Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2282-667X
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L'impegno multistakeholder della società benefit (di Serenella Rossi *)


Nel presente articolo l’Autrice sottolinea la novità della introduzione della società benefit quale strumento per un approccio multi-stakeholder al diritto societario che potrebbe rivelarsi un significativo passo avanti nell’attuale quadro giuridico; sottolinea, tuttavia, che la legge lascia un ampio potere agli azionisti in merito a come articolare il proprio scopo sociale o di pubblica utilità e, quindi, in merito alla decisione se e come rendere la società e il suo management responsabili verso gli stakeholders.

The Multi-stakeholder Commitment in the [Italian] Benefit Company

In this paper the Author underlines the novelty of the benefit corporation as a tool for a multi-stakeholder approach to corporate law that might prove as a significant step forward in the current legal framework; she also points out, however, that the law leaves a wide discretionary power to shareholders regarding how to articulate the benefit objective and therefore if and how to make the benefit corporation and its management accountable toward stakeholders.

KEYWORDS: benefit company – multistakeholder commitment – corporate social responsibility

Sommario/Summary:

1. Le promesse della società benefit - 2. La funzione del modello e il problema dell’accountability - 3. La società benefit e la Corporate Social Responsibility - 4. Il ruolo degli amministratori e il sistema di enforcement - NOTE


1. Le promesse della società benefit

Il modello della società benefit, così peculiare sul piano funzionale e per certi versi singolare nel suo apparato disciplinare, è stato accolto, sia in Italia, sia negli stati nordamericani che l'hanno originariamente concepito, da reazioni vivaci e contrastanti.

Con un'enfasi piuttosto insolita, infatti, sul nuovo modello sono stati espressi giudizi tanto opposti quanto radicali, all'insegna dell'estremo apprezzamento da un lato e di un notevole scetticismo dall'altro.

Le sue caratteristiche possono, del resto, spiegare tutto questo. Al modello si affida (anche) il compito di perseguire obiettivi di bene comune e già questo elemento attrae l'attenzione e rafforza le aspettative dei sostenitori di un'economia a vocazione sociale, generalmente favorevoli a tutte le soluzioni che sembrino idonee a raggiungere più efficacemente i risultati auspicati. Ma il dato veramente innovativo risiede nella natura profit dell'impresa benefit e nell'ibridazione del suo scopo lucrativo con le finalità sociali, ciò che porta a vederla e proporla come una formula capace di trasformare il modello di produzione di ricchezza consolidato ed esclusivamente orientato al profitto o, quantomeno, come un <<tentativo di correzione dell'attuale funzionamento dell'economia di mercato>>.[1]

Per altro verso, il nuovo modello ha raccolto critiche impietose, sia in Italia che oltre Oceano. Da un lato si è sottolineata la sostanziale inutilità di una simile riforma, considerata la ritenuta - e già vigente - legittimità delle politiche di CSR poste in essere dagli amministratori di società lucrative ove considerate funzionali al valore di lungo termine dell'impresa e scrutinate secondo la business judgement rule. Dall'altro si è rilevata la debolezza di una disciplina che regola l'impegno sociale dell'impresa su base ancora troppo volontaristica per garantire seriamente gli interessi dei suoi stakeholder non finanziari e che per giunta potrebbe distrarre il legislatore da più efficaci iniziative di regolazione delle attività economiche a protezione del bene comune, basate su regole più stringenti.[2]

È difficile, al momento, stimare le chance di successo della società benefit, le sue opportunità di impiego così come la capacità di assolvere a quella missione, in senso lato, sociale che vorrebbe esserle affidata. Le sue possibilità di sviluppo e di efficace applicazione appaiono, peraltro, inevitabilmente condizionate dalle sue regole di funzionamento e, soprattutto, dalle caratteristiche funzionali del modello che da quelle norme si ricavano.


2. La funzione del modello e il problema dell’accountability

In una prospettiva sistematica è senz'altro da accogliere la tesi che reputa la disciplina della società benefit estranea a quelle impostazioni teoriche e/o soluzioni normative tese a regolare il conflitto tra istanze antagoniste (dei proprietari dell'impresa da un lato e di uno o più diversi stakeholder dall'altro) in funzione di un certo equilibrio desiderato mediante l'attribuzione di rispettive posizioni soggettive e la inquadra invece in un'opzione del legislatore volta ad agevolare i soci nella scelta, del tutto privata, di ordinare le proprie divergenti preferenze, aggregando e includendo obiettivi di bene comune nell'esercizio di un'attività comunque lucrativa[3].

A fondare la società benefit è infatti una decisione prettamente negoziale, circoscritta alla volontà degli shareholder che in tal modo compongono l'eventuale conflitto tra le loro diverse visioni degli obiettivi da assegnare alla propria impresa. E, trattandosi di un'impresa che resta pur sempre lucrativa (o mutualistica, se del caso), questa opzione può essere animata da diverse e varie motivazioni, da quelle più autenticamente altruistiche, a quelle, fondamentalmente egoistiche, di ricerca di nuove opportunità di mercato presso controparti sensibili ai temi della responsabilità sociale. Anche in tal caso si tratterebbe di un uso del modello del tutto legittimo se condotto assoggettandosi alla valutazione esterna di un soggetto indipendente e adempiendo agli obblighi di trasparenza e rendicontazione previsti dalla disciplina.

Potrebbe, pertanto, non avere molto senso domandarsi se la società benefit presenti affinità funzionali con le iniziative tipiche del terzo settore o vada a collocarsi in quella zona di confine tra profit e non profit ora denominata "quarto settore". Vi è in atto indubbiamente una moltiplicazione delle forme di esercizio dell'attività di impresa con finalità sociali che si vanno specializzando e diversificando, sia in Italia che all'estero, connotato dalla riduzione delle distanze tra profit e non profit (v. ad es. le Low Profit Limited Liability Corporations, c.d. L3Cs, negli Stati Uniti) [4] tra le quali la società benefit può essere anche annoverata, ma le sue caratteristiche funzionali la rendono un unicum e un soggetto per certi versi ubiquitario, stante la flessibilità delle sue possibilità e finalità di impiego.

Confermano questo inquadramento del modello l'assoluta volontarietà della scelta dei soci di assumere gli obiettivi sociali tra quelli per i quali è costituita la società e la loro libertà di conformare tale combinazione di interessi come meglio credono, l'assenza di incentivi e di controlli pubblici sul conseguimento dei risultati di bene comune programmati, la mancata attribuzione esplicita di diritti o poteri agli stakeholder non finanziari che possano risultare diretti o indiretti beneficiari delle iniziative programmate dalla società. L'unico interesse pubblico che il legislatore si preoccupa di garantire pare quello dei mercati, e dei portatori di interesse in genere, alla corretta informazione in merito agli obiettivi programmati dalla società benefit, ai risultati raggiunti e al loro impatto sugli interessi ricompresi nell'ambito delle aree di analisi indicate dalla disciplina.

Per la verità, le normative degli stati nordamericani che hanno introdotto e regolato il modello della benefit corporation, così come la Model Benefit Corporation Legislation, si sono preoccupate di negare espressamente qualsivoglia diritto, potere, o azione ai titolari degli interessi esterni che la società si è impegnata a perseguire, escludendo la responsabilità personale degli amministratori nei confronti dei terzi per l'inadempimento degli obblighi collegati alla cura degli obiettivi di bene comune, quasi a voler sciogliere un dubbio che si sarebbe potuto altrimenti, e comunque, porre.

Non così la disciplina italiana, che tace sul punto, lasciando all'interprete il compito di verificare se tali diritti o poteri possano ritenersi esclusi in considerazione delle caratteristiche peculiari del modello o se invece possano ancora scaturire da altre regole di diritto comune comunque applicabili che, integrando la disciplina speciale, potrebbero in qualche modo modificarne l'originaria fisionomia.

Si pensi alla disposizione di cui all'art. 2395 c.c. che regola la responsabilità degli amministratori di società per azioni nei confronti di soci e terzi per atti dolosi o colposi che li abbiano direttamente danneggiati.

Non vi è dubbio che la norma in questione possa estendere la responsabilità degli amministratori di società benefit verso terzi danneggiati per via della moltiplicazione e diversificazione dei doveri che inevitabilmente si producono in capo ai gestori della società. La norma resterebbe tuttavia operante nei limiti in cui essa è concepita, e cioè come una responsabilità di tipo extracontrattuale, attivabile a fronte di un danno diretto subito dal terzo, senza che ciò possa comportare l'emersione di nuovi e specifici doveri fiduciari dei gestori nei confronti dei potenziali beneficiari delle iniziative sociali programmate dalla società.[5]

Per altro verso, l'inadempimento degli amministratori di società benefit che mancassero di perseguire le finalità di bene comune programmate dai soci provocherebbe, in via diretta e immediata, una lesione dell'interesse sociale identificato e definito da questi ultimi nel contratto di società e rappresenterebbe la violazione di doveri fiduciari che esistono esclusivamente nell'ambito del rapporto tra i proprietari dell'impresa e i suoi gestori.

In un simile scenario, il pregiudizio provocato alla sfera degli stakeholder non finanziari, che siano portatori di interesse nel caso concreto, si atteggia come danno al terzo soltanto indiretto, come tale estraneo alla fattispecie di cui all'art. 2395 c.c. Il carattere apparentemente paradossale di questa conclusione si spiega con le peculiarità della combinazione di interessi voluta dai soci nei loro accordi, nella quale all'obiettivo sicuramente egoistico del conseguimento del profitto deve essere coordinato un obiettivo la cui realizzazione, sebbene programmata e voluta dai soci, è nell'interesse anche, e talora prevalentemente, di terzi.

Pertanto, fatta salva la possibile responsabilità della società per l'inadempimento di quegli impegni che possa avere più o meno esplicitamente assunto nell'ambito di quelle attività di consultazione e negoziazione eventualmente attivate con i predetti stakeholder, la normativa sulla società benefit, così come concepita anche dal legislatore italiano, non pare in grado di generare doveri specifici degli amministratori nei confronti dei terzi interessati che non siano quelli della corretta e veritiera informazione sulle azioni intraprese e sugli obiettivi raggiunti.


3. La società benefit e la Corporate Social Responsibility

La natura volontaria dell'impegno sociale assunto dai soci di società benefit pone il modello nel solco della tradizione delle iniziative di Corporate Social Responsibility adottate da molte imprese profit, in cui la nozione originaria di CSR ha eletto proprio la volontarietà dell'approccio multistakeholder ad elemento caratterizzante il fenomeno e le sue manifestazioni tipiche.[6]

Viene pertanto da chiedersi se la disciplina della società benefit rappresenti la soluzione tecnica che il legislatore ha voluto specificamente dedicare alle imprese che vogliono coltivare impegni di responsabilità sociale, creando una sorta di vincolo di tipicità capace di imporre, in tal caso, il ricorso al modello speciale creato ad hoc.

Uno spunto in tal senso si potrebbe trovare nella normativa italiana secondo cui <<le società diverse dalle società benefit, qualora intendano perseguire anche finalità di beneficio comune, sono tenute a modificare l'atto costitutivo o lo statuto, nel rispetto delle disposizioni che regolano le modificazioni del contratto sociale o dello statuto proprie di ciascun tipo di società>> (art.1, comma 379, l. 208/2015).

Sul piano sistematico potrebbe inoltre rilevare quello che viene talora indicato come il principale movente della disciplina, e cioè la volontà di risolvere in modo esplicito il dubbio, già sollevato dalla dottrina in materia di CSR, sulla legittimità della deroga allo scopo lucrativo nei tipi societari che intendono perseguire anche finalità sociali, fissando le condizioni per l'esercizio di tale opzione e con ciò proteggendo gli amministratori da eventuali azioni dei soci nel caso in cui la massimizzazione del profitto fosse compromessa dal perseguimento degli obiettivi di bene comune.[7]

Se così fosse, l'adozione del modello della società benefit rappresenterebbe l'unica soluzione attraverso la quale le società costituite secondo i tipi lucrativi (o, eventualmente, mutualistici) potrebbero legittimamente perseguire anche finalità sociali. E, in effetti, la disciplina pare proprio pensata per le imprese che compiono una scelta di questo tipo.

Credo tuttavia che questa conclusione possa valere solo per quella che potremmo definire opzione "forte" di responsabilità sociale dell'impresa, che si inquadra nelle caratteristiche specificamente delineate nel modello, in cui si presuppone che i soci abbiano voluto integrare stabilmente nelle strategie aziendali il perseguimento di finalità di bene comune e con ciò accettare l'eventualità di un "bilanciamento" dei risultati in funzione della composizione dei diversi interessi perseguiti.

Il richiamo al "bilanciamento" d'interessi contenuto in alcune discipline dedicate alla benefit corporation[8], nonché nella legge italiana, sembra infatti rimandare proprio a quell'operazione di contemperamento tra interessi potenzialmente confliggenti che può richiedere il parziale sacrificio dell'uno o dell'altro per adempiere pienamente l'impegno multistakeholder assunto dall'impresa e sulla quale gli studiosi di CSR hanno a lungo ragionato nel valutarne la compatibilità con il paradigma dello shareholder value.  

Le disposizioni speciali sulla società benefit, nella misura in cui ammettono tale bilanciamento, sembrano specificamente rivolte a questo tipo di iniziative, chiedendo innanzitutto che sia lo statuto sociale a definire gli interessi da comporre (il comma 379 dell'art. 1, l. 208/2015 stabilisce infatti che l'operazione di bilanciamento sia effettuata <<conformemente a quanto previsto nello statuto>>).

La norma della disciplina italiana che obbliga le società diverse dalla società benefit intenzionate a perseguire anche finalità sociali a modificare il proprio statuto pare quindi rivolta alle imprese che vogliano definire i propri obiettivi e le proprie modalità di azione nel senso sopra individuato, che vogliano cioè integrare stabilmente le finalità di bene comune nelle strategie aziendali accettando il bilanciamento dei risultati in funzione della prospettiva multistakeholder adottata.[9] E vuole probabilmente anche chiarire i termini di questa atipica "trasformazione", che non viene considerata tale in senso tecnico, stante la persistenza dello scopo lucrativo e la riferibilità all'oggetto sociale degli obiettivi di bene comune, e che pertanto viene trattata come un comune modifica dell'atto costitutivo.

Ciò non di meno, se la società benefit si riconosce nelle caratteristiche appena descritte, la trasformazione di una società originariamente lucrativa in società benefit, sebbene inquadrata dal legislatore in una modifica dell'oggetto sociale, non può non alterare in modo sensibile anche l'originario profilo causale della società, in ragione del predetto possibile bilanciamento d'interessi, idoneo a comportare una parziale rinuncia al profitto ove necessario per il raggiungimento delle finalità di bene comune. Ciò porta a ritenere che, in tal caso, sia sempre integrato quel "cambiamento significativo dell'attività della società", in grado di modificare le originarie condizioni di rischio dell'investimento, che si traduce in una causa legale e inderogabile di recesso anche nella s.p.a. ai sensi dell'art. 2437, primo comma, lett. a), c.c.[10]

Sembrano invece restare esenti dall'obbligo di assumere la forma della società benefit quelle imprese nelle quali gli impegni di responsabilità sociale non appartengono stabilmente al programma imprenditoriale concordato dai soci nello statuto della società e le cui iniziative di CSR eventualmente adottate dall'organo amministrativo siano comunque giustificabili (e giustificate) secondo la disciplina comune in quanto compatibili con obiettivi di massimizzazione del profitto, senza che si debba ricorrere a nessuna operazione di bilanciamento.[11]

Questa impostazione sembra confermata da alcune discipline generali di diritto societario che, negli ultimi anni, hanno accolto e promosso una concezione dello shareholder value non solo compatibile con la cura di interessi esterni, sociali o ambientali, ma anche da questa positivamente influenzato, soprattutto se considerato in una prospettiva di lungo termine.[12]

Un orientamento analogo sembra ispirare anche la più recente disciplina, di matrice europea, in tema di obblighi di informazione non finanziaria per gli enti di interesse pubblico di cui al d. lgs. 254/2016, che attua la Direttiva 2014/95/UE. Tale normativa si inquadra chiaramente nella prospettiva della CSR, che infatti è ampiamente richiamata nei Considerando della Direttiva, unitamente ai principi di sostenibilità e inclusività e all'obiettivo di assecondare la <<transizione verso un'economia globale sostenibile, coniugando redditività a lungo termine, giustizia sociale e protezione dell'ambiente>> (v. Cons. 3), affidandola a <<incentivi di mercato e incentivi politici che ricompensino gli investimenti in efficienza realizzati dalle imprese>> (v. Cons. 12).

Il legislatore comunitario, nel richiedere nuovi e specifici adempimenti informativi sulle pratiche di responsabilità sociale che siano adottate dai predetti enti, implicitamente fotografa una modalità di azione dell'impresa che, senza derogare necessariamente alla finalità di massimizzazione della propria redditività, cerca di migliorare e innovare, ove possibile, i propri processi, sfruttando incentivi di mercato ed avvalendosi di eventuali incentivi pubblici, all'insegna della "sostenibilità" sociale e ambientale.

Il richiamo alle nozioni di sostenibilità e responsabilità è presente nella stessa normativa sulla società benefit nella parte in cui chiede alle società che vogliono perseguire una o più finalità di beneficio comune di operare altresì<<in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse>> (art. 1, comma 376, l. 208/2015), lasciando intendere che si tratti di una modalità di azione diversa e ulteriore rispetto alla realizzazione degli impegni specificamente assunti nello statuto, destinata a improntare sempre e comunque la restante e complessiva attività sociale della società benefit[13]


4. Il ruolo degli amministratori e il sistema di enforcement

La legge italiana richiede che, nell'oggetto sociale della società benefit, siano indicate le finalità "specifiche" di beneficio comune che la società intende perseguire (art. 1, comma 377, l. 208/2015).[14]

Un sufficiente grado di specificità dei programmi di responsabilità sociale adottati dalle imprese è già stato considerato, dalla dottrina che si è occupata di CSR, un elemento chiave per fronteggiare due diverse esigenze che si pongono in questi casi e cioè, da un lato, quella di evitare che l'ibridazione dell'interesse sociale possa compromettere il controllo sulla discrezionalità degli amministratori, dall'altro, quella di consentire un adeguato enforcement dell'adempimento degli impegni assunti.[15]

Sul primo problema si è osservato come la vaghezza e la genericità con cui quei programmi sono talora formulati nei documenti aziendali inevitabilmente espande la libertà di azione degli amministratori, già amplificata dalla moltiplicazione degli interessi loro affidati nell'approccio multistakeholder, e può rendere quasi impraticabile un efficace controllo sulla correttezza del loro operato.

Sul secondo si è fatto notare come un impegno a contenuto indeterminato è difficilmente azionabile con qualunque strumento si abbia a disposizione, sia dai soci o dagli organi sociali con i rimedi tipici del diritto societario (azioni di responsabilità contro gli amministratori, controlli interni ecc.), sia dai terzi che fossero eventualmente titolari di diritti o azioni nei confronti della società per l'adempimento dei predetti impegni.[16] Perfino l'efficacia del controllo esterno sulla corretta informazione al pubblico relativa alle politiche di carattere sociale o ambientale dichiarate dalla società ne potrebbe risultare compromessa.

Non a caso, già prima che il legislatore della società benefit assoggettasse il mancato perseguimento delle finalità di beneficio comune alle regole in materia di pubblicità ingannevole (d. lgs. 145/2007) e alle disposizioni del Codice del consumo (d. lgs. 206/2005), queste ultime, all'art. 21, secondo comma, lett. b) definivano pratica ingannevole <<il mancato rispetto da parte del professionista degli impegni contenuti nei codici di condotta che il medesimo si è impegnato a rispettare, ove si tratti di un impegno fermo e verificabile>>. E tale potrebbe essere soltanto un impegno minimamente circostanziato e connotato da un sufficiente grado di specificità tale da renderlo, per l'appunto, ingannevole per il pubblico se non rispettato, e verificabile per il soggetto deputato ad accertarne l'adempimento.

Il legislatore della società benefit, con il richiamo alla specificità nell'indicazione delle finalità di beneficio comune, sembra mostrare sensibilità per questo tipo di istanze.

Per quel che riguarda il rapporto tra soci e amministratori, tuttavia, la soluzione che emerge dalla laconica disciplina pare improntata ad una notevole flessibilità.

Il compito di precisare i termini in cui il beneficio comune viene concepito e declinato dall'impresa risulta infatti suddiviso tra soci e amministratori. Ai primi spetta di indicare le finalità specifiche di bene comune programmate nello statuto sociale, ai secondi, nella propria relazione annuale di cui all'art. 1, comma 382 della menzionata disciplina, di indicare gli <<obiettivi specifici, le modalità e le azioni attuati>>, nonché la descrizione dei <<nuovi obiettivi che la società intende perseguire nell'esercizio successivo>>.

Finalità e obiettivi sembrano quindi rimandare a nozioni diverse, più astratte e generali le prime, più concreti e circostanziati i secondi, questi ultimi rappresentati dalle specifiche politiche e dai piani che gli amministratori hanno attuato o intendono attuare per dare esecuzione al mandato ricevuto. In questo scenario, la disciplina pare chiedere allo statuto sociale soltanto un'indicazione delle finalità di bene comune minimamente selettiva e non generica, che individui almeno la tipologia degli interessi di carattere sociale o ambientale che la società intende perseguire, lasciando agli amministratori il compito di definirne i contenuti di dettaglio e i conseguenti specifici obiettivi da raggiungere.

Per altro verso credo che i soci conservino la facoltà di descrivere le finalità sociali secondo formule più stringenti e circostanziate perimetrando così, in modo più accurato, gli spazi entro i quali gli amministratori potranno agire per realizzarle. La ratio complessiva dell'istituto in esame non pone controindicazioni ad una simile opzione ed anche la riserva di competenze gestorie solennemente sancita a favore degli amministratori nel modello azionario dall'art. 2380-bis, c.c. è verosimilmente compatibile con una soluzione destinata a tradursi soltanto in una più dettagliata definizione dell'oggetto sociale, la cui attuazione resterebbe pur sempre affidata all'organo amministrativo. Una soluzione di questo tipo potrebbe, del resto, trovare legittimazione proprio nell'esigenza, peculiare nel modello, di evitare che gli amministratori, in nome dell'impegno multistakeholder, possano eludere il controllo dei soci e sottrarsi alle proprie responsabilità.[17].

Il vincolo alla discrezionalità degli amministratori nell'attuazione delle finalità sociali programmate pare peraltro sfuggire ad una regola di imperatività e risultare in definitiva rimesso alla volontà dei soci della società benefit che, nel confezionare la clausola statutaria relativa all'oggetto sociale, potranno dosare l'intensità di tale vincolo e decidere se e in che misura accettare il rischio di espandere la libertà e il potere degli amministratori.

Questa impostazione ha inevitabili ripercussioni sulla stessa efficacia dell'enforcement, laddove il corretto perseguimento delle finalità di beneficio comune risulterà più o meno facilmente misurabile in funzione dei limiti più o meno rigorosi che le indicazioni statutarie avranno posto agli amministratori. Tuttavia, se questa conseguenza pare accettabile con riguardo al private enforcement, relativo al rapporto tra soci e amministratori, perché in definitiva coerente con la chiara volontà del legislatore di affidare la soluzione del problema ai soli strumenti di autotutela, non così per quel che riguarda quei minimi strumenti di enforcement pubblicistico che la disciplina ha concesso richiamando l'applicazione delle regole del Codice del consumo e sulla pubblicità ingannevole per i casi in cui la società non persegua le finalità di bene comune dichiarate.

Come già osservato, infatti, la società potrebbe deliberatamente sottrarsi a tali controlli e sanzioni definendo le finalità di bene comune con un grado di specificità troppo basso per consentire di qualificare la comunicazione ingannevole e applicare le misure previste dal Codice del consumo.

A questo deficit di effettività del richiamato presidio si potrebbe tuttavia ovviare tramite un'interpretazione estensiva delle disposizioni in questione, includendo nelle comunicazioni rilevanti non solo quelle statutarie relative all'indicazione delle finalità di bene comune (le uniche testualmente richiamate dalla disciplina, al comma 384), ma anche quelle contenute nella relazione annuale degli amministratori per le quali un maggior tasso di specificità è implicitamente richiesto sia dalle funzioni stesse della relazione, sia dalle esigenze di funzionamento del sistema di certificazione imposto dalla legge sia, da ultimo, dai principi generali che regolano il complesso delle comunicazioni sociali di cui la relazione annuale certamente fa parte.

Si potrebbe, in questo caso, addirittura prospettare un'applicazione diretta del Codice del consumo in considerazione dell'ampiezza della nozione di pratiche ingannevoli in esso contenuta e la presunzione, fatta propria dalla stessa disciplina della società benefit, che le dichiarazioni in merito al perseguimento di obiettivi e programmi di bene comune possano rappresentare, per l'impresa, una vera e propria "pratica commerciale".


NOTE

* Professore ordinario, Università dell'Insubria, serenella.rossi@nctm.it

1) Così, secondo il suo promotore, Sen. M. Del Barba,  Dossier Diritto - Il Sole 24 Ore - Le società benefit, maggio 2017, Introduzione, 3; E. Ezechieli; P. Di Cesare, Il movimento globale delle B Corp e la nascita delle Società Benefit, ivi, 9, per i quali la società benefit incarna "una trasformazione positiva dei modelli dominanti di impresa a scopo di lucro, per renderli più adeguati alle grandi sfide globali e alle opportunità dei mercati del XXI secolo". Sottolinea le promesse di sviluppo legate al nuovo modello di business che integra profitto e obiettivi sociali L. Ventura, Benefit corporation e circolazione dei modelli: le società benefit un trapianto necessario?, in Contr. impr., 2016, 1167. Nella dottrina nordamericana v. M. Dorff, Why Public Benefit Corporation?, in https://ssrn.com/abstract=2848617  

2) Cfr. K. Greenfield, A Skeptic's view of Benefit Corporations, in Emory Corporate Governance and Accountability Review, 2015, vol. 1, 17; D. Brakman Reiser, Benefit Corporations-A Susteinable Form of Organization?, in Wake Forest L. Rev. 591 (2011); A. Frignani; P. Virano, Le società benefit davvero cambieranno l'economia?, in Contr. impr. 2017, 503 ss.

3) Cfr. F. Denozza; A. Stabilini, Due visioni della responsabilità sociale dell'impresa, con una applicazione alla società benefit, paper presentato al Convegno <>, svolto a Roma nei giorni 17-18 febbraio 2017, 8, ss. del dattiloscritto.

4) Presso gli operatori tradizionalmente operanti nel settore non profit si registra una chiara propensione ad abbandonare le formule strettamente cooperative, a pura connotazione sociale, talora basate su un contributo importante del volontariato e sul sostegno pubblico, per includere una prospettiva for profit che consenta di espandersi in spazi di mercato normalmente occupati da imprese profit e di reperire finanziamenti privati per sostenere iniziative a più alto valore aggiunto (cfr. D.R. Young; E.A.M. Searing; C.V. Brewer, The Social Enterprise Zoo, Northampton, Edward Elgar Publishing, 2016). Gli stati, per certi versi, potrebbero assecondare questa tendenza per liberare risorse e affidare la realizzazione di progetti di interesse collettivo con finalità di welfare al contributo e al sostegno dell'iniziativa privata.

5) La previsione di specifici obblighi di informazione al pubblico posti a carico degli amministratori della società benefit anche per ciò che riguarda il perseguimento del beneficio comune potrebbe attivare la loro responsabilità ex art. 2395 c.c. in caso di dichiarazioni infedeli o carenti che possano aver indotto i terzi e compiere atti che altrimenti non avrebbero compiuto, non solo nel rapporto con la società (acquisto o sottoscrizione di quote o azioni, operazioni di finanziamento), ma anche in ambiti del tutto indipendenti. Si pensi al caso di una società che abbia assunto l'impegno di operare a protezione dell'ambiente, i cui amministratori abbiano indicato, tra gli obiettivi specifici e le azioni attuate richiesti dalla relazione annuale di cui al comma 382, lett. a) dell'art. 1, l. 208/2015, la realizzazione di talune operazioni di bonifica del sito produttivo dichiarando falsamente di avervi provveduto e che ciò abbia indotto i terzi ad insediarsi nel territorio, magari realizzandovi opere di edilizia residenziale.

6) La definizione di Corporate Social Responsibility che ha assunto una capacità identificativa generale del fenomeno è quella contenuta nel Libro Verde della Commissione Europea del 2001 che la indica nella "integrazione su base volontaria dei problemi sociali e ambientali delle imprese nelle loro attività commerciali e nelle loro relazioni con le altre parti". Si osserva, peraltro, come la Commissione, nella più recente Comunicazione del 25 ottobre 2011 abbia in parte modificato l'approccio al tema, emarginando il richiamo alla volontarietà delle pratiche di responsabilità sociale delle imprese e introducendo, nella definizione, elementi di doverosità nell'integrazione di obiettivi sociali, ambientali ed etici nelle strategie aziendali, sollecitando le imprese a operare in tal senso.

7) V. la Circolare Assonime n. 19/2016, La disciplina delle società benefit, in Riv. soc. 2016, 1156 ss., ivi a 1161.

8) V., tra le altre, la disciplina della Public Benefit Corporation del Delaware (Subchapter XV, § 365 della General Corporation Law, in tema di duties of directors), cui la normativa italiana è prevalentemente ispirata; quella del Colorado (titolo 7, art. 101, § 506, dei Colorado Revised Statutes). La disciplina dell'omologo modello, denominato "social purpose corporation", previsto dalla legge dello Stato di Washington, precisa invece espressamente che <> (sec. 5).

9) Nei casi in cui i soci si limitino a dichiarare nello statuto di voler perseguire finalità sociali senza assumere esplicitamente le forme della società benefit, si porrà probabilmente un problema di interpretazione della volontà contrattuale. Si dovrà capire, cioè, se con ciò i soci abbiano voluto stabilmente modificare lo scopo (e l'oggetto) sociale e accettare il possibile bilanciamento di interessi (e quindi del risultato imprenditoriale) o effettuare un generico richiamo a principi di responsabilità sociale senza, tuttavia, compromettere la centralità ed esclusività dello scopo lucrativo. Nel primo caso dovrebbero essere applicate le norme previste per la società benefit. In caso contrario la società potrebbe continuare ad operare come società di diritto comune. Tuttavia, proprio il vincolo di tipicità introdotto dalle regole della società benefit potrebbe creare un onere a carico dei soci che richiamino nello statuto impegni di responsabilità sociale di dichiarare se quegli impegni vadano intesi secondo quanto previsto dalla disciplina della società benefit o se si limitino a richiamare regole generali di condotta da assumere solo se (e in quanto) compatibili con la massimizzazione del profitto. 

10)

Favorevole ad una valutazione in concreto degli effetti modificativi sull'attività sociale procurati dalla trasformazione di società lucrativa in societàbenefitallo scopo di verificare se tale modifica giustifichi il diritto di recesso del socio è invece S. Corso,La societàbenefitnell'ordinamento italiano: una nuova "qualifica" traprofitenon profit, inNuove leggi civ. comm.,2017, 995, ss. ivi a 1015, sulla scorta dell'analoga posizione assunta da Assonime ed espressa nella Circolare n. 19/2016 (nt. 7, 1165 ss.) basata sull'affievolimento dello scopo lucrativo e del suo ruolo caratterizzante il contratto di società. Questa conclusione potrebbe apparire coerente con quanto affermato dalla Cassazione in tema di legittimità degli atti di liberalità posti in essere da imprese costituite in forma societaria, ritenuti compatibili con lo scopo di lucro se riferibili ad operazioni di modesto importo rispetto al normale reddito dell'impresa e magari funzionali ad attività di tipo promozionale (Cfr. Cass. civ., n. 15599/2000).

Nei casi esaminati dalla Cassazione, tuttavia, si trattava essenzialmente di operazioni di beneficenza di importo esiguo, in assenza, peraltro, di modifiche strutturali delle finalità programmate dalla società. L'argomento relativo all'affievolimento dello scopo lucrativo come elemento qualificante del rapporto sociale pare inoltre provare troppo, se si considera che, in base al diritto comune, la trasformazione di società di capitali lucrative in enti mutualistici o in associazioni o fondazioni (con modifica, pertanto, del profilo causale del rapporto) legittima stabilmente il socio che non abbia concorso ad approvare la deliberazione a recedere dalla società secondo  gli artt. 2437, primo comma, lett. b) e 2473, primo comma, c.c., indipendentemente dall'intensità degli effetti di tale trasformazione sull'originario programma imprenditoriale.

11) Cfr. in senso analogo M. Stella Richter jr. Corporate social responsibility, social enterprise, benefit corporation: magia delle parole?, Relazione svolta al Convegno su "Le parole del diritto commerciale" tenuto presso l'Università degli studi di Macerata, il 7 aprile 2017, 6, ss.

12) Cfr. il Companies Act del 2006 all'art. 172, in cui si sollecitano gli amministratori a considerare, nelle decisioni imprenditoriali, gli interessi dei dipendenti, dei consumatori, le relazioni con i fornitori, l'impatto delle attività d'impresa sulla comunità e l'ambiente.  Analogamente la legge dello Stato di New York, al § 717.

13) Che il legislatore abbia in tal modo richiesto alla società benefit il rispetto di criteri di sostenibilità, responsabilità e trasparenza come adempimento generale e ulteriore rispetto al perseguimento delle specifiche finalità di beneficio comune indicate nello statuto pare confermato dai contenuti dell'allegato 5, relativo alle aree di analisi oggetto di valutazione esterna, che ricomprende tutti gli ambiti dell'operatività d'impresa riferibili a quei "portatori di interesse" verso i quali il comportamento responsabile, sostenibile e trasparente viene richiesto. Così è, del resto, nella disciplina dello Stato del Delaware in materia di società benefit (cui il legislatore italiano si è maggiormente ispirato) che include espressamente l'impegno ad un'azione sostenibile e responsabile tra quelli che la società benefit deve assumere nel suo statuto sociale oltre alle specifiche finalità di beneficio comune individuate come obiettivo del proprio programma imprenditoriale (v. § 362)

14) Analogamente a quanto dispone la disciplina del Delaware in materia di benefit corporation. Diversamente, le norme della Model Benefit Corporation Legislation richiedono alla società di perseguire un general public benefit, e l'indicazione di obiettivi specifici di bene comune è solo facoltativa.

15) Cfr. F. Denozza; A. Stabilini, CSR and Corporate Law: The Case for Preferring Procedural Rules, in https://ssrn.com/abstract=1117576; S. Rossi, Luci e ombre dei codici etici d'impresa, in RDS, 2008, 23, ss., ivi a 33, ss.

16) Si pensi al tentativo di invocare gli istituti della promessa unilaterale, della promessa al pubblico o del contratto a favore di terzo a sostegno delle pretese di terzi nei confronti di quelle imprese che abbiano pubblicizzato programmi di responsabilità sociale nei propri documenti aziendali (codici di condotta o codici etici). Un simile tentativo è inevitabilmente destinato ad infrangersi contro l'assoluta genericità della formulazione di quegli impegni pubblicizzati dalle imprese che rende simili promesse insuscettibili di essere escusse da parte dei potenziali beneficiari (cfr. N. Irti,Due temi di governo societario (responsabilità <> - codici di autodisciplina, inGiur. comm.,2003, I, 639, ss.).

17) Questa soluzione potrebbe trovare uno spunto testuale nella disposizione relativa al bilanciamento di interessi rimesso agli amministratori, da effettuarsi, secondo il comma 380 della richiamata disciplina, <>.  Non si tratta tuttavia di un elemento conclusivo poiché il rinvio in questione è formulato in termini molto generali e potrebbe essere più semplicemente indirizzato alle finalità di bene comune ivi selezionate e non già a specifici criteri tecnici con cui effettuare il bilanciamento, criteri che peraltro non trovano menzione in nessuna altra sede della disciplina.