comune, a ben guardare, la stessa identica correlazione è realizzata attraverso un meccanismo, apparentemente assai diverso, ma, di fatto, sostanzialmente equipollente. Si tratta, in particolare, della disciplina dettata dall’art. 1186 c.c., norma che, sotto l’epigrafe di «decadenza dal termine» [73], stabilisce il fondamentale principio in forza del quale, quand’anche il creditore avesse pattuito un certo termine per la restituzione del prestito nell’interesse del debitore – quand’an­che, cioè, nei nostri termini, avesse accettato un periodo più o meno ampio di dissociazione fra «rischio» [...]


5.4.2. La disciplina del mandato.

Un secondo istituto di diritto privato comune cui ora mette conto volgere lo sguardo – sempre nel quadro di una ricostruzione sistematica della disciplina gius-privatistica di correlazione fra «rischio» e «potere» – è quello del contratto di mandato. Non è, infatti, difficile rilevare come anche con tale negozio si realizzi una certa (parziale) dissociazione fra «rischio» e «potere». Ed in questo preciso senso: la titolarità della posizione giuridica sottostante (=ownership) compete, ovviamente, soltanto al «mandante»; tuttavia, proprio grazie al mandato (e, ancor più marcatamente, alla procura), la titolarità del potere di incidere in quella sfera giuridica (=control) compete (altresì) al «mandatario» [80]. Ora, la regola-chiave rilevante ai nostri fini è quella dettata dall’art. 1723 c.c. [81]: «il mandante può revocare il mandato; ma, se era stata pattuita l’irre­vocabilità, risponde dei danni…». Possiamo tradurre in questi termini: il “diritto di riappropriarsi del control” è un diritto imperativamente indisponibile. Ed infatti: quand’anche, il mandante abbia pattuito l’irrevocabilità del mandato, ciò nonostante, egli potrà sempre revocare realmente (con efficacia reale) il mandato, salvo il solo risarcimento del danno. Il che val quanto dire che, ferma restando la indisponibilità “reale” del diritto di revoca (=riacquisizione esclusiva di control), spetterà all’owner valutare la convenienza fra (i) revocare il mandato anche ad nutum e pagare, se del caso, i danni (il costo monetario del breach) ovvero se (ii) mantenere il mandato, evitando il costo [82]. Il senso profondo di questa regola è perfettamente coerente con il generale principio di correlazione «rischio»/«potere»: la posizione giuridica in gioco “appartiene” al mandante e solo questi ha, quindi, titolo per valutare se sia più efficiente mantenere in piedi il control attribuito al terzo (la controparte contrattuale) ovvero se farlo venir meno. Niente affatto a caso le fattispecie nelle quali il mandato è eccezionalmente irrevocabile anche [...]


5.4.3. Tipicità dei diritti reali e disciplina dell'usufrutto.

L’ultimo istituto di diritto privato cui ci pare doveroso rivolgere lo sguardo è, infine, quello dei «diritti reali»: il che val quanto dire, quello della «proprietà» e della sua possibile frammentazione. Le ragioni non possono non risultare del tutto manifeste: se si vogliono (provare a) intendere i limiti sistematici della dissociazione fra «rischio» e «potere» e cioè, fra ownership e control, non si può, prima o poi, non esaminare a dovere quel «cuore» del sistema gius-privatistico ove, a monte, il legislatore ha definito una volta per tutte le modalità ed i limiti entro cui è ammessa una qualche disarticolazione fra «titolarità del diritto reale» (cioè essenzialmente, della proprietà) e «titolarità del potere connesso al suo esercizio». Prima di entrare nel merito di questa fondamentale questione, ci pare però utile rammentare il significato storico-sistematico di una mai sufficientemente rammentata «regola aurea» di questa fondamentale sezione del diritto privato: il principio di «tipicità» dei diritti reali. Anche da qui – lo vedremo – trarremo indicazioni utili ai nostri fini. Ebbene, come è stato ampiamente illustrato dalla migliore dottrina civilistica [84], il senso ultimo del «principio di tipicità», nell’epoca post-napoleonica è stato quello del “divieto di ripristino” dei diritti feudali e signorili e delle “redevances foncières perpetuelles» [85]. Se in un assetto (im-)produttivo di tipo signorile, poteva comprendersi che i “diritti” sulla cosa (=terra) potessero essere spezzettati (demembrés) in diritti destinati a circolare autonomamente l’uno dall’altro e, per lo più, destinati a circolare non tanto in forza di atti di scambio (=mercato) [86], bensì per lo più in funzioni di status sociali o per il “fatto naturale” della successione (iure haereditario), al contrario, in un assetto (iper-)produttivo di tipo capitalistico-borghese, la frammentazione del diritto di proprietà avrebbe reso di fatto impossibile l’uso “razionale” (leggasi: orientato al profitto) del bene [87]. Si comprende, dunque, appieno in che senso il [...]


6. Conclusioni.

Nel pervenire alla conclusione che il «diritto particolare riguardante l’am­ministrazione» possa consentire, in società a responsabilità limitata, l’adozio­ne di una governance con golden quota – una governance, cioè, compatibile con l’allocazione di (pressoché tutto il) «potere» in capo ad un socio (sostanzialmente) privo di «rischio» (poiché titolare di una frazione infinitesima del capitale) –, la nostra dottrina ha di fatto finito col ritenere (forse senza soverchia consapevolezza sistematica) che nel contesto della società a responsabilità limitata la leva «rischio»/«potere» potesse essere sostanzialmente azzerata. Essa è cioè finita con l’adottare un punto di vista iper-liberista in forza del quale, in ordine al quantum di correlazione fra «rischio» e «potere», non il legislatore con “diritto imperativo” (mandatory law), bensì gli operatori privati con “libertà di contratto” (freedom of contract)sarebbero tributari di “esclusiva sovranità”. La ricostruzione sistematica che si è provato qui a condurre non consente di aderirvi, né tanto meno di farlo a cuor leggero, giacché tutto il nostro sistema giuridico – diritto della società per azioni, diritto delle società personali, diritto del fallimento e, infine, istituti fondamentali del diritto privato (obbligazione, mandato, usufrutto) – rivela ancor oggi la persistenza di una importante, e resistente, cittadella di diritto imperativo che istituisce un quantum minimo inderogabile di correlazione fra «rischio» e «potere». La rivela, innanzitutto, quel diritto della «società per azioni» che, negli ultimi tre lustri, ha conosciuto importanti evoluzioni proprio in subiecta materia. Evoluzioni, queste, che tuttavia – pur a seguito della generalizzazione della facoltà di emissione di azioni non votanti, pur a seguito della rimozione del divieto di emissione di azioni a voto plurimo, pur, infine, a seguito del­l’intro­duzione (per le società quotate) delle cc.dd. loyalty shares – continuano ancor oggi a mantenere intatta quella «regola-chiave» (mandatory law, [...]


NOTE