Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2282-667X
G. Giappichelli Editore

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Note di lettura: Bancarotta e crisi d'impresa. Giustificazioni e limiti dell'intervento penale nelle nuove procedure concorsuali di Francesco Mazzacuva (di Massimo Bianca, Professore ordinario di diritto commerciale, Università degli Studi di Trieste)


La recensione propone una ragionata lettura del volume che Francesco Mazzacuva ha dedicato al difficile rapporto corrente tra il nuovo diritto della crisi e la disciplina, al momento ancora sostanzialmente immutata, dei così detti reati fallimentari. L’analisi. che dà atto del serio sforzo sistematico e delle tante implicazioni colte dall’Autore, si conclude con l’auspicio che il volume possa avviare un più intenso confronto tra gli studiosi del diritto concorsuale e gli studiosi delle discipline penalistiche.

A review on Francesco Mazzacuva, Bankruptcy and business crisis. Justifications and limits of criminal intervention in the new distress resolution procedures

The paper offers a reasoned reading of the volume that Francesco Mazzacuva has dedicated to the difficult current relationship between the new crisis law and the discipline, at the moment still substantially unchanged, of the so-called bankruptcy offences. The analysis, which acknowledges the serious systematic effort and the many implications grasped by the author, concludes with the hope that the volume may initiate an even more intense confrontation between scholars of insolvency law and scholars of criminal law disciplines.

1. Il volume di Francesco Mazzacuva merita di essere segnalato e non solo ai cultori delle scienze penalistiche, ma anche a chi si occupi del diritto commerciale, che vi coglierà molti motivi di interesse e non si troverà a disagio nel leggere questo studio di diritto penale dell’impresa. Tutto questo grazie alla bravura del­l’Autore, capace di dialogare con entrambi i settori dell’ordinamento, mentre una prosa scorrevole ed un accurato compendio di note fanno il resto. Il lavoro parte da una constatazione molto semplice. Mentre il diritto concorsuale si è fortemente modificato, la disciplina dei reati fallimentari è rimasta pressoché immutata, come se ignorasse la ineluttabile trasformazione dei processi economico-industriali, che il primo ha, invece, ben percepito. In particolare, sembra non aver colto appieno le implicazioni derivanti dal diffondersi delle procedure di crisi e la conseguente necessità di valutarne il rapporto con la struttura e la funzione dei reati concorsuali. La “distonia sostanziale” che ne è derivata è ancora tangibile nel c.c.i.i., che, per una precisa scelta di politica del diritto, non ha introdotto sostanziali modifiche alle fattispecie di bancarotta. Ciò ha comportato un “disallineamento tra la disciplina civile e quella penale”, foriero delle diverse ricadute che la monografia intende indagare, indicando anche delle possibili soluzioni applicative.

2. L’Autore tratteggia queste ricadute già nelle pagine introduttive, dove denuncia, anzitutto, le conseguenze prodotte sulla già scarsa determinatezza delle norme descrittive della fattispecie penale, ormai talmente eterogenee da essere caratterizzate da un sostanziale “difetto di tipizzazione delle condotte”. Una carenza che ha permesso il diffondersi di una sorta di “iper-effettività dei reati di bancarotta”, tanto marcata da destare persino dei dubbi di costituzionalità. In secondo luogo, Francesco Mazzacuva ripercorre l’evoluzione del diritto dell’insolvenza, dando debito risalto al progressivo passaggio dalle finalità espulsive della legislazione del 1942, alla massimizzazione delle finalità recuperatorie, preferite dalle riforme degli ultimi vent’anni. Tale mutamento, ricorda l’Autore, ha progressivamente allontanato i due settori dell’ordinamento, ponendo, tra l’altro, la questione dell’applicazione delle norme penali alle soluzioni negoziate della crisi ad efficacia estesa. In terzo luogo, il capitolo ricorda le ricadute sul piano della individuazione del fatto tipico dei reati di bancarotta, del loro inquadramento nella categoria dei reati di pericolo concreto e del collocamento della insolvenza e del fallimento sul piano delle condizioni obiettive di punibilità. Nelle pagine che seguono l’Autore si sofferma sulla dissociazione delle fattispecie di bancarotta dal fallimento e dal presupposto dell’insolvenza. Ponendo un interrogativo che è di centrale rilievo nella monografia, egli si chiede se la crisi di impresa rappresenti già una tale offesa alla garanzia patrimoniale da permettere una ricostruzione davvero unitaria della fattispecie di bancarotta fraudolenta. L’introduzione si chiude annunciando l’intento di indagare anche il tema delle responsabilità penali che potrebbero derivare, in conseguenza dell’aggravamento del dissesto, dalla gestione della crisi di impresa, sia attraverso strumenti procedimentalizzati, che tramite strumenti non procedimentalizzati. Individuato il campo d’indagine, lo scritto si sviluppa in quattro lunghi capitoli, ciascuno analiticamente composto da almeno una dozzina di paragrafi.

3. Il primo capitolo, nel quale i lettori di questa Rivista si ritroveranno maggiormente, ripercorre le direttrici di riforma delle procedure concorsuali, ponendo il suo dinamismo a confronto con il sostanziale immobilismo del legislatore penale. L’Autore mostra di ben conoscere l’evoluzione del diritto fallimentare, accompagnando la descrizione delle sue varie stagioni con un puntuale compendio di note, che non sfigurerebbe nemmeno in uno studio di diritto commerciale. Prendendo avvio dalla più tradizionale concezione sanzionatoria del fallimento, ancora ben presente nella legge fallimentare del 1942, i primi paragrafi mettono in risalto la progressiva affermazione di una sua finalità non più espulsiva, ma recuperatoria. L’Autore non nasconde però di ritenere che questo diverso approccio, più che discendere da riflessioni concettuali, sia stato inizialmente suggerito dall’esigenza di porre rimedio alla crisi industriale ed ai problemi occupazionali degli ultimi decenni del secolo scorso. La vera svolta sistematica, ispirata anche dalla disseminazione dell’Insolvenzordnung germanico del 1994, è quindi segnata solo dalla riforma del 2005. Questa non ha però interessato, se non con la successiva introduzione di un terzo comma nell’art. 236 l. fall., le fattispecie criminali ed è quindi da quel momento, dice Francesco Mazzacuva, che «le denunce di frattura tra i due rami dell’ordinamento (…) sono diventate un vero e proprio leitmotiv nella riflessione sulla bancarotta», mai approdata, però, ad una vera e propria riforma dello statuto penale delle procedure concorsuali. Il distacco è marcato dall’ingresso delle procedure di crisi, che, elevata a presupposto oggettivo del concordato preventivo, ne promuove un ampio successo, parzialmente invertito solo dalla riforma del 2015. Il capitolo prosegue rammentando la conseguente previsione di altre procedure di crisi, quali il piano di risanamento e gli accordi di ristrutturazione, meglio allineate alla direttiva EU n. 1023/2019, che privilegia la tempestiva emersione delle probabilità di insolvenza. Ad avviso dell’Autore, al quale non si potrebbe dar torto, questo “andamento ondivago delle procedure di crisi”, culminato con la brevissima stagione di vita dell’allerta alla francese, ha lasciato sul tappeto il rapporto con la disciplina penale. Il punto di maggiore difficoltà è segnato dall’introduzione di un terzo comma nell’art. 236 l. fall., sostanzialmente riprodotto nell’art. 341 c.c.i.i., che estende l’applicazione dei reati di bancarotta alle procedure fondate non sull’insolvenza, ma sulla crisi. Il capitolo si conclude con l’indicazione di tre tesi, sulle quali l’Autore anticipa di volersi dappresso trattenere. Il primo enunciato lamenta la scarsa conoscenza dell’evoluzione del diritto della crisi da parte della dottrina penalistica, che il lavoro monografico intende, quindi, colmare. Il secondo riguarda il rapporto di “accessorietà funzionale” che corre tra il diritto della crisi ed il diritto penale, ragione per la quale l’individuazione dell’oggetto giuridico tutelato dalla norma penale non può che essere consequenziale alla precedente ricognizione della funzione del diritto concorsuale. A tale ultimo proposito l’Autore ritiene che, se d’un lato la funzione pubblicistica dei reati di bancarotta ha generalmente portato i penalisti ad individuare nel mercato il bene tutelato dalle norme incriminatrici, dall’altro gli studiosi del diritto concorsuale sono più inclini ad attribuire rilievo alla garanzia patrimoniale ed alla tutela di specifiche categorie di creditori. Con il terzo enunciato, che fa corollario al precedente, l’Autore si domanda se un’esasperata ricerca della “continuità” non abbia però nuovamente spostato la funzione delle procedure di crisi verso la tutela del mercato, ancorché in parte corretta dalle regole che richiedono anche il soddisfacimento dei creditori in misura almeno equivalente alla alternativa liquidatoria.

4. I capitoli che seguono trasferiscono l’indagine su un terreno più strettamente penalistico. Il secondo capitolo si concentra sulla fisionomia strutturale del fatto tipico integrante la bancarotta fraudolenta patrimoniale prefallimentare. In particolare, si trattiene sulla tradizionale riconduzione della fattispecie nella categoria dei reati di pericolo concreto e sulla conseguente collocazione dell’insolvenza e del fallimento sul piano delle condizioni obiettive di punibilità. L’analisi è condotta dando sempre accurato conto delle elaborazioni dottrinarie e delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza. L’obiettivo, dichiarato in effetti sin dalle premesse, è quello di comprendere se questa qualificazione del reato di bancarotta comporti delle soluzioni applicative efficienti, funzionalmente coerenti con le logiche di tutela. Per tale ragione, la ricerca si sposta sul fronte della contesa tra il disvalore dell’azione, in sé considerata, ed il disvalore dell’evento, nella specie l’insolvenza, che caratterizza questa fattispecie penale. L’Autore ritiene che la tensione che ne deriva possa essere sciolta solo dando il necessario rilievo alla relazione che deve comunque correre tra la condotta tipica e l’insolvenza. Rapporto che, precisa, non può però essere solo “cronosequenziale”, evidenziando il rischio che, così facendo, si finisca per dare rilievo causale anche a condotte molto risalenti, sino a determinare “fatalmente, un regresso all’infinito della repressione penale”. A scanso di questo regresso, l’Autore indica un punto di approdo nella necessità di elevare a presupposto del reato l’autonoma illiceità del rischio assunto con la condotta.

5. L’analisi prosegue nel terzo capitolo, che si interroga in merito alla compatibilità tra siffatta costruzione e la progressiva dissociazione dei reati di bancarotta dal fallimento e dall’insolvenza, che ne sono il tradizionale presupposto oggettivo. L’Autore ritiene che siffatta frattura sia stata accentuata dall’estensione della fattispecie penale alle soluzioni negoziate della crisi di impresa, prevista dal­l’ancora vigente art. 236, terzo comma, l. fall. e dall’art. 341 c.c.i.i. Pur dando atto delle molte critiche avanzate in merito a tale “traiettoria evolutiva”, l’Autore si mostra incline ad una valutazione non aprioristicamente negativa. Anzitutto perché, riprendendo la preoccupazione iniziale, egli afferma di cogliervi almeno qualche primo, ma positivo, segnale di un possibile riallineamento dei reati di bancarotta all’evoluzione del diritto concorsuale. In secondo luogo, perché ciò contribuisce a portare in emersione l’eventualità che la crisi di impresa rappresenti già di per sé un’offesa alla garanzia patrimoniale, intesa come mantenimento di una persistente capacità di adempimento e possa quindi giustificare, sul piano ermeneutico, una costruzione comunque ancora unitaria delle fattispecie di bancarotta fraudolenta. Merita apprezzamento la meticolosa attenzione che Francesco Mazzacuva riserva alle esperienze di altri ordinamenti nazionali e, soprattutto, a quello tedesco. Come già nelle pagine iniziali, l’Autore assegna una funzione determinante all’Insolvenzordung del 1994, al quale riconosce la paternità delle procedure di crisi, colà introdotte con diversi anni di anticipo rispetto all’Italia. Tuttavia, a differenza del primo capitolo, l’indagine si fa stavolta più profonda, concentrandosi maggiormente sul rapporto tra le procedure di crisi previste nell’ordi­namento tedesco e quella disciplina penalistica. L’attenzione del penalista non poteva quindi che cadere sul paragrafo 283 del StGB. L’Autore, che sembra apprezzare la scelta del legislatore tedesco, sottolinea che anche in quell’ordinamento, nonostante il moltiplicarsi dei presupposti oggettivi delle procedure di crisi, la norma incriminatrice è rimasta la stessa, fermo però restando che la sua esegesi è certamente orientata dalle definizioni di quegli stessi presupposti nel diritto concorsuale germanico.

6. Nel quarto ed ultimo capitolo Francesco Mazzacuva si trattiene sul tema della responsabilità penale per l’aggravamento del dissesto in presenza di una crisi di impresa già per altre cause manifesta. L’Autore muove dalla premessa che la fattispecie necessiti di assoluta attenzione, osservando che, se si ammettesse la rilevanza penale di condotte di aggravamento del dissesto in termini di disvalore dell’evento, si dovrebbe valutare con almeno altrettanto rigore il disvalore dell’azione, che deve pur sempre caratterizzare il reato di bancarotta. Mostrando una certa dimestichezza con questi scenari, l’Autore assume che è proprio «nella fase della fibrillazione dell’impresa che è difficile distinguere il rischio illecito dal rischio imprenditoriale», vieppiù nel caso di operazioni di risanamento non procedimentalizzate. Particolare attenzione viene prestata all’analisi della giurisprudenza formatasi in merito alle “operazioni dolose” sanzionate dalla norma penale, sottolineando «la necessità di individuare un’area di rischio consentito». Il volume si chiude con un appello, rivolto ai cultori delle scienze penalistiche, invitati ad un maggiore confronto con gli studiosi del diritto commerciale e ad un’analisi più attenta delle procedure di crisi. Egli osserva che è ormai inattuale una distinzione tra la crisi e l’insolvenza tracciata sulla base della loro reversibilità e che «a parità di disvalore dell’azione (…) nella bancarotta extra-fallimentare la nozione di crisi d’impresa appare effettivamente in grado di esprimere una menomazione significativa della garanzia patrimoniale». Per quanto attiene agli strumenti previsti dalla legge per il risanamento dell’impresa, l’Autore ritiene che la disciplina delle così dette esenzioni, oggi stabilita dall’art. 324 c.c.i.i., esprima un generale favore per tali procedure, che dovrebbe permettere un riposizionamento dell’area di rischio consentito, scongiurando la “fatale attrazione” delle scelte di gestione nell’ambito della fattispecie di aggravamento del dissesto.

7. Il volume, che chi scrive ha avuto l’opportunità di discutere con l’Autore in occasione di un apposito seminario, ha tanti pregi. Il maggiore sta nel porre chiaramente un problema e nel proporne quasi altrettanto lucidamente una possibile soluzione. Dopo avere ricordato il crescente distacco tra i due settori dell’ordina­mento, Francesco Mazzacuva prova a gettare un ponte tra gli studiosi delle discipline civili e penali e sceglie di farlo promuovendone un maggiore confronto. Consapevole del fatto che affinché possa instaurarsi un simile dialogo è necessario alimentare una reciproca conoscenza ed un lessico comune, l’Autore offre ai penalisti un serio panorama del diritto concorsuale ed ai commercialisti una maggiore dimestichezza con lo statuto penale del diritto concorsuale. In entrambi i casi, egli si muove con la concretezza che gli deriva anche dall’esperienza precedentemente maturata nei ruoli della magistratura giudicante, mostrando di ben intuire le incertezze e le difficoltà che assediano le scelte da compiersi nell’emergere dei presagi di crisi. Questa consapevolezza spiega la sua sollecitazione in favore di una valutazione non troppo rigorosa della condotta e l’auspicio che si eviti ogni automatismo ove, a posteriori, se ne dovessero giudicare le conseguenze in termini di aggravamento del dissesto. Cimentandosi su un tema complesso, l’Autore procede con un serio piglio metodologico, alimentato anche da un pertinente confronto con le soluzioni presenti in altri ordinamenti, che illustra con appropriatezza semantica. L’auspicio è che il volume possa contribuire a promuovere una nuova stagione di studi, capace di intercettare le più emergenti sfide, forse ancora non tutte intuite appieno nella monografia, che si vanno intanto profilando.

8. La monografia suggerisce molti spunti di riflessione. Alcuni, che per chi scrive sono più immediati da cogliersi, sono riconducibili nell’alveo del diritto dell’impresa. Non essendo questa la sede per una più ampia rassegna, che richiederebbe almeno uno studio altrettanto monografico, ci si limita ad abbozzarne un paio. Il primo riguarda il rapporto corrente tra le condotte e gli interessi evocati dalle fattispecie di bancarotta e la responsabilità civile che potrebbe derivarne, specie allorché l’azione civile sia proposta in sede penale. A tal proposito è opportuno ricordare che, per quanto si tratti nella maggior parte dei casi di azioni esercitate in esito al fallimento (alias, liquidazione giudiziale), è noto il dibattito in merito all’impiego di siffatte azioni anche nelle procedure di crisi. Tra i vari interrogativi, sarebbe ad esempio da chiedersi quale sia il rapporto tra la condotta punita dalla fattispecie penale e la valutazione di quelle stesse scelte attraverso la Business Judgement Rule. Un altro tema meritevole di approfondimento attiene alla fattispecie della bancarotta semplice. Com’è noto. l’art. 323, primo comma, lett. b), d.lgs. n. 14/2019 (e, per i fatti anteriori alla sua entrata in vigore, dall’art. 217 l. fall.) punisce l’imprenditore che abbia “consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti”. La disposizione, per effetto del richiamo fattovi dagli artt. 330 e 341, si applica anche in caso di concordato preventivo, di accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa o di convenzione di moratoria e di accordi di ristrutturazione omologati. Quindi, anche in caso di procedure che abbiano quale presupposto oggettivo lo stato di crisi, così come definito dall’art. 2, primo comma, lett. a), dello stesso c.c.i.i. L’esperienza degli ultimi anni dimostra che, almeno nel caso di procedure riguardanti imprese di medie e grandi dimensioni, la crisi è talvolta generata, più che da deficit accumulatisi nell’attività caratterizzante, dall’esito infausto di peculiari investimenti finanziari, si pensi a quelli in strumenti finanziari derivati, magari “esotici”, o in criptovalute. La minuziosa disciplina di questi investimenti, che qui ci si permette di dare semplicemente per nota, è giustificata da molte ragioni, tra le quali primeggiano quelle conseguenti alla loro intrinseca rischiosità, tanto più accentuata nel caso di derivati, ed all’aleatorietà del risultato atteso. Ciò nonostante, la crescente finanziarizzazione dell’attività di impresa registra una certa tendenza a ricercare in questi mercati non solo delle occasioni di copertura di specifici rischi, come nel caso di operazioni in derivati per questo concepiti, ma anche delle opportunità di temporaneo investimento di parte dei generosi flussi di cassa generati dall’attività caratterizzante. La fattispecie delittuosa della bancarotta semplice licenziata dalla legge fallimentare del 1942 non immaginava nemmeno, e non le si può fare torto, un simile scenario. Ma il fatto è che, per quanto il modo stesso di condurre l’attività di impresa sia oggi profondamente mutato, anche l’art. 341 c.c.i.i. continua ad esprimersi negli stessi esatti termini, lasciando agli operatori prima, ed al giudice poi, il compito di stabilire se quegli investimenti, specie se puramente speculativi, fossero “operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti”. Non sarà facile farlo ed ogni fattispecie non potrà che fare storia a sé. Ma l’auspicio è che possano essere d’aiuto l’elegante lavoro di Francesco Mazzacuva ed i suoi continui richiami ad un maggiore dialogo tra i due settori, ai quali chi scrive suggerirebbe di aggiungere, nel valutare le scelte condotte, solo un pizzico di studi di economia comportamentale.