Consente il nostro diritto della «società a responsabilità limitata» una sconnessione totale fra “diritti patrimoniali”(cash flow rights) e “diritti amministrativi”(votingrights)? È cioè ammissibile che una quotista disponga del diritto statutario di controllo unilaterale sulla gestione pur quando egli disponga di una frazione infinitesima del capitale sociale (cd. golden quota)?
Il presente saggio mette in questione le risposte sostanzialmente positive che la dottrina domestica ha per lo più reso agli anzidetti interrogativi. E lofa alla luce di un esame sistematico, innanzitutto, del diritto societario (segnatamente, diritto della «società per azioni») e, in secondo luogo, del generale diritto privato. In particolare, l’esame delle recenti disposizioni in materia di azioni a voto multiplo e cc.dd. loyaltyshares conferma, ad avviso dell’autore, l’esistenza/resistenza di una “cittadella” di diritto imperativo che istituisce un limite inderogabile di correlazione fra «rischio» (cash-flow rights) e «potere» (voting rights).
Does Italian corporate law of limited liability companies («società a responsabilità limitata») authorize total decoupling of cash flow rights and voting rights? In other word: is it legitimate for a «quotaholder» holding an infinitesimal fraction of such company’s capital to unilaterally control the management thereof pursuant to the relevant bylaws (s.c. golden quota)?
This article questions the affirmative response of the majority of Italian scholars to the above questions. It does so by systematically examining, firstly, Italian corporate law (namely, Italian law of corporations «società per azioni») and, secondly, private law as a whole.
In particular, the analysis of recent provisions regarding multiple voting shares and s.c. loyalty shares confirms, in the author’s view, the existence/ resistance of a “citadel” of mandatory law imposing imperative limits on the degree of decoupling between «ownership» (i.e. cash flow right) and «control»(i.e. voting rights).
KEYWORDS: governance of limited liability companies («società a responsabilità limitata») – golden quota – decoupling between «ownership» (i.e. cash flow right) and «control» (i.e. voting rights) – control enhancing mechanisms – mandatory limitation to freedom of contract in the field of limited liability companies («società a responsabilità limitata»)
CONTENUTI CORRELATI: governance di srl - golden quota - correlazione fra rischio (cash flow rights) e potere (voting rights) - control enhancing mechanisms - limiti imperativi alla libertà di contratto in materia di srl
1. Oggetto dell'indagine: «diritti particolari riguardanti l'amministrazione» e eventuali limiti all'autonomia privata. - 2. Gli orientamenti della dottrina circa la possibile ampiezza del «diritto particolare riguardante l'amministrazione». - 2.1. Diritto particolare quale «riserva» al socio privilegiato della carica gestoria (anche) a tempo indeterminato. - 2.2. Diritto particolare quale diritto di nomina della maggioranza o della totalità degli amministratori. - 3. La «riserva di esclusiva spettanza della gestione» agli amministratori (a seguito delle modifiche introdotte dal «Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza») e la sua eventuale incidenza sui «diritti particolari riguardanti l’amministrazione». - 4. Le potenzialità operative di un CEM illimitato nella governance della società a responsabilità limitata: estate planning e cc.dd. club deals. - 5. La correlazione fra «rischio» e «potere» nel sistema: diritto societario, diritto dell'impresa e diritto privato. - 5.1. Sulla (persistente) correlazione imperativa fra «rischio» e «potere» nella disciplina della società per azioni pur a seguito dell'introduzione delle «azioni a voto plurimo» e delle cc.dd. loyalty shares. - 5.2. Sulla correlazione fra «rischio» e «potere» nella disciplina delle società personali. - 5.3. Sulla correlazione fra «rischio» e «potere» nella disciplina del fallimento. - 5.4. Sulla correlazione fra «rischio» e «potere» in alcuni fondamentali istituti di diritto privato. - 5.4.1. La decadenza dal beneficio del termine. - 5.4.2. La disciplina del mandato. - 5.4.3. Tipicità dei diritti reali e disciplina dell'usufrutto. - 6. Conclusioni. - NOTE
Consente la “nuova” disciplina della «società a responsabilità limitata» di condurre la «dissociazione» fra «rischio» e «potere» ad una intensità (significativamente) maggiore rispetto a quella consentita al modello societario “concorrente” e segnatamente quello della «società per azioni»? o è vero, piuttosto, l’esatto contrario e cioè che i «limiti imperativi» di tale «dissociazione» debbano valere in termini sostanzialmente omogenei nell’intero ambito del diritto societario (quanto meno, delle cc.dd. società di capitali), sicché, in linea di ipotesi, i «vincoli di sistema» applicabili alla «società per azioni» devono intendersi altresì applicabili anche alla «società a responsabilità limitata»?
È questa la domanda-chiave che costituisce oggetto della presente indagine e rispetto alla quale ci riterremo soddisfatti se riuscissimo quanto meno a porre le basi affinché ad essa si dia una risoluzione (quale che essa sia) di maggiore consapevolezza «sistematica» di quanto non si soglia fare per lo più.
Intendiamoci, dunque ed innanzitutto, sull’oggetto della questione.
Quando si pone nei termini in cui lo si è appena fatto il «tema» della dissociazione «rischio»/«potere», è evidente (come dovrebbe risultare ovvio ad un lettore minimamente avveduto) che ci si riferisce a quel dibattitto, vecchio quasi quanto il diritto societario, che ha indagato ed indaga – non solo de iure condito, ma anche (e soprattutto) de iure condendo – l’an e il quomodo di ciò che, nella letteratura anglosassone (ove il tema è stato oggetto di studi grande pregio) [1], è descritto in termini di decoupling fra cash-flow rights e voting rights (dissociazione “asimmetrica” fra diritti patrimoniali e diritti di voto).
Precisamente: in linea di principio e cioè conformemente al “classico” principio «un’azione [o una “quota”], un voto» (one share, one vote), se il soggetto X effettua un investimento societario di 100 su un complessivo investimento (da parte di tutti i soci co-investitori) di 1000, è “normale” assumere che X
(i) avrà diritto ad un 1/10 dei benefici economici derivanti dall’investimento (diritto agli utili, diritto alla distribuzione di riserve, diritto alla quota di liquidazione: cc.dd. cash flow rights);
(ii) avrà diritto ad 1/10 dei “voti” attraverso i quali egli potrà esercitare “influenza” sulla gestione dell’investimento (cc.dd. voting rights).
Altrimenti detto: “di regola”, al «rischio» assunto da X (l’investimento di 100) corrisponde un «potere» che, per un verso, è perfettamente proporzionale al «rischio» e, per altro verso, è perfettamente proporzionale all’interesse economico sottostante (=nessun decoupling fra cash-flow rights e voting rights).
Questo, dunque, è il regime ordinario di default.
Ma, come è ben noto, tale regime ordinario di default subisce in pressoché tutti gli ordinamenti giuridici occidentali – incluso il nostro – deroghe più o meno estese e più o meno intese. In particolare, per quel che qui riguarda,
(i) è, innanzitutto, degno di nota che una certa «dissociazione» (=decoupling) fra «rischio» e «potere» è certamente consentita dal nostro attuale diritto della «società per azioni» (come meglio si vedrà oltre);
(ii) ed è, in secondo luogo e soprattutto, altrettanto degno di nota che, sempre nel nostro diritto della «società per azioni», tale «dissociazione» è, sì, consentita ma, attenzione, solo e soltanto entro precisi limiti inderogabili peraltro recentemente, sì, modificati nel quantum, ma confermati nell’an (di nuovo, come meglio si vedrà oltre).
Posto poi che prospettare (sia pure, allo stato, in via problematica) l’esistenza di «limiti imperativi» alla dissociazione fra «rischio» e «potere» anche con riguardo alla «società a responsabilità limitata» significa null’altro che prospettare argini normativi alla «autonomia privata», la stessa questione-chiave posta in esordio potrebbe essere riformulata in questi termini: sono tali (ipotetici) limiti alla freedom of contract desumibili solo e soltanto dal «sistema» del diritto societario (a seconda del caso, diritto delle società di capitali o diritto societario tout court)? ovvero occorre non fermarsi al mero «diritto societario» e innalzare piuttosto lo sguardo al più ampio «sistema» del «diritto privato» (di cui il diritto societario è una provincia, importante, sì, ma pur sempre provincia)?
Orbene, tutti questi interrogativi (che, come ci si rende facilmente conto, sono tutti riconducibili all’unico interrogativo-chiave che è oggetto di indagine) si pongono, con specifico riguardo al regime della (nuova) «società a responsabilità limitata», in ragione di quella che, non a torto, è stata salutata dagli interpreti (e, potremmo aggiungere, per quanto a noi consti, anche dalla prassi) come la disposizione più innovativa e più densa di conseguenze (tanto teoriche, che pratiche) che sia stata introdotta, in subiecta materia, dal legislatore della riforma del 2003.
Ci si riferisce, segnatamente, alla norma (art. 2468 c.c.) che, dopo aver istituito il principio di default di «proporzionalità fra diritti sociali e quota di partecipazione» (secondo comma) – o, per dirla in altre parole, dopo aver dettato il «principio-di-fondo» di correlazione fra «ownership» e «control» –, fa poi salva la “possibilità che l’atto costitutivo preveda l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti l’amministrazione”.
È, infatti, proprio attraverso il medium del «diritto particolare riguardante l’amministrazione» ex art. 2468, terzo comma, c.c. – e cioè un istituto che costituisce tratto discretivo tipologico della «s.r.l.» vis-à-vis la «s.p.a.» – che, almeno a prima vista, si potrebbero aprire potenziali scenari di una dissociazione fra «rischio» e «potere» prima ignoti al diritto societario (non solo quello della società a responsabilità limitata, ma del diritto societario tout court).
Basti qui anticipare che:
– “se” il «diritto particolare riguardante l’amministrazione» potesse legittimamente consistere nel diritto, attribuito ad un singolo quotista, di conseguire e preservare una posizione di unilaterale controllo sulla gestione dell’impresa sociale, e ciò – si badi bene – del tutto a prescindere dal rilievo percentuale del di lui investimento nell’organismo societario (i.e., del tutto a prescindere dal “peso percentuale” della quota del socio beneficiato dal «diritto particolare»);
– “allora”, la domanda-chiave posta all’inizio avrebbe già trovato la sua netta risposta; risposta che, invero, così suonerebbe:
sì, il (nuovo) diritto della società a responsabilità limitata consente una dissociazione “totale” fra «rischio» e «potere»; sì, il diritto della società a responsabilità limitata non conosce affatto quei limiti all’autonomia privata che altre “province” del diritto societario (segnatamente, quella che disciplina le «società per azioni») continuano a “subire”; sì, il diritto della società a responsabilità limitata rende disponibile agli operatori un control enhancing mechanism (cd. CEM), ovvero un meccanismo di rafforzamento più-che-proporzionale del «potere» rispetto al «rischio», di potenza – si presti bene attenzione – letteralmente infinita.
Poiché il thema indagandum ci ha condotto – come era assolutamente inevitabile che fosse – sull’argomento, assai attuale, dei CEMs, può essere utile – ancora in questa sede introduttiva – spendere qualche parola in proposito.
Può, infatti, valer la pena ricordare che il tema della dissociazione fra «rischio» e «potere» ha avuto, nell’ultimo ampio decennio, almeno due o tre momenti di particolare “auge” scientifica e persino mediatica.
Il primo momento è riconducibile all’inizio del primo decennio del secolo corrente, allorquando in sede europea [2] si valutò l’opportunità di far assurgere al principio di proporzionalità «rischio»/«potere» (i.e.,al principio un’azione, un voto) il rango di regola imperativa euro-unitaria; valutazione che, tuttavia, condusse all’esito negativo, preferendosi lasciare agli Stati membri la facoltà di disciplinare internamente la materia. Inutile dire che, se fosse prevalso l’orientamento opposto, ne sarebbe derivato – a livello euro-unitario – qualcosa come un divieto (più o meno assoluto) di CEM ovvero, il che è lo stesso, l’erezione del principio one share, one vote al rango di “diritto costituzionale societario”.
Il secondo momento – che ci riguarda più da vicino – è quello più recente (circa un lustro fa) ed è, in particolare, quello che, sulla scorta del Report on the Proportionality Principle in the European Union del 2007, commissionato dalla stessa Commissione Europea [3] e, soprattutto, del Quaderno Giuridico Consob del 2014 [4], ha condotto a due importanti modifiche normative del diritto societario e del diritto societario delle società quotate in particolare: (i) la rimozione del divieto delle azioni a voto multiplo (a seguito della novella dell’art. 2351 c.c.); e (ii) l’introduzione delle cd. loyalty shares (o, per essere più precisi, del meccanismo di raddoppio del voto per gli azionisti di società quotate che mantengano l’investimento per un certo periodo di tempo) (artt. 127-quinquies, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, d’ora innanzi, TUF). In tal caso, l’intervento del legislatore è stato non solo niente affatto ostile ai CEMs – e cioè a forme di maggiore «dissociazione» fra «rischio» e «potere» –, bensì, all’evidenza, ad esso favorevole.
Infine – ed anche questo ci riguarda da vicino – un terzo momento significativo di rilevanza del tema dei CEM è quello legato ai recenti o recentissimi casi di migrazione all’estero di talune fra le più importanti società quotate italiane; migrazione motivata, almeno inter alia, proprio dall’apprezzamento che gli operatori privati mostrano rispetto a ordinamenti (su tutti, quello olandese) che, con riguardo ai CEMs, mostrano un atteggiamento ben più “liberale” rispetto a quello domestico [5].
Beninteso: nei recenti casi assurti all’onore della cronaca, il tema del decoupling fra voting rights e cash-flow rights (o, se si vuole, il tema dei CEMs, control enhancing mechanisms) lo si è posto a) con riguardo a società per azioni – e non invece a società a responsabilità limitata – e per di più b) con riguardo a società per azioni public e cioè quotate; sicché (lo si dica qui in termini davvero dubitativi) i temi sottostanti potrebbero rivelarsi diversi rispetto a quelli che si possono ipotizzare allorquando di un analogo decoupling si parli con riguardo a a) società a responsabilità limitata e, per di più, di b) una società a responsabilità limitata cui è preclusa (quanto meno per i titoli rappresentativi di equity) la sollecitazione del pubblico risparmio/la quotazione in borsa.
Ma, sia pure con questi chiarimenti, è indubbio che quando si intende trattare, in modo sistematicamente appropriato, il tema che si è posto in esordio – ovvero: i «limiti», se vi sono, alla dissociazione «rischio»/«potere» nello specifico contesto della società a responsabilità limitata –, non si può trascurare del tutto il più ampio dibattito scientifico entro cui esso deve essere appropriatamente trattato.
Prima di esaminare in dettaglio i variegati orientamenti della nostra dottrina in ordine all’ampiezza dei «diritti particolari riguardanti l’amministrazione» ci paiono doverose due notazioni preliminari.
Una prima notazione è diretta a ribadire, per così dire, il movente metodologico del presente studio. Ebbene: nel contribuire a definire il “perimetro” dei «diritti particolari» in questione, la nostra dottrina ha per lo più mostrato un atteggiamento che potremmo definire meramente “esegetico”: con ciò volendosi sottolineare (con qualche arbitrarietà da parte nostra) che il piano dell’interpretazione prescelto è rimasto quello della mera «interpretazione letterale» con assai sporadici tentativi di giustificare gli esiti ermeneutici (quali che essi fossero) su un piano, per così dire, «teleologico» e/o «sistematico». È invece rimasta largamente assente – come ci accingiamo a vedere in dettaglio – ogni valutazione circa gli effetti che l’una o l’altra soluzione prospettata potesse avere sul piano della «dissociazione» fra «rischio e potere». Ed è, per l’appunto, proprio questo deficit di analisi o consapevolezza critica che si vorrebbe (provare a) colmare.
Una seconda notazione preliminare riguarda, invece, la sottolineatura delle due “direttrici ermeneutiche di fondo” che, in modo più o meno marcato e più o meno esplicito, hanno ispirato le soluzioni interpretative poi concretamente prospettate e che ci si accinge ad esaminare. Si tratta in particolare:
– per un verso, del condiviso maggior rilievo “personalistico” che connoterebbe la figura del socio nella società a responsabilità limitata post-riforma alla luce della legge-delega che della riforma ha costituito la premessa [6]; e
– per altro verso, dell’altrettanto condiviso maggior orientamento “filo-liberale” (=ampliamento dell’autonomia privata) che percorrerebbe funditus l’intera riforma del 2003 [7].
Per dirla in modo un po’ grossolano: favor al “personalismo” e favor alla «autonomia» privata costituiscono, insieme, il terreno sul quale hanno poi germogliato le posizioni esegetiche assunte dalla nostra dottrina, che non ha forse esaminato a fondo la circostanza che il principio generale del rafforzamento dell’autonomia statutaria (per espressa indicazione della legge-delega che ha dato luogo alla riforma del 2003) dovesse pur sempre trovare un contemperamento nelle “esigenze di tutela dei diversi interessi coinvolti” [8].
Con queste premesse possiamo ora procedere ad esaminare gli orientamenti formatisi ad oltre tre lustri dalla richiamata riforma.
Che il diritto particolare del socio possa – innanzitutto – acquisire le forme di una «riserva» a tempo indeterminato della carica gestoria a beneficio di un socio (il “beneficiario” del «privilegio»), è conclusione che, dopo la sua prima espressione da parte di assai autorevole dottrina [9], è stata poi condivisa da pressoché tutti i successivi interpreti [10].
Ad una simile conclusione si è pervenuti, in primis, valorizzando la dizione dell’art. 2479, comma 2, n. 2, c.c.: se è, infatti, vero che tale norma esordisce riservando certe materie “in ogni caso” alla competenza dei soci, è anche vero che, quando poi essa individua la specifica materia della «nomina degli amministratori», la disposizione ha modo di precisare “se prevista nell’atto costitutivo”. Pare, dunque, gioco forza concludere che il sistema normativo consenta senz’altro all’autonomia statutaria la diversa scelta di non riservare ai soci la nomina dei gestori.
Ma alla stessa conclusione si è pervenuti, altresì, anche alla luce dell’art. 2475, comma 3, c.c.: norma che consente alla «società a responsabilità limitata» l’adozione di una governance amministrativa del tutto analoga a quella delle c.d. società di persone, ove – come ben noto – l’assunzione del potere gestorio prescinde (di regola) da un atto di nomina ed inerisce invece, a monte, alla stessa qualità di «socio».
A fronte, dunque, di una (pacifica) non-imperatività del meccanismo che riserva alla compagine sociale (tramite assemblea o tramite altra forma di espressione del consenso) la «nomina» del titolare della carica gestoria, la dottrina non esita a concludere che nulla osta (o osterebbe) a che, grazie al meccanismo del diritto particolare ex art. 2468, comma 3, c.c., una società a responsabilità limitata possa adottare una governance che veda il socio X titolare sine die del potere di amministrare.
Due notazioni paiono subito assai rilevanti ai nostri fini: in primis, è importante sottolineare come l’orientamento in esame ritiene espressamente possibile l’attribuzione diretta dell’ufficio di amministratore al singolo socio del tutto a prescindere dall’entità della sua partecipazione «capitalistica» (ovvero indipendentemente dal quantum della sua partecipazione sociale) [11]; in secundis, è parimenti importante sottolineare come detto indirizzo ammetta l’attribuzione in parola anche nel caso in cui il socio privilegiato sia l’unico amministratore [12].
Si immagini, ad esempio, che il socio X dell’esempio sia un socio cui sia riferibile solo una frazione marginale del capitale sociale (ad es., lo 0,1%). Ebbene: una volta che tale circostanza – i.e., la assoluta marginalità del capitale sociale rappresentato (=rischio) dal socio destinatario del «privilegio gestorio» (=potere) – sia ritenuta del tutto irrilevante, ciò vuol dire legittimare tout court (ovvero ritenere compatibile con il regime della società a responsabilità limitata) una dissociazione, virtualmente illimitata, fra «rischio» e «potere».
Sarebbe stato, invero, possibile – almeno in linea di principio – ammettere, sì, la diretta attribuzione dell’ufficio di amministratore, ma soltanto sul presupposto del superamento, da parte del socio privilegiato, di una qualche soglia di partecipazione proprietaria (ownership) [13]; così come sarebbe stato possibile – almeno in linea di principio – ammettere, sì, la diretta attribuzione dell’ufficio di amministratore, ma soltanto sul presupposto della condivisione del ruolo gestorio con un certo ponderato numero di altri amministratori, questi ultimi eletti non in forza di una prerogativa speciale (di cui all’art. 2468, comma 3, c.c.), bensì con l’ordinario criterio proporzionale (di cui all’art. 2468, comma 2, c.c.) (ossia: in nome di un certo equilibrio fra i titolari di ownership) [14].
La circostanza, invece, che la speciale prerogativa gestoria in questione sia ritenuta possibile (i) del tutto a prescindere dall’incidenza percentuale della partecipazione del socio privilegiato ed inoltre (ii) anche allorquando quest’ultimo sia (non semplicemente, amministratore, ma segnatamente) “amministratore unico”, apre la strada, all’evidenza, ad una radicale divaricazione fra «rischio» e «potere» [15].
Per la nostra unanime dottrina è, insomma, ben possibile che anche il socio la cui partecipazione sia minimale (ownership o «rischio» assai modesto) possa ciò nonostante disporre di una capacità di influenza gestoria, potremmo dire, non semplicemente più-che-proporzionale, ma addirittura massima (control o «potere» assoluto). Per la nostra dottrina, in altri termini, la «leva proprietaria» (rapporto fra l’unità di «potere» e l’unità di «rischio») in una società a responsabilità limitata può elevarsi, in termini schiettamente matematici, fino all’infinito.
Soluzione questa, beninteso, non già pregiudizialmente errata; ma che avrebbe forse richiesto maggiore consapevolezza critico-sistematica.
Coerentemente con l’orientamento che si è appena rappresentato, la dottrina largamente maggioritaria [16] ritiene altresì possibile che il «diritto particolare» possa consistere – in luogo dell’assegnazione diretta dell’ufficio di amministratore – nell’attribuzione del potere di nomina dei membri dell’organo gestorio [17].
Al rilievo critico sollevato da dottrina minoritaria [18], fondato, tuttavia, niente affatto in nome di un principio di correlazione «rischio»/«potere», bensì, meno sistematicamente, su un mero dato testuale – segnatamente: dal disposto dell’art. 2479, comma 2, c.c., «in ogni caso, [è] riservat[a] alla competenza dei soci, …, la nomina, se prevista nell’atto costitutivo, degli amministratori» e, in particolare, dall’inciso iniziale «in ogni caso» si trarrebbe l’indicazione (questo l’argomento testuale) dell’inderogabile competenza sociale, sia essa assembleare o extra-assembleare, in subiecta materia –, a tale rilievo, si diceva, la dottrina maggioritaria ha avuto buon gioco nell’opporre un facile argomento testuale di segno diametralmente opposto qual è quello desumibile dall’inciso finale «se prevista nell’atto costitutivo» contenuto nella stessa disposizione di legge (art. 2479 c.c.). Tale “precisazione”, si è constatato, varrebbe a circoscrivere la – si dice – niente affatto inderogabile competenza sociale ai soli casi nei quali l’atto costitutivo non contenga una diversa disciplina di governance, qual è, ad esempio e per l’appunto, quella conseguente all’attribuzione ad un singolo socio di un «diritto particolare». Non dunque di norma imperativa si tratterebbe, ma di semplice clausola di default rimessa pienamente all’autonomia privata.
Anche, in tal caso, ciò che conta ai nostri fini è che l’ammissibilità di una simile speciale prerogativa (potere di nomina degli amministratori attribuito ad personam) è affermata dalla dottrina maggioritaria del tutto a prescindere dall’entità della partecipazione capitalistica detenuta dal socio privilegiato; ed è affermata non solo con riguardo alla facoltà di nomina di «un» singolo membro dell’organo gestorio (il che “garantirebbe” al socio privilegiato una rappresentanza presso l’organo gestorio, ma non necessariamente determinante), bensì anche con riguardo alla «maggioranza» ovvero (addirittura) la «totalità» dei suoi membri (il che, al contrario, “assicura” una posizione di dominio assoluto: ovvero titolarità di control).
È di immediata percezione l’identico effetto, in termini di scissione fra ownership e control conseguente all’articolazione del «diritto particolare», piuttosto che come diretta attribuzione dell’ufficio di amministratore (unico), come diritto di nomina della maggioranza o della totalità dei membri del consiglio di amministrazione: la sola differenza fra l’uno e l’altro caso riducendosi, infatti, alla natura (nel primo caso) diretta o (nel secondo caso) indiretta di un «potere» (control) comunque, in entrambi i casi, assoluto.
Vero è poi che la stessa dottrina che ammette, negli ampi termini appena visti, il possibile contenuto dei «particolari diritti» vi individua un limite imperativo inderogabile nelle materie di cui all’art. 2475, comma 5, c.c. (redazione del progetto di bilancio, redazione dei progetti di fusione o scissione, aumento di capitale delegato): poiché, con riguardo a queste ultime, il legislatore attribuisce il potere deliberativo «in ogni caso» alla competenza dell’organo amministrativo e, soprattutto, senza far salva (in tal caso) una eventuale «diversa disposizione dell’atto costitutivo» (salvezza, invece, prevista expressis verbis con riguardo alla nomina degli amministratori), se ne dovrebbe trarre la conclusione che giammai tali peculiari decisioni (lato sensu) gestorie potrebbero costituire il contenuto di «particolari diritti» ai sensi dell’art. 2468, comma 3, c.c. [19].
Ma, a parte ogni considerazione circa la condivisibilità di una simile conclusione [20], è assorbente il rilievo che l’esclusione delle decisioni “protette” – in materia di redazione del bilancio, redazione dei progetti di operazioni straordinarie e di aumento di capitale delegato – dal novero di quelle suscettibili di essere oggetto di prerogativa speciale del socio privilegiato, non ne attenuerebbe se non marginalmente il «potere» gestorio (control). Tale limite, insomma, quand’anche effettivamente vigente, non attenuerebbe affatto la piena divaricazione (ritenuta pacificamente ammissibile) fra «rischio» e «potere» [21], fra ownership e control.
Neppure potrebbe ritenersi mitigata una simile piena divaricazione fra «rischio» e «potere» dall’orientamento assunto dalla dottrina circa la (presunta) inderogabilità dell’ordinario regime di proporzionalità sancito dall’art. 2468, comma 2, c.c. con riguardo al «diritto di voto» in ogni altro caso diverso dalla formazione dell’organo esecutivo [22]: con la conseguente ritenuta inammissibilità dell’“emissione” (in senso a-tecnico) di quote a voto limitato o senza diritto di voto ovvero di quote a voto plurimo [23].
Anche in tal caso, a parte ogni considerazione circa la coerenza sistematica di un simile indirizzo [24], è assorbente la considerazione che – a fronte della conformazione nel senso ritenuto possibile dalla nostra dottrina dei «diritti particolari dei soci» in materia di amministrazione – l’eventuale “resistenza” di un’area di inderogabile regime di proporzionalità riguarderebbe materie, per definizione, estranee al potere di ordinaria e straordinaria amministrazione.
Insomma, può di nuovo constatarsi come l’eventuale regime di necessaria proporzionalità del diritto di voto rispetto a materie diverse dall’amministrazione non intaccherebbe in alcun modo la libertà dell’autonomia privata di conformare una governance (sul piano, che è quello che qui interessa, essenzialmente gestorio) di piena e potenzialmente illimitata divaricazione fra «potere» (=control) e «rischio» (=ownership).
Questo è, in sintesi, il quadro, dai contorni assai netti, che emerge dalla dettagliata analisi degli orientamenti formatisi sulla portata dei «diritti particolari riguardanti l’amministrazione» in società a responsabilità limitata.
La recentissima approvazione del «codice della crisi di impresa e dell’insolvenza» (con d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14) [25] ha determinato, inter alia, la modifica di una norma di cui è ora opportuno valutare l’eventuale impatto sul tema di cui qui si discute.
Ci si riferisce, in particolare, al “nuovo” art. 2475 c.c., che, nella nuova formulazione, sancisce il principio secondo cui la «gestione dell’impresa …. spetta esclusivamente agli amministratori i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale».
Sebbene, invero, le modifiche apportate dal «codice della crisi» abbiano lasciato del tutto inalterato l’art. 2468, comma 2, c.c. (la norma, cioè, sui «diritti particolari»), appare comunque doveroso chiedersi se il principio, ormai esplicito [26], secondo cui la gestione dell’impresa competa esclusivamente agli amministratori possa avere un qualche impatto sulla portata dei «diritti particolari dei soci riguardanti l’amministrazione» e, in particolare, sul loro utilizzo quale “illimitato” control enhancing mechanism (CEM).
Ci sembra che alla domanda [27] possa senz’altro rispondersi negativamente: la circostanza che il legislatore abbia voluto esplicitare la “esclusività” dei poteri di gestione in capo agli amministratori può, a tutto voler concedere, avere effetti sui criteri generali di riparto di competenze interne fra «soci» in quanto tali (o assemblea) e «amministratori» in quanto tali (organo di amministrazione) [28]; ma appare del tutto insuscettibile di incidere sulla intensità dei «diritti particolari» o, per essere più precisi, sul loro utilizzo – ciò che unicamente conta ai nostri fini – come strumento di separazione (potenzialmente illimitata) fra «rischio» (entità dell’investimento) e «potere» (potere di influenza sulla gestione).
Questo è, innanzitutto, del tutto evidente nel caso in cui il «diritto particolare» si atteggi sub specie di attribuzione sine die del ruolo di «amministratore unico» ad un certo socio (che, in ipotesi, sia titolare di una frazione infinitesima del capitale). Qui, la circostanza che il potere gestorio spetti “esclusivamente” all’amministratore (come ora sancito expressis verbis dall’art. 2475 c.c.) – e cioè al «socio» cui le vesti (aggiuntive) di «amministratore unico» sono attribuite come «diritto particolare» – non ha il benché minimo impatto sulla totale divaricazione fra, da una parte, entità dell’investimento («rischio») effettuato dal socio “privilegiato” e, dall’altra parte, il quantum di potere che ad esso è attribuito. Sarà pur vero che, in tal caso, il potere di «gestione dell’impresa» spetterà esclusivamente allo «amministratore unico» (in quanto amministratore e non certo in quanto socio avente un diritto particolare) e che, proprio in ragione di tale esclusività, nessuna competenza “gestoria” possa essere attribuita ai «soci» (in quanto soci); ma, se è vero – ed è questo il solo aspetto che qui conta – che tale «amministratore unico» con potere esclusivo di gestione (nella nuova accezione di cui all’art. 2475 c.c.) ben può essere – grazie al medium del «diritto particolare» – un socio cui sia imputabile una frazione infinitesima del capitale, allora, ciò vuol dire che la divaricazione fra «rischio» e «potere» resta massima (o illimitata) in termini assolutamente immutati.
Considerazioni analoghe possono svolgersi con riguardo al caso in cui il «diritto particolare» si atteggi come diritto di nomina della totalità (o della maggioranza) degli «amministratori» e/o dell’«amministratore unico». Di nuovo: sarà pur vero che gli «amministratori» o l’«amministratore unico», designati dal socio “privilegiato”, saranno, in tal caso, titolari esclusivi del potere di gestione (nell’accezione di cui al “nuovo” art. 2475 c.c.); ma, se, a monte, il diritto di nomina di tale amministratore o amministratori esclusivi è attribuito – grazie al medium del «diritto particolare» – ad un socio cui sia riferibile una quota infinitesima del capitale, ancora una volta, il decoupling fra ownership(«rischio») e control («potere») resta, in termini immutati, potenzialmente infinito.
Possiamo, dunque, concludere: quale che sia l’impatto della novella del-l’art. 2475 c.c. (con la nuova esplicita sanzione di «esclusività di potere gestorio» in capo agli amministratori) sul riparto interno di competenze fra «soci» e «amministratori», trattasi di impatto comunque irrilevante rispetto al profilo che qui occupa.
Altrimenti detto: se la conclusione raggiunta dalla dottrina sopra esaminata circa la possibile conformazione del «diritto particolare» quale illimitato control enhancing mechanism (CEM) “vale” o “regge”, ebbene, essa continuerà a “valere” o a “reggere” telle quelle anche alla luce del “nuovo” art. 2475 c.c.
È indubbio che, se la conclusione cui è pervenuta la nostra pressoché unanime dottrina in ordine alla illimitatezza dei CEM nella società a responsabilità limitata potesse essere assunta come valida senza riserve (ciò che sarà precipuo oggetto di analisi nel prosieguo), le potenzialità in termini di (massima) flessibilità della governance della società a responsabilità limitata, sotto lo specifico profilo di un illimitato decoupling fra ownership e control, diventano enormi.
Basti qui menzionare quanto meno due possibili usi nella prassi.
Il primo – assai rilevante – degno di nota è quello connesso alle esigenze di estate planning (pianificazione successoria) soprattutto negli ordinamenti, qual è il nostro, che continuano ad essere ispirati, in materia successoria, al «principio di legittima» (forced heirship)(superabile anche, ma solo in parte, con lo strumento dei «patti di famiglia»).
È, invero, ben noto che il principio di legittima può costituire un grosso ostacolo rispetto a quel titolare di un significativo patrimonio per lo più concentrato in un’unica firm (impresa societaria in quale forma che sia) che, da una parte, voglia assicurare un trattamento patrimoniale fair a tutti i propri eredi, ma che, dall’altra parte, voglia altresì preservare una gestione adeguata (=rimessa cioè nelle mani di chi risulti essere maggiormente dotato di entrepreneurial skills) di quell’impresa.
Il problema, in tali casi, è per l’appunto quello di dissociare la “linea” del passaggio puramente proprietario (=cash flow rights e cioè ownership) rispetto alla “linea” del passaggio delle leve gestorie (=voting rights e cioè control); dissociazione, peraltro, che, in linea di principio, il fondatore di una firm può auspicare – si faccia bene attenzione – non solo con riguardo al “primo” passaggio generazionale (allorquando la dispersione proprietaria è verosimilmente minore, per quanto ampia possa essere la schiera dei legittimari), ma anche, ed anzi soprattutto, per quelli successivi e, dunque, potenzialmente per saecula saeculorum (allorquando, invece, la dispersione proprietaria è inevitabilmente destinata ad accrescersi).
Ebbene, rispetto a tale esigenza – particolarmente significativa in un ordinamento socio-economico qual è il nostro dove l’impresa a proprietà familiare costituisce l’ossatura fondamentale del nostro sistema economico –, la disponibilità di un CEM privo di limiti – ove esso risultasse davvero compatibile con i principi imperativi del nostro diritto societario e privato – rappresenta la “soluzione perfetta”.
Si immagini, ad esempio, che il soggetto X sia il proprietario assoluto di una holding di un importante gruppo societario e che abbia, quali legittimari, cinque discendenti.
Ebbene: una volta che per la holding in questione sia stata adottata – attraverso lo schema di una società a responsabilità limitata con «diritto particolare» – una governance che assicuri una totale dissociazione fra ownership e control ed una volta, in particolare, che lo “intero” potere di control rispetto alla predetta holding sia stato collocato presso una società/quotista che, a dispetto della natura infinitesima della partecipazione nel capitale della holding, sia però titolare esclusiva/o del potere di influenza sulla gestione, l’obbiettivo è raggiunto:
– le quote “patrimoniali” potranno essere trasmesse nel rispetto dei vincoli conseguenti al principio di legittima;
– la golden quota “gestoria” potrà essere trasmessa sulla base della selezione – nella prospettiva dell’estate planner – di colui o colei che, ai suoi occhi, risulti il miglior “timoniere” della “nave imprenditoriale”.
Naturalmente, perché un simile assetto di governance possa adeguatamente assolvere alle esigenze di un (auspicabilmente illuminato) estate planning, occorre poi assicurare che i successivi passaggi proprietari della golden quota “gestoria” siano governati da certi principi che, non solo con riguardo al “primo” passaggio, ma anche con riguardo ai “successivi”, assicurino (o tendano ad assicurare) che tale golden quota “gestoria” si trovi sempre nelle mani del soggetto dotato delle migliori entrepreneurial skills.
Ma – senza che sia questa la sede per entrare in questi (pur importanti) dettagli – può qui essere sufficiente rilevare come, senza dubbio, la disponibilità di un assetto di governance che renda possibile un CEM illimitato, qual è quello che parrebbe reso possibile dai «diritti particolari» di società a responsabilità limitata – ben possa prestarsi a interessanti utilizzi nel quadro di un certo tipo di pianificazione successoria.
Un secondo possibile uso di questo strumentario nella prassi è, poi, quello che è dato constatare nel variegato mondo del private equity e, in particolare, in quello dei cc.dd. club deals [29] e cioè di quei sindacati di investimento fra investitori (per lo più, sofisticati) che, una volta individuato uno o più target specifici, si “associano” mediante la creazione di un veicolo – appunto, per lo più, una società a responsabilità limitata – per l’effettuazione dell’investimento prescelto (che, a seconda del caso, può essere investimento di maggioranza o investimento di minoranza).
In tali casi, la dissociazione fra ownership e control (che, a seconda delle esigenze, può acquisire le più svariate forme) consente di ritagliare su misura una governance che tenga conto dei diversi ruoli fra – da una parte – i “promotori” veri e propri dell’iniziativa imprenditoriale che, pur contribuendo in misura infinitesima sul capitale (=ownership residuale), intendono mantenere una pressoché incondizionata leva “gestoria” (=control pieno) rispetto alla “gestione” dell’investimento prescelto e – dall’altra parte – gli “investitori”/
aderenti all’iniziativa che, simmetricamente, pur non avendo alcun interesse ad avere poteri di interlocuzione (“say”) sulla gestione (=control quasi-nullo), contribuiscono in misura preponderante al funding dell’iniziativa (=ownership quasi-piena).
Anche per questa esigenza, dunque, la precipua flessibilità della governance di una società a responsabilità limitata – grazie alla modulazione, ammessa dalla nostra dottrina, dei «diritti particolari» quale CEM illimitato – mostra tutte le sue virtù.
Con un’importante differenza, tuttavia. Nel caso del suo utilizzo come strumentario di estate planning, l’utilizzo del CEM è voluto proprio per la sua potenziale “eternità” (esso deve durare nel corso dei successivi passaggi generazionali e, dunque, virtualmente, per saecula saeculorum); nel caso, invece, del suo utilizzo come strumentario per la gestione di investimenti di private equity con club deal, esso è, invece, per lo più circoscritto all’orizzonte temporale tipico di queste operazioni (normalmente un quinquennio o poco più). Altrimenti detto: nel primo caso, la dissociazione fra ownership e control è programmata per essere sine die; nel secondo caso, invece, essa è voluta per un orizzonte temporale molto più breve.
Naturalmente, se una simile «governance con CEM illimitato» sia o meno compatibile con l’ordinamento (come ritenuto, con scarsa coscienza critica, da parte della nostra dottrina), non può certo dipendere dalla sua “durata”: se un certo atto di autonomia privata (un contratto o, in particolare, un contratto di società) è contrario a principi normativi, esso lo è del tutto a prescindere dalla circostanza che si tratti di un contratto con termine annuale ovvero di contratto a tempo indeterminato. Ma, certamente, la circostanza che un certo assetto di governance che, in ipotesi, potrebbe risultare “disfunzionale” (per qualche, seria, ragione), sia “strutturale” ovvero “temporaneo” potrebbe non essere del tutto priva di un qualche rilievo.
Abbiamo già rilevato come la conclusione (condivisibile o meno nel merito) circa la portata potenzialmente illimitata della dissociazione fra «rischio» e «potere» nella “nuova” società a responsabilità limitata – grazie al medium dei «diritti particolari riguardanti l’amministrazione» – sia stata raggiunta dalla nostra dottrina senza che la stessa fosse sottoposta ad un rigoroso test di «tenuta sistematica».
Abbiamo, inoltre, appena rilevato come sul fondo di tale conclusione dottrinale “liberista” abbiano preso piede nella prassi italiana (almeno) due “tipologie sociali” di utilizzo dello schema della società a responsabilità limitata con totale dissociazione fra «rischio» e «potere»: a) la società a responsabilità limitata utilizzata in prospettiva di pianificazione successoria (estate planning) e b) la società a responsabilità limitata utilizzata come veicolo di club deals.
È, dunque, ormai giunto il momento per eseguire quel test di tenuta sistematica che ci siamo riproposti di condurre in esordio. Ed è un compito cui qui di seguito assolveremo, muovendo innanzitutto dal diritto della «società per azioni» (anche alla luce di importanti recenti evoluzioni normative), passando poi per il diritto societario tout court (con particolare riguardo al diritto delle società personali) e il diritto dell’impresa (con particolare riguardo alla disciplina del fallimento), per concludere, infine, con il diritto privato generale.
Orbene, indagare il fenomeno della dissociazione fra «proprietà» e «controllo» nella società per azioni [30] significa, all’evidenza, occuparsi delle regole che disciplinano i limiti entro cui l’ordinamento consente di deviare dal principio-base in forza del quale ciascuna «azione» è dotata di identici diritti: tanto patrimoniali (=cash-flow rights) (art. 2350 c.c.), quanto c.d. amministrativi (=voting rights) (art. 2351 c.c.). Se, infatti, da tale principio-base non fosse in alcun modo consentito deviare, ci si troverebbe dinanzi ad un diritto azionario istitutivo del più rigoroso principio di correlazione fra «rischio» e «potere» e cioè di un principio imperativo che, ove fosse disposto in questi termini, risulterebbe di segno diametralmente opposto rispetto a quello – i.e., di totale dissociazione – implicitamente adottato da pressoché tutta la dottrina che si è occupata dei «diritti particolari riguardanti l’amministrazione» in società a responsabilità limitata.
In realtà, come è ben noto, quel principio di rigorosa correlazione fra «rischio» e «potere», che pure ha “governato” il nostro diritto azionario per oltre mezzo secolo (dal codice civile alla riforma del diritto societario del 2003), ha certamente subito progressivi smottamenti ed erosioni nel corso degli ultimi vent’anni. Ma tali smottamenti ed erosioni non sono affatto stati tali (almeno ad oggi) da elidere del tutto un “nocciolo duro” di disciplina imperativa, la cui valenza sistematica non può non essere adeguatamente considerata ai nostri fini.
È vero, infatti, che, già con la mini-riforma della società per azioni degli anni ’70 del secolo scorso (legge 7 giugno 1974, n. 216), il legislatore domestico aveva consentito alle (sole) società con azioni quotate l’emissione di azioni prive di diritto di voto (le cc.dd. azioni di risparmio): primo importante vulnus al principio un’azione, un voto (=rigorosa correlazione fra «rischio» e «potere»).
È poi vero che, con la riforma del diritto societario di quasi quarant’anni successiva (d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), tale facoltà di emissione di non voting stock è stata poi estesa a tutte le società azionarie: così quelle quotate (o aperte), come quelle non quotate (o chiuse) (art. 2351, comma 2, c.c.).
Ma è anche vero che anche il legislatore della riforma del 2003 ha ritenuto di dover mantenere del tutto intatta quella disposizione – che già vent’anni prima era stata autorevolmente definita quale «canone fondamentalissimo» del diritto societario [31] o mezzo secolo prima quale «chiave di volta del sistema tradizionale» [32] – in forza della quale le azioni ordinariamente votanti devono sempre rappresentare almeno la metà del capitale sociale [33].
Non è difficile rendersi conto di come una simile regola – almeno fino alla ulteriore riforma del 2014 (sulla quale ci intratterremo subito oltre) – istituisse il seguente preciso principio di correlazione fra «rischio» e «potere»: in una società per azioni, soltanto chi «rischia» almeno qualcosa in più del venticinque per cento del complessivo capitale conferito (=ownership), può disporre di un unilaterale «potere» di influenza nella gestione (=control) [34]. Altrimenti detto: rispetto alla leva «rischio»/«potere» che consegue al rigoroso principio un’azione, un voto, la regola in questione produce, sì, un dimezzamento (da >0,5 a >0,25); ma, appunto, dimezzamento, non già azzeramento (che è cosa ben diversa).
Anche la assai recente riforma del 2014 – mediante la quale è stato rimosso l’antico divieto di emissione di azioni a voto plurimo [35] – si presta ad una lettura, per così dire, ambivalente.
Se, infatti, la rimozione del divieto costituisce ulteriore conferma della derogabilità del principio di rigorosa correlazione fra «rischio» e «potere», è altrettanto vero che la circostanza che la rimozione del divieto sia stata accompagnata dall’istituzione di un preciso limite quantitativo al coefficiente di moltiplicazione – precisamente: massimo tre voti per azione – non può non essere letta come indice di una inequivocabile voluntas legis diretta a stabilire limiti invalicabili all’autonomia privata.
Anche qui, non è difficile rendersi conto di come l’utilizzo delle azioni a voto plurimo con il massimo coefficiente di moltiplicazione normativamente consentito finisca con il determinare un risultato sostanzialmente coincidente rispetto a quello che consegue all’utilizzo di azioni senza diritto di voto nella massima misura consentita: soltanto chi è titolare di qualcosa in più del venticinque per cento del capitale sociale (in ipotesi rappresentato da azioni a voto triplo) (=«rischio»), può disporre del controllo sulla gestione (=«potere») [36].
Altrimenti detto: tanto quel control enhancing mechanism (CEM) rappresentato dalla facoltà di emissione di azioni non votanti entro il limite della metà del capitale sociale (art. 2351, secondo comma, c.c.), quanto questo “nuovo” control enhancing mechanism (CEM) rappresentato dalla facoltà di emissione di azioni a voto plurimo nel limite di tre voti per azione (art. 2351, comma 4, c.c.), producono risultati – in termini di dissociazione fra «rischio» e «potere» – assolutamente equivalenti [37]. E l’uno e l’altro confermano che il legislatore consente, sì, “nuove” deviazioni dal principio un’azione, un voto, ma lo fa pur sempre solo e soltanto entro precisi limiti che pongono argini inderogabili all’autonomia privata.
Certo: la circostanza che, come comunemente ammesso, il legislatore consenta l’utilizzo congiunto dell’uno e dell’altro CEM («azioni a voto plurimo» cum «azioni senza diritto di voto») [38], ha, sì, prodotto un ulteriore abbassamento della leva «rischio»/«potere». Segnatamente: grazie ad una struttura di capitale che preveda che a) la metà del capitale sia rappresentato da azioni senza diritto di voto e che b) un quarto del capitale votante sia rappresentato da azioni con voto triplo, ne consegue un assetto ove anche chi dispone di “soltanto” qualcosa in più del dodici virgola cinque per cento del capitale sociale (ovvero: qualcosa in più di un ottavo del capitale), può disporre di un unilaterale potere di influenza (in altri termini: la leva «rischio»/«potere» si è ulteriormente dimezzata da >0,25 fino a >0,125).
Ma, ulteriore abbassamento della leva «rischio»/«potere» non significa affatto – qui sta il punto – sua totale liberalizzazione.
Si noti bene: se le azioni a voto multiplo fossero state introdotte dal legislatore del 2014 con totale rimessione all’autonomia statutaria del quantum di supervoting power (=assoluta liberalizzazione del multiplo), allora, sì, la novella avrebbe avuto non già una mera portata quantitativa, ma una vera e propria portata qualitativa o, se si vuole, davvero rivoluzionaria: sarebbe stato allora legittimo trarne il definitivo superamento di ogni correlazione fra «rischio» e «potere» e il conseguente definitivo crollo di una “cittadella” di diritto imperativo. Ma, ad oggi, così non è stato: in materia di «società per azioni», il legislatore continua a ritenere che il quantum di dissociazione fra «rischio» e «potere» non sia affatto materia disponibile dai privati, ma debba essere soggetto ad una norma rigida (mandatory law).
Ulteriore conferma della ricorrenza di precisi limiti all’autonomia privata in subiecta materia si può ancora trarre dalla disciplina – applicabile esclusivamente alle società con azioni quotate ed anch’essa introdotta dal legislatore del 2014 – della «maggiorazione del voto», cui solitamente ci si riferisce con il nome, per certi aspetti improprio, di loyalty shares [39].
È vero: gli statuti di società quotata possono oggi consentire un qualche “potenziamento” dei voting rights a beneficio di quegli azionisti che detengano le azioni per un certo periodo di tempo (i cc.dd. loyal shareholders).
Ma è anche vero che: (i) il “potenziamento” de quo è ammesso solo e soltanto entro il limite inequivocabilmente imperativo del “raddoppio” del voto (art. 127-quinquies, TUF); e, soprattutto, (ii) il beneficio in parola non è cumulabile, per disposizione anch’essa inequivocabilmente imperativa (art. 127-sexies, comma 3, TUF), con “altre maggiorazioni” del diritto di voto (e cioè a beneficio di azioni a voto plurimo) [40].
Le indicazioni che emergono dall’esame del diritto della «società per azioni», anche alla luce della recente importante evoluzione, sono, dunque, fortemente coerenti: sì, il nostro legislatore si mostra sempre più aperto verso forme, anche innovative, di control enhancing mechanisms (CEMs); ma, al tempo stesso, ed il dato è assolutamente innegabile, esso si dimostra indisponibile ad una loro assoluta liberalizzazione [41].
Un dato di fondo appare, insomma, assolutamente non revocabile in dubbio: almeno nel diritto della «società per azioni», il nostro legislatore, ancora oggi, dimostra di ritenere assolutamente irrinunciabile una “cittadella” di diritto imperativo che sia posta ad argine dell’autonomia privata.
Ci si chieda ora: ma quale mai è la ratio di questo nucleo “resistente” di disciplina imperativa? Quale mai è la ragione che ha indotto il nostro legislatore – pur a fronte di importanti pressioni “neo-liberiste” – a continuare ad imporre alle «società per azioni» un “certo” principio di correlazione «rischio»/«potere»? Perché mai il legislatore delle «società per azioni» continua a “pretendere” a chi voglia disporre di «potere» (=control) di «rischiare» almeno qualcosa in più di un ottavo del capitale sociale (=ownership)? E perché mai il legislatore della «società per azioni quotata», da una parte, consente la «maggiorazione del voto» a beneficio degli azionisti fedeli, ma, dall’altra pare, non-consente (cioè imperativamente vieta) che la maggiorazione del voto possa cumularsi con altre maggiorazioni del diritto di voto?
Ebbene, le risposte a tutte queste domande – che sono, in realtà, una sola domanda – possono essere sintetizzate nei seguenti termini [42]:
(i) tanto maggiore il grado di dissociazione fra «rischio» (=ownership)e «potere» (=control), quanto maggiore il rischio che il detentore di quest’ultimo sia indotto ad esternalizzare i costi del cd. rischio morale (moral hazard);
(ii) tanto maggiore il grado di dissociazione fra «rischio» (=ownership)e «potere» (=control), quanto maggiori i cc.dd. costi di delega (agency costs) e cioè i costi necessari ad assicurare che il detentore del «potere» (=il titolare del control) lo eserciti nell’interesse di coloro (=«owners») che, alle conseguenze positive o negative di tale esercizio, sono esposti.
Orbene, non occorre qui addentrarsi nei dettagli delle analisi che sottendono queste conclusioni. Ma – nei limiti di questo studio – ci si può limitare ad osservare quanto segue.
Laddove un soggetto disponga di «potere» senza essere esposto ad alcun «rischio» (tale è l’assetto conseguente ad una ipotetica totale liberalizzazione del quantum di dissociazione fra cash-flow rights e voting rights), l’esercizio del «potere» cessa di essere soggetto ad un set razionaledi incentivi orientati a coniugare la massimizzazione dei benefici con la minimizzazione dei rischi. Se un soggetto non è esposto ai rischi della sua azione (ma, in ipotesi, soltanto ai benefici), allora quel soggetto (questo, in estrema sintesi, il moral hazard) non avrà più alcuna remora ad assumere condotte “rischiose”: la consapevolezza ex ante di poter “scaricare” su terzi le perdite derivanti dalla eventuale materializzazione del rischio renderà quel soggetto innaturalmente (o meglio irrazionalmente) propenso al rischio. Altrimenti detto: quel «potere», proprio perché non esposto al «rischio», sarà esercitato in modo irrazionalmente imprudente. Si pensi al caso paradigmatico del conducente di un automobile (=il titolare del «potere»)che sia totalmente assicurato rispetto ai danni da incidente (=«rischio»): ebbene, la consapevolezza ex ante di poter scaricare sull’assicuratore la perdita derivante dal sinistro (=moral hazard)renderà l’automobilista irrazionalmente propenso al rischio associato ad una guida (=esercizio del «potere») eccessivamente spericolata. Se, tuttavia, la copertura assicurativa dovesse “coprire” soltanto nella misura eccedente una certa «franchigia» – di guisa che il conducente sia costretto a sopportare, almeno in parte, l’alea della sua guida imprudente –, ecco che allora a) la dissociazione fra «potere» e «rischio» viene, per così dire, ricondotta entro il binario di un certo equilibrio e b) l’alea di una condotta irrazionalmente imprudente (=esternalizzazione del moral hazard) ne risulta ragionevolmente limitata.
Ebbene: le regole del diritto azionario che, ancor oggi, continuano a imporre una qualche correlazione fra «rischio» e «potere» esercitano una funzione niente affatto dissimile da quella che la «franchigia» esercita nel contesto del contratto di assicurazione. La circostanza che – nella società per azioni – non vi possa essere control («potere») senza un quantum minimo di ownership («rischio») [43] costituisce la più evidente testimonianza che il legislatore continua, ancor oggi, a ritenere essenziale un presidio imperativo (mandatory law) che assicuri che la gestione imprenditoriale sia esercitata con una razionale propensione al rischio.
Si comprende, altresì, perché una eventuale illimitata dissociazione fra «rischio» e «potere» – che il nostro attuale diritto azionario continua a non consentire – finisca con l’incrementare esponenzialmente i costi di delega (agency costs) e cioè i costi diretti ad assicurare che il «potere» sia esercitato nell’interesse di coloro che sono esposti al «rischio»: ed invero, un «gestore» (=il titolare del «potere») che non abbia alcun incentivo ad adottare una linea d’azione razionalmente prudente (poiché non-esposto al «rischio») è un «gestore», per così dire, strutturalmente pericoloso, poiché finisce coll’esporre i «proprietari» a rischi strutturalmente eccessivi. In altre parole: mancando quel “naturale” meccanismo di allineamento di interessi che consegue ad una qualche misura di correlazione fra cash-flow rights (=«rischio») e voting rights (=«potere»), i costi di delega non possono che aumentare esponenzialmente.
In conclusione: l’esame del diritto della società per azioni, pur soggetto ad importanti evoluzioni nel corso degli ultimi tre o quattro lustri, ci consegna due importanti risultati:
(i) a dispetto di smottamenti ed erosioni, continua ancor oggi a resistere una “cittadella” di diritto imperativo cui il legislatore attribuisce l’essenziale compito di mantenere una correlazione, sì meno intensa che in passato, ma pur sempre inderogabile, fra «rischio» e «potere»;
(ii) tale correlazione – che, ad oggi, si esprime nella «regola-chiave» secondo cui occorre almeno la titolarità di qualcosa in più dell’ottavo del capitale (il dodici virgola cinque per cento) (=ownership) per poter disporre della maggioranza dei diritti di voto (=control) –, lungi dall’essere il portato di una scelta arbitraria o casuale, appare piuttosto sistematicamente connessa conl’esigenza di assicurare che la gestione dell’impresa azionaria sia soggetta ad un set razionale di incentivi che assicuri la più “efficiente” combinazione di massimizzazione delle chances di profitto, da una parte, e minimizzazione dei rischi di perdita, dall’altra parte.
Sono, queste, conclusioni che, a nostro avviso, non possono che risultare particolarmente rilevanti ai nostri fini; che – ricordiamolo – sono quelli di valutare se le conclusioni raggiunte dalla nostra dottrina circa i «diritti particolari riguardanti l’amministrazione» in società a responsabilità limitata “reggano” al vaglio di una indagine adeguatamente sistematica.
Non possiamo, infatti, non rilevare fin da subito come l’indiscutibile “resistenza” nel diritto della società per azioni – pur a fronte delle recenti evoluzioni normative – di un indiscutibile principio di inderogabile correlazione «rischio»/«potere» sia risultata connessa non già a presunte peculiarità del tipo «società per azioni» (che, in ipotesi, possano giustificare un diverso regime rispetto al tipo «società a responsabilità limitata»), quanto piuttosto ad una esigenza di presidio di razionalità dell’attività di gestione di qualsivoglia impresa collettiva a scopo di lucro.
Ma non è, allora, forse ermeneuticamente doveroso assumere che quel «principio imperativo» in materia di società per azioni debba essere inteso come espressivo di un vero e proprio «vincolo di sistema» e come tale suscettibile di trovare applicazione nell’intero diritto delle società di capitali?
Prima, tuttavia, di rispondere direttamente a questo interrogativo – che costituisce il fil rouge di questo lavoro – dobbiamo ancora volgere lo sguardo, conformemente al nostro piano di lavoro, al diritto delle società personali, al diritto dell’impresa e, infine, al generale diritto privato.
Le norme in materia di società personali cui occorre ora volgere lo sguardo per misurare la disciplina normativa, in tale contesto, circa la correlazione fra «rischio» e «potere» sono, essenzialmente, le due seguenti: a) quella che istituisce l’equazione «socio»=«amministratore» (art. 2257, comma 1, c.c.) e b) quella che definisce i poteri di «controllo» del socio/non-amministratore (art. 2261 c.c.).
Quanto alla prima norma richiamata, è notorio come l’equazione anzidetta costituisca oggetto non di un vincolo imperativo, bensì di una presunzione semplice: l’autonomia statutaria può ben attribuire il ruolo di amministratore soltanto ad uno o più soci e, soprattutto, si badi bene, può attribuire un simile ruolo al socio o ai soci “eletti alla carica” (lo si dice, ovviamente, figurativamente), del tutto a prescindere dall’entità della relativa partecipazione proprietaria [44]. Per il nostro diritto delle società personali, insomma, non si dà formalmente alcun vincolo quantitativo imperativo fra l’apporto dell’investimento e quindi del «rischio» e il quantum di «potere»: il socio amministratore unico di società personale può disporre di prerogative gestorie assolute (=control tendenzialmente massimo), pure quando, in ipotesi, esso risulti titolare di una quota capitalisticamente marginale del patrimonio complessivamente conferito (=ownership tendenzialmente nulla) [45].
Né – ed eccoci all’altra norma sopra individuata – i poteri di «controllo» da parte dei soci/non-amministratori sono tali da limitare le prerogative di control del socio amministratore: il “controllo” regolato dall’art. 2261 c.c. attiene, infatti, non ad un controllo di merito suscettibile di influenzare la conduzione imprenditoriale della società (cioè al control nell’accezione che qui rileva), bensì allo stesso tipo di controllo informativo e di legittimità che in società per azioni è lato sensu esercitato dal collegio sindacale o (più in generale) dall’organo di controllo [46]. Insomma: può confermarsi che, là dove la governance di una società personale poggi sull’attribuzione statutaria del ruolo di amministratore a favore di un singolo socio, si dà davvero, in tal caso, una piena dissociazione fra «apporto» (di quel socio)e il «potere» (che a quel socio è attribuito); altrimenti detto: si dà, in linea di ipotesi, un totale decoupling fra cash flow-rights (=ownership tendenzialmente nulla del socio “marginale”); e voting rights (=diritto tendenzialmente pieno di diretta amministrazione in capo al socio “marginale”).
L’impressione di una piena dissociazione fra ownership e control che si ricava prima facie dalle norme descritte non tiene però in debito conto un altro principio-chiave del diritto delle società personali: quello in forza del quale qualsiasi titolare di control deve anche essere titolare di «responsabilità personale e illimitata» per le obbligazioni sociali (artt. 2267, 2291 e 2313, c.c.).
Se, in termini puramente economico-sostanziali, guardiamo al regime di responsabilità illimitata come ad una sorta di “prestazione”, da parte del socio-amministratore, di una garanzia lato sensu fideiussoria sulle obbligazioni sociali [47], possiamo dire che il nostro ordinamento consente, sì, l’attribuzione del pieno control su una società personale anche al socio che “poco” o “nulla” conferisca in termini di «apporto» in senso tecnico, ma tanto fa, solo sul presupposto che egli “conferisca” (in senso sostanziale) almeno quella “particolare fideiussione” sulle obbligazioni sociali che è il quid del regime di responsabilità solidale e illimitata. Sempre in termini puramente economico-sostanziali, possiamo allora dire che, in società personale, non è affatto vero che ad un control assoluto può corrispondere una ownership modesta (o nulla), giacché – se nella posizione di «rischio» congiungiamo il patrimonio (eventualmente) apportato (=apporto di capitale) e la “fideiussione” (imperativamente) prestata (=regime di responsabilità illimitata) –, ecco che allora l’equilibrio di fondo fra ownership e control, lungi dall’essere smentito, è piuttosto sempre confermato [48].
Il regime di responsabilità illimitata dei soci di società personale che per una lunga tradizione è stato inteso come eminentemente diretto a tutelare le ragioni dei creditori, quale dispositivo surrogatorio rispetto alla disciplina stringente del capitale e del bilancio che è propria delle società di capitali [49], può allora qui essere inteso, sotto il profilo che qui occupa, ben diversamente, non tanto o non solo come un dispositivo di tutela delle ragioni creditorie, ma soprattutto o almeno anche come un dispositivo funzionale a preservare un certo equilibrio fra ownership e control, fra «rischio» e «potere» [50].
Se, in particolare, ci si concentra alla “dialettica endo-sociale” – se, in altri termini, circoscrivendosi l’ottica ai soli rapporti fra soci/contraenti, ci si chiede cosa mai possa indurre soci che conferiscono 99 su 100 a “mettersi nelle mani” di chi, conferendo soltanto 1 su 100, potrebbe astrattamente adottare uno stile gestorio “irrazionale” –, può ben dirsi che la circostanza che il titolare del control non rischi soltanto 1, ma rischi anche, ex lege, l’intero proprio patrimonio personale vale a compensare adeguatamente l’alea di un utilizzo soltanto “predatorio” di risorse conferite in misura preponderante da altri [51].
In conclusione: apparentemente, l’assenza di vincoli imperativi fra «apporti» e «potere» in società personali parrebbe consentire una piena dissociazione «potere»/«rischio» e, in sé e per sé considerato potrebbe aprire la strada ad una gestione “irrazionale” (eccessivamente prudente o eccessivamente imprudente, a seconda del caso concreto); in realtà, il dispositivo imperativo della responsabilità personale illimitata del socio «gestore» (amministratore di società personale; accomandatario-amministratore di società in accomandita semplice), oltre a tutelare le ragioni dei terzi creditori, vale anche quale meccanismo “ripristinatorio” di un efficiente (id est: “razionale”) gestione del “patrimonio altrui” (il patrimonio, in ipotesi, assolutamente preponderante dei soci/non-amministratori che, nell’esempio, conferiscono 99 su 100) [52].
L’esame della governance di società personale ci consente, insomma, di constatare quanto segue: come il diritto della «società per azioni», così il diritto delle «società personali» conferma l’inequivocabile esistenza di un principio imperativo di correlazione «rischio»/«potere:
(i) se, però, nel caso della «società per azioni», tale (tendenziale) correlazione era (è) affidata alla regola-chiave secondo cui, per poter disporre della maggioranza dei diritti di voto, occorre aver investito almeno qualcosa in più di un ottavo del capitale,
(ii) nel caso delle «società personali», tale (tendenziale) correlazione è piuttosto affidata al meccanismo equipollente in forza del quale chi voglia disporre del «potere», potrà, sì, avere investito anche una frazione minima del capitale sociale, ma – ecco il tratto saliente della disciplina ora in esame – dovrà altresì anche “conferire” (lo si dice in senso tecnico) quella “fideiussione personale” a garanzia di tutti i debiti sociali (=la propria responsabilità personale e illimitata) che, funge, anch’essa, da presidio sistematico a tutela di una gestione adeguatamente prudente dell’attività di impresa.
Potremmo, conclusivamente, dire: diversa la tecnica normativa, identica la ratio.
Sebbene, sulle prime, ciò possa risultare meno evidente, in realtà, anche la «disciplina del fallimento» – e cioè, se si vuole, la disciplina (nei suoi termini essenziali) del credito concesso all’imprenditore commerciale – risulta assai rilevante ai nostri fini: quelli della ricostruzione sistematica della correlazione fra «rischio» e «potere» nel sistema e, in tal caso, non più il sotto-sistema del «diritto delle società» (di capitali e di persone), ma il più ampio sistema del «diritto dell’impresa» (individuale o collettiva).
Se, infatti, si guarda al rapporto fra l’imprenditore (commerciale) X e il ceto creditorio Y, ci si rende subito conto di come esso ben possa risultare sostanzialmente assimilabile al rapporto che, nel diritto societario, si dà fra, da una parte, «soci che hanno potere ma non rischiano» (=il socio che, grazie ad una frazione infinitesima del capitale, dispone del potere di influenza sulla gestione) e, dall’altra, «soci che rischiano ma non hanno potere» (=i soci che, a dispetto dell’apporto pressoché totale del capitale, non hanno poteri di influenza sulla gestione).
Si immagini, ad esempio, la seguente situazione-limite: quella di una certa impresa (commerciale) che sia “finanziata”: a) in misura infinitesimale dall’equity “apportata” dall’imprenditore X [53] e b) in misura assolutamente preponderante dal debt “apportato” dal ceto creditorio Y.
Come noto, l’ordinamento non stabilisce – né nel diritto dell’impresa individuale, né nel diritto dell’impresa societaria – alcun limite imperativo in ordine al rapporto fra capitale proprio (equity) e mezzi di terzi (debt) [54]; ma proprio per questo, nulla esclude che una certa impresa commerciale possa essere finanziatain misura assolutamente preponderante dal debt (=credito fornito dal ceto creditorio) e in misura sostanzialmente marginale dall’equity (=apporto patrimoniale dell’imprenditore, sia esso individuale o collettivo).
Ci si chieda ora: non è forse questa una situazione di totale divaricazione fra «rischio» e «potere» del tutto simile a quella dissociazione, la cui ammissibilità sistematica è oggetto di questo studio? non è forse vero che, in una simile impresa così highly-leveraged (=ad altissima leva finanziaria), il «potere» di gestione finisce con il trovarsi nelle mani di chi «rischia» poco o nulla (=l’imprenditore che rischia soltanto l’equity marginale), mentre, di contro, il «rischio» finisce con il trovarsi sulla spalle di chi «rischia» molto o pressoché tutto (=i creditori apportatori della sostanziale totalità dei mezzi finanziari)? e come mai, allora, l’ordinamento “tollera” una simile radicale divaricazione fra «rischio» e «potere»?
In realtà, e a ben guardare, è proprio la disciplina del fallimento a consentirci di dare, a tali fondamentali interrogativi, le giuste risposte; e sono risposte che, piuttosto che contraddire, confermano, ancora una volta, la coerente persistenza – anche nel diritto dell’insolvenza di un’impresa commerciale – di un assai solido principio di correlazione fra «rischio» e «potere».
Vediamo in che senso.
È vero, salvi eventuali diritti contrattuali specificamente pattuiti, l’apportatore di debt (=il creditore) non ha qua talis alcun “diritto di parola” sulla gestione da parte del debitore [55]. Nei nostri termini: al (potenzialmente assai ingente) «rischio», non corrisponde affatto un (simmetrico) «potere».
Tutto questo appare, tuttavia, perfettamente coerente e sensato.
Ed invero: fintantoché l’imprenditore non sia insolvente e, quindi, fintantoché egli (tendenzialmente) disponga di un patrimonio netto positivo, il mix di incentivi ad una gestione “razionale” (=né eccessivamente risk-oriented, né eccessivamente risk-adverse) funziona normalmente per l’ovvia ragione che un imprenditore che ancora rischi in proprio (quale che sia la percentuale di rischio «proprio» rispetto alla percentuale di «rischio di terzi») ha tutto l’interesse a massimizzare i propri benefici (leggasi: a gestire con “prudenza”) e, quindi, indirettamente a massimizzare altresì i benefici del ceto creditorio. Possiamo dire: fintantoché il patrimonio netto del debitore sia positivo, l’interesse deldebitore, da un lato, e gli interessi delceto creditorio, dall’altro lato, sono ancora (tendenzialmente) “allineati” [56]. Allorquando, invece, il patrimonio netto del debitore sia (tendenzialmente) eroso, il mix di incentivi ad una gestione prudente viene radicalmente disarticolato ed emerge, in tal caso, un evidente conflitto di interessi fra chi ormai «non rischia più» (poiché ha “perso tutto”) e chi, invece, «rischia massimamente» (il patrimonio di terzi essendo, in ipotesi, l’unico patrimonio residuo “nelle mani” dell’imprenditore) [57].
È proprio questa la situazione nella quale l’ordinamento – attraverso l’istituto fallimentare – interviene imperativamente sulla «gestione» del patrimonio debitorio dell’imprenditore [58].
Segnatamente: la disciplina dell’insolvenza dell’imprenditore commerciale determina, quale suo effetto tipico, la “decadenza” di ogni potere gestorio in capo a quel debitore che ha perso ogni incentivo ad una gestione “razionale” (ai sensi dell’art. 42 legge fall., lo «spossessamento» è l’effetto princepsdella dichiarazione di fallimento) [59]. E l’ordinamento – proprio attraverso l’istituto fallimentare – fa scattare una simile “decadenza” proprio in funzione di un “passaggio di consegne” dall’imprenditore (la cui gestione non è più soggetta ad un adeguato mix di incentivi virtuosi) al ceto creditorio(la cui “ricchezza” è, proprio per questo, ora esposta a «massimo rischio») [60].
Certo, anche in tal caso, il ceto creditorio non è affatto direttamenteinvestito di “poteri gestori”; anche qui, come è ben noto, l’ordinamento, a temperamento del rischio di una “sopraffazione” creditoria, istituisce il medium del controllo giudiziario con la “dialettica” fra «curatore» e «giudice delegato». Ma, in termini sostanziali (e non solo), è indubbiamente corretta l’affermazione che, a seguito di fallimento, sono ormai i «creditori» ad avere os loquendi sulla “gestione” [61].
Fra le tante, può essere utile rammentare almeno due essenziali disposizioni del diritto fallimentare: (i) quella che attribuisce ai creditori (=al comitato dei creditori) il diritto di parola sulla eventuale continuazione temporanea dell’esercizio dell’impresa (art. 104, comma 2, legge fall.); e (ii) quella che subordina all’approvazione dei creditori (=comitato dei creditori) il programma di liquidazione del patrimonio debitorio (art. 104-ter, comma 1, legge fall.). Sono cioè i creditori ad essere i depositari ultimi del potere di decidere, per così dire, intorno allo “oggetto sociale” [62] (temporaneo «scopo imprenditoriale» versus «scopo liquidatorio»: art. 104, secondo comma, legge fall.) [63]; e sono ancora i creditori ad essere i depositari ultimi del potere di pronunciarsi circa la “gestione liquidatoria” (programma di monetizzazione del patrimonio debitorio: art. 104-ter, comma 1, legge fall.) [64].
Ora, ci sembra assai importante sottolineare come l’efficienza di un simile dispositivo di «cambio di controllo» dal debitore “imprenditoriale” al ceto creditorio – che costituisce il quid dell’istituto fallimentare – resti sostanzialmente inalterata quale che sia il rapporto fra mezzi propri (equity) e mezzi di terzi (debt). Il dispositivo in parola continua, cioè, a “funzionare” adeguatamente anche nel caso in cui l’apporto di equity del debitore (capitale o, più in generale, patrimonio netto sociale) sia “marginale” rispetto all’apporto di debt del ceto creditorio [65].
Anche a fronte di una società con altissima leva finanziaria (alto debt-to-equity ratio), delle due l’una: o il patrimonio netto continua ad essere positivo, ed allora, il mix di incentivi che assicurano una gestione “razionale” continua ad adempiere allo scopo, sia pure “per poco”; ovvero, il patrimonio netto si azzera o diventa negativo, ed allora, inesorabilmente, scatta il change of control (dal debitore ai creditori) istituito dalla legge fallimentare. È, infatti, solo e soltanto nel momento in cui la consumazione di quella parte del patrimonio produttivo complessivo che corrisponde all’equity pone a repentaglio la ricchezza “altrui” (il debt apportato dai creditori) che diventa necessario “intervenire”, non invece prima [66]. E se anche il patrimonio produttivo complessivo è composto da «mezzi propri» marginali e «mezzi di terzi» preponderanti, la circostanza che il change of control “fallimentare” stia lì pronto ad essere attivato nel “momento opportuno” (=consumazione dell’equity “ponderalmente” modesta) consente al sistema di lasciare all’autonomia privata la fissazione del concreto livello di debt-to-equity ratio.
Si comprendono, allora, pienamente le ragioni sistematiche per le quali l’ordinamento si astiene dall’istituire vincoli imperativi assoluti al rapporto fra «debito» e «capitale» e per le quali, quindi, il debt-to-equity ratio sia effettivamente lasciato alla autonomia privata [67]: non certo perché l’ordinamento si disinteressi rispetto al rischio di una potenziale massima dissociazione fra «rischio» e «potere» o, nei nostri termini, fra ownership e control; bensì, piuttosto, perché, anche a fronte di un imprenditore massimamente highly-leveraged, l’ordinamento istituisce un meccanismo – questo, sì, imperativo ed assoluto – a tutela del ceto creditorio che funge da adeguato incentivo ad una gestione “razionale”.
Il fenomeno ben potrebbe essere descritto metaforicamente in questi termini. Se muoviamo da una concezione dell’impresa (sia essa individuale che societaria) come financing vehicule [68], potremmo descrivere i «creditori» come “investitori” non-voting, privi di diritto di voto, cui è consentito esporsi ad una leva finanziaria potenzialmente illimitata giacché essi sono comunque posti in grado di “riacquistare il diritto di voto” grazie a quel fondamentale meccanismo di ultima istanza quale si è rivelato il dispositivo di change of control “fallimentare”, che essi sono sempre e strutturalmente in condizione di “attivare” allorquando (per via dell’insolvenza) il “rischio” si sposti dal finanziamento in equity al finanziamento in debt. In una parola: la disciplina fallimentare funziona come meccanismo di riattivazione di una sorta di diritto di voto quiescente [69].
Che poi la disciplina fallimentare sia (nessuno ne dubita) una disciplina imperativa e che il diritto di attivare il change of control “fallimentare” sia (nessuno ne dubita) un diritto irrinunciabile (la rinuncia preventiva a chiedere il fallimento pacificamente essendo nulla/inefficace), la dice assai lunga sul principio sistematico di correlazione «rischio»/«potere» [70].
La disciplina di cui al nuovo «codice della crisi di impresa e dell’insolvenza», e in particolare l’ampio spazio dedicato agli “strumenti di allerta” [71], volti alla salvaguardia dell’impresa nell’interesse di tutti gli stakeholders, prevede l’attribuzione all’organo di controlloe al revisore legale (art. 14), e a creditori pubblici qualificati (art. 15) di veri e propri obblighi di segnalazione, al verificarsi degli indicatori della crisi (art. 13).
Il primo “tocco” che potrà così giungere all’imprenditore potrà dunque provenire, non casualmente, proprio da taluni rappresentanti del ceto creditorio (= i “creditori pubblici qualificati”), cui l’ordinamento attribuisce obblighi funzionali alla tutela del ceto creditorio generale, potenzialmente destinatario di un futuro change of control “fallimentare” (o, secondo la nuova terminologia, “da procedura di liquidazione giudiziale”).
In tale contesto, si inserisce, nell’ambito della disciplina del diritto dell’impresa, la modifica che il «codice della crisi di impresa e dell’insolvenza» ha apportato all’art. 2086 c.c., che già oggi impone all’imprenditore “che operi in forma societaria o collettiva”, dunque senza distinzione attinente il “tipo” societario adottato, l’obbligo di “istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi d’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adizione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”.Tale canone organizzativo assume pregnante rilievo nella ricostruzione dei doveri dell’organo amministrativo, così come delle connesse responsabilità, stante il richiamo all’art. 2086 c.c. operato dal novellato art. 2380-bis c.c., (quanto alle società azionarie, dunque anche in accomandita), e, nella società a responsabilità limitata, dall’art. 2475 c.c., cui si è già sopra accennato.
In conclusione: contrariamente a quanto si potrebbe superficialmente ritenere sulle prime, l’assenza di limiti imperativi alla leva finanziaria debt-to-equity non costituisce affatto un’eccezione al principio di correlazione «rischio»/«potere» [72]. Al contrario, detta disciplina risulta pienamente giustificata giacché – a mo’ di principio sistematico di ultima istanza – l’istituto del fallimento/liquidazione giudiziale (leggasi: change of control “fallimentare”; ri-espansione fallimentare del voto “quiescente” dell’investitore/finanziatore “normalmente” non votante) assicura, esperite senza successo le procedure di allerta e composizione assistita della crisi, che il “control” («potere») “torni nelle mani” dei detentori dell’“ownership” («rischio») “al momento opportuno” (=insolvenza), così confermando, e niente affatto smentendo, la solidità sistematica del principio di ultima istanza di correlazione ownership («rischio»)/control («potere»).
È giunto ora il momento di lasciare la (importante) “provincia” del «diritto societario» e del «diritto dell’impresa» (cui speriamo di aver prestato sufficiente attenzione) per innalzare finalmente lo sguardo al «diritto privato tout court»: e ciò, beninteso, sempre con l’obbiettivo di verificare – come sembra già stia emergendo dall’esame del diritto della società di capitali, delle società di persone e del fallimento – se anche nel “centro” del complesso territorio gius-privatistico si trovino indizi di un principio imperativo di correlazione «rischio» e «potere», che possano poi consentirci di far ritorno, al nostro tema di partenza, con maggiore consapevolezza sistematica.
Una certa dissociazione fra «rischio» e «potere», nel diritto privato comune, è, innanzitutto, et pour cause,quella che si realizza “tipicamente” nel rapporto obbligatorio di debito/credito.
Ed infatti: allorquando il soggetto «X» (creditore) si spoglia di propria ricchezza a favore di «Y» (debitore) – è facile rendersene conto –, ne consegue una situazione ove, in linea di principio, «Y» (=debitore) dispone di pieno «potere» sulla ricchezza (altrui) che è stata oggetto di prestito, mentre «X» (=creditore) è, sì, esposto al «rischio», ma, su quella ricchezza che ha fatto oggetto di prestito, ha perso ogni «potere».
La situazione è, all’evidenza, sia pure mutatis mutandis, del tutto simile a quella dell’imprenditore commerciale che finanzi la sua impresa in parte (anche, in ipotesi, minimale) con «mezzi propri» (equity) e in parte (anche, in ipotesi, massimale) con mezzi di terzi (debt).
Orbene, nel diritto dell’impresa commerciale, lo abbiamo appena visto, la correlazione «rischio»/«potere» è in tal caso preservata attraverso il medium del «cambio di controllo fallimentare»: i creditori non hanno alcun «potere» sulla ricchezza finanziaria apportata fintantoché l’imprenditore sia solvente; ma, non appena tale presupposto cessi di essere vero, essi riacquistano subito quella voice che (sempre attraverso il medium del controllo giudiziario) torna ad allineare con perfetta simmetria «rischio» e «potere».
Nel diritto privato comune, a ben guardare, la stessa identica correlazione è realizzata attraverso un meccanismo, apparentemente assai diverso, ma, di fatto, sostanzialmente equipollente.
Si tratta, in particolare, della disciplina dettata dall’art. 1186 c.c., norma che, sotto l’epigrafe di «decadenza dal termine» [73], stabilisce il fondamentale principio in forza del quale, quand’anche il creditore avesse pattuito un certo termine per la restituzione del prestito nell’interesse del debitore – quand’anche, cioè, nei nostri termini, avesse accettato un periodo più o meno ampio di dissociazione fra «rischio» (=patito dal creditore) e «potere» (=attribuito al debitore) –, ebbene, egli potrà “eccezionalmente” far valere la decadenza del debitore dal beneficio del termine in tutte le seguenti fattispecie: a) allorquando il debitore sia divenuto insolvente ovvero b) allorquando egli abbia per fatto proprio diminuito le garanzie prestate ovvero, infine, c) allorquando abbia omesso di dare garanzie promesse [74].
Non sembra difficile rendersi conto di come l’istituto della decadenza dal beneficio del termine – ciò che, nella letteratura anglosassone, si chiama acceleration – non sia altro che il pendant civilistico (e, ovviamente, fortemente semplificato) dello stesso identico istituto fallimentare.
Nell’un caso e nell’altro, la logica sottostante è sempre quella di assicurare che l’owner (=il titolare del «rischio»: sia esso il creditore dell’imprenditore commerciale o il creditore di un debitore comune) possa “recuperare” quel control da cui si era “momentaneamente” dissociato (=«potere») e – attenzione – possa fare ciò, tutte le volte in cui il mantenimento di quella “pericolosa” dissociazione possa immettere nel sistema una irrazionale disarticolazione degli adeguati incentivi ad una prudente condotta (gestione dell’impresa: nel caso del credito all’impresa commerciale; utilizzo delle somme date a prestito: nel caso del credito al debitore comune).
Risulta, in questo senso, assai significativo che la decadenza dal beneficio del termine (acceleration) disposta da questa fondamentale norma imperativa – anch’essa chiave di volta del diritto privato delle obbligazioni – dipenda, per l’appunto, da queste due fattispecie: (i) l’insolvenza del debitore e (ii) il deterioramento o la mancata concessione di garanzie nell’un caso e nell’altro «imputabile» ad un fatto proprio del debitore [75].
Nella prima situazione, infatti, è la oggettiva indisponibilità di un patrimonio proprio (potremmo dire: di un patrimonio netto positivo) a creare una situazione ove il debitore “civile” perde, per definizione, i naturali incentivi ad una gestione normalmente responsabile (=non eccessivamente rischiosa) dei propri affari: il debitore insolvente non ha più (tendenzialmente) un patrimonio proprio, ma “gestisce” un patrimonio (tendenzialmente) altrui. Da qui il pericolo che un simile debitore possa essere indotto ad atti di disposizione del patrimonio lato sensu “irrazionali”.
Nella seconda situazione non è la semplice riduzione della garanzie concesse a costituire il fatto generatore della decadenza; piuttosto, precisa il legislatore, è necessario che tale riduzione consegua ad un “fatto proprio” del debitore [76]: soltanto in tale specifica ipotesi, infatti, può ben dirsi che ricorra un inequivocabile sintomo di una condotta “gestoria” ormai deviata sotto il profilo degli interessi. Un debitore che scienter (=per fatto proprio) pregiudichi i diritti di prelazione eventualmente concessi al ceto creditorio, mostra di orientare la propria linea d’azione secondo modalità “irrazionali” (leggasi: con una posa che, non proteggendo adeguatamente l’integrità del proprio diretto patrimonio, finisce altresì, indirettamente, per mettere a repentaglio l’integrità del patrimonio del ceto creditorio). Si comprende, allora, che, quand’anche il debitore non sia ancora oggettivamente insolvente, la spia di una soggettiva condotta “gestoria” non più “razionale” (=normalmente prudente) – se non, addirittura, fraudolentemente orientata a pregiudicare indirettamente i terzi mediante una diretta riduzione della propria security (il proprio patrimonio concesso in garanzia) – sia considerata ex se idonea, dal nostro legislatore, per far scattare una disciplina imperativa di tutela del creditore [77].
Insomma: vuoi per il dato oggettivo dell’insolvenza del debitore (=azzeramento del suo patrimonio netto), vuoi per il dato soggettivo di una condotta non più normalmente prudente (=volontaria riduzione delle garanzie), allorquando la “ricchezza” conferita dal ceto creditorio sia comunque a «rischio», l’ordinamento attribuisce ad esso un strumento indisponibile di tutela; strumento di tutela, si badi bene, che, in ultima istanza, consente al titolare del «rischio» (la “ricchezza” creditoria “messa nelle mani” del debitore) di esercitare un fondamentale «potere»: quello consistente nell’assunzione di un controlsul patrimonio residuo del debitore [78]. Che poi questo control passi attraverso il filtro del potere giudiziario (l’azione esecutiva postulando il medium del potere giudiziario chiamato a sorvegliare circa le forme della monetizzazione del patrimonio debitorio, così evitandosi il rischio di una “sopraffazione” creditoria) [79], non cambia affatto il senso sostanziale di questa disciplina: ogni qual volta si diano indici oggettivi o soggettivi di una “irrazionale” accentuazione del «rischio» dei titolari di ownership (i creditori la cui “ricchezza” sia stata da loro concessa al debitore), il legislatore confeziona un meccanismo di (tendenziale) ripristino fra «rischio» e «potere».
Un secondo istituto di diritto privato comune cui ora mette conto volgere lo sguardo – sempre nel quadro di una ricostruzione sistematica della disciplina gius-privatistica di correlazione fra «rischio» e «potere» – è quello del contratto di mandato.
Non è, infatti, difficile rilevare come anche con tale negozio si realizzi una certa (parziale) dissociazione fra «rischio» e «potere». Ed in questo preciso senso: la titolarità della posizione giuridica sottostante (=ownership) compete, ovviamente, soltanto al «mandante»; tuttavia, proprio grazie al mandato (e, ancor più marcatamente, alla procura), la titolarità del potere di incidere in quella sfera giuridica (=control) compete (altresì) al «mandatario» [80].
Ora, la regola-chiave rilevante ai nostri fini è quella dettata dall’art. 1723 c.c. [81]: «il mandante può revocare il mandato; ma, se era stata pattuita l’irrevocabilità, risponde dei danni…». Possiamo tradurre in questi termini: il “diritto di riappropriarsi del control” è un diritto imperativamente indisponibile. Ed infatti: quand’anche, il mandante abbia pattuito l’irrevocabilità del mandato, ciò nonostante, egli potrà sempre revocare realmente (con efficacia reale) il mandato, salvo il solo risarcimento del danno. Il che val quanto dire che, ferma restando la indisponibilità “reale” del diritto di revoca (=riacquisizione esclusiva di control), spetterà all’owner valutare la convenienza fra (i) revocare il mandato anche ad nutum e pagare, se del caso, i danni (il costo monetario del breach) ovvero se (ii) mantenere il mandato, evitando il costo [82].
Il senso profondo di questa regola è perfettamente coerente con il generale principio di correlazione «rischio»/«potere»: la posizione giuridica in gioco “appartiene” al mandante e solo questi ha, quindi, titolo per valutare se sia più efficiente mantenere in piedi il control attribuito al terzo (la controparte contrattuale) ovvero se farlo venir meno.
Niente affatto a caso le fattispecie nelle quali il mandato è eccezionalmente irrevocabile anche “realmente” (con efficacia reale) sono quelle nelle quali quel presupposto essenziale non ricorre: vuoi perché il mandato è conferito anche “nell’interesse del mandatario o di terzi” (art. 1723, secondo comma, c.c.); vuoi perché il mandato è stato conferito anche da altri (art. 1726 c.c.).
Che nel primo caso si parli anche di mandato in rem propriam e che nel secondo caso ben si possa parlare di mandato in rem etiam alterius la dice lunga sulla logica profonda del rapporto «rischio»/«potere»: quando, infatti, il mandato è conferito anche nell’interesse (qualificato) del mandatario, la res (=la titolarità della situazione giuridica sottostante o, nei nostri termini, la ownership) non è più “soltanto” del mandante, ma anche del mandatario (in rem propriam sta a significare proprio questo); quando, inoltre, il mandato è conferito da più soggetti, per definizione, la res “in gioco” appartiene, per così dire, in com-proprietà non solo al “singolo” mandante, ma anche a tutti gli altri mandanti.
In altri termini, il mandato è “realmente” (con efficacia reale) irrevocabile, solo quando non è più vero che la ownership sia esclusivamente del mandante, giacché, a seconda del caso, essa appartiene anche allo stesso mandatario (mandato in rem propriam) ovvero a più mandanti (mandato collettivo in rem etiam alterius).
La disciplina del mandato e, segnatamente, la disciplina della sua revocabilità/irrevocabilità conferma, insomma, ancora una volta come:
(i) laddovela situazione giuridica sottostante appartenga esclusivamente al mandante, costui non può rinunciare – neanche se lo volesse – alla facoltà di revoca “reale” (salvo il costo del risarcimento del danno): mandatory law, non free bargaining a tutela di un uso “razionale” della libertà di contratto;
(ii) laddove, invece, il mandato sia effettivamente “realmente” irrevocabile, ciò dipende, a ben guardare, dalla circostanza, a monte, che la ownership sottostante è “condivisa” fra principal e agent (mandato in rem propriam)ovvero fra quel principal e altri principals (mandato collettivo) [83].
L’ultimo istituto di diritto privato cui ci pare doveroso rivolgere lo sguardo è, infine, quello dei «diritti reali»: il che val quanto dire, quello della «proprietà» e della sua possibile frammentazione.
Le ragioni non possono non risultare del tutto manifeste: se si vogliono (provare a) intendere i limiti sistematici della dissociazione fra «rischio» e «potere» e cioè, fra ownership e control, non si può, prima o poi, non esaminare a dovere quel «cuore» del sistema gius-privatistico ove, a monte, il legislatore ha definito una volta per tutte le modalità ed i limiti entro cui è ammessa una qualche disarticolazione fra «titolarità del diritto reale» (cioè essenzialmente, della proprietà) e «titolarità del potere connesso al suo esercizio».
Prima di entrare nel merito di questa fondamentale questione, ci pare però utile rammentare il significato storico-sistematico di una mai sufficientemente rammentata «regola aurea» di questa fondamentale sezione del diritto privato: il principio di «tipicità» dei diritti reali. Anche da qui – lo vedremo – trarremo indicazioni utili ai nostri fini.
Ebbene, come è stato ampiamente illustrato dalla migliore dottrina civilistica [84], il senso ultimo del «principio di tipicità», nell’epoca post-napoleonica è stato quello del “divieto di ripristino” dei diritti feudali e signorili e delle “redevances foncières perpetuelles» [85].
Se in un assetto (im-)produttivo di tipo signorile, poteva comprendersi che i “diritti” sulla cosa (=terra) potessero essere spezzettati (demembrés) in diritti destinati a circolare autonomamente l’uno dall’altro e, per lo più, destinati a circolare non tanto in forza di atti di scambio (=mercato) [86], bensì per lo più in funzioni di status sociali o per il “fatto naturale” della successione (iure haereditario), al contrario, in un assetto (iper-)produttivo di tipo capitalistico-borghese, la frammentazione del diritto di proprietà avrebbe reso di fatto impossibile l’uso “razionale” (leggasi: orientato al profitto) del bene [87]. Si comprende, dunque, appieno in che senso il «principio di tipicità» (che inibisce ai privati la “libertà” di creare forme atipiche di diritti reali: in evidente contrasto con il principio di autonomia privata oggi codificato nell’art. 1322 c.c.) possa essere ossimoricamente tradotto in questi termini: i privati hanno, sì, la piena «libertà» di essere «proprietari», ma la hanno solo nella misura in cui, di detta «proprietà», facciano un uso “produttivo-borghese” e non invece “improduttivo-signorile”. Il vulnus alla «libertà» che è portato dal principio di tipicità è, cioè, in un certo senso l’espressione della imperatività della forma borghese di proprietà [88].
Tutto questo è massimamente visibile nel «diritto reale» che, par excellence, disciplina le forme privatistiche – normativamente ammesse – della dissociazione «rischio»/«potere»: ed ovvero, il diritto di «usufrutto».
Che la costituzione di un diritto di «usufrutto» a limitazione di un diritto di «proprietà» determini una certa dissociazione fra «rischio» e «potere» è piuttosto agevolmente comprensibile. Ed ecco in che senso.
Orbene: mentre, fintantoché la proprietà è «piena», il titolare concentraownership (godimento diretto o indiretto del bene) e control (potere di destinazione economica; potere di disposizione); non appena essa si segmenta in «nuda proprietà» e «usufrutto», ownership e control si disarticolano in modo “trasversale” [89]. E precisamente: il (nudo) proprietario mantiene il control sulla destinazione economica e cioè sulla rerum substantia (art. 981 c.c.) (in termini societari potremmo dire: sulle modifiche dell’oggetto sociale di competenza dell’assemblea straordinaria), mentre lo perde rispetto al day-to-daygiacché l’usufruttuario ha titolo per godere della cosa e per trarne tutte le utilità connesse alla sua immodificabile destinazione economica (in termini societari: l’usufruttuario acquista il “diritto di voto in assemblea ordinaria”). Ed inoltre: il nudo proprietario perde la ownership, giacché tutti i benefici economici – vigente la frammentazione proprietaria – spetteranno all’usufruttuario.
Ora, dai principi-chiave di questa disciplina (non si dimentichi) imperativa e tipica ci sembra possibile trarre – per quel che rileva ai nostri fini – una duplice considerazione.
In primis, ci sembra importante sottolineare come la dissociazione «rischio»/«potere» che l’ordinamento ammette con riguardo al diritto «proprietà» postuli la concentrazione, in capo al medesimo soggetto non-proprietario (id est, usufruttuario), della duplice posizione: control (=potere di gestione nei limiti “dell’oggetto sociale”: leggasi, nei limiti della rerum substantia) e ownership (=godimento diretto del bene, titolarità dei cash-flow rights inerenti al bene). È vero, la ownership dell’usufruttuario vive fintantoché vive il diritto di usufrutto, ma, entro questi limiti, il mix di incentivi cui è soggetto l’usufruttuario ben può essere detto (tendenzialmente) efficiente [90]: poiché sono io a trarre i frutti della mia gestione (godimento del bene), ho interesse a far sì che la mia gestione sia profittevole; se la mia gestione conducesse a perdite di gestione, queste cadrebbero, in prima istanza, proprio sull’usufruttuario [91].
In secundis, ci sembra parimenti importante rilevare come, per il nostro diritto privato, la dissociazione appena brevemente descritta non sia – meglio, non possa essere – eterna, dal momento che l’usufrutto non può eccedere la durata della vita (si badi bene) umana o, se costituito a favore di persona giuridica, il trentennio (art. 979 c.c.). Chiara la logica produttivo-borghese: il divieto di alterazione della destinazione economica (da parte dell’usufruttuario senza il consenso del nudo proprietario) “costringe” l’asset ad un “oggetto sociale” (per dirla in termini societari) che l’evoluzione del mercato e/o l’evoluzione tecnologica potrebbe rendere desueto. Ma questo potrebbe “costringere” le “parti” [92] ad un assettoproduttivo inefficiente. La previsione di un terminus ne post quem – vita umana o trentennio – rappresenta il contemperamento di una duplice esigenza: a) quella “liberale” di consentire l’espressione di autonomia privata e b) quella di ordine pubblico di evitare che l’esercizio di autonomia privata possa “ritorcersi” contro la market-orientedness del diritto privato moderno (post-napoleonico).
Assai pertinenti ai nostri fini sono le seguenti parole della richiamata dottrina civilistica [93]: “lo schema dell’usufrutto non esprime, tipicamente [potremmo dire: social-tipicamente] una scissione tra proprietà e gestione che sia frutto di attività contrattuale o, più esattamente, di uno scambio. Esso nasce – e si lega nella sua sopravvivenza – con una specifica struttura familiare, di cui esprime i due profili essenziali (il rapporto capofamiglia-figli; il rapporto di successione), valendo altresì a tradurre tipicamente [di nuovo: social-tipicamente] un intento di liberalità (es., donazione con riserva di proprietà). L’usufrutto è la situazione soggettiva idonea a procurare un certo reddito attraverso la normale e ineliminabile attività di gestione che i beni richiedono” [94].
Orbene, tutto questo non è affatto irrilevante ai fini del nostro tema.
Se, infatti, si guarda in trasparenza (e cioè senza il “velo” dello schermo societario) alla singolare natura di quel “diritto reale” (lo si dice in senso a-tecnico) che si verrebbe sostanzialmente a realizzare ove si ammettesse che un socio di società a responsabilità limitata potesse avere (pressoché) tutto il «potere» senza (pressoché) alcun «rischio», saremmo giocoforza costretti a constatare che ci si troverebbe innanzi ad un “diritto reale” (di nuovo: virgolette d’obbligo) non semplicemente atipico, ma, ben più gravemente e ben più significativamente, totalmente irrazionale e contraddittorio.
Ed infatti – una volta che, per metodo, si guardi alla fattispecie in trasparenza e cioè lifting the corporate veil – la fattispecie si lascia intendere in questi termini:
(i) il socio dotato di (pressoché) pieno «potere» ma (pressoché) di nessun «rischio» rispetto a quel particolare «bene» che è l’impresa societaria (ovvero: il titolare della ipotetica golden quota)risulta sostanzialmente equiparabile al titolare di un assai “atipico” «usufrutto» che
a) darebbe, sì, totale «potere» (=control) sul «bene» (=l’impresa societaria),
b) ma non darebbe, di converso, alcuna partecipazione ai frutti (=ownership)[95];
e, di converso,
(i) i soci titolari di (pressoché) nessun «potere» ma di (pressoché) tutto il «rischio» (ovvero:tutti i residui soci della società diversi dal titolare della golden quota) risultano sostanzialmente equiparabili ai titolari di una assai “atipica” «nuda proprietà» che, simmetricamente,
a) non darebbe alcun «potere» (=control),
b) ma, eccezionalmente, continuerebbe ad esporre tanto al «rischio» di “cattivo raccolto”, quanto allachance di “buon raccolto” (=ownership).
Ma – vien fatto di chiedersi – sarebbe mai un simile assetto minimamente coerente con la disciplina imperativa del diritto di «usufrutto» e, soprattutto, con la sua sottostante logica sistematica?
Per rispondere a tale importante quesito può essere utile esaminare alcune fattispecie paradigmatiche.
Si immagini, innanzitutto, che la stessa impresa organizzata in forma di società a responsabilità limitata sia, invece, organizzata come impresa individuale; e si immagini che, nel rispetto del diritto imperativo in materia di diritti reali, il «proprietario» voglia concederla in usufrutto (art. 2561 c.c.). Ci si chieda ora: sarebbe forse ipotizzabile una deviazione pattizia dalla disciplina normativa in materia di «usufrutto» che, ad esempio, mantenesse in capo allo «usufruttuario» tutte le prerogative “gestorie” (=control), pur riservando al «nudo proprietario» tutte le «utilità» (nell’accezione di cui all’art. 981 c.c.) che da quella impresa derivano?
Si immagini, alternativamente, che una certa impresa sia, sì, organizzata in forma societaria; ma si immagini, di nuovo, che, nel rispetto del diritto imperativo in materia di diritti reali, il «proprietario» della totalità delle partecipazioni sociali voglia concederle in usufrutto (art. 2471-bis c.c.). Ci si chieda quindi: sarebbe forse possibile pattuire che all’usufruttuario di tali partecipazioni sociali debbano spettare tutti i diritti di voice (=voting rights o diritti equipollenti di influenza nella gestione), ma (sostanzialmente) nessun diritto economico-patrimoniale (=cash-flow rights o diritti di trarre “utilità” dalla cosa data in usufrutto) [96]?
Nessuno esiterebbe – nell’un caso (=ipotetico «usufrutto» sull’azienda ma con riserva di “utilità” a favore del «nudo proprietario») e nell’altro (=ipotetico «usufrutto» sulla totalità del capitale sociale ma con riserva di “diritti economico-patrimoniali” a favore del «nudo proprietario») a dare risposte risolutamente negative.
Ed infatti: a) tutto ciò starebbe, in primo luogo, in manifesta contraddizione rispetto alla disciplina del diritto d’usufrutto che è (per le ragioni storico-sistematiche prima brevemente richiamate) una disciplina rigorosamente tipica; e b) tutto ciò realizzerebbe, in secondo luogo, un assetto assolutamente irrazionaledi incentivi alla prudente gestione del bene (alla totale dissociazione fra «rischio» e «potere» farebbero poi da pendant quel rischio di esternalizzazione del moral hazard e quel rischio di innalzamento degli agency costs su cui ci siamo già sopra soffermati).
Ebbene: l’assetto che conseguirebbe ove si ammettesse una governance di società a responsabilità limitata con golden quota è, all’evidenza, assolutamente coincidente, sul piano sostanziale, a quella che si verrebbe a creare
(i) ove fosse possibile concedere un «usufrutto» su un’azienda, operando, però, una separazione chirurgica fra i «diritti gestori» (che verrebbero attribuiti) (=control)e i «diritti economici» (che verrebbero negati) (=cash-flow rights); oppure
(ii) ove fosse possibile costituire un «usufrutto» dell’intero capitale sociale, operando, di nuovo, una separazione chirurgica fra «diritti di voice» (=control) attribuiti all’usufruttuario e «diritti economici» (=cash-flow rights) eccezionalmente riservati al nudo proprietario.
Ma se le strade sub (i) e sub (ii) sono indubitabilmente contra legem – violando la disciplina imperativa tipica del diritto di usufrutto e contraddicendo la logica sistematica di correlazione «rischio»/«potere» che la ispira –, perché mai sarebbe invece lecito raggiungere un risultato sostanzialmente equivalente in modo, per così dire, “obliquo” – e cioè, per l’appunto, attraverso quella golden quota di società a responsabilità limitata con cui si vorrebbe ammettere una totale dissociazione fra owneship e control –?
Nel pervenire alla conclusione che il «diritto particolare riguardante l’amministrazione» possa consentire, in società a responsabilità limitata, l’adozione di una governance con golden quota – una governance, cioè, compatibile con l’allocazione di (pressoché tutto il) «potere» in capo ad un socio (sostanzialmente) privo di «rischio» (poiché titolare di una frazione infinitesima del capitale) –, la nostra dottrina ha di fatto finito col ritenere (forse senza soverchia consapevolezza sistematica) che nel contesto della società a responsabilità limitata la leva «rischio»/«potere» potesse essere sostanzialmente azzerata. Essa è cioè finita con l’adottare un punto di vista iper-liberista in forza del quale, in ordine al quantum di correlazione fra «rischio» e «potere», non il legislatore con “diritto imperativo” (mandatory law), bensì gli operatori privati con “libertà di contratto” (freedom of contract)sarebbero tributari di “esclusiva sovranità”.
La ricostruzione sistematica che si è provato qui a condurre non consente di aderirvi, né tanto meno di farlo a cuor leggero, giacché tutto il nostro sistema giuridico – diritto della società per azioni, diritto delle società personali, diritto del fallimento e, infine, istituti fondamentali del diritto privato (obbligazione, mandato, usufrutto) – rivela ancor oggi la persistenza di una importante, e resistente, cittadella di diritto imperativo che istituisce un quantum minimo inderogabile di correlazione fra «rischio» e «potere».
La rivela, innanzitutto, quel diritto della «società per azioni» che, negli ultimi tre lustri, ha conosciuto importanti evoluzioni proprio in subiecta materia. Evoluzioni, queste, che tuttavia – pur a seguito della generalizzazione della facoltà di emissione di azioni non votanti, pur a seguito della rimozione del divieto di emissione di azioni a voto plurimo, pur, infine, a seguito dell’introduzione (per le società quotate) delle cc.dd. loyalty shares – continuano ancor oggi a mantenere intatta quella «regola-chiave» (mandatory law, non freedom of contract), secondo cui solo e soltanto una ownership di almeno qualcosa in più di un ottavo del capitale sociale (o, se si vuole, del dodici virgola cinque per cento del capitale) può conferire la certezza del control (=maggioranza assoluta dei voti nell’assemblea chiamata a nominare i «gestori»).
Un principio imperativo di correlazione fra «rischio» e «potere» emerge, inoltre, e da sempre, dal tessuto della disciplina delle società personali: è vero, infatti, che in una società personale pieni poteri gestori possono essere attribuiti anche ad un socio che abbia conferito una frazione minima del capitale (con, soltanto apparente, totale divaricazione fra cash-flow rights e voting rights), ma è anche vero che, al deficit di necessario conferimento in termini di equity, il legislatore “reagisce” imponendo quel “conferimento” (in senso a-tecnico) che è rappresentato dal necessario regime di responsabilità personale e illimitata che connota la posizione di chiunque, in società personale, detenga le leve gestorie. Altrimenti detto: diverse sono le tecniche – rispettivamente nel territorio della società per azioni vis-à-vis il territorio delle società personali – per assicurare un quantum minimo di correlazione fra «rischio» e «potere», ma del tutto identica l’esigenza di garantire che l’attività di impresa resti soggetta ad un adeguato set di incentivi razionali che efficientemente coniughino l’obbiettivo di massimizzazione delle chances di profitto con quello di minimizzazione del rischio di perdite.
Ulteriore conferma sempre dello stesso principio imperativo di correlazione fra «rischio» e «potere» lo si ricava, inoltre, ancorché possa risultare meno intuitivo, anche dalla disciplina del rapporto fra «imprenditore» (commerciale), da un lato, e «creditori», dall’altro lato. È vero: l’ordinamento non detta limiti imperativi al rapporto che, in una qualsivoglia impresa (individuale o collettiva), possa correre fra «equity» e «debt» e rimette, quindi, al “mercato” o se si vuole alla “autonomia privata”, la determinazione del quantum di utilizzo della leva. Ma – ed è questo il punto per noi essenziale –, non appena l’imprenditore-debitore risulti insolvente (allorquando, cioè, se ci si passa il termine, la sua skin in the game è erosa, sicché il set di incentivi razionali che orientano ad una gestione normalmente prudente cessa di operare), ecco che il legislatore “reagisce” imponendo ciò che abbiamo chiamato la “clausola di cambio di controllo fallimentare”: e cioè “restituendo” la voice proprio a quei soggetti – i creditori – che fintantoché l’impresa era solvibile ne restavano privi. Anche le legge fallimentare si presta, insomma, ad essere letta come un meccanismo complesso coerentemente diretto a ripristinare quell’equilibrio fra «rischio» e «potere» che la (sostanziale) erosione del patrimonio conferito dall’imprenditore mette a repentaglio.
Considerazioni assai simili possono farsi anche con riguardo alla disciplina di diritto comune del rapporto fra «debitore» e «creditore». Qui, come abbiamo visto, è l’istituto della decadenza dal beneficio del termine (art. 1186 c.c.) a fungere da equipollente sistematico della disciplina fallimentare e sempre rispetto allo stesso obiettivo di preservare un adeguato equilibrio di «rischio» e «potere»: allorquando il debitore è insolvente o adotta una condotta “pericolosa” (diminuzione di garanzie/mancata concessione di garanzie promesse), colui che si trova esposto al «rischio» (il creditore) riacquista il «potere» di “riappropriarsi” della propria ricchezza.
Indicazioni convergenti si ricavano, infine, tanto dalla disciplina del mandato, quanto – e in modo senz’altro ancor più significativo – dalla disciplina dei diritti reali e, segnatamente, del diritto di usufrutto.
Dalla prima si ricava il principio-base secondo cui giammai il mandante/principal (=titolare dell’ownership) può privarsi con efficacia reale, nei confronti del mandatario/agent (=titolare del control), della facoltà di ripristinare quella coincidenza fra ownership e control che il contratto di mandato, temporaneamente e parzialmente, disarticola. Ed infatti: persino quando le parti del contratto pattuiscono l’irrevocabilità del mandato, il mandante può comunque “riappropriarsi” del control (art. 1723 c.c.). Indiscutibile testimonianza, questa, della natura fisiologica della strutturale correlazione fra «rischio» e potere» e, per contro, della natura patologica di una loro totale strutturale dissociazione.
Dalla disciplina del diritto di usufrutto – che, come tutti i diritti reali, è soggetto ad un rigoroso principio di «tipicità» – si ricava la indiscutibile indicazione dell’assoluta inammissibilità sistematica di un diritto di usufrutto che “chirurgicamente” dissezioni la componente «potere» dalla componente «rischio»: l’usufruttuario ha, sì, il control (entro certi limiti) sul bene che ne è oggetto; ma lo ha soloe soltanto perché, «correlato» a quel control, vi è una corrispondente ownership (=non il diritto di proprietà “pieno”, ma pur sempre il diritto al godimento del bene e alla percezione delle “utilità” che derivano dal suo sfruttamento).
Orbene, a fronte di tutte queste, potenti e coerenti, indicazioni sistematiche e a fronte della, potente e coerente, logica di fondo che tutte esse pervade – quella di assicurare che la gestione di un «bene» o, a maggior ragione, di una «impresa» sia esposta ad un set razionale di incentivi che assicuri una condotta ragionevolmente prudente e/o ragionevolmente orientata al rischio –, possiamo ora ritenerci finalmente in grado di dare risposta alla domanda con cui si è esordito questo studio.
Risposta che, per tutto quanto precede, non può che essere la seguente: il nostro attuale diritto – societario in primis e privato in secundis – non ci consente affatto di ritenere che il grado di dissociazione fra «rischio» e «potere» in una «società a responsabilità limitata» possa essere diverso o maggiore (o addirittura infinito) rispetto a quello “tollerato” (i) dal nostro diritto della «società per azioni» ovvero (ii) dal nostro diritto delle «società personali».
E pertanto:
– così come, in «società per azioni», l’uso combinato dei control enhancing mechanisms (CEMs) colà disponibili (ovvero: «azioni senza diritto di voto» cum «azioni a voto plurimo») può consentire la titolarità di «potere» solo e soltanto a chi «rischia» almeno un ottavo del capitale sociale,
– analogamente, in «società a responsabilità limitata», l’uso del control enhancing mechanism (CEM) qui disponibile (ovvero: «diritto particolare riguardante l’amministrazione») può consentire una corrispondente posizione di «potere», ma soltanto a chi sia titolare di almeno un ottavo del relativo capitale sociale.
In altre parole: ad avviso di chi scrive, l’attribuzione della golden quota al socio titolare di una più bassa frazione di capitale o, addirittura, di una sua frazione infinitesima deve ritenersi – alla luce del diritto (ancora) attualmente vigente – contraria a norma imperativa e alla logica sistematica che ne è sottesa.
Qualora, poi, una società a responsabilità limitata dovesse invece contemplare – come certamente avviene nella prassi [97] – che una simile golden quota sia attribuita ad un socio “marginale”, una soluzione che può qui prospettarsi in via soltanto problematica è quella, ad instar del diritto delle società personali, di “sanzionare” la violazione mediante l’imposizione, in capo al socio golden, di un regime di responsabilità personale e illimitato per le obbligazioni sociali. Così come, infatti, nelle società personali, un socio-amministratore che pure sia titolare di una frazione infinitesima del capitale può, sì, disporre di (pressoché) tutto il «potere», ma solo perché a quel «potere» corrisponde, non già il «rischio» di perdere l’equity [98], bensì il «rischio», equipollente, di essere personalmente escusso per le obbligazioni sociali, lo stesso assetto potrebbe, forse, ipotizzarsi anche con riguardo a quel socio di «società a responsabilità limitata» cui, a dispetto della quota marginale di capitale, fosse illegittimamente attribuita una golden quota.
Sia come sia: se il nostro diritto della «società per azioni» e se il nostro diritto delle «società personali» continuano – in piena coerenza con le direttrici di fondo del nostro intero diritto privato – a dettare un principio imperativo di una qualche inderogabile correlazionefra «rischio» e «potere», con tale principio il giurista non può non fare i conti (quali che siano le conclusioni cui questi “conti” dirigano).
[1] A seguito dell’opus magnum dell’analisi economica del diritto societario di F.H. EASTERBROOK, D.R. FISHEL, The Economic Structure of Corporate Law, Harvard University Press, Cambridge (MA), 1996, 74, il lavoro seminale in materia è, senza dubbio, quello di S.J. GROSSMAN, O.D. HART, Takeover Bids, the Free Rider Problem and the Theory of Corporation, in Bell Journal of Economics, 1980, vol. 11, no. 1, 42-69; nonché, ID., One Share/One Vote and the market for corporate control, Working Paper n. 2347, National Bureau of Economic Research, Cambridge, 1987, 1-57. Ma doveroso è anche il richiamo di H. DEANGELO, L. DEANGELO, Managerial Ownership of Voting Rights, in Journal of Financial Economics, 1985, vol. 14, 36 ss.; L.A. BEBCHUCK, R. KRAAKMAN, G. TRIANTIS, Stock pyramids, Cross-ownership, and Dual Class Equity: the Creation and Agency Costs of Separating Control from Cash-flow rights, in Concentrated Corporate Ownership, a cura di R. Morck, 2000 e anche, precedentemente, in Harvard Law School Olin,Discussion Paper No. 249, Cambridge 1999, 15; L.A. BEBCHUCK, A Rent-protection Theory of Corporate Ownership and Control, Discussion Paper n. 260 6/99, Cambridge, 1999, 1-37.
[2] HIGH LEVEL GROUP OF COMPANY LAW EXPERTS, Report on Issues Related to Takeover Bids, 2002 e ID., Report on a Modern Regulatory Framework for Company Law in Europe, 2002.
[3] SHEARMAN&STERLING-ISS-ECGI, Report on the Proportionality Principle in the European Union, 2007; M. BURKART, S. LEE, The One Share-One Vote Debate: a Theoretical Perspective, ECGI – Finance Working Paper n. 176/2007, 1.
[4] S. ALVARO, A. CIAVARELLA, D. D’ERAMO, N. LINCIANO, La deviazione dal principio “un’azione, un voto”e le azioni a voto multiplo, in Quaderno Giuridico Consob, n. 5, 2014.
[5] Ci si riferisce, all’evidenza, ai noti casi di “migrazione”, inaugurati da CNHI, e poi seguiti, inter alia, da Fiat (oggi FCA N.V.), Exor e, proprio da ultimo, Mediaset.
[6] La legge 3 ottobre 2001, n. 366 (d’ora innanzi, anche legge-delega per la riforma del diritto societario) imponeva, infatti, al legislatore delegato di ispirarsi al principio della “rilevanza centrale dei rapporti contrattuali tra soci” (art. 3, comma 1, lett. a).
[7] Su tutti: G. ZANARONE, Introduzione alla nuova società a responsabilità limitata, in Riv. soc., 2003, 1, 58; A. DACCÒ, I diritti particolari del socio nelle s.r.l., in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da P. ABBADESSA e G.B. PORTALE, Utet, Torino, 2006, 396; M. MAUGERI, Quali diritti particolari per il socio di società a responsabilità limitata?, in Riv. soc.,2004, 6, 1483; R. SANTAGATA, I diritti particolari dei soci, in S.r.l. Commentario dedicato a Giuseppe B. Portale, a cura diA.A. DOLMETTA e G. PRESTI, Giuffrè, Milano, 2011, 285.
[8] La legge-delega per la riforma del diritto societario ha infatti enunciato, quale “principio generale in materia di società di capitali”, quello dell’ampliamento degli “ambiti dell’autonomia statutaria, tenendo conto delle esigenze di tutela dei diversi interessi coinvolti” (art. 2, primo comma, lett. d).
[9] G. ZANARONE,(nt. 7), 58.
[10] Ad esempio: A. SANTUS, G. DE MARCHI, Sui «particolari diritti» del socio nella nuova s.r.l., in Riv. not., 2004, 1, 75; R. ROSAPEPE, Appunti su alcuni aspetti della nuova disciplina della partecipazione sociale nella s.r.l., in Giur. comm., 2003, 4, 479; R. GUGLIELMO, Diritti particolari dei soci nelle s.r.l. e voto non proporzionale, in Riv. not., 2010, 3,589; M. MAUGERI, (nt. 7), 1483; M. CAVANNA, Partecipazione e «diritti particolari» dei soci, in Le nuove s.r.l., a cura di M. SARALE, Zanichelli, Bologna, 2008, 125; R. SANTAGATA, (nt. 7), 291; A. BLANDINI, Categorie di quote, categorie di soci, in Collana della Rivista delle Società, a cura di G. ROSSI, Giuffrè, Milano, 2009, 95 ss. e, in particolare, alla p. 97; M. MALTONI, La partecipazione sociale, in La riforma della società a responsabilità limitata, a cura di C. CACCAVALE, F. MAGLIULO, M. MALTONI, F. TASSINARI, IPSOA, Milanofiori-Assago, 2007, 2a ed., 218: V. DE STASIO, Commento sub art. 2468. Quote di partecipazione, in Codice commentato delle s.r.l.,diretto da P. BENAZZO, S. PATRIARCA, Torino, 2006, 137; R. GENGHINI, Le modifiche statutarie, in AA.VV., Il nuovo ordinamento delle società. Lezioni sulla riforma e modelli statutari, IPSOA, Milano, 2004, par. 4.5.; E. FAZZUTTI, Commento sub art. 2468. Quote di partecipazione, in La riforma delle società, a cura di M. SANDULLI, V. SANTORO, Giappichelli, Torino, 2003, 57-58; P. REVIGLIONO, Commento sub art. 2468. Quote di partecipazione, in Il nuovo diritto societario,Commentario, diretto da G. COTTINO, G. BONFANTE, O. CAGNASSO, P. MONTALENTI, Zanichelli, Bologna-Roma, 2004, 1807; L. SALVATORE, La nuova s.r.l.: la disciplina dei conferimenti e delle partecipazioni sociali, in Contr. impr., 2003, 239-240; R. RORDORF, I sistemi di amministrazione e controllo nella nuova s.r.l., in Società, 2003, 666-667.
[11] G. ZANARONE,(nt. 7), 58; A. SANTUS, G. DE MARCHI, (nt. 10), 75; A. BLANDINI, (nt. 10), 54: “nella disciplina della società a responsabilità limitata non si rinvengono disposizioni dal contenuto analogo all’art. 2351, comma 2, ultima parte, c.c. e, in ogni modo, non vi è alcun argine «quantitativo» all’attribuzione di diritti particolari, che induca a far sì che l’assunzione delle decisioni di competenza dei soci sia sempre potenzialmente riferibile ad un numero di essi che corrisponda ad un’aliquota significativa del capitale sociale” (corsivo aggiunto).
[12] M. CAVANNA, (nt. 10), 116, la posizione del quale, tuttavia, appare non sempre coerente, come si vedrà oltre nel testo e in nota corrispondente.
[13] A. BLANDINI, (nt. 10), 54.
[14] M. PERRINO, La «rilevanza del socio» nella s.r.l.: recesso, diritti particolari, esclusione, in Giur. comm., 2003, I, 828-829 (e nota 28), ha osservato: “resta da chiedersi se una nomina della maggioranza o della totalità, al limite, degli amministratori affidata alla nomina diretta da parte dei singoli soci titolari di diritti particolari, a prescindere dalla misura della loro quota di partecipazionealla società, sia compatibile con il principio maggioritario; anche se, forse, v’è prima ancora da verificare se detto principio a ben guardare resista come limite …, visto che non è più sostenibile – per richiamare uno slogan assai diffuso – che chi «rischia di più» debba rispondere di un maggior potere, atteso che la quota del singolo può non corrispondere all’entità del suo conferimento (cfr. artt. 2346, comma 4, e 2468, comma 2” (corsivo aggiunto).
[15] La correttezza di quanto osservato nel testo non sembra contraddetta dalla posizione di quella dottrina che esclude che il «diritto particolare» (parrebbe: con contenuto patrimoniale) possa essere attribuito al socio che abbia effettuato un conferimento meno-che-proporzionale (ai sensi dell’art. 2464, comma 1, c.c.) o, in particolare, che non abbia effettuato alcun conferimento: ad esempio, R. SANTAGATA, (nt. 7), 296: “e parimenti illegittimo è il riconoscimento di privilegi patrimoniali a “soci” che non abbiano effettuato conferimenti, ancorché la copertura del capitale sociale nominale sia stata assicurata dal conferimento di altri soci in misura più che proporzionale alla loro quota”; così anche, P. SPADA, Classi e tipi di società dopo la riforma organica (guardando alla «nuova» società a responsabilità limitata), in Riv. dir. civ., 2003, 502; G. SANTONI, Le quote di partecipazione in s.r.l., in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da P. ABBADESSA e G.B. PORTALE, Utet, Torino, 2006,385; ma, in senso opposto, L.A. BIANCHI, A. FELLER, Commento sub art. 2468 c.c.,in Commentario alla riforma delle società, diretto da P. MARCHETTI, L.A. BIANCHI, F. GHEZZI, M. NOTARI,Egea-Giuffrè, Milano, 2008, 331. L’affermata impossibilità dell’attribuzione del privilegio al socio che nulla conferisce non comporta affatto, invero, per la stessa dottrina, l’affermata possibilità dell’attribuzione del socio che, sia pure in misura perfettamente proporzionale, effettui un conferimento “relativamente” (rispetto alla ownership totale conferita) marginale.
[16] R. GUGLIELMO, (nt. 10), 589, per il quale “prima facie, …, sembra che l’autonomia statutaria non incontri alcun limite nella previsione di «particolari diritti riguardanti l’amministrazione» da attribuire ai singoli soci” (e, condotta a termine la lettura del saggio, possiamo dire che, anche ultima facie, le cose non cambiano, per tale autore, con riguardo al problema in discorso); M. MAUGERI, (nt. 7), 1483; A. DACCÒ, (nt. 7), 290; A. BLANDINI, (nt. 10), 59; O. CAGNASSO, Gestione attribuita ai soci della società a responsabilità limitata e ruolo degli organi di amministrazione e controllo, in Riv. soc., 2008, 454; ID., La società a responsabilità limitata, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. COTTINO, vol. V, Cedam, Padova, 2007, 134; M. PERRINO, (nt. 14), 828; A. SANTUS, G. DE MARCHI, (nt. 10), 75, i quali – ad esser franchi, non molto coerentemente –, dopo aver per l’appunto affermato che il diritto di nomina di “uno o più amministratori” costituirebbe senz’altro uno dei possibili contenuti dei «particolari diritti», precisano stranamente che “in questo caso, in applicazione dei principi generali, se la clausola non prevede espressamente tale facoltà, probabilmente il socio titolare del diritto di nominare uno o più amministratori non potrà nominare sé stesso. Anche tale previsione, tuttavia, potrebbe alla fine essere ritenuta in conflitto con il principio della proporzionalità tra voto ed entità della partecipazione sociale”. In realtà, è pacifico che, anche nella società per azioni, il socio non sia in conflitto di interessi nella nomina di sé medesimo alla carica gestoria, sicché non si capirebbe per quale ragione – a fronte di un «diritto particolare» consistente nella facoltà di nomina di uno o più membri dell’organo gestorio – il socio privilegiato non potrebbe nominare sé stesso. Neanche chiaro appare, inoltre, il riferimento al principio di proporzionalità da parte di autori che, poco prima, hanno pacificamente ritenuto possibile che lo statuto attribuisca al socio privilegiato direttamente l’ufficio di amministratore (e ciò, a prescindere dall’entità della sua partecipazione).
Non del tutto lineare appare, invece, la posizione di M. CAVANNA, (nt. 10), 116 ss. Tale a. ammette, infatti, expressis verbis, che in una società con tre soci, ad uno solo di essi sia attribuita la facoltà di nomina dell’amministratore unico: egli pare, dunque, ammettere che un control esclusivo (“massimo”) possa essere attribuito al socio quale che ne sia la partecipazione (ownership). Successivamente (132 ss.), tuttavia, allorquando sostiene la tesi secondo cui il «diritto particolare» di nomina di uno o più amministratori non varrebbe a “consumare” il diritto di voto (secondo principi proporzionalistici, conformemente al criterio-base di cui all’art. 2468, comma 2, c.c.) con riguardo alla nomina dei “residui” amministratori, l’a. parrebbe pensare ad un “irriducibile” diritto dei soci non-privilegiati alla nomina di (almeno) alcuni residui amministratori. Non molto convincente è poi l’ulteriore tesi sostenuta da tale a., secondo la quale i «diritti particolari» attribuibili al socio privilegiato non potrebbero comunque pregiudicare il diritto della minoranza qualificata di cui all’art. 2479, comma 1, c.c. di provocare una decisione sociale su materie gestorie: appare, invero, paradossale che, per un verso, lo statuto possa “togliere” tout court il diritto di parola sull’amministrazione ai soci-non privilegiati (allorquando, ad esempio, la facoltà di nomina dell’amministratore unico sia fatta oggetto di un «diritto particolare» attribuito al singolo socio), ma, per altro verso, esso non possa pregiudicare un diritto di rilevanza certamente minore (qual è, per l’appunto, quello di cui all’art. 2479, comma 1, c.c.).
[17] A. BLANDINI, (nt. 10), 95 ss.
[18] G. CAPO, Il governo dell’impresa nella nuova era della società a responsabilità limitata, in Giur. comm., 2003, I, 501 e 506 si è, in realtà, espresso in termini dubitativi; similmente, L. ABETE, Idiritti particolari attribuibili ai soci di s.r.l.: alcuni profili, in Società, 2006, 295.
[19] A. SANTUS, G. DE MARCHI, (nt. 10), 88; così anche, R. GUGLIELMO, (nt. 10), 589; A. DACCÒ, (nt. 7), 404; M. CAVANNA, (nt. 10), 119.
[20] La conclusione appare, invero, dubbia se si considera che, per la stessa dottrina, il «diritto particolare» di cui all’art. 2468, comma 3, c.c. può ben consistere nell’attribuzione diretta dell’ufficio di amministratore unico, nel quale caso – all’evidenza – il socio privilegiato avrebbe, qua amministratore, anche i «poteri» di cui all’art. 2475, comma 5. Sotto il profilo sostanziale, in una simile situazione, il «diritto particolare» finirebbe per coprire anche le materie che tale ultima disposizione riserva «in ogni caso» alla competenza dell’organo gestorio (coincidente con l’ufficio di amministratore unico attribuito al socio qua talis quale «diritto particolare»).
[21] Lo stesso può dirsi con riguardo all’ulteriore limite consistente nell’impossibilità dell’attribuzione al singolo socio del potere unilaterale di modifica dello statuto sociale – e, in particolare, della modifica, anche di fatto, dell’oggetto sociale – individuato, ad esempio, da A. DACCÒ, (nt. 7), 404. Anche in tal caso, infatti, ciò che sarebbe precluso al socio privilegiato non attenuerebbe, se non marginalmente, il suo pieno «potere» in materia di ordinaria e straordinaria amministrazione (pur, beninteso, nei limiti dell’oggetto sociale).
[22] Così si è espresso l’Ufficio del Registro delle Imprese di Perugia, 2 aprile 2004 (con provvedimento poi annullato in via giurisdizionale da Trib. Perugia, 19 aprile 2004, n. 28, che però non ha preso posizione sulla questione), in Riv. not., 2004, 1542, con nota di M.C. LUPETTI, Deroga al criterio di proporzionalità tra partecipazione sociale e diritto di voto nelle s.r.l. tra vecchio e nuovo diritto societario, 1548.
[23] Così, in epoca, però, anteriore alla novella apportata all’art. 2351, c.c. in materia di azioni a voto plurimo, R. ROSAPEPE, (nt. 10), 479: “dubbio è … se la disposizione in esame [art. 2468, terzo comma, c.c.] possa legittimare la previsione di clausole statutarie che incidano anche sul diritto di voto, prevedendo che esso sia determinato senza tener conto del valore della partecipazione. A me pare che … la soluzione affermativa si scontri inevitabilmente con quanto prescrive il 5° comma, ultima parte, dell’art. 2479, secondo cui il voto del socio ‘vale in misura proporzionale alla sua partecipazione’. Norma che sembra confermare l’impressione che l’attribuzione di particolari diritti nell’amministrazione, consentita dal 3° comma dell’art. 2468, debba essere ristretta alle sole ipotesi prima esemplificativamente accennate e che, dunque, essa non possa riguardare anche il diritto di voto” (ma si veda la nota seguente). Più articolata la posizione di R. GUGLIELMO, (nt. 10), 589, il quale – dopo aver constatato l’ostacolo al voto non proporzionale rappresentato dall’art. 2479, quinto comma, c.c. – sembra (con più coerenza) convergere verso l’opinione intermedia “che ammette la deroga alla proporzionalità nelle sole materia di cui al 3° comma dell’art. 2468 c.c., rilevando, infatti, che “se è possibile che l’amministratore – ovvero la maggioranza o la totalità degli amministratori – venga nominato (o revocato) direttamente da un socio[,] a maggior ragione nessun ostacolo può essere individuato nell’ipotesi in cui ad un socio sia specificatamente attribuito un diritto di voto non proporzionale nella delibera di nomina (o revoca) dello stesso”; nello stesso senso, A. BLANDINI, (nt. 10), 62 ss.; P. REVIGLIONO, (nt. 10), 1807; M.C. LUPETTI, (nt. 22), 1555; M. NOTARI, Diritti «particolari» dei soci e categorie «speciali» di partecipazioni, in A.G.E., 2003, 325; M. MALTONI, Commento sub art. 2468 c.c.,in Il nuovo diritto delle società, a cura di A. MAFFEI ALBERTI, III, Cedam, Padova, 2005, 1183; M. MALTONI, (nt. 10), 217; G. GUERRIERI, Commento sub artt. 2479-2479 ter c.c., in Il nuovo diritto delle società, a cura di A. MAFFEI ALBERTI, III, Cedam, Padova, 2005, 2035; G. IACCARINO, Attribuzione del diritto di voto non proporzionale alla partecipazione sociale, in Società, 2008, 31; A. DACCÒ, (nt. 7), 405, la quale, similmente, osserva: “sembra … non avere senso negare la possibilità di ipotizzare un diritto di voto non proporzionale concernente, ad esempio, la nomina e la revoca degli amministratori, e ritenere, invece, del tutto lecito un diritto di procedere direttamente alla nomina e alla revoca degli stessi”.
Più possibilista circa l’ammissibilità del voto non proporzionale appare, invece, M. MAUGERI, (nt. 7), 1483, per il quale “gli indici testuali non sembrano decisivi, né in un senso, né nell’altro”, la soluzione dipendendo “dalla scelta di vertice che l’interprete ritenga di compiere in ordine all’esistenza di una ‘presunzione di derogabilità’ delle norme concernenti in via esclusiva i rapporti interni fra soci”.
Orientato, invece, in senso dichiaratamente favorevole appare R. SANTAGATA, (nt. 7), 293-294. Per tale a., anzi, mentre rispetto alla società azionaria si comprenderebbero i limiti alla “frattura” al principio di proporzionalità di cui all’art. 2351 c.c. in ragione della “potenziale spersonalizzazione della partecipazione sociale e [del]la sua attitudine alla circolazione” – che renderebbero “necessario scongiurare che un segmento della compagine sociale possa assumere un potere eccessivamente sproporzionato rispetto al rischio assunto” –, al contrario, rispetto alla società a responsabilità limitata, sarebbe possibile “valorizzare le qualità personali dei soci mediante la modulazione del diritto di voto; la regola dettata dall’art. 2468, terzo comma – continua l’a. – “incrin[erebbe] il principio capitalistico di una pura e semplice deroga al voto proporzionale in una determinata decisione gestoria, come dimostra il catalogo di prerogative … sopra scandagliate”.
Naturalmente – può osservarsi conclusivamente – la tesi dell’inammissibilità di deroghe al principio di proporzionalità del voto solo con riguardo a materie diverse da quelle espressamente previste dall’art. 2468, comma 3 (partecipazione agli utili e amministrazione) ha un qualche senso sistematico solo se si esclude che i «diritti particolari» siano attribuibili anche al di là delle materie ivi espressamente previste; qualora, infatti, si escludesse la “tassatività” dei «diritti particolari» (ammettendosene, al contrario, l’ampliamento ad libitum), circoscrivere l’area di inderogabile «proporzionalità del voto» alle materie degli utili e dell’amministrazione diverrebbe manifestamente insensato (un cenno in questa direzione parrebbe desumersi da R. SANTAGATA, (nt. 7), 293, in nota). Sul tema, si veda anche A. BLANDINI, (nt. 10), 62.
[24] Non sembra, invero, sistematicamente sensato immaginare che l’ordinamento, mentre, da un lato, consente una totale deviazione dal principio di proporzionalità fra diritti sociali e partecipazioni con riguardo ai diritti sociali par excellence – diritti corporativi e diritti patrimoniali, si ergerebbe, dall’altro lato, a “paternalistico” istitutore di un regime di imperativa proporzionalità con riguardo a diritti sociali certamente “minori”. Sotto questo profilo – e, sostanzialmente, sulla base di queste considerazioni – appare ben più coerente la posizione di R. SANTAGATA, (nt. 7), 294.
[25] In G.U. 14 febbraio 2019, n. 38, S.O. n. 6. L’entrata in vigore del codice della crisi di impresa e dell’insolvenza è differita di diciotto mesi dalla data della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (art. 389, comma 1), fatte salve talune disposizioni specifiche, entrate in vigore il 16 marzo 2019 (art. 390, comma 2), tra le quali, significativamente, quelle aventi ad oggetto gli “assetti organizzativi dell’impresa” (art. 375), quelle relative agli “assetti organizzativi societari” (art. 377), che ha, tra l’altro, modificato l’art. 2475 c.c.
[26] Come ben noto, il principio, originariamente sancito, in occasione della riforma del 2003, per la sola «società per azioni» (art. 2380-bis c.c. e art. 2409-novies c.c.) è stato poi esteso, con il recente intervento normativo, non solo alle società personali (art. 2257 c.c.), ma anche e per l’appunto alla «società a responsabilità limitata» nei termini di cui nel testo.
[27] Per prime riflessioni sul punto cfr. G. RESCIO, Brevi note sulla “gestione esclusiva dell’impresa” da parte degli amministratori di s.r.l.: distribuzione del potere decisionale e doveri gestori, in Il Societario, 2019, 1-8.
[28] In dottrina, infatti, si riscontrano – fra i primi commentatori – due diversi orientamenti. Da una parte stanno coloro che, distinguendo fra la «gestione organizzativa» (quella diretta a dare “forma” all’organizzazione imprenditoriale) e «gestione operativa» (quella propriamente diretta a compiere atti di gestione ovvero atti dispositivi del patrimonio sociale nel quadro del business scope), ritengono che soltanto la prima, ma non la seconda, costituirebbe oggetto di «riserva esclusiva» agli amministratori (e, ipotizzano, quindi, che con riguardo alla seconda, l’autonomia privata o statutaria possa contemplare “eccezionali” competenze gestorie”): così, N. ATLANTE, M. MALTONI, A. RUOTOLO, Il nuovo articolo 2475 c.c. Prima lettura, Studio n. 58-2019/I (approvato dal CNN il 14 marzo 2019), pubblicato in CNN-Notizie il 26/03/2019; N. ABRIANI, A. ROSSI, Nuova disciplina della crisi d’impresa e modificazioni del codice civile: prime letture, in Società, 2019, 399 ss.; O. CAGNASSO, Diritto societario e mercati finanziari, in NDS, 2018, 851 ss.; P. MONTALENTI, Gestione d’impresa, assetti organizzativi e procedure di allerta nella riforma Rordorf, in NDS, 2018, 951 ss.; G.A.M. TRIMARCHI, Codice della crisi: riflessioni sulle prime norme, in Notariato, 2019, 115 ss. Dall’altra parte, vi stanno, coloro, che, invece, contestano la validità di quella distinzione e pervengono, pertanto, alla conclusione che, quale che sia l’atto organizzativo e/o propriamente gestorio di cui discute, il medium dello «amministratore» sia imprescindibile, sicché escludono che possa configurarsi, in capo ai «soci», una competenza (lato sensu) gestoria che possa andare al di là di un potere sostanzialmente meramente autorizzatorio (così, appunto, G. RESCIO, (nt. 27), 7).
[29] Al riguardo sia consentito rinviare a E. BARCELLONA,La “gestione collettiva del risparmio” a seguito della direttiva GEFIA. Investment companies, family offices, club deals, SPAC, holding companies, in Quaderni di Giur. comm., Giuffrè, Milano, 2018, specie alla p. 91 ss.
[30] Nella società per azioni di grandi dimensioni, il tema della dissociazione tra proprietà e controllo è posto nei termini della attribuzione delle prerogative gestorie agli amministratori dirigenti dell’impresa sociale, a fronte di una proprietà largamente diffusa tra il pubblico, con conseguente progressivo trasferimento del «potere» dagli azionisti (investitori) all’élitedella classe manageriale (i gestori). Non è, ovviamente, questa la prospettiva pertinente ai fini del presente studio.
[31] F. D’ALESSANDRO, Aumento di capitale, categorie di azioni e assemblee speciali, in Giur. comm., 1990, II, 582: «appare giusto assegnare la prevalenza, nel contr[a]sto delle valutazioni circa l’individuazione dell’interesse comune nel caso concreto, ai soci che, avendo investito la maggior parte del capitale, corrono anche, appunto, la maggior parte del rischio; in applicazione di quel canone fondamentalissimo del diritto societario onde è affermata l’equazione e la proporzione di potere e responsabilità» (corsivo aggiunto).
[32] T. ASCARELLI, Interesse sociale e interesse comune nel voto, in Riv. trim. dir. proc. civ.,1951, 1148.
[33] Per l’esattezza, la norma è formulata in termini opposti: e cioè stabilendo che le azioni senza diritto di voto o con diritto di voto limitato non possono eccedere la metà del capitale sociale.
[34] Assumendosi infatti un capitale di 100, rappresentato per la metà da azioni senza diritto di voto, soltanto chi fosse titolare di almeno 26 azioni votanti disporrebbe del controllo di diritto dei voti nell’assemblea chiamata ad eleggere gli organi sociali.
[35] L’art. 2351, quarto comma è stato introdotto dall’art. 20, comma 8-bis, d.l. 24 giugno 2014, n. 91, conv. con modif., in legge 11 agosto 2014, n. 116. Per un ampio commento del nuovo istituto delle azioni a voto plurimo, ci si permette di rinviare a E. BARCELLONA, Commento sub art. 2351, co. 4,in Le società per azioni, diretto da P. ABBADESSA e G.B. PORTALE, II, Giuffrè, Milano, 2016, 563 ss. (ove ampi riferimenti).
[36] Si immagini una società ove 26 azioni conferiscono voto triplo, mentre le residue 74 voto singolo. In tal caso, il titolare di più del 25% del capitale disporrebbe della maggioranza assoluta dei diritti di voto nell’assemblea che nomina gli organi sociali. Risultato, questo, sostanzialmente analogo a quello che si realizzerebbe se le 26 azioni conferissero voto singolo, ma delle 74 azioni residue 50 fossero del tutto prive di diritto di voto.
[37] Fra i primi a rilevarlo, N. ABRIANI, Azioni a voto plurimo e maggiorazione del diritto di voto degli azionisti fedeli: nuovi scenari e inediti problemi interpretativi, in Giust. civ., 2014, 12.
[38] Sul punto sia permesso rimandare a E. BARCELLONA, Commento sub artt. 127 quinquies, 127 sexies, T.U.F., in Le società per azioni, diretto da P. ABBADESSA e G.B. PORTALE, II, Giuffrè, Milano, 2016, 3951 ss.
[39] Il termine di loyalty shares è improprio giacché farebbe pensare ad una «categoria» di azioni, mentre, come noto, la «maggiorazione del voto» è soltanto un beneficio “personale” attribuito all’azionista loyal. Per un dettagliato commento dell’istituto sia consentito rinviare a E. BARCELLONA, Commento agli artt. 127 quinquies, 127 sexies, T.U.F., in Le società per azioni, diretto da P. ABBADESSA e G.B. PORTALE, II, Giuffrè, Milano, 2016, 3951 ss.
[40] Senza considerare, peraltro, che la «maggiorazione del voto» è beneficio (i) accessibile a tutti, (ii) strutturalmente temporaneo (poiché subordinato al mantenimento della proprietà dell’azione) e, conseguentemente, (iii) strutturalmente inidoneo ad assicurarein termini stabili la più-che-proporzionalità fra cash-flow rights e voting rights.
[41] S. ALVARO, A. CIAVARELLA, D. D’ERAMO, N. LINCIANO, (nt. 4), 62; M. LAMANDINI, Voto plurimo, tutela delle minoranze e offerte pubbliche di acquisto, Relazione al XXVIII Convegno di studio Unione Europea: Concorrenza tra imprese e concorrenza fra stati, 2014.
[42] Termini, ovviamente, ampiamente tributari degli esiti di un ampio dibattito statunitense condotto per lo più con le categorie dell’analisi economica del diritto. Questi i riferimenti essenziali: M.C. JENSEN, W.H. MECKLING, Theory of the Firm: Managerial Behavior, Agency Costs, and Ownership Structure, in Journal of Financial Economics, 1976, vol. 3, 305-360; M. BURKART, D. GROMB, F. PANUNZI, Large Shareholders, Monitoring, and the Value of the Firm, in The Quarterly Journal of Economics, 1997, 112, 693-728; ID., Why Higher Takeover Premia Protect Minority Shareholders, in Journal of Political Economy, 1998, 106, 172-204; J.C. STEIN, Takeovers Threats and Managerial Myopia, in Journal of Political Economy, 1988, 96, 148-153; L.A. BEBCHUCK, L. STOLE, Do Short-TermObjectives Lead to Underinvestment or Overinvestment in Long-Term Projects, in Journal of Finance, 1994, 719 ss.; L.A. BEBCHUCK, (nt. 1), 15; J.N. GORDON, Ties that bond: dual class common stock and the problem of shareholder choice, in Cal Law Review, 1988, 76, 3 ss. Come vale a stento la pena di ricordare, l’intera linea di pensiero dell’analisi economica del diritto e, in particolare, della teoria giuridica incentrata sulla presenza di agency costs, è quintessenzialmente tributaria di R.H. COASE, Impresa, mercato e diritto, Il Mulino, Bologna, 1995, 73 ss.
[43] Si rammenti: leva «rischio»/«potere» >0,125; ovvero: occorre detenere almeno un ottavo del capitale per disporre della maggioranza dei diritti di voto.
[44] Il punto è pacifico: F. DENOZZA, Responsabilità dei soci e rischio di impresa nelle società personali, Giuffrè, Milano, 1973, passim; P. SPADA, La tipicità delle società, Cedam, Padova, 1974, 420 ss.; F. DI SABATO, Società in generale – Società di persone, in Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. PERLINGIERI, V, 4, ESI, Napoli-Roma, 2004, 163. Naturalmente, l’irrilevanza del peso percentuale della partecipazione sociale del socio amministratore è confermata a fortiori da coloro che affermano addirittura l’ammissibilità dell’affidamento dell’incarico gestorio anche a un terzo estraneo: A. GRAZIANI, Diritto delle società, 5a ed., Napoli, Morano, 1962, 118; G. MINERVINI, In tema di esclusione del socio amministratore unico di collettiva, in Dir. e giur., 1947, 248 ss.; A. VENDITTI, Collegialità e maggioranza nelle società di persone, ESI, Napoli, 1955, 82; (meno risolutamente), G. FERRI,Le società, in Trattato di diritto civile, fondato da F. VASSALLI, 10, III, Utet, Torino, 1987, 216.
[45] Quanto è vero per ogni società personale è altresì vero per una società in accomandita semplice, ove la dissociazione fra apportatori di «rischio» e detentori del «potere» ha il suo pendant tipologico nella distinzione fra «soci accomandanti» e «soci accomandatari». Anche in tal caso, l’ordinamento consente, a ben guardare, una dissociazione potenzialmente massima fra ownership e control. Nessuna disposizione impone, infatti, un certo equilibrio quantitativo fra l’apporto di chi «ha potere» (accomandatari) e l’apporto di chi «non ha potere» (accomandanti): è, dunque, ben possibile che, in una certa società in accomandita semplice, a fronte di apporti globali pari a 100 che siano provenienti per 99 dagli accomandanti e soltanto per 1 dall’accomandatario, costui finisca per disporre legittimamente della totalità del potere gestorio (control) del tutto a prescindere dal proprio “marginale” apporto di capitale (ownership). Interessante, al riguardo, P. BOERO, Accomandita semplice con unico accomandatario socio d’opera: spunti interpretativi, in Giur. comm., 1979, II, 697 ss.; ed anche E. MASCHIO, Inammissibilità ex art. 2319 della delibera assembleare di esclusione e revoca dall’amministrazione dell’unico accomandatario da parte dei soci accomandanti nella società in accomandita semplice, in Dir. fall., 1977, I, 23 ss.
[46] In proposito può rinviarsi a C. MONTAGNANI, Diritti di informazione, controllo individuale e controllo giudiziario nelle società prive di collegio sindacale, in Riv. dir. civ.,1983, I, 237 ss.
[47] Non è, qui, rilevante entrare nel tema del dibattito circa la qualificazione della responsabilità personale e illimitata del socio come responsabilità per debito proprio o come responsabilità per debito altrui. In questo ultimo senso (che, a nostro sommesso avviso, pare certamente più corretto), F. DI SABATO, (nt. 44), 173 (ove ampi riferimenti). Per Cass. civ. 16 aprile 2003, n. 6048, in Foro it., 2003, la posizione del socio non sarebbe assimilabile a quella di un fideiussore ex lege. Ma, ai fini del discorso di cui nel testo, non rileva affatto la circostanza che la responsabilità personale sia riconducibile in senso tecnico ad una «fideiussione ex lege» o, comunque, ad una garanzia ex lege (come, a nostro avviso, correttamente, F. DI SABATO, (nt. 44), 175: «la responsabilità personale sussidiaria dei soci di società semplice, in solido tra loro e con la società, …, ha natura di garanzia ex lege» – corsivo aggiunto).
[48] Quanto detto vale, all’evidenza, anche nel caso di società in accomandita semplice, riguardo alla quale può ben essere rimarcata la responsabilità illimitata del socio gestore accomandatario, titolare del control.
[49] Nelle società di capitali, si diceva, i creditori sono, sì, tutelati solo nei limiti del patrimonio sociale, ma, si aggiungeva, ciò è ritenuto tollerabile solo perché le norme corporativo-capitalistiche consentono una maggiore garanzia di effettività del capitale e di controllo sulla gestione (leggasi: norme sulla riduzione del capitale; principi di bilancio; collegio sindacale e poi società di revisione; et cetera) che “compensano” il deficit di tutela nei confronti del patrimonio personale dei soci. Per tutti, F. DENOZZA, (nt. 44), in particolare, 209 e ss.; G. ROSSI, Persona giuridica, proprietà e rischio d’impresa, Giuffrè, Milano, 1967, 97 ss.
[50] Significativamente, l’art. 2320 c.c. è stato letto proprio in questi termini da G. DI CHIO, L’art. 2320 c.c.: una norma quasi istituzionalistica, in Giur. comm., 1979, II, 200, il quale sottolinea come l’inderogabilità del regime di responsabilità dell’accomandante ingeritosi si fondi sul principio di ordine pubblico (per l’appunto “quasi istituzionalistico”) diretto ad «un responsabile esercizio del potere economico» (ovvero ad un esercizio di control soggetto ad un adeguato mix di incentivi ad una gestione “razionale” e “prudente”). Nello stesso senso la giurisprudenza: Cass., 22 giugno 1978, n. 3092, in Giust. civ., 1978, I, 1379; Cass., 19 dicembre 1978, n. 6085, in Giur. comm., 1979, II, 773. E così, in dottrina, anche, F. GALGANO, Diritto commerciale,vol. II, Le società, Zanichelli, Bologna, 1988, 111; FERRI, (nt. 44), 464; R. COSTI,Delle società in accomandita per azioni, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Zanichelli-Soc. ed. Foro it., Bologna-Roma, 1973, 20.
[51] Poiché «esposti ad un rischio illimitato», i gestori «garantiscono un’oculata e responsabile direzione dell’impresa sociale» (corsivo aggiunto): così, Cass., 22 giugno 1978, n. 3092, (nt. 50).
[52] Questa, come ricordato, era la posizione espressa, alla metà degli anni ’70 del secolo scorso, da F. DENOZZA, (nt. 44), 243-261.
[53] Si dice “apportata” in senso tecnico: giacché, all’evidenza, a seconda che l’impresa sia individuale o societaria le forme dello “apporto” cambiano radicalmente (soltanto nel caso di impresa societaria riscontrandosi la separazione patrimoniale fra patrimonio individuale e patrimonio dell’impresa).
[54] Non tragga in inganno il limite quantitativo posto, per le società per azioni, con riguardo all’emissione di obbligazioni (art. 2412 c.c.). Si tratta, infatti, di un limite che non riguarda l’apporto di debt in generale, ma solo l’apporto obbligazionario; e si tratta, per di più, di un limite che, ricorrendo certe condizioni, ben può essere valicato. Altrimenti detto: la disciplina delle obbligazioni non sposta affatto quanto si osserva nel testo.
[55] Si osserverà, a questo riguardo, che la stessa azione di responsabilità dei creditori sociali diviene esperibile allorché il patrimonio sociale “risulti insufficiente” al soddisfacimento dei crediti (v., quanto alla società per azioni, l’art. 2394, comma 2, c.c. e, quanto alla società a responsabilità limitata, l’art. 2476, comma 6, c.c., introdotto dall’art. 378 del “codice della crisi di impresa e dell’insolvenza”: d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14). Al riguardo si è osservato che “Se, invece, il patrimonio sociale sia sufficiente per il pagamento dei creditori, questi possono soddisfarsi su di esso e non hanno motivo – in una concezione privatistica e liberistica della s.p.a. – di far valere illegittimità commesse dagli amministratori”: F. BONELLI, La responsabilità di amministratori di società per azioni, Giuffrè, Milano, 1992, 184, il quale cita a questo riguardo, conformemente a quanto osservato, la Relazione c.c., n. 982 (nota 55). Le disposizioni, limitative dell’esperibilità dell’azione sociale di responsabilità da parte dei creditori sociali, postulano una vera e propria insindacabilità delle scelte gestorie degli amministratori (anche se in thesi dannose per la società) da parte del portatore di debt fintantoché l’equity sia sufficiente a garantire il soddisfacimento delle pretese dei creditori. Ove si interpreti responsabilità degli amministratori come uno dei meccanismi comunemente utilizzati per arginare l’eccessiva propensione al rischio creata dalla responsabilità limitata della persona giuridica (in questo senso F.H. EASTERBROOK, D.R. FISHEL, (nt. 1), 61: «One method of minimizing the incentive to engage in overly risky activities … is to impose liability on managers as well as enterprises»), si potrà allora affermare che non solo il portatore di debt non può incidere sulla gestione dell’impresa sociale fintantoché non si verifichi quello che, nel testo, è stato definito come “cambio di controllo” fallimentare, ma che gli stessi strumenti di reazione a condotte degli amministratori dannose per la società divengono attivabili da parte del portatore di debt solo allorché il patrimonio sociale risulti insufficiente al soddisfacimento delle pretese (fisse) di costoro.
[56] Su una attenta analisi degli interessi dei creditori e dei debitori può rinviarsi, ad esempio, a L. ENRIQUES, J.R. MACEY, Raccolta di capitale di rischio e tutela dei creditori: una critica radicale alle regole europee sul capitale sociale, in Riv. soc., 2002, 81 ss.
[57] Che il rischio del “conflitto di interessi” fra debitore e creditore sia (inter alia) una delle logiche profonde dell’istituto fallimentare è fatto palese dalla cruciale norma incriminatrice per il reato di “bancarotta semplice” (ove la natura penale della sanzione testimonia dell’intensità del rischio e della conseguente importanza della norma deterrente). Ai sensi dell’art. 217 legge fall., infatti, è punito «l’imprenditore che …ha consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti [o] ha compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento» (corsivo aggiunto). Entrambe le fattispecie incriminate individuano in modo davvero paradigmatico il venir meno del mix di incentivi ad una gestione “razionale” per l’appunto conseguente alla consumazione dell’equity. Per questa prospettiva, anche, T. JACKSON, R. SCOTT, On the Nature of Bankruptcy: an Essay on Bankruptcy Sharing and the Creditors’Bargain, in Virginia Law Review, 1989, 158-159 e 169 ss.
[58] Naturalmente, allorquando l’imprenditore de quo sia una società soggetta ad un requisito di capitale minimo, il “segnale di allerta” a tutela dei creditori scatta ancor prima del momento in cui il patrimonio netto sia eroso, essendo, infatti, sufficiente che, a seconda del caso, il patrimonio netto residuo cessi di rappresentare almeno i due terzi del capitale ovvero cessi di rappresentare almeno il capitale minimo richiesto per legge (per la società per azioni: artt. 2446-2447 c.c.). Ma queste considerazioni, di dettaglio, non spostano affatto la linea argomentativa di cui nel testo.
[59] Per l’istituto dello “spossessamento” è assai interessante l’illustrazione delle varie ipotesi di ricostruzione sistematica – perdita di proprietà da parte del debitore, interdizione atipica del fallito, sequestro dei beni del fallito, diritto di pegno a favore dei creditori, separazione del patrimonio del fallito a tutela del ceto creditorio – che si trova in F. FERRARA JR., A. BORGIOLI, Il fallimento, 5a ed., Giuffrè, Milano, 1995, 313 ss. È, in particolare, interessante che lo “spossessamento” fosse inteso come un “pegno ex lege” a favore dei creditori (descrizione, sotto il profilo economico-sostanziale, assai pertinente), giacché il diritto di pegno è quello che consente, al creditore, di poter “disporre” del bene pignorato. Sull’istituto dello “spossessamento” e sulla sua logica, fra gli altri, anche G.U. TEDESCHI, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Cedam, Padova, 2006, 189 ss.
[60] Come segnalano P. AGHION, O. HART, J. MOORE, The economics of Bankruptcy Reform, Working Paper, n. 4097, National Bureau of Economic Research, Cambridge, 1992, 20, la logica di fondo dell’istituto fallimentare è proprio questa: «with debt, the owner-manager retains control over the firm’s operation in non-default states, but the investor has some protection: if he doesn’t receive what he was promised, he can foreclose on the firm’s assets»; in questo senso, anche O. HART, J. MOORE, Debt and Seniority: An Analysis of the Role of Hard Claims in Constraining Management, in American Economic Review, 1995, 567.
[61] Le virgolette sono d’obbligo, giacché, a seguito di fallimento, salvo quanto si sta per rilevare nel testo, non esiste più una gestione profit-driven, bensì la mera amministrazione diretta alla liquidazione dell’impresa insolvente.
[62] Significativamente, si dibatte circa la riconduzione dell’esercizio provvisorio a “attività di amministrazione” (profit-driven) dei beni del fallito a “strumento di liquidazione” (loss-minimization). Fra i sostenitori della prima tesi: V. BUONOCORE, Fallimento e impresa, Morano, Napoli, 1969, 112; F. FERRARA, Il fallimento, 2a ed., Giuffrè, Milano, 1966, 473. Fra i sostenitori della seconda: R. PROVINCIALI, Manuale di diritto fallimentare, 5a ed., vol. II, Giuffrè, Milano, 1970, 1219; G. RAGUSA MAGGIORE, Diritto fallimentare, Morano, Napoli, 1974, 543.
[63] B. MEOLI, L’esercizio provvisorio dell’impresa del fallito, in Fallimento e altre procedure concorsuali, diretto da G. FAUCEGLIA, L. PANZANI,vol. II, IPSOA, Milano, 2009, 1171: «un potere altrettanto decisivo [rispetto a quello del curatore] – ma in negativo – è riconosciuto al comitato dei creditori: senza il parere favorevole di quest’organo, infatti, il giudice delegato non può accogliere l’istanza del curatore di avviare l’esercizio provvisorio». Il punto appare, francamente, pacifico: anche per le ragioni di cui nel testo.
[64] Come noto, all’indomani dell’entrata in vigore della riforma, sulla scorta del testo dell’art. 104-ter legge fall., come modificato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, ci si era chiesti se il potere di approvazione del programma di liquidazione fosse comunque rimesso, in ultima istanza, al giudice delegato (sebbene la Relazione alla riforma del diritto fallimentare sottolineasse il carattere vincolante del parere del comitato dei creditori). A seguito del decreto correttivo – d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 – il potere di approvazione è ormai expressis verbis del comitato dei creditori. Sul tema, si veda L. PANZANI, Programma di liquidazione, in Fallimento e altre procedure concorsuali, diretto da G. FAUCEGLIA, L. PANZANI,vol. II, IPSOA, Milano, 2009, 1142: «il legislatore ha certamente ridotto in misura rilevante i poteri del giudice delegato, perché ogni scelta in ordine al contenuto del programma di liquidazione è in questo modo riservata al comitato dei creditori».
[65] Ovviamente, tanto più capitalizzata l’impresa societaria, tanto più lontano il pericolo di un deterioramento della ricchezza creditoria. Ma, seppure tale rischio sia certamente più sensibile nel caso di società con equity “marginale” rispetto al debt, resta pur sempre incontestabile che la protezione del ceto creditorio continua ad essere tempestiva ed adeguata (e si potrebbe anzi dire: tempestivamente adeguata o adeguatamente tempestiva).
[66] Osserva, correttamente, N. ABRIANI, La struttura finanziaria della società di capitali nella prospettiva della riforma, in Riv. dir. comm., 2002, I, 151: «a tale regola generale [quella per la quale i creditori non devono avere “ordinariamente” alcun os loquendi sulla gestione sociale] potrebbero essere introdotte deroghe solo allorché la sorte dell’investimento sia già segnata per la sopravvenuta insolvenza della società e i creditori assurgano pertanto a destinatari elettivi e prioritari dei risultati dell’attività di gestione e conservazione in senso produttivo dell’impresa. Com’è stato autorevolmente rilevato, se il riconoscimento del potere di gestire l’impresa a chi fornisce il capitale di rischio si giustifica “fin quando l’investimento di rischio si conservi nell’attivazione dell’impresa, fin quanto l’impresa si esprima come going concern”, viceversa “quando i risultati negativi abbiano bruciato l’investimento di rischio, fermo restando che sembra ragionevole concedere a chi abbia investito a rischio opzione privilegiata nel rinnovare l’investimento, se ciò non avviene e il capitale di rischio risulti azzerato e non rinnovato, la legittimazione alla gestione dell’impresa, ormai qualificata come in crisi perché incapace di produrre reddito, per soddisfare nella naturale sequenza economica i debiti assunti, scende di uno scalino: passa cioè dall’investimento di rischio, che non c’è più, al capitale di credito, senza traumi particolari”». L’autore richiamato – il cui pensiero corrisponde esattamente a quello svolto nel testo – è B. LIBONATI, Prospettive di riforma sulla crisi dell’impresa, in Giur. comm., 2001, I, 332.
[67] Con la sola eccezione, che ha ben altra logica, delle emissioni obbligazionarie non-quotate da parte di società “chiuse” e a beneficio di investitori non-professionali. Ma, la diversità di trattamento fra obbligazioni “quotate” o destinate a investitori professionali versus obbligazioni “non quotate” o destinate a investitori non-professionali trova, infatti, a nostro avviso la sua ratio in un’esigenza di tutela dell’investitore “marginale” (non dotato di mezzi sufficienti per l’auto-protezione dinanzi ad un’operazione di investimento qua talis rischiosa). Questa è, peraltro, la lettura di N. SALANITRO, Strumenti di investimento finanziario e sistemi di tutela dei risparmiatori, in Banca, borsa e titoli di credito, 3, 2004, 284. Sulla logica di tutela dell’investitore marginale, ci si permette di rinviare anche a E. BARCELLONA, Responsabilità proporzionale dei gatekeepers e «regime di produzione» (pubblicistico, para-pubblicistico e para-privatistico) del bene «informazione», in Responsabilità societarie e assicurazione. Amministratori, sindaci e revisori, Quaderni diGiur. comm., a cura di P. MONTALENTI, Giuffrè, Milano, 2009, 66 ss.
[68] Questa è, ad esempio, dichiaratamente la prospettiva di U. TOMBARI, Azioni di risparmio e tutela dell’investitore (Verso nuove forme rappresentative della società con azioni quotate), in Riv. soc., 2002, 1087; nonché (da quest’ultimo citato), E. FERRAN, Company Law and Corporate Finance,Oxford University Press, Oxford, 1999, passim, e F.H. EASTERBROOK, D.R. FISHEL, (nt. 1), 1 ss. Nello stesso senso, fra gli altri, M. LAMANDINI, Struttura finanziaria e governo nelle società di capitali, Il Mulino, Bologna, 2001, 124; G. FERRIJR., Fattispecie societaria e strumenti finanziari, in Profili patrimoniali e finanziari della riforma. Atti del convegno. Cassino, 9 ottobre 2003, Quaderni di Giur. comm., a cura di C. MONTAGNANI, Milano, 2004, 67 ss.; ID., Finanziamento dell’impresa e partecipazione sociale, in Riv. dir. comm., 2002, I, 121; C. MARCHETTI, La “nexus of contracts” theory. Teorie e visioni del diritto societario, Giuffrè, Milano, 2000, 16 ss.
[69] Conferma la validità della nostra lettura del dispositivo fallimentare come meccanismo idoneo a realizzare un change of control a tutela del ceto creditorio, l’interessante prospettiva di P. AGHION, O. HART, J. MOORE, (nt. 60), 24-25 per i quali una procedura fallimentare “ideale” dovrebbe per l’appunto muovere dalla (i) cancellazione dei debiti, (ii) conversione dei crediti in azioni e (iii) attribuzione ai creditori delle nuove azioni o di opzioni per la sottoscrizione delle nuove azioni. Prospettiva, questa, che ha dato luogo, ad esempio, al «nuovo» istituto del concordato fallimentare ove, ai sensi dell’art. 124, comma 2, lett. c, legge fall., è ora possibile che la proposta concordataria preveda «la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche cessione mediante cessione dei beni, accollo o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l’attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni o altri strumenti finanziari e titoli di debito» (corsivo aggiunto). Per l’allocazione dell’equity risultante dalla conversione dei crediti, id., 38; L.A. BEBCHUK, A New Approach to Corporate Reorganizations, in Harvard Law Review, 1988, 775-804.
[70] Il diritto di attivare la procedura fallimentare non è, infatti, validamente rinunciabile ex ante. Il tema in esame deve essere distinto dalla questione inerente alla validità della rinuncia convenzionale alla domanda di fallimento stipulata nelle more di uno stato di crisi, cd. pactum de non petendo, che, al pari della rinuncia all’istanza di fallimento già presentata, è oggi ritenuta ammissibile: P. PAJARDI, A. PALUCHOWSKI, Manuale di diritto fallimentare, Giuffrè, Milano, 2008, 119-120; F. FERRARA JR., A. BORGIOLI, (nt. 59), 238; M. FABIANI, Commento subArtt. 6 e 7, in Il nuovo diritto fallimentare, diretto da A. JORIO, M. FABIANI, Zanichelli, Bologna-Torino, 2006, 113; P. RONCOLETTA, Commento subart. 6, in Codice del fallimento, a cura di P. PAJARDI, Giuffrè, Milano, 2009, 114; M. FERRO, Art. 6 – Iniziativa per la dichiarazione di fallimento, in La legge fallimentare. Commentario teorico pratico, a cura di M. FERRO, Cedam, Padova, 2011, 98. Peraltro, G. DE SEMO, Diritto fallimentare, Cedam, Padova, 1968, 137-138, ritiene ammissibile il patto di rinuncia all’azione in forza del quale l’obbligazione civile si trasforma in naturale, e invalido il patto con cui pur conservando il diritto di agire personalmente il creditore rinuncia a chiedere il fallimento, in considerazione della “funzione sociale” svolta dal potere di denunciare lo stato di insolvenza del debitore e provocarne quindi il fallimento, attinente ad una dimensione di ordine pubblico che lo rende inderogabile.
[71] F. LAMANNA, Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Giuffrè, Milano, 2019, 111 ritiene trattarsi del “settore normativo di gran lunga più importante e caratterizzante la riforma concorsuale posta in essere con il nuovo Codice”.
[72] Come, invece, parrebbe ritenere, M. LAMANDINI, (nt. 68), 155-156.
[73] Sull’istituto della decadenza del debitore dal beneficio del termine, con rilievi importanti ai fini di cui nel testo, già in tempo risalente, SALVI, Impossibilità della prestazione e diritto al termine, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, 440; in tempi più recenti, C.M. BIANCA, Diritto civile, vol. IV, L’obbligazione, Giuffrè, Milano, 1993, 220 ss. e 223: «la norma sulla decadenza dal termine esprime il seguente principio: il fatto del debitore che mette in serio pericolo il soddisfacimento del credito rende immeritevole il suo interesse ad attendere la scadenza del termine» e 221 (nota 46): «la finalità perseguita con detta norma è quella di tutelare il creditore contro il pericolo di perdere le garanzie patrimoniali del proprio debitore». Il rischio è, per l’appunto, quello di un “peggioramento delle garanzie patrimoniali” indotte da una condotta “anti-creditoria” del debitore insolvente. Così anche A. DI MAJO, Adempimento in generale, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Zanichelli-Soc. ed. Foro it., Bologna-Roma, 1994, 223.
[74] Significativamente, la decadenza dal beneficio dal termine si ritiene occorra anche nel caso in cui il debitore dichiari di non voler adempiere (C.M. BIANCA, (nt. 73), 223): in tal caso, infatti, è “confessata” la ricorrenza del conflitto di interessi fra debitore e creditore.
[75] In realtà, in seno all’art. 1186 c.c., il “fatto proprio” è menzionato solo con riguardo alla diminuzione delle garanzie date; ma è evidente che altrettanto imputabile al debitore sia la mancata concessione di garanzie promesse. In questi termini, ci sembra che quanto si osserva nel testo sia perfettamente funzionale alla conduzione dell’argomento.
[76] A. DI MAJO, (nt. 73), 223: «nella diminuzione (o nella mancata prestazione) delle garanzie, deve esservi la colpa del debitore onde la decadenza assume carattere di sanzione» (corsivo aggiunto); nello stesso senso, U. NATOLI, L’attuazione del rapporto obbligatorio, vol. I, Giuffrè, Milano, 1974, 126.
[77] Per un’interessante prospettiva in tal senso, nella letteratura giuridica statunitense, S.J. HARDAWAY, Debtor-Creditor Conflict over Acceleration, in University of Florida Law Review, 1964, 163.
[78] Per la nostra giurisprudenza, la richiesta di pagamento immediato non ha bisogno di una preventiva pronuncia costitutiva circa la decadenza del debitore dal beneficio del termine, poiché la sentenza o il decreto ingiuntivo che accolgono la domanda implicitamente accertano l’avveramento della condizione dell’insolvenza: così ad esempio, Cass., 5 dicembre 1989, n. 5371, in Mass. Giust. civ., 1989, fasc. 12; C.M. BIANCA, (nt. 73), 222.
[79] S.J. HARDAWAY, Debtor-Creditor Conflict over Acceleration, (nt. 77), 179, si intrattiene – giustamente – sul rischio di una «acceleration creating usury»: «even if unearned interest is not recoverable by a creditor after acceleration, in certain cases the possibility exists that the acceleration may cause the amount of interest due at the time of acceleration to exceed the legal rate and thereby create usurious interest. This possibility is particularly notable when a debtor receives from his creditor less than the face value of his obligation; the difference is sometimes labeled as ‘discount’, ‘bonus’or ‘deduction’».
[80] La dissociazione, beninteso, è solo parziale, giacché il mandante non perde il control, semplicemente lo “duplica” anche a favore del mandatario.
[81] Per un commento della norma può rinviarsi a L. NANNI, Dell’estinzione del mandato, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Zanichelli-Soc. ed. Foro it., Bologna-Roma, 1994, 42 ss.; si veda anche C. SANTAGATA, Del Mandato. Disposizioni generali,in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, Zanichelli-Soc. ed. Foro it., 1985, 91-106; e ID., Del mandato. Delle obbligazioni del mandatario. Delle obbligazioni del mandante, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Zanichelli-Soc. ed. Foro it., Bologna-Roma, 1998, 76 ss..
[82] Osserva L. NANNI, (nt. 81), 42 ss. richiamando l’orientamento tradizionale: “[il mandatario] agisce per conto di un altro ed è perciò quanto mai opportuno che la sua attività sia interrotta dopo che è venuta meno la fiducia della persona nel cui interesse è compiuta”. Rispetto poi all’orientamento più recente – A. CATAUDELLA, Intuitus personae e tipo negoziale,in Scritti Giuridici, Cedam, Padova, 1991, 179 ss.; G. BAVETTA, Sulla revoca del mandato, in Scritti in onore di S. Pugliatti, Giuffrè, Milano, 1978, 92 – che collega piuttosto la revocabilità ad nutum non tanto al venir meno dell’intuitus personae, ma per l’appunto alla insopprimibile «signoria» del mandante sulla propria situazione giuridica, lo stesso a. citato osserva: “in realtà non si vede una rottura fra il modo tradizionale di spiegare il potere del mandante e la più recente, e sicuramente più approfondita, giustificazione. Nessuno dubita che il tradizionale requisito della fiducia del mandante verso il mandatario non sia da intendersi in senso tecnico, come se il mandato debba necessariamente venir meno nel momento in cui il mandante perde la fiducia verso il mandatario e solo per questa ragione. Vi è sicuramente una parte del significato della fiducia, …, che si è perso; ma rimane la considerazione che il mandatario è la persona che agisce per conto del mandante” (corsivo originale). La ratio ultima del regime di revocabilità ad nutum (salvo il risarcimento del danno) viene, quindi, coerentemente con quanto si osserva nel testo, ricondotta alla necessità imperativa che il «signore» della situazione giuridica mantenga inalterata la piena «libertà nelle scelte gestionali».
[83] Che le cose stiano nei termini di cui nel testo – ci sembra – è pacifico: si veda L. NANNI, (nt. 81), 99 ss. (ove riferimenti alla dottrina civilistica sul punto).
[84] A. BELFIORE, Interpretazione e dommatica nella teoria dei diritti reali, Giuffrè, Milano, 1979, 447 ss.
[85] A. BELFIORE, (nt. 84), 478: “si spiega così, a mio avviso, perché dottrina e giurisprudenza risolvano il senso della Rivoluzione francese nell’abolizione dei diritti feudali (e signorili) e delle «redevances foncières perpetuelles» e perché, conseguenzialmente, – contraddicendo alle indicazioni del codice napoleonico e alle proprie elaborazione sul ruolo e la funzione dell’interpretazione – applichino, oltre i confini fissati dal legislatore, la disciplina del diritto reale”; e ancora, alla p. 448: “con l’avviarsi del processo di industrializzazione e col consolidarsi poi delle economie capitalistiche il potere economico viene … a risolversi nello schema della proprietà e del rapporto obbligatorio (lato sensu)”. Sul tema si veda anche M. BARCELLONA, Proprietà privata e intervento statale. Profili istituzionali della questione agraria, Jovene, Napoli, 1980, 3-149.
[86] A. BELFIORE, (nt. 84), 452: “all’origine, la circolazione di tali diritti [quelli di tipo feudale] si esauriva, essenzialmente, nel fenomeno della successione ereditaria e .., in ogni caso, tale circolazione si identificava con la cessione dello status socio-politico”.
[87] A. BELFIORE, (nt. 84), 512: “la tipicità dei diritti reali si ricollega – all’interno del sistema elaborato dal legislatore del 1865 – a due ordini di ragioni. Dai lavori preparatori emerge chiaramente che, al di fuori delle situazioni soggettive sui beni già disciplinate, i privati avrebbero potuto dar vita, esclusivamente, a forme di scissione tra proprietà e utilizzazione dei beni, che avrebbero espresso interessi non economici o, comunque, interessi restanti al di fuori del quadro di sviluppo [produttivo-borghese o capitalistico-borghese] pensato. A ciò si ricolleghi l’ulteriore convincimento secondo cui un’eventuale realità di tali situazioni soggettive si sarebbe obiettivamente tradotta in un ostacolo ad una pacifica e razionale gestione dei beni” (corsivo aggiunto). Il passo è, ovviamente, fondamentale ai fini di cui nel testo.
[88] Per una ricostruzione di questo tipo, si veda, in particolare, M. BARCELLONA, Diritto, sistema, senso. Lineamenti di una teoria, Giappichelli, Torino, 1996, passim.
[89] Per un’analisi istituzionale delle posizioni giuridiche dell’usufruttuario, F. DE MARTINO, Dell’usufrutto, dell’uso e dell’abitazione, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Zanichelli-Soc. ed. Foro it., Bologna-Roma, 1978, 180 ss.
[90] Si dice tendenzialmente, giacché l’usufruttuario non avrà interesse a sostenere costi e/o a effettuare investimenti che incrementino solo nel lungo termine (post cessazione del diritto di usufrutto) la redditività dell’asset sottostante: per queste considerazioni – che non spostano quanto si osserva nel testo – può rinviarsi, con specifico riferimento all’usufrutto su azioni, a E. BARCELLONA, Clausole di put&call a prezzo predefinito. Fra divieto di patto leonino e principio di corrispettività, Giuffrè, Milano, 2004, 33 ss.
[91] Dalla disciplina dei diritti reali si trae, peraltro, anche il principio per il quale una “gestione” economicamente inefficiente è comunque idonea a “interrompere” la dissociazione «rischio»/«potere»: l’usufruttuario “inerte” che si disinteressi del deterioramento del bene può perdere l’usufrutto (art. 1015 c.c.); e analogamente può ritenersi con riguardo all’usufruttuario “iper-attivo” che, per via di una “eccessiva propensione al rischio”, esponga il bene al rischio di “perimento”. In altri termini, l’ordinamento istituisce dei casi di “restituzione” del control al proprietario laddove il “gestore” esponga a un rischio “eccessivo” la “proprietà altrui”.
[92] Si dice “parti” in senso atecnico, giacché trattandosi di diritto reale e non di diritto obbligatorio, le posizioni giuridiche sono per l’appunto, per così dire, “reali”-zzate.
[93] A. BELFIORE, (nt. 84), 509-510.
[94] Naturalmente, il diritto di usufrutto che social-tipicamente non nasce da uno scambio, può anche essere costituito ex contractu: ma, per l’appunto, può esserlo solo e soltanto alle condizioni imperative e tipiche sopra sottolineate.
[95] Ed infatti i cash-flow rights “societari” – corrispondenti al “godimento della cosa” e al diritto ai frutti” dell’usufruttuario – andrebbero piuttosto sostanzialmente per intero ai soci «senza potere», ma «con rischio».
[96] Ammettere, anche ad absurdum, che l’usufruttario abbia il “solo” diritto di voto equivarrebbe, peraltro, ad ammettere una “cartolarizzazione” di voting-only shares: il che è unanimemente escluso dalla dottrina nazionale e internazionale: M.S. SPOLIDORO, Conferimenti e strumenti partecipativi nella riforma delle società di capitali, in Dir. banc. mer. fin., 2003, 214: “d’ora in avanti, per le quasi-azioni (alias per gli strumenti finanziari) potremmo forse assistere alla nascita di titoli che hanno diritti di natura amministrativa, senza però partecipare né agli utili né al capitale. La conclusione pare assurda”; M. NOTARI, Le categorie speciali di azioni e gli strumenti finanziari partecipativi, in AA.VV., Il nuovo ordinamento delle società, IPSOA, Milano-Assago, 2003, par. 9, il quale, similmente, parla di “fattispecie negoziale priva di causa e pertanto invalida”; M. NOTARI, A. GIANNELLI, Strumenti finanziari partecipativi (Commento all’art. 2346, comma 6°, c.c.), in Commentario alla riforma delle società, diretto da P. MARCHETTI, L.A. BIANCHI, F. GHEZZI, M. NOTARI,Egea-Giuffrè, Milano, 2008, 87; G. MIGNONE, Strumenti finanziari partecipativi(art. 2346, 6° comma, c.c.), in Codice Ipertestuale delle Società, 582 e 589; A. GIANNELLI, Sulla competenza a deliberare l’emissione di strumenti finanziari partecipativi, in Riv. dir. comm.,2006, I, 169; M. MIOLA, Gli strumenti finanziari nella società per azioni e la raccolta del risparmio tra il pubblico, in Riv. dir. comm., 2006, I, 455; U. TOMBARI, Gli strumenti finanziari nella riforma delle società di capitali, in Riv. dir. comm., 2006, I, 149. Con specifico riguardo alle azioni, fra i tanti, A. ANGELILLIS, L. VITALI, Commento sub art. 2351 c.c., in Commentario alla riforma delle società, diretto da P. MARCHETTI, L.A. BIANCHI, F. GHEZZI, M. NOTARI,Egea-Giuffrè, Milano, 2008, 381 ss. (che riferiscono delle voting-only shares ammesse per diritto statunitense).
Peraltro, anche coloro che ammettono la liceità della vendita del voto, in realtà, escludono che la suddetta vendita possa avvenire con “efficacia reale” e cioè mediante la cartolarizzazione di voting-only shares: così, ad es., E. SCIMEMI, La vendita del voto nelle società per azioni, Giuffrè, Milano, 2003, 17 ss.; D. REGOLI, Il voto come diritto disponibile nelle società quotate, Giappichelli, Torino, 2000, 15 ss.
[97] Trattasi, però, di prassi non ancora testata – per quanto a noi consta – dal conflitto giudiziario.
[98] Tale rischio è, infatti, sostanzialmente nullo in capo al socio cui sia riferibile una quota infinitesima del capitale sociale.