Il lavoro analizza le innovazioni apportate all’art. 65 c.p.i. dalla l. n. 102/2023 in tema di invenzioni accademiche e del settore pubblico, con particolare riguardo alla scelta di titolarità istituzionale, partendo dalla prospettiva comparatistica e di analisi del precedente sistema di titolarità individuale e tratteggiando il quadro complessivo delle attività di trasferimento tecnologico nel quale essa si inserisce. La ricerca si concentra successivamente sulla nuova disciplina ed esamina insieme ai problemi esegetici anche alcuni regolamenti universitari (su brevetti e proprietà intellettuale), nel tentativo di dare risposte alle questioni lasciate aperte dalle lacune e di orientare gli atenei nell’aggiornamento dei propri atti interni. Viene prospettata una connessione e circolarità tra i regolamenti sulla proprietà intellettuale, sul conto terzi e sulle società spin off, e si segnalano i punti di attenzione dei nuovi contratti di ricerca (collaborativa e in conto terzi), con i principi per la loro redazione contenuti nelle Linee Guida del Mimit.
The paper aims at investigating the innovations brought by the reform of article 65 of the Industrial Property Code by Law no. 102/2023 on academic and public sector inventions, examining in dept the choice of institutional ownership, starting from the comparative perspective and analysing the previous system based on the professor’s privilege, to then depict the scenario of technology transfer activities within it. Thereafter, the research focuses on the new discipline by examining both some legal issues and some internal academic regulations (on patents and IPRs), attempting to answer the questions opened by the legal blanks and to guide universities in the implementation of this reform at the internal regulatory level. Connections and circularities between internal regulations of intellectual property, third-party research and spin-offs are explored, and points of attention of new research contracts (collaborative and in the interest of third parties) related to dedicated principles included in the Mimit Guidelines are highlighted.
1. Il contesto italiano della riforma 2023. - 2. Il quadro degli interessi e la comparazione sulle scelte di titolarità delle invenzioni accademiche. - 3. Invention-for-hire doctrine v. professor’s privilege: questioni esegetiche del previgente regime. - 4. Ambito oggettivo e soggettivo di applicazione e il problema delle lacune. - 5. Ulteriori questioni legate all’ambito soggettivo di applicazione della regola di titolarità istituzionale e le possibili soluzioni alle lacune: approcci regolatori e spunti dalle prime esperienze applicative dei regolamenti di Ateneo. - 6. Aspetti procedimentali: obbligo di comunicazione (e termini), pre-screening, procedimento deliberativo e premialità. - 7. I contratti di ricerca: principi delle Linee Guida Mimit e circolarità dei regolamenti di Ateneo su P.I., conto terzi e società spin off. - 8. Successione nel tempo di leggi (e regolamenti) e riflessioni conclusive. - NOTE
Il parlamento italiano ha cancellato il c.d. privilegio del professore a luglio 2023 (con l’art. 3 della l. 24 luglio 2023, n. 102 entrato in vigore il 23 agosto 2023) nel quadro delle riforme rientranti nel piano per la ripresa e la resilienza, precisamente nella Missione 1 Componente 2 (M1C2) del PNRR [1]. Tra gli obiettivi da realizzare con i fondi europei post Covid, infatti, era stato programmato un intervento normativo (già nell’estate del 2021) al fine di garantire «che il potenziale di innovazione contribuis[se] efficacemente alla ripresa e alla resilienza del Paese», nonché per «incentivare l’uso e la diffusione della proprietà industriale (…) facilitare l’accesso ai beni immateriali e la loro condivisione, garantendo nel contempo un equo rendimento degli investimenti» [2].
Nel piano di ripresa e resilienza approvato dal Consiglio dell’Unione Europea, tuttavia, non era presente ancora in forma dettagliata la modifica dell’art. 65 c.p.i., che invece compare nel (quasi coevo) documento elaborato, durante il governo Draghi, dal Ministero dello Sviluppo Economico – attraverso la Direzione Generale per la tutela della proprietà industriale dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM) – recante Linee di Intervento Strategiche sulla Proprietà Industriale per il triennio 2021-2023, dove per la prima volta si palesa come possibile un “ribaltamento” di approccio rispetto alla titolarità delle invenzioni accademiche in capo ai ricercatori. Tale proposta viene avanzata, si legge in quel documento, «per allineare la normativa italiana a quella degli altri Paesi europei, trasferendo la titolarità delle invenzioni realizzate dai ricercatori alla struttura di appartenenza» [3], con il dichiarato scopo di «valorizzare gli esiti della ricerca pubblica promuovendone i brevetti», nella consapevolezza che «la ricerca pubblica italiana contribuisce allo sviluppo di nuove tecnologie in maniera rilevante ma, frequentemente, il suo patrimonio di invenzioni non viene valorizzato per una evidente carenza di risorse dedicate a questa funzione che non consente di veicolare efficacemente l’informazione necessaria verso le imprese» [4].
Poi cade il governo Draghi e il lavoro fatto fino ad allora, che sembrava perduto, viene ripreso con vigore e (finanche) procedura d’urgenza dal governo Meloni, per garantire il completamento della riforma entro il 2023 (come da calendario iniziale della Decisione di esecuzione del Consiglio UE per il PNRR) [5], anche allo scopo di consentire l’attuazione del successivo obiettivo, già programmato nel PNRR (Missione 1, Componente 2, Investimento 6) [6], di finanziare progetti in favore delle imprese e degli organismi di ricerca connessi alla proprietà industriale entro il 2025.
Si può dire che il grande movimento di opinione che la comunità accademica aveva alimentato in vent’anni di critiche [7] al sistema della titolarità personale delle invenzioni accademiche ha condotto all’agognato risultato solo grazie al Covid e ad un passo (cruciale) del PNRR, con il suo ponderoso piano di finanziamento per la ricerca (anche) pubblica.
A ben vedere non si tratta della perdita di un privilegio per i docenti universitari, quanto piuttosto di una epocale sistematica riforma che vede le università pubbliche e private (purché legalmente riconosciute), gli enti pubblici di ricerca (d’ora innanzi EPR), e gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (o IRCCS), rafforzare la loro attività di Terza Missione [8], con la previsione di un diritto che, però, implica anche un dovere di valorizzazione dei risultati delle ricerche e degli assetti immateriali da questi derivanti, in cambio della titolarità istituzionale dei diritti patrimoniali (al brevetto e di brevetto) scaturenti dalle invenzioni. A riprova di ciò, quasi tutti i regolamenti accademici sulla proprietà intellettuale (adottati dopo la riforma 2023) hanno introdotto un esplicito obbligo di, talvolta denominato come “impegno alla”, valorizzazione e promozione dei brevetti e degli altri risultati della ricerca da parte degli atenei [9].
La questione della titolarità dei risultati della ricerca accademica – estesa a tutto il settore della ricerca pubblica ed equiparata – non è riducibile esclusivamente ad un modello di efficiente allocazione delle risorse e dei diritti sulle privative industriali. Vero è che il legislatore ha voluto equiparare gli organismi di ricerca alle imprese private quanto al regime proprietario sui beni immateriali (sebbene vi siano differenze tra le due discipline, che saranno opportunamente evidenziate nel prosieguo), ma questa scelta porta con sé una sostanziale differenza tra i due sistemi di ricerca (privata e pubblica): ciò che per il privato è un diritto connesso ai beni aziendali immateriali (i.e. la massimizzazione degli investimenti in P.I.) non conculcabile né coartabile, alla luce della libertà di iniziativa economica privata [10] e della connessa libertà di organizzazione dell’impresa se non in caso di contrasto con l’utilità sociale [11], per gli enti pubblici, per contro, diventa un dovere istituzionale di valorizzare i risultati della ricerca scientifica (c.d. terza missione), anche in ragione del controllo periodico che l’Anvur effettua sulle attività di Terza Missione [12], per non disperdere il valore dei propri beni immateriali, la cui natura di beni pubblici potrebbe provocare anche una responsabilità erariale degli amministratori, funzionari e dipendenti delle amministrazioni universitarie e degli altri enti pubblici coinvolti [13].
Non vi è chi non veda in questo una vera “rivoluzione culturale” portata dalla novella dell’art. 65 e dal nuovo art. 65-bis c.p.i. (d.lgs. n. 30/2005), sul potenziamento degli Uffici per il Trasferimento Tecnologico, che ha come sottostante un modello consapevole di “università imprenditoriale” [14] operante secondo una logica di competizione nell’assegnazione dei finanziamenti pubblici (nazionali ed euro-unitari) [15].
Che ci sia, alla base della riforma, la convinzione di un fallimento del precedente sistema proprietario basato sul motto “invenzioni agli inventori” (radicato nella invention-for-hire doctrine) e l’ammissione dell’errore storico concepito ventidue anni fa è nei fatti, come lo è la volontà di uniformare l’Italia al sistema dominante negli altri Paesi dell’Unione Europea in relazione alla titolarità istituzionale delle invenzioni accademiche, che trova anche esplicita conferma nelle succitate Linee di Intervento Strategiche sulla Proprietà Industriale per il triennio 2021-2023 del MISE.
Occorre prendere le mosse da una breve analisi di contesto e comparativa, per comprendere quali siano i diversi approcci culturali e ideologici sottostanti alle scelte sulla titolarità delle invenzioni accademiche.
Come noto, la regola del privilegio accademico è stata introdotta in Germania (prima in Europa), per via giurisprudenziale a fine ’800 e poi nel 1957 mediante disposizione di legge [16], a presidio della libertà di insegnamento e ricerca (tale collegamento è presente anche dall’art. 33 Cost. italiana), in un contesto in cui l’Hochschullehrerprivileg risultava strumentale alla concezione (all’epoca dominante nel mondo e tutt’ora molto radicata nella cultura occidentale) della ricerca pubblica in funzione della produzione di conoscenza pubblica, libera e a servizio della collettività [17]. Lontane erano le idee sia di università-imprese concorrenti tra loro (per l’aggiudicazione di risorse finanziarie e degli studenti) sia di uno sfruttamento degli assets immateriali secondo logiche aziendalistiche e lucrative: mancava la cultura della proprietà intellettuale nelle università europee nel dopo guerra, e mancavano le risorse, umane e finanziarie, insieme alle competenze sulla proprietà intellettuale e sul knowledge transfer, necessarie alla valorizzazione dei risultati della ricerca. Tradizionalmente la ricerca finanziata con (scarse) risorse pubbliche doveva esitare in pubblicazioni scientifiche, funzionali alla progressione di carriera dei ricercatori e docenti, e alla crescita della scienza [18]; di conseguenza, le invenzioni che si brevettavano erano poche e per lo più destinate a restare inutilizzate sul piano commerciale.
Un quadro completamente diverso si presentava nel secondo dopoguerra al di là dell’Atlantico, dove si registrava, per un verso, un incremento significativo degli investimenti federali alla ricerca scientifica accademica, sebbene ciò non avesse prodotto quella (sperata) accelerazione dei processi di trasferimento tecnologico, grazie ai quali i risultati delle ricerche universitarie avrebbero dovuto raggiungere le industrie e trovare sbocco sul mercato: solo il 5% dei brevetti accademici veniva licenziato all’industria [19]. In questa cornice, il varo del c.d. Bayh-Dole Act nel 1982 (Patent and Trademark Law Amendments Act) [20] ha rappresentato il volano per la promozione del trasferimento tecnologico oltre che la leva per un incremento significativo (in termini quantitativi ma anche qualitativi) delle domande di brevetto presentate dalle università, grazie all’introduzione della titolarità istituzionale e del trasferimento del diritto al brevetto dall’istituzione finanziatrice (le autorità federali) alle istituzioni finanziate (le singole università) [21]. L’obiettivo della riforma fu centrato soprattutto grazie alla crescita numerica degli uffici per il trasferimento tecnologico e allo sviluppo di un’alleanza strategica tra università e industria negli anni immediatamente successivi [22].
Certamente, fonte di ispirazione per il legislatore italiano oltre al Bayh-Dole Act è stata anche l’esperienza del Gesetz über Arbeitnehmererfindungen tedesco del 2002, indicato con l’acronimo ArbnErfG, che ha soppiantato il privilegio accademico con la titolarità istituzionale delle invenzioni universitarie, sul presupposto che l’invenzione non potesse essere ascritta (esclusivamente) al merito individuale di un singolo ricercatore, bensì al contributo collettivo e organizzativo complessivo che le aziende private, come quelle pubbliche, erano (e sono) in grado di fornire ai ricercatori grazie al proprio “ecosistema intellettuale” [23], che rende razionale l’attribuzione della titolarità al soggetto che organizza e finanzia la ricerca [24] (e spesso detiene anche il know how). Secondo questa impostazione, chi investe nella ricerca deve essere anche preposto istituzionalmente a valorizzare e commercializzare i propri assets immateriali risultati della ricerca stessa, sia perché dotato di risorse finanziarie maggiori rispetto al singolo ricercatore, sia perché in grado di equipaggiarsi con uffici a ciò preposti che promuovono l’attività di ricerca senza distogliere i ricercatori dalla loro missione principale [25].
Allargando lo sguardo agli altri Stati europei, l’abrogazione del sistema basato sul professor’s privilege e l’introduzione del sistema di titolarità istituzionale, già prima della Germania, era stato adottato nel Regno Unito nel 1977, con il Patent Act, in Francia nel 1980, con il Code de la propriété intellectuelle, article L. 611-7 [26], e in Danimarca nel 1999, con l’Act no. 347/1999 on inventions at public research institutions [27]; mentre contemporaneamente o successivamente alla Germania lo stesso regime (di titolarità istituzionale) è stato introdotto anche in Austria, Norvegia, Finlandia e Spagna [28].
Per contro in Svezia, con il Patent Act del 1949, venne introdotto il regime del professor’s privilege, meglio noto come teacher’s exemption, essendo concepito come deroga rispetto alle invenzioni dei dipendenti privati, che è tutt’ora in vigore [29]. Tuttavia, va sottolineata la tendenza maggioritaria in favore di un trattamento identico, e tra loro assimilato, delle invenzioni dei dipendenti nel settore privato e in quello pubblico [30], con le sole eccezioni di Svezia e Italia (fino alla riforma 2023).
Non è un caso che la scelta massiva degli ordinamenti europei in favore della titolarità istituzionale delle invenzioni dei ricercatori pubblici sia andata di pari passo con lo sviluppo di una politica euro-unitaria di promozione delle collaborazioni tra università e imprese, volta a migliorare la competitività nel campo dell’innovazione e della ricerca nello spazio Europeo (secondo la c.d. strategia di Lisbona) [31], e con il cambio di paradigma delle università come imprese di servizi [32], tra loro concorrenti nel mercato dei prodotti culturali, didattica e ricerca, ma soprattutto di Terza Missione, includendo in essa il trasferimento tecnologico.
Per meglio orientarsi nell’analisi del novellato art. 65, è opportuno brevemente richiamare i problemi sollevati dalla disciplina previgente.
In primo luogo, il privilegio del professore era stato introdotto con la l. 18 ottobre 2001 n. 383 (contente Primi interventi per il rilancio dell’economia) in attuazione del c.d. “pacchetto Tremonti” o “pacchetto dei cento giorni” in sostituzione dell’art. 34 t.u. sulle disposizioni concernenti lo Statuto degli impiegati civili dello Stato (d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3), che recava disposizioni del tutto simili a quelle previste dalla Legge sulle Invenzioni (r.d. 29 giugno 1939, n. 1127), in specie dagli artt. 23 e 24 sulle invenzioni dei dipendenti privati, già all’epoca classificate nella attuale tripartizione: invenzioni di servizio, d’azienda e occasionali. La scelta serviva a rilanciare un sistema ritenuto inefficiente, a causa dell’inerzia e della strutturale inadeguatezza delle università nel tutelare e sfruttare le invenzioni [33], che tuttavia era imputabile non al disinteresse delle istituzioni accademiche bensì alle carenze organizzative e finanziarie (come emerso successivamente dalle analisi condotte da ricercatori Netval) [34] e alla farraginosità della normativa. Difatti, erano ancora pochi e male organizzati negli atenei italiani gli Uffici per il Trasferimento Tecnologico (UTT o Technology Transfer Office – TTO), come anche scarse le competenze e la specializzazione sulla proprietà intellettuale [35]; inoltre, il processo di brevettazione appariva complicato in ragione delle difficoltà di qualificazione delle fattispecie inventive del settore pubblico secondo la tripartizione tipicamente privatistica (invenzioni di servizio, aziendali e occasionali) che mal si attagliava al sistema della ricerca accademica [36], articolato piuttosto in ricerca autonoma, collaborativa o su commissione.
Per contro, l’attribuzione della titolarità individuale delle invenzioni fu reputata una scelta di responsabilizzazione degli autori/inventori, che avrebbe creato un incentivo forte alla brevettazione muovendo dall’interesse personalistico di ciascun ricercatore ad ottenere un ritorno economico diretto e immediato [37]. L’idea, però, si scontrava con una pluralità di problemi sia giuridici sia applicativi ed è stata smentita nei fatti [38].
Si accusava, in primo luogo, di voler trasferire l’inefficienza degli uffici e dell’organizzazione degli atenei sui singoli ricercatori, i quali però non avrebbero mai potuto valorizzare adeguatamente i risultati della propria ricerca, non essendo dotati né di mezzi finanziari né di mezzi organizzativi adeguati [39]; così facendo si alimentava una vistosa disparità di trattamento, costituzionalmente rilevante (art. 3 Cost.), tra i dipendenti privati e quelli del settore pubblico [40].
Inoltre, si attribuiva per legge agli atenei l’autonomia regolamentare nella gestione dei contratti di licenza (con il potere di determinare l’«importo massimo del canone […] nonché ogni ulteriore aspetto dei rapporti reciproci») addebitando loro la scarsa capacità di negoziazione con le imprese e con le istituzioni di ricerca straniere, nella fase di stipulazione delle licenze d’uso dei brevetti. Ciò si doveva al fatto di aver assegnato un’attività negoziale in rappresentanza degli inventori a soggetti (le università) privi per legge della titolarità delle invenzioni del proprio personale dipendente [41]. Da questa scelta era derivato l’effetto di un depotenziamento del potere contrattuale degli atenei (con le imprese) e un vulnus all’autonomia universitaria, atteso che i finanziamenti alla ricerca provenivano dalle università le quali, però, private dei risultati economici ed ostacolate nei processi di knowledge transfer, risultavano sempre più impoverite di quelle risorse necessarie ad alimentare i processi di valorizzazione dei diritti di proprietà intellettuale [42].
Lo stesso effetto (di depotenziamento della forza negoziale degli atenei) veniva accentuato anche dalla mancanza di obbligatorietà per l’inventore del deposito della domanda di brevetto relativa alla propria invenzione, mentre contestualmente la legge riconosceva alle università una quota percentuale minima (ma derogabile in forza dei regolamenti interni) dei canoni di sfruttamento dei diritti di proprietà industriale, senza che gli atenei potessero esercitare un potere sostitutivo in caso di inerzia dell’inventore nel deposito del brevetto [43]; nondimeno, veniva assegnato alle università il diritto ad una licenza obbligatoria (gratuita e non esclusiva) per utilizzo dell’invenzione in caso di mancato sfruttamento dopo cinque anni (una “brutta copia” del march-in right statunitense), diritto destinato sin dalla sua introduzione a restare lettera morta [44].
Ulteriori dubbi erano stati sollevati in relazione all’ambito soggettivo di applicazione dell’art. 65, in particolare se la titolarità individuale si dovesse applicare solo agli enti pubblici di ricerca e alle università statali, ovvero anche a tutti i soggetti anche privati aventi tra i propri scopi (solo istituzionali o anche ulteriori?) le finalità di ricerca, quali per esempio le università private, gli organismi privati di ricerca, le fondazioni private o pubblico-private [45]. E ancora, se dovesse essere limitato al personale dipendente in senso stretto ovvero anche al personale non dipendente, includendo tutti i soggetti che a vario titolo partecipano alle ricerche accademiche (a titolo gratuito o con contratto a tempo determinato o mediante convenzione interistituzionale) [46].
Altro interrogativo era legato alla disciplina applicabile ai prodotti della ricerca diversi dalle invenzioni brevettabili, quali le opere dell’ingegno, in particolare le cc.dd. opere utili (software, banche dati, progetti di ingegneria o architettura, industrial design etc.) e gli altri diritti di proprietà industriale diversi dal brevetto per invenzione (varietà vegetali, disegni e modelli, topografie di prodotti a semiconduttori, marchi etc.). Il tema veniva generalmente risolto o evocando l’autonomia regolamentare dei singoli atenei [47], ovvero (in assenza di scelte espresse nei regolamenti) richiamando l’interpretazione letterale a contrario dell’art. 65 (ubi lex noluit tacuit) [48] o sostenendo l’esistenza di un principio generale del sottosistema ordinamentale degli IPRs, conforme alla regola del lavoro privato (ex art. 64) [49] ricostruibile da una pluralità di disposizioni [50].
Così, in applicazione della work-for-hire doctrine, il principio della titolarità del datore di lavoro per tutte le opere dell’ingegno create in esecuzione di un rapporto di lavoro o di impiego sia privato sia pubblico veniva considerato come regola generale [51], legittimando l’analogia iuris dell’art. 64 e limitando l’applicazione dell’art. 65 allo specifico caso dei brevetti per invenzione [52]. In tal modo, tanto le privative titolate diverse dalle invenzioni suscettibili di brevettazione (quali i disegni e modelli registrati, i marchi, le topografie di prodotti a semiconduttori, le nuove varietà vegetali) quanto le privative non titolate la cui protezione è riconducibile alla legge sul diritto d’autore (quali software, banche dati, progetti di ingegneria o architettura, industrial design e persino i segreti industriali e il know-how) si potevano già ricondurre al regime di titolarità delle invenzioni e delle opere dell’ingegno create nel settore privato.
In sintesi, si riteneva che il c.d. privilegio umanistico valesse soltanto per le pubblicazioni scientifiche [53], nonostante la previsione di segno contrario dell’art. 11 l. aut., con le contraddizioni applicative che lo hanno da sempre caratterizzato [54].
Infine, era discussa la ratio della diversa disciplina dei risultati della c.d. “ricerca libera” e di quella “vincolata” [55], aggravando ulteriormente i dubbi di legittimità della normativa per disparità di trattamento, questa volta dovuti alla illogica diversificazione delle fonti di finanziamento della ricerca (pubblica o privata) [56].
In conclusione, il meccanismo della titolarità individuale ha tradito le aspettative, sebbene sia sempre cresciuto il numero delle invenzioni e dei brevetti accademici negli anni successivi al 2001 [57], rivelandosi un disincentivo alla brevettazione da parte dei ricercatori, i quali spesso hanno dovuto fare ricorso all’industria per affrontare i costi di protezione, specie a livello internazionale, cedendo in toto la titolarità delle proprie invenzioni al settore privato [58], senza lasciar traccia del contributo della ricerca accademica all’innovazione del sistema Paese. Paradossalmente, però, esso ha provocato anche uno “scatto di orgoglio” degli atenei italiani, i quali hanno reagito alla privazione della titolarità con maturità e consapevolezza, neutralizzando per via regolamentare buona parte delle criticità indotte dalla normativa del 2001 [59].
Passando al nuovo art. 65 [60], in relazione all’ambito di applicazione la disposizione recita: «In deroga all’articolo 64, quando l’invenzione industriale è fatta nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o di impiego, anche se a tempo determinato, con una università, anche non statale legalmente riconosciuta, un ente pubblico di ricerca o un istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS), nonché nel quadro di una convenzione tra i medesimi soggetti, i diritti nascenti dall’invenzione spettano alla struttura di appartenenza dell’inventore, salvo il diritto spettante all’inventore di esserne riconosciuto autore, nei termini di cui al presente articolo».
Innanzitutto, l’incipit della norma evidenzia il rapporto di “deroga” rispetto all’art. 64, che si riferisce alla tripartizione delle invenzioni del settore privato (di servizio, d’azienda e occasionali), non riproposta nell’art. 65 (sebbene non si possa escludere che venga adottata per via regolamentare dai singoli enti di ricerca) [61], visti i dubbi suscitati nel previgente regime [62], sebbene ciò non faccia cadere le discussioni sull’ambito oggettivo e soggettivo di applicazione della norma. Invece, sembra esserci continuità tra le due norme in relazione agli interessi tutelati e alla logica sottesa alle due disposizioni, la work-for-hire doctrine. Ulteriore somiglianza tra le discipline si segnala in relazione all’art. 64, sesto comma, sull’arco temporale di sottoposizione delle invenzioni alla regola di titolarità istituzionale, destinata a esaurirsi soltanto dopo il decorso di un anno dalla cessazione del rapporto di lavoro o di impiego; regola che si giustifica, tanto per il lavoro privato quanto per quello pubblico, in forza degli effetti normalmente differiti dei risultati inventivi rispetto all’attività sperimentale che si è svolta nei dodici mesi anteriori mediante l’utilizzo di attrezzature, risorse umane e finanziarie del precedente datore di lavoro.
Sembra, invece, che i dubbi emersi in passato sulla qualificazione del rapporto di lavoro che lega i ricercatori ai propri enti di appartenenza, in termini di “contratto di ricerca” ovvero di “contratto inventivo” [63], siano destinati a cadere alla luce della previsione dell’art. 65, quarto comma, lett. b) che affida alla disciplina regolamentare «i rapporti con gli inventori e le premialità connesse all’attività inventiva». Si può sostenere, alla luce dell’attuale formulazione che rimanda alle (doverose) premialità da disciplinare nei regolamenti interni, che il legislatore abbia sposato la tesi che già in passato qualificava le invenzioni dei ricercatori universitari sempre come invenzioni d’azienda [64], escludendo che potessero venire in rilievo le fattispecie delle invenzioni di servizio e di quelle occasionali [65], sebbene con riguardo a queste ultime non si possa negare (alla luce della nuova disciplina) che possano venire in rilievo fattispecie di invenzioni occasionali, come condivisibilmente già da alcuni sostenuto [66] in relazione al personale non adibito a mansioni di ricerca (personale tecnico amministrativo o addetti ai servizi di vigilanza e pulizia), sia per effetto di applicazione analogica dell’art. 64, terzo comma, sia ove tale soluzione venga contemplata da un’espressa previsione regolamentare. La soluzione prospettata, tuttavia, non è pacifica, sostenendosi per contro che le invenzioni accademiche presentino caratteristiche tipologicamente proprie «non riconducibili né alla disciplina delle invenzioni di servizio, né a quella delle invenzioni di azienda» bensì rappresentino un tertium genus [67].
Appare, altresì, evidente l’ampliamento dell’ambito soggettivo della disposizione, con correlativo cambiamento di rubrica dell’art. 65, un tempo riferito alle sole “invenzioni dei ricercatori delle università e degli enti pubblici di ricerca”, ed oggi esteso anche agli IRCCS (senza distinzione tra quelli pubblici e quelli privati) [68] nonché, nel testo del primo comma, a tutte le istituzioni accademiche, anche private purché legalmente riconosciute, secondo quella interpretazione che era prevalsa in dottrina anteriormente alla riforma [69]. D’ora innanzi, perciò, ogni riferimento alle invenzioni accademiche o ai ricercatori universitari deve intendersi esteso a tutte le invenzioni (e agli inventori) rientranti nel perimetro della nuova norma.
Rimandando le ulteriori questioni legate all’ambito soggettivo di applicazione del novellato art. 65 c.p.i. al prossimo paragrafo, si devono affrontare innanzitutto tre diversi ordini di problemi: i) quale sia il regime giuridico applicabile agli altri organismi di ricerca, diversi dagli enti (pubblici e privati) menzionati e dalle imprese, che sfuggono alla classificazione tanto dell’art. 64 quanto dell’art. 65; ii) a quali tipologie di diritti di proprietà intellettuale si debba o si possa applicare il nuovo art. 65 oltre alle invenzioni in senso stretto; iii) se si possa (o debba) estendere l’art. 65 ai risultati della ricerca solo parzialmente finanziata dagli enti pubblici ovvero totalmente (o parzialmente) finanziate dagli stessi e commissionate dalle imprese o esternalizzate alle imprese.
Per rispondere al primo quesito, si deve tenere conto del fatto che il MISE (oggi MIMIT) voleva ottenere il risultato di far ricadere nell’art. 65 tutte le invenzioni che fossero realizzate al di fuori dalle imprese e dunque nel settore pubblico [70]; e sebbene tale intenzione abbia sofferto due eccezioni (per le università private legalmente riconosciute e per gli IRCCS privati sottoposti alla vigilanza del ministero della salute) [71], esso può avere un ruolo per orientare gli interpreti.
Si deve partire dalla constatazione che, certamente, vi sono alcuni soggetti pubblici diversi da quelli espressamente menzionati nella disposizione, ed anche soggetti privati, che non rivestono né la forma né la sostanza (secondo la definizione europea) delle imprese [72], che svolgono prevalentemente anche se non esclusivamente attività di ricerca, come risulta esaminando l’ampia definizione degli Organismi di Ricerca contenuta nel regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014, che dichiara alcune categorie di aiuti compatibili con il mercato interno in applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato [73]. Tale definizione include sia soggetti pubblici sia privati diversi dalle imprese, quali le agenzie incaricate del trasferimento di tecnologia, gli intermediari dell’innovazione, le entità collaborative reali o virtuali orientate alla ricerca, nonché le fondazioni pubbliche (come quelle create per la gestione dei progetti finanziati dal PNRR, quali i Partenariati Estesi o i Campioni Nazionali) e quelle private, le associazioni private ed ogni altro organismo che svolga in regime privatistico o pubblicistico principalmente attività orientate alla ricerca, all’innovazione o al trasferimento tecnologico.
Il concetto di “esercizio in via principale” andrebbe inteso come prevalenza, caratterizzante in senso sia qualitativo che quantitativo il complesso delle attività svolte da un ente, come sembra potersi desumere dalla previsione del Regolamento sull’obbligo di contabilità separata, nel caso in cui tali entità svolgano in parallelo anche attività economiche [74].
Tuttavia, l’attività principale deve costituire non soltanto una finalità istituzionale, dunque dovrà essere presente come oggetto sociale, ma soprattutto caratterizzarsi per lo svolgimento in maniera “indipendente” delle «attività di ricerca fondamentale, di ricerca industriale o di sviluppo sperimentale o nel garantire un’ampia diffusione dei risultati di tali attività mediante l’insegnamento, la pubblicazione o il trasferimento di conoscenze». L’indipendenza dovrebbe riferirsi ai soggetti finanziatori e ad altri portatori di interessi (per tutti si pensi agli azionisti, ai soci fondatori, ai membri o componenti degli organi sociali) che siano idonei, dall’interno o dall’esterno, a condizionare gli esiti della ricerca in contrasto con il metodo scientifico d’indagine.
La norma del citato Regolamento, pertanto, individua i requisiti congiunti di “prevalente svolgimento di attività di ricerca, innovazione o trasferimento tecnologico” e di esercizio “in maniera indipendente” di attività di ricerca fondamentale, di ricerca industriale o di sviluppo sperimentale, al fine di poter qualificare come OdR i soggetti giuridici pubblici o privati.
A ben vedere entrambi questi requisiti sono presenti nelle università, negli EPR e negli IRCCS laddove, per contro, sono entrambi assenti nel contesto delle imprese. Si può concludere, allora, nel senso di ritenere che tutti gli OdR che rispondano ai requisiti indicati dal reg. (UE) n. 651/2014, Considerando 83, che svolgano attività di ricerca in maniera principale e in modo indipendente siano suscettibili di rientrare nel perimetro di applicazione dell’art. 65 c.p.i., sia che rivestano forma pubblica sia se abbiano forma giuridica privata.
In relazione al secondo quesito, ci si chiedeva già nel vigore della precedente disciplina e ci si continua a interrogare ancora oggi, su quale sia la disciplina delle opere dell’ingegno realizzate dai ricercatori accademici che siano diverse dalle invenzioni brevettabili, in specie disegni, modelli, marchi, progetti di ingegneria o architettura, software, banche dati, know-how ed altre opere proteggibili attraverso diritti di proprietà industriale titolati e non titolati.
Come anticipato nel paragrafo precedente [75], pur in mancanza di una unitaria (e univoca) disposizione contenuta nella legge sul diritto d’autore o nel Codice della Proprietà Industriale, la soluzione dominante nel previgente regime era quella di considerare applicabile la work-for-hire doctrine a tutte le opere dell’ingegno diverse dalle invenzioni brevettabili, ivi incluse le opere scientifiche o tecnologiche (non anche quelle didattiche) direttamente collegate all’attività di ricerca svolta. Raccogliendo sul piano sistematico un argomento desumibile da norme sparse (artt. 12-bis per i programmi per elaboratore e banche dati, 12-ter per le opere di industrial design e 88 l. aut. per i diritti connessi sulle fotografie; l’art. 89 c.p.i. per le topografie di prodotti a semiconduttori, artt. 101, primo comma, lett. b) e 111, secondo comma, c.p.i. per le nuove varietà vegetali e l’art. 38, terzo comma, c.p.i. per i disegni e modelli) si era arrivati a ritenere che la regola dovesse essere quella della titolarità istituzionale del datore di lavoro per tutti i casi di opere create in esecuzione di un rapporto di lavoro o di impiego [76]. Questa stessa soluzione era stata indicata anche dall’art. 4 della l. 22 maggio 2017, n. 81 (c.d. Statuto dei lavoratori autonomi) per le invenzioni dei lavoratori autonomi [77] e, pertanto, risulta oggi avallata e rafforzata alla luce dell’estensione della regola di titolarità istituzionale prevista dal novello art. 65.
Sarebbe illogico, infatti, ritenere che quel principio, già ricavabile dal sistema, concernente la titolarità del datore di lavoro sulle opere dell’ingegno diverse e ulteriori dalle invenzioni, non debba essere applicato all’indomani della riforma che ha reso omogenea la disciplina di titolarità istituzionale delle invenzioni nel settore pubblico e nel settore privato. Tanto vero che, nel corso dei ventidue (lunghissimi) anni di professor’s privilege, molti atenei italiani avevano già introdotto nei propri regolamenti sulla proprietà intellettuale previsioni che assoggettavano ad un regime unico tutte le privative su beni immateriali [78], titolati e non titolati, brevetti per invenzione ed ogni altro diritto di proprietà industriale e intellettuale. La riforma dovrebbe dare ulteriore slancio nel corroborare questa linea di tendenza [79].
Ad ogni modo, anche in assenza di una esplicita opzione regolamentare che estenda ai diritti di proprietà intellettuale e industriale diversi dalle invenzioni il regime giuridico dell’art. 65, questa dovrà essere considerata l’interpretazione preferibile, se le creazioni intellettuali siano frutto della ordinaria attività istituzionale del ricercatore e rientrino tra le attività di ricerca svolte all’interno delle università, degli EPR o degli IRCCS, fatta eccezione per le pubblicazioni scientifiche e didattiche. Tale eccezione si giustifica sia per la scarsa rilevanza dell’apporto dato dal datore di lavoro e dalla sua organizzazione in questo tipo di creazioni (le pubblicazioni), dove prevale l’elemento creativo del singolo autore (come già in passato segnalato dalla dottrina per giustificare il c.d. privilegio umanistico), sia in forza dell’applicazione a contrario dell’art. 11, il quale attribuisce il diritto d’autore all’ente pubblico (datore di lavoro) soltanto nei casi in cui lo stesso abbia commissionato al docente una pubblicazione scientifica affinché sia fatta a nome, per conto e a spese dell’ente stesso, e la stessa sia stata eseguita sulla base di un apposito contratto (di edizione o di contenuto analogo) secondo la previsione dell’art. 11 l. aut. [80].
Se, dunque, la soluzione della titolarità individuale si lascia preferire sia per le pubblicazioni scientifiche sia per quelle didattiche, a fortiori si dovrà escludere la titolarità istituzionale anche per le opere letterarie scritte e pubblicate dai ricercatori pubblici al di fuori dell’attività istituzionale di ricerca accademica (come nel caso dei romanzi scritti da magistrati e politici, anche quelli dei docenti e ricercatori pubblici cadranno nella titolarità individuale del singolo autore), sia quando l’opera letteraria in questione rientri nel campo di attività professionale (la raccolta di poesie pubblicata da un docente di letteratura o filologia) sia quando non vi rientri (il romanzo scritto e pubblicato da un matematico).
In relazione al terzo quesito (se si possa estendere l’art. 65 alla ricerca finanziata solo in parte dagli enti pubblici e commissionata dalle imprese ovvero esternalizzata a soggetti terzi pubblici o privati da parte degli enti pubblici), si devono prendere in considerazione una pluralità di ipotesi piuttosto eterogenee tra loro: in primo luogo, le ricerche cofinanziate dalle imprese, che possono ricadere nella categoria delle ricerche in collaborazione; in secondo luogo, le ricerche in conto terzi finanziate interamente da soggetti privati, per lo più imprese, ovvero anche da altri enti pubblici; infine, le ricerche commissionate dalle università o EPR o IRCCS ad altri soggetti terzi, che siano organismi di diritto pubblico o imprese, come accade nei bandi a cascata (anche detti BAC) dei progetti PNRR (Partenariati Estesi, Campioni Nazionali etc.).
Nei primi due casi è lo stesso legislatore che già in passato aveva fornito una soluzione che si poneva in discontinuità, come eccezione alla regola della titolarità individuale, per «le ricerche finanziate, in tutto o in parte, da soggetti privati», da cui derivava la distinzione tra ricerca libera e ricerca vincolata [81].
Il novello art. 65 fornisce, pur nel mutato quadro generale, una soluzione non dissimile da quella del passato (ma secondo alcuni persino peggiore e più vaga rispetto al passato) [82], improntata alla flessibilità e all’autonomia negoziale nei rapporti con i finanziatori (o co-finanziatori) della ricerca, che consiste nel rimettere la disciplina dei rapporti agli accordi tra le parti, come gli Atenei già praticano da anni. L’innovazione rispetto al passato è contenuta nell’art. 65, quinto comma, che rimanda gli enti pubblici di ricerca al rispetto dei principi emanati dal MIMIT: «accordi contrattuali tra le parti, [dovranno essere] redatti sulla base delle linee guida, che individuano i principi e i criteri specifici per la regolamentazione dei rapporti contrattuali, adottate con decreto del Ministro delle imprese e del made in Italy, di concerto con il Ministro dell’università e della ricerca, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione. Sono fatti salvi gli accordi stipulati tra le parti prima dell’emanazione delle predette linee guida».
Rimandando ad un momento successivo la specifica trattazione dei principi dettati dalle Linee Guida MIMIT (infra § 6), si deve osservare in questa sede che persino in relazione all’attività definita come “conto terzi”, interamente finanziata dai privati, le raccomandazioni ministeriali non autorizzano mai ad una totale abdicazione o dismissione sui diritti di P.I. da parte delle università, EPR o IRCCS, indicando per contro come strada preferibile quella di un equo contemperamento degli interessi delle parti, ed in particolare richiamando la disciplina del joint foreground contenuta nei regolamenti sui brevetti e proprietà intellettuale, tipica della ricerca collaborativa che si svolga con il contributo di mezzi (finanziari e umani) e di conoscenze (background, know-how pregresso o sviluppato in ricerche parallele, c.d. sideground) delle imprese e delle università.
Questo aspetto torna utile per risolvere il terzo dei casi dubbi (probabilmente il più problematico), ossia quello della ricerca commissionata dalle università ai privati, di cui non c’è traccia né nel testo dell’art. 65 né nelle successive Linee Guida. La lacuna, forse, potrebbe essere dovuta all’assoluta eccezionalità della fattispecie: prima della massiccia iniezione di finanziamenti alla ricerca del PNRR, infatti, non si è mai pensato che le università potessero essere centrali di committenza per esternalizzare ai privati o ad altri enti pubblici tutta o parte della propria attività di ricerca. Questo modus operandi è stato inaugurato per la prima volta con i BAC nei progetti PNRR.
Tuttavia, la ratio della nuova disciplina e la regola generale desumibile da molteplici disposizioni inducono a preferire una soluzione che attribuisca la titolarità o quanto meno la contitolarità istituzionale (in ragione del proprio contributo alla ricerca) anche per i risultati della ricerca realizzati dai privati (imprese) o dagli OdR o da partenariati composti dagli uni e dagli altri messi insieme, che siano beneficiari di finanziamenti pubblici per attività di ricerca nel contesto di attività collaborative di ricerca PNRR.
Non si può negare, infatti, che la logica sottostante ai finanziamenti pubblici per la ricerca sia stata, tradizionalmente, quella dei finanziamenti a fondo perduto in cui l’ente finanziatore cedeva totalmente in favore dei beneficiari i risultati della ricerca e i DPI da essi scaturenti, lasciandone loro la piena autonomia nella gestione: si pensi ai programmi europei per la ricerca ERC, Horizon Europe, come anche alle diverse tipologie di grant in favore delle imprese, come il programma Creative Europe a sostegno delle imprese culturali e audiovisive, e nondimeno ai programmi nazionali finanziati dai diversi ministeri – della Salute, dell’Università – per tutti il PRIN. Però, si deve ormai prendere atto che la riforma 2023 ha prodotto una divaricazione tra il regime della proprietà intellettuale per gli enti pubblici di ricerca e per gli enti governativi, simile all’effetto del (in quel caso esplicitamente consacrato nel) Bayh-Dole Act statunitense.
In altri termini, la scelta del legislatore di estendere la titolarità istituzionale e la invention-for-hire doctrine agli enti pubblici, deputati istituzionalmente a svolgere attività di ricerca, porta con sé la necessità per questi soggetti di adottare la medesima logica aziendalistica e imprenditoriale di valorizzazione degli assets immateriali generati dalle ricerche finanziate (indipendentemente da chi sia il destinatario di quelle risorse, se un proprio dipendente o un diverso soggetto esterno), al pari di quanto accaduto negli Stati Uniti nel 1982, quando il Bayh-Dole Act ha fatto cadere la titolarità degli IPRs in capo alle istituzioni federali finanziatrici della ricerca per assegnarla alle università, salvo lasciare in capo alle istituzioni federali un diritto sussidiario e residuale di sfruttamento delle invenzioni, in caso di inerzia delle università nel trasferimento tecnologico e nella valorizzazione delle stesse. Da quel momento, «le università e gli altri soggetti che ricevono finanziamenti federali per lo svolgimento di attività di ricerca sono titolari del diritto di brevetto e possono (non già, devono), entro un ragionevole periodo di tempo, decidere se procedere a brevettare l’invenzione effettuata al loro interno» [83].
Ebbene, la stessa ratio deve oggi accompagnare le università e gli altri soggetti percettori di finanziamenti europei (come accade per i fondi PNRR) anche laddove sia prevista la parziale destinazione di questi ultimi in favore di ulteriori soggetti (pubblici o privati) da individuarsi attraverso bandi competitivi (come i BAC), abbandonando la logica di sostanziale disinteresse per i diritti di proprietà intellettuale che finora era comune alle istituzioni pubbliche e che, dopo la riforma 2023, resterà tipica soltanto dei finanziamenti governativi nazionali o europei e degli organi di governo che li erogano (la Commissione europea o i singoli Ministeri nazionali, MUR, MIMIT, Salute etc.).
Se nella gestione della proprietà intellettuale generata dalle imprese o dagli OdR beneficiari di finanziamenti accademici le università rinunciassero a monte alla titolarità di qualsivoglia diritto di proprietà intellettuale [84] verrebbe tradita completamente la ratio del nuovo art. 65, con frustrazione degli interessi delle università, EPR o IRCCS che quella disposizione è volta a preservare.
Si provocherebbe, inoltre, una ingiustificata disparità di trattamento (rilevante ai sensi dell’art. 3 Cost.) tra i beneficiari esterni dei finanziamenti accademici (che godrebbero della titolarità individuale dei DPI) e i beneficiari interni degli stessi finanziamenti, ossia il personale dipendente, con violazione anche della lettera dell’art. 65, primo comma, il quale assimila i dipendenti legati da un contratto di lavoro o di impiego al caso in cui i soggetti operino «nel quadro di una convenzione».
L’ulteriore rischio è che la scelta di trasferire sui beneficiari esterni dei finanziamenti pubblici tutti i DPI possa dar vita ad un atto di disposizione/dismissione del patrimonio pubblico con conseguente danno all’erario (ai sensi degli artt. 82, Legge generale di contabilità, r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 52 t.u. delle leggi sulla Corte dei conti, r.d. 12 luglio 1934, n. 1214), suscettibile di generare azioni risarcitorie da parte degli atenei (ex art. 18, primo comma, dello Statuto degli impiegati civili dello Stato, d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3) [85], verso i funzionari colpevoli di aver adottato soluzioni in contrasto con la lettera e con lo spirito del novello art. 65.
Si deve aggiungere, infine, un ulteriore argomento, a favore di questa conclusione, desumibile dalle regole sulla ricerca collaborativa, che verrebbero in gioco proprio nel caso dei bandi a cascata su progetti PNRR, nonché ogni qualvolta le università avessero necessità di esternalizzare una parte delle proprie ricerche a soggetti terzi, per il completamento di quegli obiettivi o target, milestones di progetto o di singoli work packages, che non siano in grado di attuare con il proprio personale dipendente (per mancanza di competenze, know how, risorse umane o mezzi strumentali). Coltivando questo percorso e qualificando le ricerche esternalizzate dalle università o da altri EPR come parti di una più ampia ricerca pubblica, dunque come ricerche in collaborazione e non come ricerche autonome, risulta doveroso attenersi ai principi contenuti nelle Linee Guida del MIMIT nella stipula degli accordi di ricerca che devono precedere l’erogazione del finanziamento (in entrata o in uscita), tra cui troviamo la preferenza per il regime di contitolarità dei diritti di proprietà intellettuale. Vero è che quelle linee guida, per espressa previsione dell’art. 65, quinto comma, sono destinate ad orientare la disciplina delle ricerche finanziate in tutto o in parte da altri soggetti (conto terzi e ricerche collaborative) cofinanziate dall’esterno; tuttavia, non vi è ragione per negare che la stessa disciplina debba essere applicata anche quando il flusso del finanziamento è invertito (dalle università alle imprese). E dunque, se lì viene indicato come regime negoziale preferibile da inserire nei contratti di ricerca (cofinanziata dai privati o in conto terzi) il regime di contitolarità sui risultati delle ricerche (i.e. DPI), a fortiori l’ente pubblico dovrebbe rivendicare e tenere per sé, in tutto o in parte, la titolarità dei diritti di proprietà intellettuale quando la ricerca sia commissionata con fondi propri erogati a terzi.
In conclusione, il cambiamento di rotta sulla titolarità istituzionale delle invenzioni accademiche porta con sé anche l’abbandono della logica che finora era tipica dei finanziamenti erogati dalle istituzioni governative nazionali o euro-unitarie, che continuerà a caratterizzare soltanto l’operatività della Commissione europea, dei suoi uffici, e dei Ministeri italiani nella gestione dei propri programmi di finanziamento a fondo perduto, per abbracciare il diverso sistema di gestione della P.I. (invention-for-hire doctrine) che finora ha caratterizzato soltanto le imprese private, basata sull’idea che la titolarità dei risultati della ricerca segue la regola del finanziamento: chi lo fa (anche solo in parte) avrà il diritto a rivendicarne l’intestazione a sé esclusiva o condivisa.
La disposizione dell’art. 65 si riferisce espressamente al personale strutturato che intrattenga, con gli enti pubblici di ricerca, le università o gli IRCCS, un rapporto di lavoro o di impiego; si riferisce altresì anche al personale legato da un generico contratto con tali soggetti o da una convenzione con gli stessi, sicché sembrano essere inclusi il personale strutturato assunto a tempo determinato e indeterminato nonché il personale non strutturato ma legato da contratti o convenzioni anche a tempo determinato e breve. In questa così ampia nozione, quindi, è ragionevole considerare inclusi i contratti di ricerca stipulati con assegnisti, dottorandi, specializzandi, borsisti etc.
Il comma quarto dispone, altresì, che le università, gli enti pubblici di ricerca e gli IRCCS nell’ambito della propria autonomia, disciplinano: «a) le modalità di applicazione delle disposizioni di cui al presente articolo ai soggetti che hanno titolo a partecipare alle attività di ricerca, compresi gli studenti dei corsi di laurea per i risultati inventivi conseguiti nell’ambito delle attività di laboratorio ovvero nei percorsi di laurea».
Questa previsione, che rimette all’autonomia regolamentare la scelta di ampliamento dell’ambito soggettivo di applicazione delle invenzioni accademiche a tutti coloro che prendono parte alle attività di ricerca, con espressa menzione degli studenti, sembra confermare la soluzione già desunta dal tenore letterale, per la quale i soggetti già sottoposti a formali rapporti contrattuali (come assegnisti, dottorandi e specializzandi) siano già inclusi nella previsione del primo. Dunque, si desume che non vi sia una libertà di scelta, e che la titolarità istituzionale non possa essere derogata in questi casi, trattandosi di soggetti equiparati ex lege al personale dipendente [86].
L’espressa menzione degli studenti, probabilmente, può essere spiegata immaginando che il legislatore (rectius i consulenti legali che hanno contribuito alla stesura del testo di legge novellato), conoscesse(ro) il caso che rappresenta l’unico precedente giurisprudenziale nazionale (noto ed edito) [87] degli studenti del Politecnico di Bari, deciso dalla Sezione specializzata per le imprese del Tribunale di Bari nel 2023. Si trattava di un caso complicato a causa di una disciplina lacunosa a monte, sia di tipo regolamentare che convenzionale [88]: l’invenzione era stata realizzata nell’ambito di un accordo di partnership tra l’Ateneo e un’impresa «secondo un modello di cooperazione che mette a disposizione degli allievi del corso locali, strumenti e materiali» aziendali [89]. Sembrava trattarsi di un internship svolto in azienda e propedeutico alla tesi di laurea, ma i giudici qualificano tale rapporto come «contratto di lavoro a tempo determinato e parziale», evidentemente per l’assenza di una disciplina di proprietà intellettuale ricavabile diversamente. Sulla base di queste premesse, si sarebbe dovuta classificare l’invenzione come invenzione di servizio o, meglio, invenzione d’azienda, e non invece come invenzione occasionale (ai sensi dell’art. 64, terzo comma, c.p.i.) secondo quanto deciso dal tribunale di prime cure. Dunque, sul piano strettamente logico-giuridico la soluzione presenta incongruenze e forzature rispetto al dato normativo.
Ciò nondimeno sul piano equitativo la soluzione merita di essere condivisa, e costituisce un precedente prezioso che, insieme al noto caso dei dottorandi di Stanford ideatori di Google [90], ci insegna che gli studenti universitari hanno un ruolo tutt’altro che marginale nelle ricerche accademiche, così da non poter essere trascurati. Ragionando diversamente, gli inventori più giovani sarebbero abbandonati in una condizione di svantaggio nei rapporti con le imprese, per debolezza negoziale e per sproporzione di forza economica (si pensi alle spese legali che i due giovani baresi hanno dovuto affrontare per rivendicare e far valere in giudizio i propri diritti) in relazione ad attività di ricerca che sono programmate per rientrare, come attività obbligatorie, nei percorsi di formazione accademica ante-laurea o post-laurea.
Vi sono, però, lacune presenti nell’attuale art. 65 in relazione all’ambito soggettivo di applicazione: si pensi alla posizione dei visiting professor e visiting student che vengono ospitati spesso negli Atenei italiani per svolgere attività di ricerca o di didattica, o alla distinzione tra i docenti a tempo pieno e quelli a tempo definito, da cui il problema delle invenzioni realizzate nell’esercizio di attività libero professionali da parte di docenti e ricercatori (a tempo definito); e ancora, la questione dell’attività inventiva svolta nell’esercizio di attività extraistituzionale autorizzata dall’ateneo in favore di docenti a tempo pieno (disciplinata dall’art. 6, decimo comma-bis, l. n. 240/2010); oppure il caso dei docenti con doppie affiliazioni presso centri di ricerca pubblici o privati, o più frequentemente presso altre università estere; e da ultimo, ma non per ultimo, il problema delle invenzioni realizzate nell’ambito di società spin off accademiche partecipate o accreditate dalle università.
Si tratta, con ogni probabilità, di lacune volontarie e non inconsapevoli [91], presenti alla scopo di indurre gli enti di ricerca ad un uso responsabile dei propri spazi di autonomia regolamentare, funzionali a far elaborare una visione strategica dell’ateneo nel territorio e le conseguenti scelte di policy sulla proprietà intellettuale, che siano coerenti con il proprio apparato organizzativo, con le proprie risorse finanziarie e umane e con i risultati che ci si prefigge di realizzare attraverso la valorizzazione dei beni immateriali.
Le possibili opzioni regolatorie possono essere ricondotte a tre macrocategorie.
La prima possibile è quella basata sullo status istituzionale di appartenenza, che si può definire approccio estensivo o massimalista. Questa prima opzione consente di ricondurre le invenzioni alla titolarità istituzionale sempre e comunque in qualsiasi contesto vengano realizzate, anche fuori dai locali universitari, dai docenti a tempo pieno e a tempo definito, con riguardo alle attività libero professionali svolte da questi ultimi (e ammesso che le stesse possano generare trovati suscettibili di brevettazione e non consistano meramente in prestazioni di servizi – come accade per quelli legali o medico sanitari), oppure quando si tratti di docenti a tempo pieno ma debitamente autorizzati a svolgere incarichi extraistituzionali, o ancora quando i docenti svolgano attività di ricerca aggiuntiva presso enti o fondazioni private (come Telethon, AIRC, AIL, LILT etc.), o nella veste di professori a contratto presso altri atenei italiani o stranieri, e in tutti i casi riconducibili alla c.d. doppia affiliazione. La ratio sottesa a tale scelta è che il ricercatore di una istituzione (università, EPR o IRCCS) resti tale anche quando viene chiamato a svolgere attività di ricerca al di fuori del proprio Ateneo (attività che in ogni caso deve essere debitamente autorizzata), poiché anche nell’espletamento di tali incarichi esterni assolve le sue funzioni nella qualità di professore o affiliato ad una istituzione pubblica ed anzi, si potrebbe aggiungere, che a fortiori viene investito di incarichi professionali grazie al suo ruolo accademico che fa da calamita per attrarre clienti, incarichi privati o doppie affiliazioni. In quest’ottica le invenzioni occasionali non potrebbero esistere nel contesto della ricerca pubblica e accademica, poiché qui il ricercatore non fa altro che mettere in atto le competenze e le professionalità acquisite grazie al suo status e alla sua prima affiliazione accademica. Potrebbero, invece, configurarsi invenzioni occasionali del personale tecnico amministrativo atteso che non appartiene alle loro mansioni tipiche lo svolgimento di attività di ricerca, ad eccezione (forse) dei tecnici di laboratorio.
Il secondo approccio, qualificabile come intermedio o temperato, consiste nella previsione della titolarità istituzionale delle invenzioni soltanto ove queste vengano realizzate dal docente nel contesto accademico o nell’espletamento di attività istituzionali tipiche del proprio ufficio, non anche nell’espletamento di incarichi esterni svolti al di fuori del perimetro istituzionale [92]. In questa categoria possono ricadere tanto i regolamenti che introducano espresse eccezioni alla regola della titolarità istituzionale, quanto quelli che menzionino espressamente (nel perimetro della titolarità istituzionale) le sole invenzioni conseguite nell’espletamento delle attività di ricerca accademica, in attuazione di doveri istituzionali (sia quello generale di ricerca “libera” sia quello connesso all’espletamento di specifici progetti appositamente finanziati o a specifiche convenzioni dell’università con soggetti terzi), menzionando o meno gli ulteriori requisiti di svolgimento della ricerca nell’orario di servizio e nei locali dell’università. Ragionando in questa prospettiva, la casistica problematica prima menzionata (l’attività libero professionale svolta dai docenti a tempo definito oppure l’attività occasionale svolta dai docenti a tempo pieno sulla base di una espressa autorizzazione rettorale o anche le attività svolte in regime di doppia affiliazione) non ricadrebbe mai all’interno del perimetro applicativo dell’art. 65, e dunque le relative invenzioni resterebbero nella titolarità individuale del dipendente.
Infine, il terzo approccio regolatorio, che si può definire minimalista o restrittivo, è quello basato sull’uso delle risorse pubbliche. La titolarità delle invenzioni in questo caso può ricadere nel perimetro istituzionale soltanto se l’università abbia messo a disposizione del ricercatore risorse finanziarie o strumentali, come strutture o apparecchiature (libri, banche dati, laboratori e materiale di consumo utile alle ricerche), personale (inclusi tecnici o assistenti di laboratorio, studenti, dottorandi e assegnisti), know how o conoscenze di background. Diversamente, per tutte le ricerche svolte senza l’utilizzo di risorse materiali, immateriali o umane dell’ente la titolarità resta in capo al ricercatore: così nei casi di attività svolta presso la sede della seconda affiliazione, o di attività libero professionale (in regime di tempo definito) o extra-istituzionale occasionale (in regime di tempo pieno).
Il problema però resta aperto qualora gli enti di ricerca non facciano alcuna scelta regolamentare e non esplicitino il proprio orientamento, neanche indirettamente, nell’ambito dei propri regolamenti in favore di uno di questi approcci, dovendosi stabilire in questi casi quale sia il regime di default destinato ad operare come regola di applicazione residuale.
Probabilmente la soluzione più ragionevole, tenendo conto del necessario bilanciamento tra gli opposti interessi dell’istituzione pubblica di ricerca e del ricercatore, sembra essere quella dell’approccio minimalista o restrittivo, così da far rientrare nel perimetro dell’art. 65 soltanto le invenzioni ottenute durante l’espletamento dell’attività istituzionale di ricerca, svolta nell’orario e nei luoghi di lavoro e facendo uso di risorse (finanziarie, strumentali o umane) dell’ente datore di lavoro. Si può immaginare, però, che valga per le invenzioni dei ricercatori universitari una presunzione in favore del datore di lavoro, tale per cui le invenzioni realizzate dal personale strutturato si presumano fatte in attuazione delle proprie attività istituzionali di ricerca, salvo che il dipendente fornisca la prova dell’estraneità dell’invenzione dal perimetro delle attività di servizio [93].
Le prime esperienze applicative dei regolamenti adottati dopo la novella del 2023 vedono orientate le università verso l’approccio intermedio o quello minimalista/restrittivo. Inoltre, nei casi critici di cui qui si discorre, la tendenza è quella di disciplinare ex ante mediante convenzioni ad hoc i risultati delle ricerche: ciò risulta conforme alle prassi finora invalse nei casi di doppie affiliazioni, di visiting professor e visiting student, per i quali, a quanto consta dai regolamenti già modificati e pubblicati finora, nessun ateneo ha optato per l’approccio massimalista tout court. Similmente si procede mediante accordi o convenzione nei casi, ancora diversi, di ricercatori (o dottorandi o assegnisti) in visita presso istituzioni estere, e a queste figure si affianca spesso quella del visiting scholar. In questi casi di solito il problema non può essere risolto ricorrendo alle norme vigenti in Italia o nel regolamento del singolo ateneo, atteso che ogni università straniera tende ad applicare le proprie regole interne ai docenti in visita da altri Paesi, senza che rilevi la ragione della mobilità (per ricerca o didattica o traineeship). In tutti questi casi la migliore soluzione risulta essere quella di stipulare una convenzione di mobilità, nella quale la disciplina della proprietà intellettuale diviene oggetto di apposita negoziazione tra le due istituzioni.
Guardando alle soluzioni adottate finora dalle Università italiane, per esempio, l’Ateneo di Bari ha scelto l’approccio intermedio o temperato, prevedendo una ampia applicazione della titolarità istituzionale a tutte le invenzioni accademiche fatte anche al di fuori dell’orario di servizio e dai locali universitari [94], incluse quelle dei professori a tempo definito, ma escludendo espressamente alcuni casi dal perimetro della titolarità istituzionale: si tratta delle opere dell’ingegno realizzate dal personale strutturato nell’ambito degli spin off e di quelle realizzate nell’ambito delle attività extraistituzionali di ricerca, svolte sulla base di specifica autorizzazione (secondo quanto previsto dall’art. 5, commi terzo e quarto, regolamento sulla P.I. [95]). L’esenzione non copre, invece, le invenzioni del personale a tempo definito, onde evitare di trasformare l’opzione per il regime di tempo definito come facile scappatoia dalla titolarità istituzionale [96].
Anche l’Università di Torino ha optato per un approccio intermedio, con una delimitazione dell’ambito applicativo alle sole attività istituzionali svolte dai docenti [97], così che la titolarità dell’Ateneo ricade soltanto sulle invenzioni realizzate nell’attività di servizio, quelle comprese nel campo delle mansioni attribuite al suo autore o derivanti da specifiche istruzioni ricevute dalla propria struttura di appartenenza o dalla partecipazione volontaria a iniziative istituzionali. Anche in questo caso non si fa menzione dell’orario di servizio e dei locali universitari come condizione di applicazione della titolarità istituzionale.
L’Università di Catania [98], così come il Politecnico di Milano [99], l’Università di Palermo [100] e quella di Trento [101] hanno optato, invece, per una combinazione tra la seconda e la terza tipologia di approccio, ossia la soluzione della titolarità istituzionale soltanto per le invenzioni ottenute da attività di ricerca sviluppata nell’espletamento del proprio servizio da parte del ricercatore (dipendente o non dipendente) e sempre che questo si sia avvalso di attrezzature, strutture, finanziamenti o risorse economiche amministrate dall’Ateneo. Così facendo i casi di invenzioni ottenute nell’esercizio di attività libero professionale, o attività extraistituzionale o doppia affiliazione (ricerca presso imprese o accademie o strutture di ricerca diverse) cadrebbero al di fuori dal perimetro soggettivo della titolarità istituzionale.
Con riguardo agli aspetti procedimentali, la novità più significativa è rappresentata dall’affermazione di un obbligo formale di comunicazione dell’invenzione all’ente di appartenenza, gravante in capo all’inventore. La sua rilevanza è correlata all’idea, che aveva fatto discutere in passato, che potesse esserci una assoluta libertà dell’inventore di disporre dei propri diritti (senza alcun obbligo di dover fare la disclosure delle proprie invenzioni) a fronte di un evidente interesse sancito dalla legge in capo alle università ad appropriarsi di una quota dei compensi (canoni e proventi) relativi alle licenze e a regolamentare i rapporti tra inventore, istituzione e terzi. Tale considerazione aveva fatto propendere per l’esistenza di un implicito dovere di comunicazione, sebbene totalmente pretermesso dalla legge [102].
Finalmente la novella ha sciolto questi dubbi stabilendo, non soltanto, che «l’inventore deve comunicare l’oggetto dell’invenzione alla struttura di appartenenza con onere a carico di entrambe le parti di salvaguardare la novità della stessa»; altresì, ha previsto gli effetti della mancata comunicazione, ossia che «l’inventore non può depositare a proprio nome la domanda di brevetto, ai sensi del comma 3, fermi restando la possibilità di rivendica ai sensi dell’art. 118 e quanto previsto dagli obblighi contrattuali». Va da sé, altresì, che l’omissione della comunicazione avrà l’effetto di non consentire l’operatività del terzo comma, sul procedimento deliberativo e l’effetto decadenziale in caso di superamento del termine semestrale per il deposito del brevetto, né probabilmente il ricercatore inadempiente potrà opporre all’ente il suo eventuale inadempimento esercitando il suo diritto di ripresa [103], in base al principio dell’eccezione d’inadempimento (inadimpleti non est adimplendum, art. 1460 c.c.).
Dunque, il legislatore si è spinto fino a configurare, in termini chiari, quali possano essere sia le conseguenze dell’inosservanza dell’obbligo di comunicazione, cioè il divieto di brevettazione in proprio, sia gli effetti dell’inosservanza di quest’ultimo divieto, e lo ha fatto richiamando tanto l’azione di rivendica (disciplinata dall’art. 118 c.p.i.), che gli enti potranno esperire contro i propri dipendenti infedeli, quanto le previsioni contrattuali. Così facendo si è voluto adottare una formula ellittica e morbida per richiamare gli effetti di legge connessi alle violazioni dei doveri d’ufficio dei pubblici dipendenti, che consistono nelle sanzioni civili (risarcimento danni), penali (reato di peculato e/o appropriazione indebita), erariali e disciplinari (per violazione di obblighi di legge e per aver sottratto beni immateriali alla disponibilità dell’ente datore di lavoro), oltre alle ulteriori sanzioni previste dal codice della proprietà industriale (azione di rivendica, di contraffazione, riversione degli utili etc.).
La comunicazione assolve anche alla funzione di scandire l’avvio di un procedimento: all’ente viene, infatti, concesso un termine di sei mesi per la brevettazione (prorogabile ulteriormente di tre mesi) decorrenti dalla data della comunicazione. Il termine ha natura perentoria e assume la veste di termine di decadenza, stante l’effetto di perdita del diritto al brevetto che esso determina per l’ente, con conseguente riespansione della titolarità individuale sull’invenzione e la piena disponibilità dell’inventore ad effettuare la brevettazione in proprio. Tuttavia, essendo il termine stabilito nell’interesse dell’inventore, e trattandosi di un diritto disponibile, appare ragionevole immaginare che, ove questi non faccia valere il proprio diritto al brevetto subito dopo lo spirare del termine o sia acquiescente rispetto al ritardo (nel deposito del brevetto) del proprio ente di appartenenza, mancherà l’interesse ad agire per far valere gli effetti decadenziali dal diritto al brevetto.
Si deve osservare che questi termini sembrano, sebbene stringenti, al contempo irragionevolmente lunghi e incompatibili con le esigenze dei ricercatori, se si pensa alla velocità con cui procedono le attività di ricerca e quelle di pubblicazione dei risultati [104], le quali verrebbero sospese durante l’intero arco del procedimento; ma anche ragionevoli se si pensa alla natura perentoria degli stessi e all’effetto (decadenziale) per l’ente del loro decorso, senza considerare i tempi della burocrazia pubblica. Evidentemente siamo di fronte ad una soluzione di compromesso che il legislatore ha dovuto escogitare per bilanciare gli opposti interessi.
Il tema della durata del procedimento e della (in)compatibilità con i tempi della ricerca [105], però, resta sul tavolo e, nel tentativo di risolverlo, si è spostata l’attenzione (in sede di recepimento della novità legislativa) sulla importanza del pre-screening, come fase iniziale del procedimento idonea a sciogliere l’impasse sulla sussistenza o meno dei requisiti di brevettabilità dell’invenzione e sulla sussistenza dell’interesse dell’ente alla brevettazione. Questa fase, se svolta celermente, consentirebbe al ricercatore di conoscere in tempi brevi quale sia la sorte del suo trovato (in altri termini, se vi sia interesse alla brevettazione da parte del datore di lavoro o meno), senza dover attendere il decorso dei sei mesi previsti dalla legge e senza così rischiare di veder sfumare il carattere innovativo (anche solo) di una sua pubblicazione con il passare del tempo.
La questione del pre-screening è apparsa subito cruciale agli interpreti e, difatti, molti regolamenti hanno avanzato soluzioni utili a garantire il celere svolgimento di questa fase, alcuni attribuendo al Rettore o suo delegato la funzione di prima valutazione dell’invenzione [106], altri invece rimettendo all’UTT (o TTO) questa prima valutazione, anche ricorrendo all’ausilio di mandatari esterni [107]; non mancano, però, soluzioni più “arrendevoli” che non prevedono una fase di valutazione preliminare, rimettendo in toto all’autovalutazione discrezionale dei ricercatori il giudizio di sussistenza o meno di un trovato brevettabile [108].
Questa fase iniziale di valutazione non può, tuttavia, eliminare il ruolo della Commissione brevetti o Commissione proprietà intellettuale, per l’analisi completa dell’istruttoria e la pronuncia nel merito di un parere (di regola obbligatorio e vincolante) da proporre agli organi (il Consiglio di amministrazione) per l’assunzione della decisione finale sulla brevettazione o meno del trovato, sebbene l’esperienza negli US dimostri l’inutilità delle Commissioni interne di ateneo [109]. Non si può negare che un procedimento composto da tre fasi interne (pre-screening, parere della Commissione brevetti o Commissione proprietà intellettuale e delibera finale del CdA) oltre ad una esterna (l’affidamento dell’incarico al mandatario per il pre-screening e/o per la stesura della domanda di brevetto) può burocratizzare troppo e inceppare il procedimento di brevettazione che, invece, nell’intento del legislatore, dovrebbe essere snello. Allo stesso tempo, però, si deve considerare che solo adottando questo iter procedimentale si può garantire una adeguata ponderazione degli interessi in gioco per giungere ad una decisione sulla dismissione di un potenziale asset o sulla sua valorizzazione, che impatta sulle spese dell’amministrazione e potrebbe tradursi in un atto di dismissione del patrimonio immateriale.
Si deve tener presente che il rischio di assumere una decisione sbagliata o inopportuna rileva anche sul versante della responsabilità erariale (come già segnalato) [110], sulla non brevettazione di un’invenzione promettente che a distanza di anni si riveli una “miniera d’oro” per il suo inventore; sebbene si debba ritenere che tutte le valutazioni debbano essere fatte rebus sic stantibus e allo stato dell’arte, senza poter imputare (col senno di poi) agli organi dell’ente la mancata considerazione di fatti o conoscenze scientifiche emerse successivamente, e comprovanti la rilevanza del trovato.
In ogni caso, quando l’ente comunica all’inventore di non essere interessato alla protezione dell’innovazione ovvero non conclude la procedura di brevettazione entro sei (massimo nove) mesi, al ricercatore spetta il “diritto di ripresa” sull’invenzione: potrà, così, proteggere a proprio nome il trovato, depositando la domanda di brevetto e trattenendo per sé ogni conseguente utilità economica, salve diverse previsioni regolamentari [111]. In questo caso non dovrebbe operare la regola, vigente in passato, che consentiva alle università di brevettare a proprio nome e a proprie spese una invenzione del ricercatore, previa cessione della titolarità, né la regola dell’anticipazione delle spese di brevettazione da parte dell’università, stante la valutazione già espressa di disinteresse per la titolarità dell’invenzione, ma qui il condizionale è d’obbligo [112].
Passando al tema dei rapporti con gli inventori e delle premialità riconosciute per l’attività inventiva, questi possono svolgere un ruolo cruciale nelle strategie di incentivazione dell’attività brevettuale delle università, degli EPR e degli IRCCS, essendo venuta meno la soglia minima di spettanza per gli inventori (in passato pari ad almeno il 50% dei proventi derivanti dallo sfruttamento dei brevetti). Atteso che le comunicazioni o disclosure potrebbero rallentare l’iter delle pubblicazioni scientifiche, o addirittura indurre i ricercatori a preferire le seconde riducendo le prime in ragione dei lunghi tempi dei procedimenti interni per la brevettazione [113] (così inducendo una reazione alla nuova normativa simile al “dilemma del prigioniero”), se gli enti vorranno spronare i propri ricercatori a brevettare le loro invenzioni, accettando un sacrificio o un rallentamento delle pubblicazioni scientifiche, sarà necessario fare leva sull’adozione di adeguate premialità [114]. Le premialità, inoltre, potranno essere una importante leva di concorrenza tra gli atenei [115].
Stando ai regolamenti finora aggiornati, si può constatare il ricorrere di almeno tre diversi approcci in relazione alle premialità. Il primo si può definire conservativo o inerziale, e consiste nel riproporre senza alcuna novità (come per inerzia) le stesse aliquote fissate dal regolamento anteriormente alla riforma e di frequente consistenti nel 50% all’ateneo e 50% all’inventore [116]. Il secondo, qualificabile come incrementale per l’inventore, è funzionale ad accrescere in maniera forte gli incentivi per gli inventori alla brevettazione [117]: in questi casi le aliquote fissate dal regolamento sono superiori al 50%, in taluni casi del 70% e in altri addirittura dell’80% [118]. Infine, il terzo orientamento, che si può definire incrementale per l’ente, risulta essere coerente con il regime proprietario istituzionale, portando un accrescimento dell’aliquota spettante al datore di lavoro che, se in passato era normalmente pari al 50%, adesso dovrà aumentare in maniera inversamente proporzionale all’aliquota spettante agli inventori: si può immaginare il 30% all’inventore e il 70% all’ente, da suddividere ulteriormente tra il dipartimento di afferenza dell’inventore (30-35%) e l’amministrazione centrale dell’ente (35-40%), ma ad oggi non risulta essere stato adottato da alcun ente di ricerca.
Sarà, inoltre, rimessa ai regolamenti la soluzione del problema, già sollevato in passato e poi risolto dal Codice della proprietà industriale con l’art. 64 [119] solo per il settore privato, se l’equo premio spetti al ricercatore soltanto subordinatamente al buon esito della procedura di brevettazione, ovvero anche qualora l’ente preferisca sfruttare l’invenzione in regime di segreto, sebbene questa seconda soluzione si lasci preferire in mancanza di previsione regolamentare espressa, in analogia con il regime previsto per le invenzioni dei dipendenti nel settore privato [120].
Infine, per quanto attiene alla disciplina degli altri diritti di proprietà intellettuale diversi dalle invenzioni, ma comunque suscettibili di protezione e di sfruttamento economico, la direzione era già stata tracciata prima della novella 2023 individuando nell’art. 64 la soluzione sistematicamente più coerente con una panoplia di regole diverse per ciascuna tipologia di privativa. Nondimeno, la soluzione auspicabile potrebbe essere quella di approfittare dell’adeguamento normativo dei regolamenti interni per includere esplicitamente i diritti di proprietà intellettuale diversi dal brevetto nel perimetro della disciplina, estendendo ad essi la regola di titolarità istituzionale, come per altro già fatto da alcuni atenei prima del 2023 [121].
Meritano attenzione anche i princìpi elaborati all’interno delle Linee Guida del Ministero delle Imprese e del Made in Italy (adottate con decreto interministeriale il 26 settembre 2023, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale il 28 settembre 2023), per i contratti di ricerca con soggetti esterni finanziatori o co-finanziatori, emanate in attuazione dell’art. 65, commi quarto e quinto, c.p.i. [122], sebbene la loro portata vaga e non innovativa né precettiva, sia stata oggetto di critiche [123].
Il Ministero ha, innanzitutto, raccomandato di elaborare gli accordi con i soggetti finanziatori assicurando una composizione equilibrata dei diversi interessi in gioco tra le parti, indicando come interesse che le università, gli EPR e gli IRCCS devono perseguire quello della visibilità per la propria attività inventiva, laddove, per contro, le imprese perseguono la disponibilità piena, libera e immediata dei diritti di proprietà intellettuale sui risultati della ricerca commissionata.
Utile, sebbene ripetitivo della prassi contrattuale già nota, risulta essere la classificazione delle attività in conto terzi contenuta nell’art. 5 delle Linee Guida in tre diverse categorie: 1) le “attività di servizio”, consistenti in studi applicativi, verifiche, misurazioni ed altre attività routinarie, «per l[e] qual[i] occorre una strumentazione non in dotazione al soggetto finanziatore» (art. 5.1), che normalmente non conducono a risultati inventivi e diritti di P.I. da proteggere; 2) le “attività di sviluppo”, che consistono in attività di ricerca applicativa su progetti «già in fase di sviluppo presso lo stesso soggetto finanziatore, che normalmente dispone di conoscenze pregresse di natura proprietaria e talvolta anche già protette da forme di privativa», chiedendo «all’Università, all’EPR o all’IRCCS un intervento qualificato volto all’ottimizzazione, validazione, raffinamento o completamento dell’idea/tecnologia» (art. 5.2); 3) e le “attività di ricerca innovativa”, quali possono essere «ricerche che portino alla soluzione di un problema tecnico o ad un nuovo prodotto o nuovo uso di un prodotto/applicazione del soggetto finanziatore» in cui «la generazione di nuova proprietà industriale è solitamente un risultato contemplato dal programma contrattuale e rappresenta un esito molto probabile e atteso delle attività di ricerca» (art. 5.3).
Da questa tripartizione derivano indicazioni per orientare sia l’attività regolamentare degli atenei (regolamenti sul conto terzi) sia l’attività contrattuale di ricerca con le imprese, in relazione alla disciplina dei risultati inventivi. In primis, nel caso delle “attività di servizio”, non venendo in rilievo la generazione di DPI ed esitando essa in calcoli, misurazioni e verifiche di routine, i risultati potranno essere lasciati alla titolarità esclusiva delle imprese senza che venga leso alcun diritto o aspettativa sui beni immateriali delle università, EPR o IRCCS, in modo da considerare il corrispettivo versato dalle imprese come comprensivo dei risultati delle ricerche commissionate. Invece, nel caso delle “attività di sviluppo” e di “ricerca innovativa” verranno in rilievo gli interessi dell’ente sui DPI, in ragione del fatto che il contributo dei ricercatori pubblici sarà determinante nel primo caso per “l’ottimizzazione, validazione, raffinamento o completamento dell’idea” o della tecnologia iniziale appartenente all’impresa, e nel secondo caso per addivenire ad una invenzione grazie alle «conoscenze tecnologiche indifferenziate pregresse sia del soggetto finanziatore che dell’Ente» (art. 5.3) che si andranno a combinare tra loro, come tipicamente avviene nella ricerca collaborativa.
Viene pertanto esplicitato (e questo non è privo di rilievo) che nel conto terzi si possono verificare situazioni riconducibili alla ricerca in collaborazione (fatta eccezione per “l’attività di servizio”). Sicché la ricerca collaborativa, se richiede che venga disciplinato il risultato della ricerca con apposite convenzioni tra le parti, nondimeno ciò dovrà avvenire nel rispetto dei Regolamenti sulla Proprietà Intellettuale, laddove per prassi la ricerca collaborativa conduce ad un regime di contitolarità sul c.d. joint foreground, variamente combinata secondo il sistema della parità delle quote, ovvero delle quote diversificate in funzione dei diversi apporti creativi delle parti al risultato inventivo, ovvero ancora delle quote diversificate in rapporto al finanziamento conferito da ciascuna parte alla ricerca. Da qui l’importanza di una lettura combinata e di una revisione simultanea dei regolamenti su invenzioni o proprietà intellettuale e sul conto terzi, in un’ottica di circolarità e coerenza delle soluzioni prescelte ed ivi attuate.
Una conferma della preferenza per la contitolarità dei DPI e della qualificazione del conto terzi come ricerca collaborativa la si evince, oltre che dai passaggi dell’art. 5.2 e 5.3 delle Linee Guida sopra riportati, anche dalla circostanza che il Ministero, quando nel successivo art. 6.5 delle Linee Guida elenca le possibili soluzioni per la disciplina del c.d. foreground, menziona come prima opzione possibile quella della contitolarità dei risultati tra Ente e soggetto finanziatore, così dimostrando che si tratta della scelta preferita dal Ministero. Difatti, la collocazione come prima alternativa rispetto alle altre due, quella della titolarità esclusiva dell’Ente e della titolarità esclusiva del soggetto finanziatore, come già emerso in precedenza (supra § 4), sembra avvertire e (implicitamente) consigliare che anche il conto terzi, pur essendo interamente finanziato dalle imprese, possa rientrare nella tipologia di ricerca collaborativa, per il necessario coordinamento tra mezzi strumentali, risorse umane e conoscenze (background, know-how pregresso e sideground) riferibili all’impresa e all’Ente, sebbene in misura diversa.
Non trascurabile, sul piano operativo, è l’ulteriore indicazione che proviene dall’art. 6, concernente gli aspetti inderogabili da disciplinare nel contratto e che rivela, per la numerosità delle voci interessate dalla qualificazione in termini di “aspetti minimi e necessari” (sembra essere questo il significato più corretto del termine “inderogabile” che a prima vista rimanda ad un regime imperativo di immodificabilità delle regole, ma così non è), una certa “esuberanza” rispetto alla stretta tematica della titolarità dei risultati della ricerca [124].
Se, infatti, è vero che alcuni aspetti sono qualificati come necessari al fine di fornire chiarezza e completezza al contratto di ricerca (si pensi all’indicazione delle parti e dei responsabili per ciascuna di esse, all’esplicitazione chiara delle finalità, alla definizione delle parole chiave, all’indicazione dell’oggetto e della natura della collaborazione) ed altri sono qualificati come necessari perché potenzialmente forieri di controversie, ove non fossero disciplinati espressamente (è il caso del regime del background e del foreground), vi sono anche contenuti molto distanti dalla disciplina della proprietà intellettuale, di cui si richiede l’espressa regolamentazione (la disseminazione dei risultati, la disciplina della riservatezza, e la disciplina delle pubblicazioni). Tuttavia, a ben vedere, si tratta di elementi in vario modo connessi al regime di proprietà intellettuale prescelto nell’accordo che, sebbene distanti tra loro, potranno dar vita a soluzioni diverse a seconda delle opzioni prescelte per la disciplina della titolarità dei DPI [125].
Per prassi ormai le università sono solite pubblicare i propri template di contratti di ricerca nei siti istituzionali o come allegati o nelle stesse pagine web dedicate ai Regolamenti sulla proprietà intellettuale e sul conto terzi, così che risulta agevole conoscere questi contratti quanto meno nella loro portata generale (sebbene i singoli accordi siano coperti da riservatezza). Da ciò è possibile identificare sia le soluzioni operative sia le clausole più ricorrenti, aiutando così gli UTT degli enti di minori dimensioni a fare scelte che sarebbero difficili o antieconomiche se fossero fatte in autonomia, senza un confronto e una circolazione delle idee e delle soluzioni pratiche [126].
Occorre dedicare anche qualche riflessione finale alle imprese spin off, che costituiscono uno degli strumenti per la valorizzazione dei risultati della ricerca pubblica e per la promozione dell’imprenditorialità accademica, le quali soprattutto negli Stati Uniti hanno avuto un ruolo significativo come volano per lo sviluppo delle innovazioni accademiche su scala industriale [127]. Tale strumento si presta ad essere preferito rispetto alle diverse forme di tech-transfer, in particolare quando i ricercatori coinvolti abbiano una spiccata vocazione all’intraprendenza commerciale e quando l’impresa e l’università siano già partner nelle ricerche ed abbiano raggiunto buoni risultati che, però, necessitano di ulteriori finanziamenti e sperimentazioni per essere portati sul mercato: di regola ciò accade quando le ricerche condotte all’interno degli atenei abbiano raggiunto un livello di maturazione intorno al TRL 6 (Technology Readiness Level), e siano abbastanza promettenti da spingere le parti a continuare a finanziare la fase del proof of concept.
Fermo restando il problema dei limiti alla costituzione di società spin off e all’esercizio delle imprese da parte delle università e dei suoi ricercatori (di cui non ci si può occupare in questa sede) [128], e limitandosi alla disciplina della proprietà intellettuale e industriale connessa alle attività degli spin off, è opportuno distinguere tra i diritti di proprietà industriale e intellettuale generati “per” le società spin off da quelli generati “dalle” società spin off. Nel primo caso si tratta delle invenzioni realizzate dai ricercatori universitari prima della costituzione di una società veicolo, mentre nel secondo caso si tratta di invenzioni generate all’esito dell’autonoma attività di ricerca condotta all’interno dello spin off e dopo la sua costituzione.
Sebbene manchino riferimenti normativi in tal senso, tanto nel nuovo art. 65 c.p.i. quanto nelle Linee Guida MIMIT, appare evidente la non assimilabilità dei due casi, i quali dovranno richiedere una distinta attenzione e trattamento da parte degli enti in fase di predisposizione dei regolamenti interni. Difatti, la società spin off che venga creata per portare sul mercato il know-how acquisito da docenti e ricercatori in un determinato settore o ambito di ricerca risponde alla domanda del mercato di nuovi servizi tecnologici innovativi, per risultati delle ricerche già sviluppate nel contesto accademico, deve essere tenuta distinta dal caso in cui gli spin off, dopo la loro costituzione, partecipino a bandi competitivi o sviluppino nuove progettualità, procacciandosi finanziamenti per mantenersi in vita e, nel fare ciò, riescano a generare nuovi DPI rispetto a quelli iniziali, eventualmente posseduti in titolarità o per licenza dell’ateneo [129].
Nel primo caso vengono in considerazione lo sviluppo incrementale o il perfezionamento di privative già protette e la cui titolarità sia dell’ateneo, concesse in uso o in titolarità alla spin off; mentre nel secondo caso vengono in rilievo nuovi diritti di proprietà intellettuale generati dall’autonoma attività di ricerca svolta dallo spin off che, a loro volta e a seconda dei casi, potrebbero essere di titolarità autonoma o congiunta dello spin off con altri soggetti giuridici che abbiano svolto ricerche in collaborazione con la stessa.
Ebbene, tale distinzione potrebbe (rectius dovrebbe) condurre a soluzioni differenziate nei regolamenti degli enti di ricerca, laddove nel primo caso sarebbe naturale estendere la titolarità istituzionale delle invenzioni agli spin off, mentre nel secondo caso sarebbe ragionevole l’opzione della titolarità individuale, in capo allo spin off ovvero ai singoli ricercatori che ne sono soci, dei risultati delle ricerche (come è stato già fatto da alcuni atenei) [130], nell’intento di favorire una logica di sviluppo indipendente della singola impresa, dal cui successo commerciale trae comunque vantaggio indiretto anche l’istituzione pubblica, socia o accreditante, dello spin off [131].
Tra i problemi del tutto dimenticati dalla nuova disciplina si segnala quello della successione nel tempo della legge e dei regolamenti, mancando nella novella le regole di diritto transitorio, specie con riguardo alla sorte dei regolamenti universitari anteriori al 2023 [132], in considerazione dei tempi non veloci per l’adeguamento normativo da parte di ciascun ente.
Certamente, a partire dal 23 agosto 2023 (data di entrata in vigore della l. n. 102/2023), tutte le domande di brevetto per invenzione presentate dai ricercatori saranno soggette al nuovo art. 65, dovendosi presumere il concepimento dell’invenzione in data successiva all’entrata in vigore della riforma, salva la diversa prova fornita dagli inventori [133] e salve le disposizioni transitorie eventualmente introdotte dai singoli regolamenti [134]. Da ciò ne consegue che le disposizioni dei regolamenti anteriori alla riforma, che siano ancora in vigore dopo il 23 agosto 2023 – ricorrenza non implausibile ed anzi altamente probabile, riscontrandosi a distanza di un anno dalla promulgazione un tasso molto basso di adeguamenti tra le sole università (mentre nessun adeguamento consta per gli EPR e gli IRCCS) – e che risultino incompatibili con il nuovo regime, si dovranno considerare implicitamente abrogate.
Invece, per la disciplina delle premialità e di altri aspetti diversi, rimessi all’autonomia regolamentare e non contrastanti con la novella, non potranno che continuare ad applicarsi le regole contenute nei regolamenti anteriori alla riforma fino all’introduzione dei nuovi, con salvezza anche di tutti i contratti di ricerca o le convenzioni medio tempore conclusi, salvo che non si voglia sostenere come avanzato in dottrina da alcuno [135], che in via residuale si debba ritenere applicabile il meccanismo di calcolo dell’equo premio ai sensi dell’art. 64, secondo comma, c.p.i.
Non si poteva certo sperare che una così radicale riforma, implicante l’adozione di nuove soluzioni politiche per le strategie di ricerca e trasferimento tecnologico degli enti pubblici, potesse condurre ad un processo di adeguamento tempestivo della disciplina interna, senza una doverosa riflessione e confronto tra gli organi politici di ciascun ateneo e tra i diversi atenei (come è stato fatto nel corso di quest’anno e mezzo dalla riforma attraverso plurime iniziative).
Se si considera, altresì, che l’ostacolo (ideale) alla realizzazione degli obiettivi della riforma non risiede nelle regole da scrivere, più o meno velocemente, ma nel grado di compliance dei singoli ricercatori che sposta il tema su un aspetto culturale di vertice, si comprende quanto complessa e lunga sarà la strada da percorrere prima di poter vedere risultati tangibili.
In sintesi, questa novella affida agli operatori di tutti i livelli (rettori, direttori generali, dirigenti dell’area ricerca, delegati alla P.I., funzionari degli UTT, componenti delle Commissioni brevetti o P.I. e, non ultimi, i singoli ricercatori) una epocale chance di guidare una rivoluzione culturale sulla proprietà intellettuale del settore pubblico, tanto attesa, tanto sperata e tanto desiderata, che oltre ad apparire adeguata, opportuna e al passo coi tempi, richiede un grande impegno di comprensione e attuazione per poter condurre ad un salto di qualità nella gestione dei beni immateriali pubblici. Vieppiù se si considera che il testo legislativo non è (ne avrebbe potuto essere) esaustivo su ogni questione di dettaglio e lascia aperti numerosi fronti problematici, che richiederanno impegno e l’accollo dei costi di transazione da parte degli enti.
Perciò, oggi più mai, sono necessari sforzi e investimenti nella formazione e nella specializzazione del personale, senza i quali il rischio (già segnalato da un Maestro del diritto per una riforma diversa ma ugualmente epocale) [136] è quello, comune a tutte le grandi riforme, di scontrarsi con l’inerzia degli ordinamenti giuridici. Continuando a leggere le norme nuove con le “lenti vecchie” e perpetrando schemi acquisiti e automatismi ermeneutici nei processi di valorizzazione e trasferimento tecnologico del settore pubblico, anche la migliore delle riforme rischia di naufragare nella “zona di confort” di ogni operatore, dato da ciò che è già noto e abituale nelle esperienze del passato.
[1] L’impegno a portare avanti una riforma sulla proprietà intellettuale compare per la prima volta nella Decisione del Consiglio dell’Unione Europea, Fascicolo Interistituzionale 2021/0168 (NLE), Bruxelles, 8 luglio 2021, 10160/21 ADD 1 REV 2, ECOFIN 645, Allegato Riveduto della Decisione di Esecuzione del Consiglio relativa all’approvazione della valutazione del piano per la ripresa e la resilienza dell’Italia. Che la spinta alla riforma dell’art. 65 sia venuta dagli obiettivi del PNRR è segnalato anche da M. Granieri, Fine del professor’s privilege in Italia, in ForoNews, Foroitaliano.it, 21 luglio 2023, 1.
[2] Cfr. Decisione del Consiglio dell’Unione Europea, (nt. 1), 131.
[3] Cfr. Linee di Intervento Strategiche sulla Proprietà Industriale per il triennio 2021-2023, elaborate dal Ministero dello Sviluppo Economico e adottate con d.m. 23 giugno 2021, 8.
[4] Linee di Intervento Strategiche sulla Proprietà Industriale per il triennio 2021-2023, cit., 19.
[5] Cfr. Allegato Riveduto della Decisione di Esecuzione del Consiglio relativa all’approvazione della valutazione del piano per la ripresa e la resilienza dell’Italia, cit., 140. Tali tempistiche sono state ribadite nel dossier preparato dal Servizio Studi della Camera e del Senato, XIX Legislatura, sulla proposta di modifica al Codice della Proprietà Industriale, AC1134, del 9 maggio 2023, 6, che indica nel terzo trimestre dell’anno 2023 il calendario indicativo per il raggiungimento del traguardo, ossia l’entrata in vigore del nuovo codice della proprietà industriale e dei relativi provvedimenti attuativi.
[6] Cfr. Allegato Riveduto della Decisione di Esecuzione del Consiglio, (nt. 1), 141 e dossier succitato, 6.
[7] Tra molti, si segnalano i lavori di M. Ricolfi, Le invenzioni brevettabili e ricerca universitaria e ospedaliera, in Dir. ind., 1998, 10 ss.; G. Sena, Una norma da riscrivere, in Riv. dir. ind., 2001, I, 243 ss.; M. Libertini, Appunti sulla nuova disciplina delle «invenzioni universitarie», in Foro it., 2002, I, 2170 ss.; Id., I centri di ricerca e le invenzioni dei dipendenti nel codice della proprietà industriale, in Riv. dir. ind., 2006, 49 ss.; V. Di Cataldo, Le invenzioni delle università. Regole di attribuzione dei diritti, regole di distribuzione dei proventi, e strumenti per il trasferimento effettivo delle invenzioni al sistema delle imprese, in Riv. dir. ind., 2002, I, 337 ss.; L.C. Ubertazzi, Le invenzioni dei ricercatori universitari, in Studi di diritto industriale in onore di A. Vanzetti, Milano, Giuffrè, 2004, II, 1727 ss.; M. Granieri, Circolazione (mancata) dei modelli e ricerca delle soluzioni migliori. Il trasferimento tecnologico dal mondo universitario all’industria e la nuova disciplina delle invenzioni d’azienda, in Riv. dir. ind., 2002, I, 66; Id., La disciplina delle invenzioni accademiche nel Codice della Proprietà industriale, in Dir. ind., 2005, 29 ss.; Id., La gestione della proprietà intellettuale nella ricerca universitaria, Bologna, Il Mulino, 2010; L. Rinaldi, Le invenzioni industriali e gli altri prodotti dell’ingegno dei dipendenti e dei ricercatori universitari alla luce del nuovo codice della proprietà industriale, in Riv. dir. ind., 2005, I, 432 ss.; E. Arezzo, La tutela e la valorizzazione della ricerca universitaria in tempi di crisi, in Riv. dir. ind., 2013, 148; Id., Le invenzioni dei dipendenti e su commessa, in Proprietà intellettuale e concorrenza. Corso di diritto Industriale2, a cura di G. Ghidini, G. Cavani, Bologna, Zanichelli, 2022, 48 ss.; C. Del Re, Il modello di titolarità dei risultati della ricerca universitaria come parametro di efficienza del trasferimento tecnologico accademico: la preferibilità del modello di titolarità istituzionale, in Riv. dir. ind., 2016, I, 272 ss.; F. Pisani, I diritti dei ricercatori universitari sulle invenzioni finanziate, in Variazioni su Temi di Diritto del Lavoro, 2019 (numero straordinario), 1807 ss.; A. Ottolia, sub art. 65 c.p.i., in Commentario breve alle leggi su Proprietà intellettuale e Concorrenza, diretto da L.C. Ubertazzi, Padova, Cedam, 2019, 497 ss.; G. Remotti, Le configurazioni delle situazioni di appartenenza sui risultati della ricerca universitaria tra libertà di ricerca e nuove dinamiche concorrenziali tra gli atenei, in Giur. comm., 2021, I, 923.
Uno degli Autori che ha sempre plaudito al sistema del professor’s privilege è G. Floridia, Le invenzioni universitarie, in Dir. ind., 2007, 313; a questa deve aggiungersi la posizione di A. Musso, Recenti sviluppi normativi sulle invenzioni “universitarie” (con alcune osservazioni sul regime delle altre creazioni immateriali), in Studi in Onore di Adriano Vanzetti, II, Milano, Giuffrè, 2004, 1080, che non è mai stata critica rispetto alla scelta del 2001, dichiarando che non meritasse le critiche che le erano state mosse.
[8] La Terza Missione viene definita come «propensione delle strutture all’apertura verso il contesto socio-economico, esercitato mediante la valorizzazione e il trasferimento delle conoscenze», includendo oltre all’attività brevettuale e alle imprese spin off, l’attività di ricerca/consulenza conto terzi, la partecipazione a incubatori di imprese e a consorzi di trasferimento tecnologico, gli scavi archeologici, i poli museali e le altre attività di terza missione non riconducibili ad attività conto terzi. Questa definizione è contenuta nel Bando ANVUR di partecipazione alla VQR 2004-2011.
Sulla relazione tra Terza Missione e trasferimento tecnologico si rimanda a G. Conti, M. Granieri, A. Piccaluga, La gestione del trasferimento tecnologico. Strategie, modelli e strumenti, Milano, Springer-Verlag Italia, 2011, passim, spec. 4-5.
[9] Tra molti si rimanda ai regolamenti delle Università di Torino (art. 14) e di Bari (art. 21).
[10] Sulla libertà di iniziativa economica si rimanda a F. Galgano, La libertà di iniziativa economica privata nel sistema delle libertà costituzionali, in La Costituzione economica, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. econ., diretto da F. Galgano, I, Padova, Cedam, 1977, 511; Id., sub art. 41, in Commentario della Costituzione. Rapporti economici, a cura di G. Branca, II, Bologna-Roma, Zanichelli-Il Foro italiano, 1982, 1-68; M. Libertini, Il mercato: i modelli di organizzazione, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. econ. diretto da F. Galgano, III, Padova, Cedam, 1979, 470; Id., Lezioni di diritto industriale, Napoli, ESI, 2016, 110 (ristampa dell’edizione di Catania, I e II, 1977-1979); e dopo la riforma costituzionale del 2022 (L. Cost. 11 febbraio 2022, n. 1) cfr. M. Libertini, Gestione “sostenibile” delle imprese e limiti alla discrezionalità imprenditoriale, in Contr. e impr., 2023, 54 ss.; F. Fimmanò, Art. 41 della Costituzione e valori ESG: esiste davvero una responsabilità sociale dell’impresa?, in Giur. comm., 2023, I, 777 ss. spec. 781 ss.; S. Ambrosini, La libertà d’iniziativa economica privata e i suoi limiti, in L’impresa nella Costituzione, a cura di S. Ambrosini, Bologna, Zanichelli, 2024, 21 ss. spec. 30 ss.
[11] Laddove la libertà di organizzazione dell’impresa implica anche la facoltà di esercitare l’impresa provocando danni al proprio patrimonio aziendale, ma l’ordinamento costituzionale si preoccupa del fatto che l’impresa non vada ad arrecare danni alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, imponendo limitazioni e talvolta un bilanciamento tra valori costituzionali eterogenei, cfr. oltre agli Autori citati nella precedente nota anche U. Natoli, Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro, Napoli, ESI, 1955, 88; S. Cassese, Proprietà e impresa nella Costituzione, II, Ancona, Università degli Studi di Urbino, 1966, 144; e con riguardo al noto caso dell’acciaieria Ilva di Taranto, cfr. F. Fimmanò, Art. 41 della Costituzione, (nt. 10), 791 ss.; S. Ambrosini, La libertà d’iniziativa economica, (nt. 10), 36 ss.
[12] La valutazione della Terza Missione rientra tra i compiti istituzionali dell’ANVUR, come indicato all’art. 3, primo comma, d.p.r. 1° febbraio 2010. Il Decreto del Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca del 15 luglio 2015 n. 17 che istituiva la Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR) 2004-2011, includeva la valutazione delle attività di trasferimento tecnologico, in particolare brevetti e spin off (art. 6, primo comma, art. 8, secondo comma e art. 11, primo comma).
Con l’introduzione del sistema di Autovalutazione, Valutazione periodica e Accreditamento (AVA) degli atenei la terza missione entra a pieno titolo nelle attività valutabili. Già il Decreto del Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca del 30 gennaio 2013 n. 47, definiva all’Allegato E gli Indicatori e parametri per la valutazione periodica della ricerca e della terza missione. Il successivo Decreto del Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca del 12 dicembre 2016 n. 987 include un requisito specifico relativo alla «qualità della ricerca e della terza missione (Allegato C). Per ulteriori approfondimenti si rimanda al sito istituzionale dell’ANVUR: https://www.anvur.it/attivita/temi/riferimenti-normativi/.
[13] Il sistema normativo sulla responsabilità erariale dei funzionari e dipendenti pubblici è composito. Si devono tenere in considerazione almeno tre diverse previsioni di legge oltre alla disciplina civilistica generale sul risarcimento del danno artt. 1223 c.c. ss.). In particolare, l’art. 82, della legge generale di contabilità, r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, recita: «L’impiegato che, per azione od omissione, anche solo colposa, nell’esercizio delle sue funzioni, cagioni danno allo Stato, è tenuto a risarcirlo». Inoltre, l’art. 52 t.u. delle leggi sulla Corte dei conti, r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, recita: «I funzionari, impiegati ed agenti, civili e militari, compresi quelli dell’ordine giudiziario e quelli retribuiti da Amministrazioni, Aziende e Gestioni statali ad ordinamento autonomo, che nell’esercizio delle loro funzioni, per azione od omissione imputabili anche a sola colpa o negligenza, cagionino danno allo Stato o od altra Amministrazione dalla quale dipendono, sono sottoposti alla giurisdizione della Corte nei casi e modi previsti dalla legge sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato e da leggi speciali». Infine, l’art. 18, primo comma, Statuto degli impiegati civili dello Stato, d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3, prevede l’obbligo per i dipendenti pubblici di risarcire, l’amministrazione dei «danni derivanti da violazione di obbligo di servizio».
Si esprime in termini di possibile danno erariale anche M. Granieri, Tra concorrenza e isomorfismo normativo: la nuova disciplina delle invenzioni della ricerca (pubblica?), in Foro it., 2023, V, 383.
[14] Come preconizzato quasi trent’anni fa da B.R. Clark, Creating Enterpreneurial Universities, Organizational Pathways of Transformation, 1998, Oxford, Pergamon/Elsevier Science, 4 e passim; Id., Sustaining Change in Universities: Continuities in Case Studies and Concepts, 2004, Berkshire, England, Open University Press, passim; questa idea è stata successivamente coltivata in molti studi sociologici, politico-sociali ed economici, tra cui quelli di R. J.W. Tijssen, Universities and industrially relevant science: Towards measurement models and indicators of entrepreneurial orientation, in Research Policy, 2006, 35, 1569-1585; C. Bratianu, S. Stanciu, An Overview of Present Research Related to Entrepreneurial University, in Management & Marketing, 2010, 5, no. 2, 117-134. In Italia tra i giuristi che hanno segnalato l’importanza del cambio di paradigma indotto dall’autonomia finanziaria delle università e dalla conseguente necessità di massimizzare economicamente anche i risultati della ricerca istituzionale quale ulteriore fonte di entrate, si segnala A. Musso, Recenti sviluppi normativi, (nt. 7), 1063 e M. Granieri, Di università imprenditoriale, società «spin-off» e finalità istituzionali dell’ente, in Foro it., 2011, III, 385.
[15] Un’analisi lucida di questo cambiamento, che segue le linee di finanziamento degli atenei italiani, viene condotta da G. Remotti, Le configurazioni, (nt. 7), 946 ss.
[16] Per un’analisi dettagliata dell’evoluzione giurisprudenziale e legislativa in Germania, cfr. G. Remotti, Le configurazioni, (nt. 7), 926-931.
[17] Cfr. M. Granieri, Circolazione (mancata), (nt. 7), 66-67 e nt. 17 e 82 ss., Id., La disciplina, (nt. 7), 35 e nt. 42, il quale riferisce del dibattito svoltosi durante i lavori preparatori della riforma statunitense secondo cui l’incentivo della remunerazione derivante dalla titolarità del brevetto avrebbe la sua logica soltanto per la ricerca nel settore privato, in ragione della sopportazione del rischio di fallimento delle sperimentazioni, e non anche nel settore pubblico, in cui il rischio è internalizzato per effetto dell’imposizione fiscale. Da qui l’idea che «i risultati della ricerca pubblica dovrebbero essere fruiti liberamente dai contribuenti».
Contro l’idea della ricerca pubblica come produttiva di conoscenza pubblica, pertanto libera da esclusive e privative, v. R. Pennisi, L’attività inventiva dei ricercatori universitari. Strumenti di finanziamento, sfruttamento dei risultati e spin-off accademico, in Annali Seminario Giuridico, 2004, Milano, Giuffrè, 425.
[18] L.C. Ubertazzi, Le invenzioni dei ricercatori, (nt. 7), 1736.
[19] Sulla evoluzione statunitense prima del varo del Bayh-Dole Act nel 1982, si rimanda a M. Granieri, Circolazione (mancata), (nt. 7), 64-65; Id., La gestione, (nt. 7), 47-55.
[20] Su cui si rimanda a M. Granieri, Circolazione (mancata), (nt. 7), 67 ss.; Id., La gestione, (nt. 7), 55-68; G. Remotti, Le configurazioni, (nt. 7), 932-936.
[21] M. Granieri, Circolazione (mancata), (nt. 7), 66.
[22] M. Granieri, Circolazione (mancata), (nt. 7), 67.
[23] L’espressione è mutuata da G. Conti, M. Granieri, A. Piccaluga, La gestione, (nt. 8), 23.
[24] Cfr. M. Libertini, Appunti, (nt. 7), 2171; V. Di Cataldo, Le invenzioni delle università, (nt. 7), 344-345; M. Granieri, La disciplina, (nt. 7), 36; A. Pagani, M. Stucchi, Invenzioni dei dipendenti e creazioni dei dipendenti: due discipline a confronto, in Dir. ind., 2022, 509 ss.; R. Pennisi, L’attività inventiva, (nt. 17), 426 e nt. 4.
[25] La considerazione, del tutto logica e condivisibile, è di M. Granieri, La gestione, (nt. 7), 188.
[26] La succitata disposizione francese prevede un unico regime per i dipendenti privati, che ai sensi del quinto comma si estende anche ai rappresentanti dello Stato, alle pubbliche amministrazioni e ad ogni altro soggetto giuridico disciplinato dal diritto pubblico. Il testo del 1980 è stato modificato e consolidato, pur confermando la precedente opzione normativa con l’article 35 de l’Ordonnance n° 2019-964, del 18 settembre 2019, in vigore dal 1° gennaio 2020.
[27] Act no. 347/1999 on inventions at public research institutions è stato consolidato nel successivo Act No. 210 of 17 March 2009.
[28] Si rimanda, per essi, all’analisi comparativa condotta da S. Lopopolo, Il contratto di licenza per il trasferimento di tecnologie nel settore pubblico e privato, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Bari Aldo Moro, 2022, 41-52. Ulteriori spunti comparativi vengono forniti da M. Ricolfi, Le invenzioni brevettabili, (nt. 7), 10 ss.; L.C. Ubertazzi, Le invenzioni dei ricercatori, (nt. 7), 1738; Lissoni and others, Academic Patenting in Europe: New Evidence from the KEINS Database, in Reserach Avaluation, June 2008, passim; M. Granieri, La gestione, (nt. 7), 47 ss. e 168 ss.; C. Del Re, Il modello di titolarità, (nt. 7), 273 ss.
[29] Nel SFS 1949:345: §1, si colloca la c.d. teacher’s exemption: «Teachers at universities, colleges or other establishments that belong to the system of education should not be treated as employees in the scope of this law».
[30] Cfr. L.C. Ubertazzi, Le invenzioni dei ricercatori, (nt. 7), 1738.
[31] Cfr. S. Lopopolo, Il contratto di licenza per il trasferimento di tecnologie nel settore pubblico e privato, (nt. 28), 14 ss.
[32] In tal senso già vent’anni fa si esprimeva L.C. Ubertazzi, Le invenzioni dei ricercatori, (nt. 7), 1735 e sostanzialmente anche R. Pennisi, L’attività inventiva dei ricercatori universitari., cit., 424, il quale si riferisce alla valorizzazione dei risultati come ad una forma di “pubblicità” per le università in grado di attirare «nuovi finanziamenti e nuovi studenti».
[33] Cfr. M. Libertini, Appunti, (nt. 7), c. 2172; Id., I centri di ricerca, (nt. 7), 60; A. Musso, Recenti sviluppi, (nt. 7), 1081; M. Granieri, La disciplina, (nt. 7), 34; L.C. Ubertazzi, Le invenzioni dei ricercatori, (nt. 7), 735 ss.; E. Arezzo, La tutela, (nt. 7), 150; A. Ottolia, in Aa.Vv., Lineamenti di diritto industriale, Milano, Giuffrè, 2024, 457.
[34] C. Balderi, G. Conti, M. Granieri, A. Piccaluga, Eppur si muove! Il percorso delle università italiane nelle attività di brevettazione e licensing dei risultati della ricerca scientifica, in Economia dei Servizi, 2010, 209 ss.
[35] Cfr. V. Di Cataldo, Le invenzioni delle università, (nt. 7), 338-339. La riprova del fatto che la causa del basso numero di brevetti accademici era imputabile a ragioni organizzative e non a inerzia degli atenei viene ben evidenziata da M. Granieri, La disciplina, (nt. 7), 34-35, il quale sottolinea che il trend si è invertito e le università hanno iniziato una non trascurabile attività brevettuale, quando è subentrata l’autonomia disciplinare, finanziaria e organizzativa degli atenei.
[36] La dottrina si divide(va) tra coloro che ravvisa(va)no sempre possibile il rapporto di servizio tra ricercatore e università in termini di contratto con “oggetto inventivo” in senso ampio, con conseguente applicazione della fattispecie delle invenzioni di servizio di cui all’art. 64, primo comma, c.p.i. (così L.C. Ubertazzi, Le invenzioni dei ricercatori, (nt. 7), 1733) e per contro coloro che ritenevano per lo più che la disciplina delle invenzioni di servizio non fosse mai applicabile ai ricercatori universitari, assunti certamente per fare ricerca ma senza alcun obbligo “inventivo”, preferendo qualificare il risultato inventivo dei ricercatori pubblici come invenzioni aziendali (cfr. M. Libertini, Appunti, (nt. 7), cc. 2170-2171; V. Di Cataldo, Le invenzioni delle università, (nt. 7), 338; L. Rinaldi, Le invenzioni industriali, (nt. 7), 440).
Dissente da questa critica, ma rileva, altresì, le difficoltà di qualificazione delle invenzioni come “universitarie” in alcuni casi specifici (di docenti a tempo definito, di attività inventiva realizzata al di fuori del settore scientifico-disciplinare proprio di un docente o fuori dai locali dell’università) A. Musso, Recenti sviluppi, (nt. 7), 1093-1094.
[37] In tal senso difende la scelta legislativa A. Musso, Recenti sviluppi, (nt. 7), 1081; critici, invece, M. Granieri, La disciplina, (nt. 7), 34 e E. Arezzo, La tutela, (nt. 7), 149 ss.
[38] Nell’analisi condotta a dodici anni dall’introduzione del professor’s privilege in Italia da E. Arezzo, La tutela, (nt. 7), 154-161, emerge che la crescita numerica dei brevetti accademici dal 2004 al 2010 non è stata dovuta alla modifica del regime di titolarità, quanto piuttosto all’aumento del numero degli uffici universitari per il trasferimento tecnologico e all’accresciuta consapevolezza degli atenei sul valore strategico dei beni immateriali, comprovato dall’aumento dei regolamenti per la gestione dei brevetti o della proprietà intellettuale, come dimostrato anche da C. Balderi, G. Conti, M. Granieri, A. Piccaluga, Eppur si muove!, (nt. 34), 209 ss.
Inoltre, un altro studio condotto dai ricercatori del centro CESPRI dell’Università Bocconi ha fatto emergere che già nel 2001 il numero dei brevetti per invenzioni nate in contesto accademico era cospicuo e confrontabile con quelli delle università statunitensi, sebbene la loro titolarità fosse in maniera preponderante concentrata nelle mani delle imprese (72% alle imprese contro l’8,9% agli inventori, il 10,6% agli atenei e l’8,6% ai centri di ricerca pubblici diversi dalle università): S. Breschi, A Della Malva, F. Lissoni, F. Montobbio, L’attività brevettuale dei docenti universitari: l’Italia in un confronto internazionale, in Economia e Politica Industriale, 2007, 43 ss. spec. 49.
[39] Il dato risulta essere frutto di constatazione empirica, ed è stato evidenziato da pressoché tutti gli Autori, tra cui cfr. V. Di Cataldo, Le invenzioni delle università, (nt. 7), 350-351; R. Pennisi, L’attività inventiva, (nt. 17), 429; E. Arezzo, La tutela, (nt. 7), 156; A. Vanzetti, V. Di Cataldo, M.S. Spolidoro, Manuale di diritto industriale9, Milano, Giuffrè, 2021, 438; C. Del Re, Il modello di titolarità, (nt. 7), 286 ss.
[40] Cfr. G. Sena, Una norma da riscrivere, (nt. 7), 243; M. Granieri, Circolazione (mancata), (nt. 7), 80-81; Id., La disciplina, (nt. 7), 35; L.C. Ubertazzi, Le invenzioni dei ricercatori, (nt. 7), 1738; L. Rinaldi, Le invenzioni industriali, (nt. 7), 440; A. Ottolia, sub art. 65 c.p.i., (nt. 7), 498; A. Vanzetti, V. Di Cataldo, M.S. Spolidoro, Manuale9, (nt. 39), 439; C. Del Re, Il modello di titolarità, (nt. 7), 282.
[41] Cfr. G. Sena, Una norma da riscrivere, (nt. 7), 245; V. Di Cataldo, Le invenzioni delle università, (nt. 7), 340-341; M. Granieri, Circolazione (mancata), (nt. 7), 82; Id., La disciplina, (nt. 7), 33-34, il quale osserva che anche alla luce dell’ampia autonomia regolamentare delle istituzioni di ricerca e di quella negoziale con i propri dipendenti (attesa la possibilità di cessione contrattuale della titolarità del brevetto dall’inventore all’università), l’obiettivo del legislatore, che era quello di «propiziare la maggiore circolazione dell’innovazione, si è invece creata esattamente una potenziale situazione critica, poiché le rivendicazioni contrattuali anche di uno solo dei titolari possono determinare il collasso di un’operazione di trasferimento tecnologico. (….) Laddove ricorrono diritti complementari, non appartenenti allo stesso soggetto, l’hold up contrattuale è in agguato. La previsione di garanzie normative sui proventi spettanti ai singoli esaspera, se possibile, l’opportunismo contrattuale».
Diversamente, difende questa scelta A. Musso, Recenti sviluppi, (nt. 7), 1088-1089, secondo il quale si instaurerebbe tra ricercatore e UTT un rapporto di mandato nella gestione dei diritti di brevetto simile a quello di gestione collettiva dei diritti d’autore previsto in capo alle collecting societies.
[42] Così M. Libertini, I centri di ricerca, (nt. 7), 66; M. Granieri, La gestione, (nt. 7), 188.
[43] Evidenzia questo dato E. Arezzo, La tutela, (nt. 7), 151 e 156-157, collegando la mancata brevettazione da parte dei ricercatori sia agli elevati costi di brevettazione sia al frequente fenomeno della cessione ab initio del diritto al brevetto alle imprese.
[44] M. Granieri, Circolazione (mancata), (nt. 7), 80; Id., La disciplina, (nt. 7), 34; Id., La gestione, (nt. 7), 189, il quale mette sotto accusa «il termine [che] rende la previsione assolutamente inidonea a qualsivoglia scopo, perché tende a tramutare il tempo in una sorta di letto di Procuste per le tecnologie». Ha sostenuto l’inapplicabilità della disposizione per sopravvenuta decadenza del diritto ai sensi dell’art. 24-bis, quarto comma, l. inv. (conforme all’attuale art. 70, quarto comma c.p.i.), M. Libertini, Appunti, (nt. 7), 2177.
[45] Per la soluzione favorevole ad un’applicazione estensiva alle università private e a tutti i soggetti pubblici che svolgevano istituzionalmente tra i propri scopi anche quello di ricerca, in coerenza con il principio di parità di trattamento, con esclusione delle fondazioni private e delle società, si erano espressi. M. Libertini, Appunti, (nt. 7), 2173; contra per l’opposta interpretazione restrittiva cfr. L. Rinaldi, Le invenzioni industriali, (nt. 7), 444; A. Ottolia, sub art. 65 c.p.i., (nt. 7), 499; C. Del Re, Il modello di titolarità, (nt. 7), 281 ss.
[46] Come regola di default era stata sostenuta dalla dottrina prevalente la tesi della esclusione dal perimetro soggettivo di applicazione dell’art. 65 di tutto il personale dipendente non adibito a mansioni di ricerca e del personale non dipendente (tecnici, impiegati amministrativi, collaboratori autonomi, dottorandi, assegnisti, borsisti, specializzandi e studenti) con applicazione della regola di titolarità istituzionale (ex art. 64) in favore dell’università, M. Libertini, I centri di ricerca, (nt. 7), 64; L.C. Ubertazzi, Le invenzioni dei ricercatori, (nt. 7), 1730; A. Ottolia, sub art. 65 c.p.i., cit., 499, sebbene fosse stata sostenuta anche la tesi dell’applicabilità analogica dell’art. 65 al personale non dipendente, al fine di evitare una disparità di trattamento con i ricercatori dipendenti delle università: M. Libertini, Appunti, (nt. 7), 2173; A. Musso, Recenti sviluppi, (nt. 7), 1099.
Tuttavia, la soluzione più condivisibile era quella di rimettere all’autonomia regolamentare di ciascun ateneo la definizione del perimetro applicativo dell’art. 65 in relazione al personale non strutturato, ma comunque contrattualizzato o convenzionato con l’università, come sostenuto da M. Granieri, La disciplina, (nt. 7), 33; Id., La gestione, (nt. 7), 179 ss.
[47] Così M. Granieri, La disciplina, (nt. 7), 33.
[48] In tal senso M. Libertini, I centri di ricerca, (nt. 7), 64, diversamente da quanto sostenuto in Id., Appunti sulla nuova disciplina delle «invenzioni universitarie», cit., 2174.
[49] Cfr. in tal senso L.C. Ubertazzi, Le invenzioni dei ricercatori, (nt. 7), 1739; A. Musso, Recenti sviluppi, (nt. 7), 1112-1116; M. Granieri, La gestione, (nt. 7), 185 ss.; L. Rinaldi, Le invenzioni industriali, (nt. 7), 453; A. Pagani, M. Stucchi, Invenzioni dei dipendenti, (nt. 24), 516 ss.; A. Cogo, in Aa. Vv., Lineamenti di diritto industriale, Milano, Wolters Kluwers, 2024, 541-542.
[50] In tal senso, gli artt. 12-bis, 12-ter l. aut., che prevedono rispettivamente la titolarità del datore di lavoro l’una per i programmi per elaboratore e banche dati, e l’altra per le opere di industrial design realizzati dai dipendenti nell’esecuzione delle proprie mansioni di servizio. Si deve aggiungere la previsione dell’art. 88, secondo comma, l. aut. relativo ai diritti connessi sulle fotografie, la quale assegna il diritto esclusivo di sfruttamento al datore di lavoro se «l’opera è stata ottenuta nel corso o nell’adempimento di un contratto di impiego o di lavoro, entro i limiti dell’oggetto e delle finalità del contratto». Per le topografie di prodotti a semiconduttori l’art. 89 c.p.i. distingue il regime di titolarità a seconda che la creazione rientri o meno all’interno di un rapporto di lavoro dipendente (senza distinguere tra settore pubblico e privato) applicando l’art. 64 c.p.i. nel primo caso (cfr. L.C. Ubertazzi, Le invenzioni dei ricercatori, (nt. 7), 1739; A. Musso, Recenti sviluppi, (nt. 7), 1112-1116; M. Granieri, La gestione, (nt. 7), 187 ss.; L. Rinaldi, Le invenzioni industriali, (nt. 7), 452 ss.). Stesso discorso vale per le nuove varietà vegetali, ai sensi degli artt. 101, primo comma, lett. b) e 111, secondo comma, c.p.i. (cfr. L. Rinaldi, Le invenzioni industriali, (nt. 7), 452 ss.) e per i disegni e modelli, per i quali rileva l’art. 38, terzo comma, c.p.i. (v. L. Rinaldi, Le invenzioni industriali, (nt. 7), 453).
[51] Così M. Granieri, La disciplina, (nt. 7), 32-33; L.C. Ubertazzi, Le invenzioni dei ricercatori, (nt. 7), 1739; A. Musso, Recenti sviluppi, (nt. 7), 1101-1111; L. Rinaldi, Le invenzioni industriali, (nt. 7), 455; A. Pagani, M. Stucchi, Invenzioni dei dipendenti, (nt. 24), 516-520.
[52] Ciò nondimeno, in via regolamentare molti atenei hanno scelto di equiparare il regime giuridico delle invenzioni a tutti gli altri diritti di P.I., titolati e non titolati, per evitare difformità nel regime di titolarità e nella disciplina, come evidenziato da A. Ottolia, sub art. 65 c.p.i., (nt. 7), 502.
[53] In tal senso V. Di Cataldo, Le invenzioni delle università, (nt. 7), 344-345, il quale riconosce che «nella creazione dell’opera d’autore il contributo esterno (cioè, il contributo di fattori imputabili al datore di lavoro) sia complessivamente non influente, o poco influente, rispetto al contributo creativo dell’autore, o comunque abbia un peso specifico notevolmente inferiore. (…) [A]ppare del tutto conseguente che il docente universitario sia titolare dei diritti sulle opere dell’ingegno che crea, anche se si tratta di opere (manuali, trattati, ecc.) per le quali utilizza la sua esperienza di docente universitario; nella loro creazione l’apporto dell’Università è minimo rispetto all’apporto creativo dell’autore». Aderisce a questa soluzione anche A. Musso, Recenti sviluppi, (nt. 7), 1103 ss. M. Granieri, La gestione, (nt. 7), 186.
[54] L’art. 11, primo comma, l. aut. stabilisce che «Alle amministrazioni dello Stato, alle Provincie e ai Comuni spetta il diritto di autore sulle opere create e pubblicate sotto il loro nome ed a loro conto e spese», mentre il secondo comma estende la disposizione anche agli enti privati che non perseguano scopi di lucro. Tale previsione era stata spiegata dai primi commentatori (E. Piola Caselli, Codice del diritto di autore, Torino, Utet, 1943, 270-275) in ragione dell’assorbimento in senso giuridico da parte degli enti, pubblici e privati, della personalità di chi agisce come creatore (persona fisica) di un’opera dell’ingegno in nome e per conto dell’ente stesso (persona giuridica), a condizione che l’ente avesse commissionato e non puramente sovvenzionato tali pubblicazioni (E. Piola Caselli, Codice del diritto di autore, Torino, Utet, 1943, 269). Le successive applicazioni giurisprudenziali hanno confermato il principio in base al quale «L’art. 11 trova applicazione solo in presenza di un intervento “qualificato” dell’ente pubblico o privato che non persegue fini di lucro, nel senso che questo ente deve aver commissionato e coordinato l’opera, che per questo motivo reca il suo nome e appartiene ad esso e non alla persona e alle persone fisiche che hanno provveduto materialmente a redigerla» (App. Bologna, 28 febbraio 2006, in AIDA, 2007, 785 ss., con nota di M. Ammendola, Creazione e pubblicazione di opere «sotto il nome» di enti pubblici e privati, 788).
Resta controverso, ai fini dell’operatività di questa norma, se sia necessario da parte dell’ente il coordinamento (come sostenuto dalla succitata decisione di merito) o sia sufficiente l’aver commissionato l’opera e dunque conferito un espresso incarico (come sostenuto da Ammendola), ed anche se il nome dell’ente debba essere l’unico a figurare sull’opera (come sostenuto dalla Corte d’Appello di Bologna succitata) ovvero se possa essere presente nell’opera anche il nome (o i nomi) di chi ha realizzato il lavoro creativo (come sostenuto da Ammendola). Appare invece chiaro, dal dibattito dottrinale e giurisprudenziale, che non sia sufficiente la mera sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato o autonomo con l’ente pubblico o privato (come sarebbe nel caso dei docenti universitari) ai fini dell’applicazione dell’art. 11; né tanto meno sia sufficiente il mero sovvenzionamento o finanziamento della pubblicazione (come spesso accade ai docenti di fare con le pubblicazioni di opere scientifiche, specie monografiche, utilizzando fondi pubblici destinati alla ricerca) per far perdere i diritti patrimoniali d’autore sulle opere ai singoli autori. La conferma di ciò risiede nella previsione dell’art. 29 l. aut. che fissa in venti anni a partire dalla prima pubblicazione la durata dei diritti esclusivi di utilizzazione dello Stato e degli altri enti ai sensi dell’art. 11; laddove la durata limitata rispetto alla regola dei diritti patrimoniali d’autore si giustifica soltanto alla luce del concomitante diritto morale spettante all’autore dell’opera, il quale dopo venti anni si espanderà, riacquistando la piena disponibilità anche dei diritti patrimoniali sull’opera. Cfr. M. Ammendola, Diritto d’autore: diritto materiale, in Dig. comm., IV, Torino, Utet, 1989, 383 ss.; Id., in L.C. Ubertazzi, M. Ammendola, Il diritto d’autore, Torino, Utet, 1993, 24-26; P. Auteri, in AA.VV., Diritto industriale, Torino, Giappichelli, 2023, 708-709.
[55] Per la difesa della tesi basata sulla diversificazione tra ricerca “libera” e ricerca “vincolata” si rimanda all’Autore che ne ha la paternità, ossia F. Floridia, Ricerca universitaria e invenzioni brevettabili, in Dir. ind., 1996, 447; Id., Le invenzioni universitarie, ibid., 2001, 213; Id., Le invenzioni universitarie, ibid., 2007, 313; adesivo anche G. Pellacani, Tutela del lavoro e tutela della proprietà industrial. Per una lettura costituzionalmente orientata della disciplina delle invenzioni del lavoratore, in AIDA, 2005, 29 ss. spec. 48-49.
[56] In senso critico rispetto alla coerenza tecnico-giuridica e anche alla ragionevolezza della distinzione tra “libera” e ricerca “vincolata”, cfr. M. Libertini, Appunti, (nt. 7), cc. 2171-2172; Id., I centri di ricerca, (nt. 7), 62-63; V. Di Cataldo, Le invenzioni delle università, (nt. 7), 343 ss.; M. Granieri, La gestione, (nt. 7), 174-178; E. Arezzo, La tutela, (nt. 7), 162 ss.
[57] Cfr. E. Arezzo, La tutela, (nt. 7), 154 ss.
[58] V. Di Cataldo, Le invenzioni delle università, (nt. 7), 341; M. Granieri, La disciplina, (nt. 7), 35; E. Arezzo, La tutela, (nt. 7), 157-158; L. Rinaldi, Le invenzioni industriali, (nt. 7), 441; A. Vanzetti, V. Di Cataldo, M.S. Spolidoro, Manuale9, (nt. 39), 438.
Anche M. Libertini, I centri di ricerca, (nt. 7), 61 sostiene che la riforma del 2002 ha tolto «incentivi alle Università per impegnarsi in proprio nella valorizzazione dei risultati della ricerca».
[59] Questa la lettura di M. Granieri, La disciplina, (nt. 7), 34-35.
[60] Per una lettura delle proposte di legge anteriori alla riforma, si rinvia a C. Galli, Il disegno di legge di revisione del codice della proprietà industriale e le altre novità normative in materia di brevetti, in Dir. ind., 2022, 223; e M. Granieri, Nel disegno di legge governativo di modifica al Codice della proprietà industriale proposto il superamento del cd. Privilegio del professore all’italiana, in ForoNews, Foroitaliano.it, 24 maggio 2022; M. Cavaliere, Trasparenza informativa e innovation disclosure nella ricerca universitaria. Prospettive di riforma, in Giur. comm., 2023, I, 229 ss.
Per i primi commenti al testo dell’art. 65 riformato, cfr. M. Granieri, Fine del professor’s privilege, (nt. 1), 1-4; Id., Tra concorrenza e isomorfismo, (nt. 13), cc. 380-385; A. Sirotti Gaudenzi, Il nuovo quadro delle invenzioni dei ricercatori, in Riv. dir. ind., 2023, 214.
[61] Non si può escludere, tuttavia, che venga inserito nei regolamenti accademici sulla gestione della P.I. allo scopo di allargare il perimetro di applicazione della disposizione, come si vedrà meglio infra § 5.
[62] Si rimanda alla precedente nt. 36.
[63] Si deve rammentare, oltre alla dottrina anteriore alla novella 2023 già sopra citata, che la giurisprudenza della Cassazione, in merito agli elementi identificativi della fattispecie dell’art. 64 come “invenzione di servizio”, ha da tempo sostenuto di poter ravvisare una invenzione di servizio soltanto nel caso in cui risulti che nel contratto di lavoro le parti, applicando i criteri interpretativi dell’art. 1362 c.c. per l’identificazione della loro comune volontà, abbiano inteso inequivocabilmente prevedere e retribuire proprio l’attività inventiva (non la mera attività di ricerca) ed abbiano pattuito una “speciale retribuzione” per tale attività: così Cass., 16 gennaio 1979, n. 329, in Foro it., 1979, 1416; Cass., 21 luglio 1998, n. 7161, in Foro it., 1999, I, 1548; da ultimo tale orientamento è stato confermato da Cass., 20 novembre 2017, n. 27500, in Riv. dir. ind., 2018, II, 238 (solo massima) e in Banca-dati De Jure (la sentenza per esteso).
Una decisione di merito (Trib. Bologna, 21 febbraio 2017, in Rep. Foro It., 2020, voce Proprietà industriale, n. 252 e in Giur. ann. dir. ind., 2018, 297) ha ridimensionato la posizione netta della Suprema Corte, precisando che l’assenza di voci retributive autonome e riconducibili inequivocabilmente alla remunerazione dell’attività inventiva non pregiudica in modo assoluto la configurazione della fattispecie “invenzione di servizio”, in quanto la mancanza di un apposito corrispettivo costituisce soltanto un indice presuntivo a favore della ricorrenza di un’invenzione d’azienda, senza impedire datore di lavoro di poter fornire la prova contraria.
[64] Cfr. per la disciplina previgente M. Libertini, Appunti, (nt. 7), 2170-2171; V. Di Cataldo, Le invenzioni delle università, (nt. 7), 338; L. Rinaldi, Le invenzioni industriali, (nt. 7), 440.
Sulla disciplina riformata, sostengono la tesi che il legislatore abbia voluto creare una disciplina ad hoc sul modello delle invenzioni aziendali, di cui all’art. 64, secondo comma, A. Vanzetti, V. Di Cataldo, M.S. Spolidoro, Manuale di diritto industriale10, Milano, 2024, 440.
[65] Cfr. R. Pennisi, L’attività inventiva, (nt. 17), 427 e nt. 5.
[66] In relazione al personale non adibito ad attività di ricerca (personale tecnico amministrativo addetto a biblioteche o a servizi amministrativi) è stata sostenuta l’applicabilità analogica dell’art. 64 c.p.i. sulle invenzioni occasionali da A. Vanzetti, V. Di Cataldo, M.S. Spolidoro, Manuale10, (nt. 64), 440. Più in generale, e senza specifico riferimento al personale tecnico-amministrativo, le invenzioni occasionali sono reputate ammissibili anche da M. Granieri, Tra concorrenza e isomorfismo, (nt. 13), 382, il quale ipotizza che tra queste possano esserci le invenzioni dei professori a tempo pieno realizzate nell’esercizio di attività extraistituzionale autorizzata, se non correlate ed estranee al settore scientifico disciplinare di appartenenza. Esclude, invece, la configurabilità di invenzioni occasionali dei ricercatori accademici A. Sirotti Gaudenzi, Il nuovo quadro, (nt. 60), 225.
[67] Sostiene la tesi secondo la quale la nuova disciplina delle invenzioni accademiche si configuri come un “nuovo fenotipo”, completamente diverso e alternativo alle tre tipologie di invenzioni nel settore privato, E. Arezzo, La nuova disciplina della titolarità dei frutti della ricerca universitaria ed il relativo impatto sul trasferimento tecnologico: un’occasione mancata?, in Nuove leggi civ. comm., 2024, 863-867. Secondo l’Autrice sarebbero tratti peculiari del novello art. 65 sia l’aver disancorato le invenzioni dei dipendenti pubblici dalle mansioni lavorative affidate al dipendente, ritenendo che per il personale tecnico amministrativo anche le invenzioni fatte al di fuori delle proprie mansioni (e si deduce anche al di fuori dell’orario di servizio) ricadrebbero nell’ambito applicativo dell’art. 65, sia l’assenza di un obbligo di remunerazione minima, sotto forma di obbligo di erogazione di premialità, comporterebbe un allontanamento dal modello delle invenzioni aziendali in cui l’equo premio rappresenta un elemento tipologico imprescindibile della fattispecie.
Dall’analisi empirica condotta sui Regolamenti accademici, emerge che queste preoccupazioni sono ipotetiche (e forse eccessive) più che reali. Difatti, quasi tutti i regolamenti hanno specificato che il regime della titolarità istituzionale sia destinato ad operare quando i dipendenti dell’Ateneo abbiano realizzato, o comunque conseguito, beni immateriali, nell’ambito dello svolgimento di attività di ricerca autonoma, collaborativa o commissionata (così il Regolamento dell’Università di Bari, di Trento, di Catania e del Politecnico di Milano) o si tratti di ricercatori o soggetti addetti ad attività di ricerca (così il Regolamento dell’Ateneo di Torino e di Palermo). In alcuni regolamenti è stata anche inserita la previsione sulle invenzioni occasionali (art. 64, terzo comma, c.p.i.) al fine di farvi ricadere proprio le invenzioni fatte dal personale strutturato o non strutturato al di fuori delle proprie mansioni di servizio.
Quanto alle premialità, pur constatando che il nuovo art. 65 non pone più una base minima inderogabile per i compensi spettanti agli inventori, tuttavia nessun Ateneo ha attribuito finora meno del 50% dei proventi agli inventori in sede di adeguamento regolamentare – e in alcuni casi anche più di questa soglia come il 70% previsto nel Regolamento dell’Università di Bari o la soglia compresa tra il 70% e l’80% del Politecnico di Milano – meno che mai nessun Ateneo ha ipotizzato l’eliminazione delle premialità tout court, avendo interpretato la delega sulle premialità come una investitura per la migliore valorizzazione dei risultati della ricerca attraverso lo strumento del premio agli inventori. Sul punto si veda l’analisi dei regolamenti condotta nel successivo § 6, in corrispondenza delle nt. 114-116.
[68] Questa precisazione è fatta anche da M. Granieri, Tra concorrenza e isomorfismo, (nt. 13), 382.
[69] Si rinvia alla precedente nt. 45.
[70] Lo riferisce M. Granieri, Tra concorrenza e isomorfismo, (nt. 13), 382.
[71] M. Granieri, Tra concorrenza e isomorfismo, (nt. 13), 382; Id., Fine del professor’s privilege, (nt. 1), 2.
[72] Come noto, la definizione europea di impresa (funzionale al settore della concorrenza) è stata data dalla Corte di Giustizia per la prima volta della sentenza CGCE, 23 aprile 1991, causa C-41/90, caso Höfner, § 21: «nel contesto del diritto della concorrenza, la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che esercita un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento».
[73] Il Considerando 83, definisce come «Organismo di ricerca e diffusione della conoscenza: un’entità (ad esempio, università o istituti di ricerca, agenzie incaricate del trasferimento di tecnologia, intermediari dell’innovazione, entità collaborative reali o virtuali orientate alla ricerca), indipendentemente dal suo status giuridico (costituito secondo il diritto privato o pubblico) o fonte di finanziamento, la cui finalità principale consiste nello svolgere in maniera indipendente attività di ricerca fondamentale, di ricerca industriale o di sviluppo sperimentale o nel garantire un’ampia diffusione dei risultati di tali attività mediante l’insegnamento, la pubblicazione o il trasferimento di conoscenze».
[74] Il Considerando 83, prevede che: «Qualora tale entità svolga anche attività economiche, il finanziamento, i costi e i ricavi di tali attività economiche devono formare oggetto di contabilità separata. Le imprese in grado di esercitare un’influenza decisiva su tale entità, ad esempio in qualità di azionisti o di soci, non possono godere di alcun accesso preferenziale ai risultati generati».
[75] Si rimanda al contenuto della precedente nt. 50.
[76] La tesi che riconduce tutte le opere dell’ingegno, anche diverse dalle invenzioni, alle invenzioni d’azienda, al fine di applicare per essi la fattispecie di cui all’art. 64, secondo comma, cfr. L.C. Ubertazzi, L’appartenenza dei risultati creativi dei dipendenti, in AIDA, 2010, 534; A. Ottolia, sub art. 64, in Commentario breve alle leggi su Proprietà intellettuale e Concorrenza diretto da L.C. Ubertazzi, Padova, Cedam, 2019, 485.
[77] Cfr. A. Ottolia, sub art. 64, (nt. 76), 459.
[78] Per tutti si vedano i regolamenti del Politecnico di Milano (emanato nel 2011 e denominato Regolamento sulla proprietà Industriale, all’art. 1 si riferisce alle “opere dell’ingegno” in generale), quello del Politecnico Torino (emanato nel 2007 – attualmente vigente – e denominato Regolamento relativo alla Proprietà industriale e intellettuale, in particolare l’art. 3 rubricato “Oggetto della disciplina”), quello del Politecnico di Bari (emanato nel 2014 e denominato Regolamento sulla proprietà Industriale, si riferisce esclusivamente ai titoli di proprietà industriale e non anche ai diritti di proprietà intellettuale, come risulta dagli artt. 1 e 2, primo comma), quello dell’Università di Brescia (entrato in vigore nel 2017 e denominato Regolamento per la generazione, gestione e valorizzazione della proprietà intellettuale sui risultati della ricerca dell’Università, si riferisce nell’art. 1 a tutti i diritti di proprietà intellettuale), quello dell’Università di Bologna “Alma Mater Studiorum” (entrato in vigore nel 2014 e denominato Regolamento in materia di proprietà industriale e intellettuale, si riferisce a tutti i beni immateriali in una pluralità di disposizioni), quello dell’Università di Roma La Sapienza (in vigore dal 2019 e denominato Regolamento brevetti, in realtà aveva come ambito di applicazione tutti i diritti di proprietà industriale titolati e non titolati, come indicato nell’art. 2, lett. h), nella definizione di invenzioni, che include «ogni risultato della ricerca ed in particolare le invenzioni industriali, i modelli di utilità, i disegni e modelli ornamentali, le topografie di prodotti a semiconduttori, le nuove varietà vegetali, le banche dati, i programmi per elaboratore e il know-how che derivino dalla Ricerca Istituzionale o Finanziata di Sapienza e che siano suscettibili di formare oggetto di diritti di proprietà intellettuale»).
[79] In questa direzione è andato l’Ateneo di Bari, il quale ha modificato anche la denominazione del suo precedente regolamento brevetti in “Regolamento sulla proprietà intellettuale dei risultati della ricerca” così estendendo la disciplina dei beni immateriali e la regola di titolarità accademica a tutti i risultati della ricerca diversi dalle pubblicazioni scientifiche (artt. 2 e 3).
[80] In tal senso in giurisprudenza cfr. Cass., 4 febbraio 2016, n. 2197, in AIDA, 2016, 758 n. 1728; Trib. Milano, 24 dicembre 2015, in AIDA, 2016, 1082 n. 1763; App. Bologna, 28 febbraio 2006, in AIDA, 2007, 785 ss.
Si rimanda, per le questioni interpretative legate all’art. 11 l. aut., a quanto riportato nella precedente nt. 54.
[81] V. supra nt. 55 e 56.
[82] Così E. Arezzo, La nuova disciplina, (nt. 67), 869 secondo la quale «Il nuovo quinto comma dell’art. 65 c.p.i. cancella con uno sbrigativo colpo di spugna l’assetto normativo precedente restituendone, se possibile, uno dai contorni ancora più vaghi».
[83] M. Granieri, La gestione, (nt. 7), 55.
[84] Tale effetto potrebbe verificarsi nell’ipotesi in cui la formulazione delle clausole dei contratti di ammissione al finanziamento, c.d. grant agreement, stipulati dalle università con le imprese o gli OdR beneficiari dei BAC prevedano o una rimessione totale della disciplina della proprietà intellettuale agli accordi di partenariato da stipularsi tra i beneficiari, come accade nei contratti di finanziamento conclusi a valle dell’esito positivo di selezione di un progetto Horizon Europe, oppure un esplicito accordo di attribuzione della titolarità, in via originaria o successiva (sub specie di cessione della titolarità) dei diritti di P.I. dell’università finanziatrice ai soggetti beneficiari.
[85] Si rinvia alla precedente nt. 13 per il dettaglio di queste disposizioni.
[86] Così anche M. Granieri, Tra concorrenza e isomorfismo, (nt. 13), 383.
[87] Trib. Bari, 7 febbraio 2023, in Foro it., 2023, I, 1298 con nota di M. Granieri, Il caso limite dell’invenzione occasionale dello studente lavoratore.
[88] Il regolamento sulla proprietà industriale del Politecnico di Bari in vigore dal 2014 (attualmente ancora vigente) prevede all’art. 2, terzo comma, che «con riferimento agli studenti del Politecnico di Bari, il presente regolamento si applica all’invenzione realizzata per la quale sia chiesto il brevetto o la registrazione o il titolo assimilabile al massimo entro il conseguimento della laurea». La previsione, però, sottintende che vi sia stata la comunicazione (o disclosure) da parte degli studenti, laddove invece appare lacunosa e non applicabile nel caso in cui il brevetto sia stato chiesto prima della laurea dal titolare dell’impresa, senza alcuna comunicazione all’Ateneo, oppure dopo la laurea da parte degli stessi studenti.
Diversamente altri regolamenti già prevedevano l’estensione agli studenti come nel caso dell’Università di Bologna (regolamento in vigore dal 2014) che all’art. 2, lett. g) includeva già nella definizione di “ricercatori” «gli studenti di ogni grado».
[89] Sono le parole usata nella decisione del Trib. Bari, cit.
[90] Larry Page e Sergey Brin, negli anni 1995-1997, erano dottorandi dell’Università di Stanford e qui scrissero la loro tesi di dottorato sviluppando la teoria secondo cui un motore di ricerca basato sull’analisi matematica delle relazioni tra siti web avrebbe prodotto risultati migliori rispetto alle tecniche di ricerca usate precedentemente (basate sul numero di citazioni). L’algoritmo di ricerca, che costituisce l’anima di Google, denominato Page Rank, fu brevettato a conclusione del dottorato, ma la titolarità era dell’Università di Stanford di cui i due studenti avevano sfruttato la piattaforma. Quando Page e Brin fondarono la loro società, il 4 settembre 1998, l’Università cedette alla società la titolarità del brevetto in cambio di 1,8 milioni di azioni, che nel 2005 (al momento della quotazione in borsa di Google) furono rivendute per 336 milioni di dollari dalla Stanford.
[91] Parla di «lacuna come opportunità» M. Granieri, Tra concorrenza e isomorfismo, (nt. 13), 384.
[92] Questa soluzione è stata indicata come compatibile e comunque applicabile di default in mancanza di espresse previsioni regolamentari da A. Ottolia, in AA.VV., Lineamenti di diritto industriale, (nt. 33), 458.
[93] In tal senso, su una precedente proposta di riforma, si era già espresso A. Musso, Recenti sviluppi, (nt. 7), 1096.
[94] La scelta non è stata casuale, quanto piuttosto basata sulla constatazione che i ricercatori universitari non hanno un orario di servizio, e potrebbero svolgere le proprie attività di ricerca anche fuori dai locali accademici (come spesso accade, si lavora da casa, in uno studio privato, nei locali di una università straniera ospitante per un soggiorno di ricerca). Così che un approccio formalistico, basato sul luogo e tempo di svolgimento delle proprie mansioni, mal si attaglia alle peculiari caratteristiche della ricerca accademica, anzi peggio potrebbe rappresentare una facile scappatoia per sottrarsi all’obbligo di comunicazione dell’invenzione presso l’UTT.
[95] Art. 5, terzo comma, recita: «In caso di doppia affiliazione del personale UNIBA strutturato ad altri enti di ricerca, pubblici o privati, italiani o stranieri, il regime dei diritti di proprietà intellettuale sui risultati delle ricerche svolte presso gli stessi sarà regolato da apposite convenzioni con l’Ateneo». E prosegue il quarto comma: «Restano altresì escluse dalla titolarità di UNIBA le opere dell’ingegno del personale strutturato realizzate nell’ambito di spin off accademiche ovvero nell’ambito delle attività extra-istituzionali di ricerca, svolte sulla base di specifica autorizzazione rilasciata al personale strutturato in regime di tempo pieno. Tale esclusione non si applica alle opere dell’ingegno realizzate dal personale strutturato in regime di tempo definito».
[96] Questo stesso argomento è impiegato da M. Granieri, Fine del professor’s privilege, (nt. 1), 2, per sostenere che in assenza di indicazioni regolamentari e non essendoci alcuna distinzione normativa tra i docenti a tempo pieno e quelli a tempo definito, «si deve ritenere che l’opzione per il tempo definito non valga a disattivare la regola della titolarità istituzionale». Questa conclusione, tuttavia, contrasta con quella che si è segnalata in questo paragrafo come soluzione di default preferibile in mancanza di espresse indicazioni regolamentari.
[97] L’art. 3, secondo comma, sancisce che: «Per tutte le altre innovazioni che ricadono nel campo di applicazione del presente regolamento vale la regola per la quale i diritti appartengono all’Ateneo nella misura in cui l’innovazione possa dirsi compresa nel campo delle mansioni attribuite al suo autore o derivi da istruzioni specifiche o dalla partecipazione volontaria a iniziative istituzionali».
[98] Art. 1 nella definizione di “inventore” si riferisce a «i professori di prima e seconda fascia, i ricercatori, i tecnici e ogni altro dipendente dell’Università di Catania che, nell’espletamento del proprio servizio, svolga attività di ricerca inventiva o presti collaborazione ai soggetti elencati; indica altresì i ricercatori non dipendenti, quali i dottorandi di ricerca, i titolari di assegni di ricerca, i soggetti che prestano la propria opera mediante contratto e tutti coloro che a qualsiasi titolo, pur non essendo lavoratori subordinati, svolgono attività anche non retribuita, utilizzando le strutture dell’Università».
[99] Art. 2, nella definizione di attività di ricerca autonoma si riferisce alla «attività di ricerca dell’Ateneo svolta dai dipendenti o dagli interni non dipendenti del Politecnico, sviluppata autonomamente, avvalendosi di attrezzature e strutture e/o di finanziamenti e di risorse economiche amministrate dal Politecnico».
[100] L’art. 2 reg. brevetti di Palermo delimita la disciplina del regolamento al «le invenzioni conseguite da uno o più ricercatori nel corso di un’attività di ricerca svolta nell’Università», laddove nel precedente art. 1 viene definita come “attività di ricerca svolta nell’Università” «l’insieme di operazioni dirette al conseguimento di un risultato inventivo poste in essere dal ricercatore nell’esercizio dell’attività scientifica cui egli stesso attende nell’adempimento dei compiti attinenti al suo ruolo, avvalendosi di attrezzature e strutture appartenenti all’Università e/o di finanziamenti e, comunque, di risorse economiche da questa amministrate».
[101] L’art. 3 reg. in materia di proprietà intellettuale dell’Università di Trento, definendo l’ambito di applicazione, stabilisce che: «1. Il presente Regolamento si applica ai Ricercatori e alle Ricercatrici dell’Ateneo che abbiano realizzato, o comunque conseguito, Beni Immateriali, come definiti dall’articolo 2, lett. b) del Regolamento, nell’ambito dello svolgimento di Attività di Ricerca.
Non rientrano nell’ambito di applicazione del presente Regolamento i diritti d’autore relativi a pubblicazioni scientifiche».
Nel precedente art. 2, tra le definizioni, l’Attività di Ricerca viene definita come «qualunque attività che possa dar luogo alla realizzazione o al conseguimento, da parte del Ricercatore o della Ricercatrice, di uno o più Beni Immateriali e che sia:
(i) finanziata in tutto o in parte dall’Ateneo, o
(ii) posta in essere nell’ambito di programmi o progetti di ricerca di cui siano parte l’Ateneo o una delle sue Strutture, oppure
(iii) condotta in modo autonomo dal Ricercatore o dalla Ricercatrice ma posta in essere utilizzando strutture o risorse economiche o strumentali dell’Ateneo stesso».
[102] Il problema è stato dapprima segnalato da M. Libertini, Appunti, (nt. 7), 2176; Id., I centri di ricerca e le invenzioni dei dipendenti nel codice della proprietà industriale, cit., 65, e risolto ritenendo che vi fosse un dovere di protezione in capo al ricercatore dell’interesse patrimoniale del proprio datore di lavoro, sicché egli non potesse disporne liberamente, rinunciandovi o cedendolo, senza tenere conto dell’interesse dell’università. Successivamente il tema dell’obbligo di comunicazione è stato approfondito da M. Cavaliere, Trasparenza informativa e innovation disclosure nella ricerca universitaria. Prospettive di riforma, (nt. 60), 229 ss. cui si rimanda per ulteriore bibliografia anteriore alla riforma.
[103] Sostiene che si verifichi in questi casi la perdita del “diritto di ripresa” in caso di inerzia dell’ente M. Granieri, Tra concorrenza e isomorfismo, (nt. 13), 383.
[104] Vedi C. Del Re, Il modello di titolarità, (nt. 7), 290 e nt. 53, nella parte in cui richiama i dilemmi accademici e tra questi il timore degli accademici di vedersi limitati nella libertà di pubblicazione a causa dei tempi necessari per la tutela giuridica del brevetto.
[105] Negli US i tempi di deposito di una domanda di brevetto da parte delle università si contano in giorni, spesso una settimana è sufficiente, laddove in Italia anche il più efficiente degli UTT non riesce a concludere la procedura di brevettazione prima di due o tre mesi. Evidentemente c’è un gap da colmare, ma lo si potrà fare pianificando una roadmap di efficientamento dei processi e della produttività dei dipendenti amministrativi degli enti, da realizzarsi anche attraverso la compartecipazione del PTA degli UTT alle premialità legate allo sfruttamento economico dei brevetti e delle altre privative.
[106] Così è stato fatto dal Politecnico di Milano.
[107] Come previsto dal regolamento dell’Università degli Studi di Bari.
[108] In questa direzione si è mossa l’Università di Palermo, nella previsione dell’art. 4, primo comma.
[109] Cfr. M. Granieri, La gestione, (nt. 7), 111-113.
[110] V. supra nt. 13.
[111] Di regola il disinteresse dell’ente per il trovato dovrebbe comportare la perdita del diritto di sfruttamento economico e anche della percezione di ogni utilità derivante dalla brevettazione fatta in proprio dall’inventore, così M. Granieri, Fine del professor’s privilege, (nt. 1), 2. Tuttavia, non si può escludere che in sede regolamentare le istituzioni scelgano di imporre ai propri ricercatori un piccolo contributo per il funzionamento degli UTT, che potrà essere dato in forma di quota percentuale sugli utili realizzati dallo sfruttamento del brevetto o altro DPI. In tal caso la misura percentuale del prelievo “forzoso” dovrà essere estremamente contenuta (inferiore al 10%) per evitare di generare malcontenti tra il personale.
[112] Il Regolamento dell’Università di Palermo (art. 7) prevede un meccanismo di anticipazione delle spese di prima brevettazione o di estensione del brevetto all’estero da parte dell’Ateneo in favore del ricercatore, che sembra contrastare sia con la logica della titolarità istituzionale sia con il basilare divieto di venire contra factum proprium: chi dichiara di non essere interessato alla registrazione in proprio di un trovato, la cui titolarità gli spetta per legge, perché mai dovrebbe accollarsene le spese di registrazione, sia pure temporaneamente? Questo sembra essere un caso in cui il danno erariale commesso dall’amministrazione dell’università è duplice: prima per l’atto di dismissione e poi per la sopportazione di spese non dovute.
[113] Così anche M. Granieri, La gestione, (nt. 7), 112.
[114] Segnala la centralità del tema dell’incentivo individuale del ricercatore, ai fini di un’efficiente pratica di trasferimento tecnologico, M. Granieri, La gestione, (nt. 7), 191. Non condivisibile appare invece la posizione espressa da E. Arezzo, La nuova disciplina, (nt. 67), 866-867, (per le ragioni già spiegate nella precedente nt. 67) che esprime rammarico per la scomparsa della disposizione previgente che riservava al ricercatore una remunerazione non inferiore al 50% degli introiti ottenuti dal TT dei risultati della ricerca e secondo cui sarebbe stato preferibile il richiamo alla disciplina dell’equo premio, di cui all’art. 64, secondo comma, c.p.i. Difatti, la maggiore autonomia affidata agli Atenei e agli enti pubblici di ricerca sta spingendo di fatto verso la valorizzazione dei risultati della ricerca e conseguentemente l’attenzione delle Università alle premialità (mai finora fissate dai regolamenti ad una soglia inferiore al 50%); mentre appare condivisibile il richiamo al criterio di calcolo dell’equo premio (di cui all’art. 64, secondo comma) come parametro minimale e residuale evocato in dottrina (A. Ottolia, in Lineamenti, (nt. 33), 458) che opererebbe nei casi di mancato adeguamento normativo dei regolamenti interni al nuovo art. 65, oppure nei casi di palese esiguità della premialità fissata dai regolamenti accademici.
[115] In passato in tal senso già M. Ricolfi, Le invenzioni brevettabili, (nt. 7), 10.
[116] Si vedano in tal senso i regolamenti delle Università di Torino, Palermo, Catania e Trento.
[117] Questo approccio viene suggerito da G. Conti, M. Granieri, A. Piccaluga, La gestione, (nt. 8), 24.
[118] Queste le soluzioni prescelte rispettivamente dall’Università di Bari e dal Politecnico di Milano.
[119] Come noto l’art. 23 del r.d. n. 1127/1939 (Legge invenzioni) prevedeva il rilascio del brevetto come fattispecie costitutiva del diritto all’equo premio per l’inventore, mentre con il varo del Codice della proprietà industriale, l’art. 64, secondo comma, ha previsto esplicitamente ai fini della concessione dell’equo premio la condizione alternativa che il datore di lavoro ottenga il brevetto o lo utilizzi in regime di segretezza industriale, come risulta anche dal coerente cambiamento della giurisprudenza (cfr. Cass., 20 novembre 2017, n. 27500, cit.).
[120] Cfr. A. Ottolia, sub art. 64, (nt. 76), 485.
[121] Per tutti si vedano i regolamenti dell’Università di Brescia e del Politecnico di Milano.
[122] «I soggetti indicati al comma 1, nell’ambito della propria autonomia, disciplinano: (omissis) c) i rapporti con i finanziatori della ricerca che produca invenzioni brevettabili, regolati mediante accordi contrattuali redatti tenendo conto di quanto previsto al comma 5». Il medesimo art. 65, quinto comma, prosegue stabilendo che: «I diritti derivanti dall’invenzione realizzata nell’esecuzione di attività di ricerca svolta dai soggetti di cui al comma 1, finanziata, in tutto o in parte, da altro soggetto, sono disciplinati dagli accordi contrattuali tra le parti redatti sulla base delle linee guida, che individuano i principi e i criteri specifici per la regolamentazione dei rapporti contrattuali, adottate con decreto del Ministro delle imprese e del made in Italy, di concerto con il Ministro dell’università e della ricerca, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione. Sono fatti salvi gli accordi stipulati tra le parti prima dell’emanazione delle predette linee guida».
[123] Così E. Arezzo, La nuova disciplina, (nt. 67), 869.
[124] Recita l’art. 6 che «Il contratto tra le parti deve essere stipulato antecedentemente all’avvio dell’attività di collaborazione, in modo da definire ab origine tutti gli aspetti oggetto del rapporto. Si ritiene che in ogni caso i seguenti aspetti debbano essere disciplinati:
a) Indicazione delle parti e dei responsabili, per ciascuna parte, dell’attuazione dell’attività di ricerca;
b) indicazione dell’oggetto e della finalità della collaborazione;
c) Elenco delle definizioni o glossario delle parole usate nel testo dell’accordo;
d) Regime delle conoscenze pregresse, c.d. background (diritto di accesso pre e post);
e) Regime delle conoscenze parallelamente sviluppate dalle parti, c.d. sideground (diritto di accesso pre e post);
f) Regime dei risultati attesi dalla ricerca, c.d. foreground;
g) Determinazione degli aspetti economici (premi, corrispettivi, opzioni, ovvero condivisione a titolo gratuito mediante licenza gratuita etc.);
h) Titolarità dei risultati e disciplina del suo sfruttamento economico;
i) Disciplina della riservatezza;
j) Disciplina delle pubblicazioni (e anche delle ricerche successive);
k) Durata, recesso e risoluzione (incluso il foro competente per le controversie e le norme applicabili, specie per accordi con soggetti stranieri).».
[125] Si pensi alle pubblicazioni e, più in generale, all’utilizzo dei risultati di una ricerca per finalità non commerciali di didattica e ricerca da parte di un ricercatore accademico: se i diritti di sfruttamento economico sui risultati della ricerca sono attribuiti in contitolarità all’istituzione di appartenenza e ad un’impresa, quest’ultima dovrebbe avere diritto a ricevere una comunicazione preventiva dal ricercatore per valutare se la divulgazione, o l’ulteriore utilizzo che questi vorrà fare dei risultati, siano compatibili con l’esclusiva di cui è titolare ovvero richiedano cautele o misure di protezione (differimento, embargo, omissioni o stralci del contenuto).
[126] Così nasce il tanto diffuso fenomeno dell’isomorfismo dei regolamenti e delle prassi negoziali degli atenei italiani, che rappresenta l’effetto della dominanza culturale degli atenei di maggiori dimensioni e meglio attrezzati sul piano organizzativo e delle competenze specialistiche degli UTT, rispetto agli enti di minori dimensioni.
[127] In tal senso G. Conti, M. Granieri, A. Piccaluga, La gestione, (nt. 8), 149 ss.
[128] Si rimanda allo studio condotto da M. Granieri, Di università imprenditoriale, (nt. 14), 385 ss., ricordando che la materia è soggetta alla limitazione generale prevista dalla Legge Gelmini (art. 6, nono comma, l. n. 240/2010) e al successivo decreto attuativo d.lgs. n. 297/1999 oltre che all’autonomia regolamentare dei singoli atenei.
[129] R. Pennisi, L’attività inventiva, (nt. 17), 423-449.
[130] Questa è stata la soluzione adottata con il nuovo regolamento spin off dell’Università degli Studi di Bari all’art. 15, in cui si prevede che ai diritti di proprietà intellettuale spettanti al personale coinvolto nelle attività degli spin off, ed ottenuti come risultato delle ricerche e attività autonomamente svolte dalla società stessa, non si applica la regola di titolarità istituzionale; mentre possono essere concessi alle società spin off sia la titolarità sia le licenze d’uso sui diritti di proprietà industriale o intellettuale già nella titolarità dell’università e risultato della ricerca svolta individualmente o in collaborazione con altri soggetti. I contratti di concessione (della titolarità o dell’uso) devono prevedere sia l’obbligo di utilizzare industrialmente i DPI concessi sia un compenso a favore dell’università come percentuale sul fatturato realizzato.
[131] Ci si riferisce non soltanto all’effetto reputazionale che ne può trarre l’ateneo dalla pubblicità di uno spin off di successo, ma anche alla sua utilità economica, normalmente connessa alla riserva di quote di utili in favore dell’ateneo che ricorre nei diversi regolamenti.
[132] Se ne è occupato M. Granieri, Tra concorrenza e isomorfismo, (nt. 13), 381.
[133] Così M. Granieri, Tra concorrenza e isomorfismo, (nt. 13), 381.
[134] Unica nel panorama dei regolamenti aggiornati è la disposizione contenuta nel regolamento dell’Università di Torino (art. 19), in cui si stabilisce una presunzione di concepimento dell’invenzione in un certo arco temporale al ricorrere di una domanda di brevetto presentata in una determinata finestra temporale, da cui discende l’applicazione dei diversi regolamenti che si sono succeduti nel tempo.
[135] Così A. Ottolia, in Lineamenti, (nt. 33), 458 richiamato anche nella precedente nt. 114.
[136] F. d’Alessandro, “La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinata”. Ovvero: esiste ancora il diritto societario, in Riv. soc., 2003, 34 ss.