Il lavoro valorizza le norme del regolamento MiCA per ricostruire una nozione di finanziarietà diversa da quella accolta nel pensiero tradizionale, e ad un tempo idonea a giustificare l’estraneità dei token disciplinati dal MiCAR alla categoria degli strumenti finanziari disciplinati dal sistema MiFID / Pilot. Il lavoro sostiene che la funzione monetaria o utilitaria dei token MiCAR ne rende irrilevante la negoziabilità su mercati secondari. L’interesse a speculare sull’andamento delle quotazioni su questi mercati non può riflettere aspettative sul valore attuale di (inesistenti) rendimenti di natura finanziaria, e non vale perciò a connotare i token di caratteristiche di finanziarietà. In particolare i token emessi nell’ambito di initial coin offerings possono assumere carattere finanziario solo quando attribuiscono diritti di remunerazione in moneta legale. Al di fuori di questa ipotesi (probabilmente non frequente) l’emissione dei token può causalmente giustificarsi per il perseguimento di una funzione (non finanziaria, ma) monetaria o di utilità. In questa prospettiva il lavoro riconduce la funzione monetaria dei token all’interesse a definire aree valutarie alternative a quella legale, attraverso l’elaborazione di regole di emissione della moneta meglio adeguate alle esigenze di particolari comunità di scambi. La funzione monetaria caratterizza così fra l’altro i bitcoin e i token emessi nell’ambito di operazioni di finanza decentralizzata, ivi comprese le DAO. Corrispondentemente, la negoziazione dei token su un mercato secondario è riconosciuta e legislativamente protetta per l’interesse monetario ad entrare e uscire da un’area valutaria e a partecipare ai relativi scambi.
The article argues that MiCAR rules force a new approach to the concept of financial instruments, explaining why MiCAR tokens stay outside the scope of the MiFID / Pilot system. The article suggests that the monetary or utility function of MiCAR tokens rules out any financial aspect, and that the tokens’ tradability on secondary markets is irrelevant from this perspective. The interest in capital gains on secondary markets has no financial significance in the absence of expectations regarding the value of (non-existent) legal tender cash flows. Tokens issued in the context of initial coin offerings may assume a financial character only to the extent they are rewarded in legal tender. Apart from this (probably infrequent) case, tokens find legal protection as they perform a monetary function or provide access to goods or services. According to this view, the article suggests that tokens develop rules for issuing and assigning money to create alternative currency areas that are more suitable for the financing and exchange needs of a trading community. A monetary function is namely typical of bitcoins and tokens issued in the context of decentralized finance, including DAOs. The trading of tokens on a secondary market is therefore legally protected due to the interest in entering and exiting a digital currency area and the related transactions.
1. Le molteplici tipologie di criptoattività e la necessità di ripensarne la natura finanziaria alla luce del MiCAR. - 2. Le caratteristiche fondamentali degli ART e della loro negoziazione sui mercati secondari. - 3. Le apparenti caratteristiche finanziarie degli ART e il problema dell’inapplicabilità della disciplina degli strumenti finanziari. - 4. Gli ART perseguono una funzione monetaria e definiscono una corrispondente area valutaria. - 5. Analogie e differenze fra le caratteristiche dell’area valutaria definita dagli ART e rispettivamente dalla moneta legale. - 6. Primi corollari: la funzione monetaria degli ART ne esclude la funzione finanziaria. - 7. I token diversi e il loro tradizionale accostamento agli strumenti finanziari di raccolta di capitale. Prima critica: il capitale raccolto non può offrire un rendimento finanziario rappresentato dall’attribuzione di utilità. - 8. Seconda critica: il rendimento finanziario non può essere rappresentato dall’attribuzione di nuovi token. - 9. Terza critica: il rendimento finanziario non può essere rappresentato dai corrispettivi ricavabili dalla negoziazione del token sul mercato secondario. - 10. I token diversi possono ben svolgere una funzione monetaria e definire attraverso le loro regole di emissione una corrispondente area valutaria. - 11. La natura finanziaria può essere riconosciuta limitatamente ai token: A) remunerati in moneta legale; B) che attribuiscono un diritto di assegnazione di strumenti finanziari remunerati in moneta legale; C) che attribuiscono un diritto di assegnazione di token convertibili in moneta legale (per chi ritenga questa tipologia di token compatibile con la disciplina di ART e EMT). - 12. Il (falso) problema dei token “ibridi”. - 13. La possibile natura finanziaria di token “derivati” (anche da sottostanti token monetari o di utilità) e la problematica individuazione di questa categoria, che giustifica l’elaborazione di orientamenti ESMA. - NOTE
La tecnologia a registro distribuito (Distributed Ledger Technology e per brevità DLT) è presa in considerazione dal legislatore per la sua capacità di «rappresentare digitalmente» un «valore o un diritto che può essere trasferito e memorizzato elettronicamente»: come si desume dalla correlata definizione di criptoattività dell’art. 3.1, n. 5, reg. 2023/114/UE (Markets in Crypto-Assets Regulation e per brevità MiCAR). I valori e diritti così digitalmente rappresentati si distinguono in differenti tipologie, disciplinate da norme corrispondentemente diverse. Ai fini del presente lavoro assumono in particolare rilievo: a) le norme sulla disciplina degli strumenti finanziari contenute nella direttiva 2014/65/UE (Markets in Financial Instruments Directive e per brevità MiFID), recentemente novellata per ricomprendere anche gli “strumenti finanziari emessi mediante tecnologia a registro distribuito” (art. 4.1, n. 15, MiFID); b) le norme del reg. 2022/858/UE (regime pilota per le infrastrutture di mercato su tecnologia a registro distribuito, per brevità Pilot) che entro certi limiti consentono la negoziazione degli strumenti finanziari mediante tecnologie a registro distribuito, riadattando a questo contesto la disciplina delle relative infrastrutture di mercato; c) le norme MiCAR che disciplinano l’offerta e la negoziazione di rappresentazioni digitali di valore (criptoattività) a loro volta ulteriormente classificate nelle tipologie dei token collegati ad attività (asset referenced tokens e per brevità ART, art. 3.1, n. 6, MiCAR), dei token di moneta elettronica (electronic money tokens e per brevità EMT, art. 3.1, n. 7, MiCAR) e delle criptoattività diverse dalle precedenti (artt. 4 ss. MiCAR). Secondo la visione del MiCAR le criptoattività diverse ricomprendono poi i token di utilità (utility token, art. 3,1, n. 8, MiCAR) ma non si esauriscono in essi (gli artt. 4 ss. MiCAR non sono specificamente riferiti soltanto ai token di utilità), rendendo ulteriormente problematica la ricostruzione della logica sottostante a questa classificazione.
In via generale, è comunque subito evidente la volontà del legislatore di attribuire giuridicamente rilievo alla DLT non in quanto tale, ma per la sua capacità di rappresentare diritti e interessi diversificati, assoggettati a discipline a loro volta differenti. La presenza di una disciplina articolata “per interessi”, e non uniformata “per tecnologia” esprime il c.d. principio di “neutralità tecnologica”, a cui il considerando n. 9 MiCAR fa riferimento attraverso l’espressione «stessa attività, stessi rischi, stesse norme» (a dispetto della diversità di piattaforma tecnologica); ed a cui naturalmente corrisponde il principio «diversa attività, diversi rischi, diverse norme» (a dispetto dell’uniformità delle tecniche di funzionamento della piattaforma).
Il significato del principio di neutralità tecnologica si presenta tuttavia per diverse ragioni problematico quando si tratta di definire il campo di applicazione della disciplina degli strumenti finanziari. Già questo principio risulta in realtà temperato dal regolamento Pilot, che entro certi limiti consente deroghe alla disciplina MiFID quando gli strumenti finanziari sono rappresentati attraverso la tecnologia a registro distribuito. In via generale le eccezioni al principio di neutralità tecnologica possono qui comunque trovare una ragionevole spiegazione nell’interesse allo sviluppo di infrastrutture di mercato DLT, che potrebbe essere ostacolato da un’applicazione “acritica” della disciplina MiFID [1]. Nel presente lavoro intendo tuttavia approfondire la questione ulteriore, a mio avviso sistematicamente più importante, della delimitazione del campo di applicazione delle norme MiFID / Pilot e rispettivamente delle norme MiCAR.
Qui il principio di neutralità tecnologica dovrebbe esprimersi verificando la tipologia di “valore o diritto” rappresentato digitalmente attraverso la DLT e la sua riconducibilità alla categoria dei valori o diritti incorporati negli strumenti finanziari. La rappresentazione digitale di valori o diritti corrispondenti a quelli incorporati in strumenti finanziari dovrebbe essere sottratta alla disciplina MiCAR, per essere fatta rientrare in quella MiFID / Pilot. Tanto apparentemente giustifica la scelta del MiCAR (art. 2.4, lett. a) di escludere dal suo campo di applicazione gli “strumenti finanziari”.
La nozione di strumento finanziario è tuttavia sempre stata “sfuggente” [2]. Il MiCAR non è espressamente intervenuto su questa nozione, che presenta confini incerti soprattutto nei rapporti con la categoria dei token diversi. Quest’ultima tipologia di token infatti da un lato, in quanto oggetto della disciplina MiCAR, è presupposta dal legislatore estranea alla categoria degli strumenti finanziari; ma d’altro canto non trova (al di là della specifica e ricompresa nozione di utility token) una definizione generale, idonea a circoscrivere le fattispecie rientranti nel sistema MiFID / Pilot.
La volontà del MiCAR di non intervenire sulla definizione di strumento finanziario, e l’espresso rinvio sul punto alla nozione contenuta nella direttiva MiFID (art. 3.1, n. 49, MiCAR), sono stati allora valorizzati per sostenere che quest’ultima nozione sarebbe impregiudicata dal MiCAR, cui andrebbe quindi riconosciuto uno spazio di applicazione residuale [3]. A me sembra invece che nell’attuale contesto la nozione di strumento finanziario MiFID vada interpretata senza contraddire le indicazioni sistematiche del MiCAR e le scelte politiche che ne sono alla base. Nel presente lavoro intendo allora proporre una nozione di finanziarietà dei token coerente a queste indicazioni e ad un tempo rispettosa delle scelte del legislatore MiFID: per sostenere fra l’altro che la finanziarietà del sistema MiFID/Pilot va contenuta entro confini molto più ristretti di quanto ritiene il pensiero dominante.
Le argomentazioni che intendo svolgere possono utilmente partire dalla disciplina degli ART. Gli ART sono una tipologia di criptoattività che «mira a mantenere un valore stabile facendo riferimento a un altro valore o diritto o a una combinazione dei due, comprese una o più valute ufficiali» (art. 3.1, n. 6, MiCAR). L’interesse a questa stabilità è perseguito dal legislatore attraverso una disciplina estremamente complessa, che tuttavia ai fini del presente lavoro può essere schematizzata ricostruendo alcuni princìpi di fondo. Un primo principio è rappresentato dalla previsione di un diritto al rimborso vantato dal titolare nei confronti dell’emittente dell’ART (art. 39 MiCAR). Il rimborso deve avvenire in fondi diversi dalla moneta elettronica, ed è quantificato in relazione al «valore di mercato delle attività collegate» (id est le attività rispetto a cui l’ART mira a mantenere un valore stabile): che costituisce quindi l’indice di riferimento dell’ART.
Un secondo e correlato principio è costituito dall’obbligo dell’emittente di formare una riserva di attività almeno pari al valore delle possibili richieste di rimborso dei titolari del token. La riserva forma un patrimonio separato, e in caso di rischi di insolvenza (o in generale di inadempimento) può essere liquidata secondo un piano di rimborso previamente elaborato dall’emittente «per assicurare che i possessori di token collegati ad attività siano pagati tempestivamente con i proventi della vendita delle restanti attività di riserva» (art. 47.2, secondo comma, MiCAR). È comunque evidente che, anche al di fuori delle ipotesi patologiche di attivazione di un piano di rimborso, la riserva di attività è destinata ad essere fisiologicamente movimentata per ottenere la liquidità necessaria a soddisfare le richieste di conversione dei token in moneta legale; e ad un tempo per investire la moneta legale raccolta dai sottoscrittori dei token [4].
In questo contesto la corretta formazione e movimentazione della riserva rappresenta uno strumento di garanzia della stabilità del valore dell’ART. Certamente gli ART costituiscono criptoattività ammissibili a negoziazioni regolamentate (dagli artt. 59 ss. e specificamente dall’art. 76 MiCAR) cui fa espresso riferimento l’art. 16 MiCAR [5]. Queste negoziazioni fisiologicamente determinano la formazione di prezzi su mercati secondari. Si tratta tuttavia di prezzi che non dovrebbero distaccarsi eccessivamente da quello di parità teorica rispetto all’indice sottostante. Oscillazioni al ribasso del prezzo di mercato del token rispetto all’indice dovrebbero infatti essere contenute dal diritto dei sottoscrittori di chiedere direttamente all’emittente il rimborso del token al valore (superiore) dell’indice [6]. Ribassi consistenti rispetto a questo valore sul mercato secondario paiono dunque concepibili in situazioni patologiche di rischio di insolvenza, a sua volta indicative di situazioni di incapienza (e scorretta formazione) della riserva.
Il MiCAR non è per la verità altrettanto esplicito nel prevedere obblighi dell’emittente strumentali a contenere eccessivi rialzi di prezzo sul mercato secondario. Mi pare che un obbligo in tal senso possa tuttavia essere ragionevolmente desunto dal sistema. Un ART scambiato sul mercato secondario per valori significativamente superiori a quelli dell’indice non sarebbe per definizione di ipotesi un ART dotato di carattere stabile. Di qui un obbligo dell’emittente (ragionevolmente da esplicitare nel white paper allegato alla domanda di autorizzazione all’offerta o all’ammissione alla negoziazione degli ART) di prevenire eccessivi rialzi di quotazione: e di emettere a tal fine nuovi token per un prezzo di sottoscrizione corrispondente al valore dell’indice di riferimento. Una significativa conferma di questa conclusione si ritrova del resto all’art. 34.7 MiCAR, che subordina ad un’autorizzazione dell’autorità competente la decisione dell’emittente di «interrompere la prestazione dei suoi servizi e attività, anche con l’interruzione dell’emissione di tale token collegato ad attività». L’interruzione dell’emissione parrebbe quindi assoggettata ad autorizzazione proprio in quanto rischia di determinare una restrizione all’offerta di token ed un conseguente aumento del loro valore sul mercato secondario. Questa interruzione dovrebbe quindi essere subordinata dall’autorità competente alla previsione di interventi dell’emittente diretti ad evitare eccessivi rialzi di prezzo dell’ART rispetto al valore dell’indice (fra i quali è tipicamente ipotizzabile l’impegno dell’emittente a bloccare le negoziazioni sul mercato secondario e a rimborsare il token al valore dell’indice di riferimento).
Nel contesto così ricostruito oscillazioni di valore rispetto all’indice di riferimento non sono escluse e rappresentano anzi la ragion d’essere della formazione di un mercato secondario degli ART, che il MiCAR espressamente ammette. Già si è visto che queste oscillazioni (al ribasso) potrebbero trovare una razionale giustificazione in situazioni patologiche di “timore” sulla capienza della riserva. Al di fuori di simili situazioni, oscillazioni di valore (anche al rialzo) potrebbero derivare dalla necessità di acquisire o liquidare l’ART in tempi inferiori a quelli delle operazioni di rimborso o emissione, ad esempio per potere partecipare a piattaforme di scambio che rendano necessaria la disponibilità “in tempo reale” del token. Si tratta comunque di situazioni che dovrebbero determinare variazioni di prezzo sostanzialmente limitate (anche sul piano temporale, se non altro per effetto della tempestiva apertura di procedure di insolvenza) e perciò compatibili con le caratteristiche di “stabilità” degli ART.
Le caratteristiche così sommariamente descritte della disciplina degli ART sembrerebbero a prima vista univocamente ricondurre la criptoattività alla categoria degli strumenti finanziari. Il profilo di finanziarietà più evidente è dato dall’assunzione di un rischio di rimborso correlato al valore dell’indice. Già questa caratteristica parrebbe consentire di inquadrare l’ART nella categoria dei “valori mobiliari” che comportano un «regolamento a pronti determinato con riferimento a valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, merci o altri indici o misure» (art. 4.1, n. 44, lett. c, MiFID). Il riferimento a «un altro valore o diritto» contenuto nella definizione degli ART sembra coincidere con quello agli «indici e misure» della MiFID: e perciò ad un “valore sottostante” che costituisce il minimo comune denominatore degli strumenti finanziari derivati [7]. L’ulteriore ampliamento della categoria degli strumenti finanziari operato dall’elencazione dei contratti derivati dell’allegato I, sez. C, nn. 4-10, MiFID parrebbe rafforzare questa conclusione, peraltro forse ad abundantiam [8].
Sono inoltre presenti negli ART ulteriori caratteristiche che la dottrina ha valorizzato nella ricostruzione degli indici di finanziarietà: quali l’esistenza di una relazione intersoggettiva (costituita nella specie dall’obbligo di rimborso dell’emittente) e non di mera appartenenza del token (appartenenza che secondo alcuni caratterizzerebbe i token di moneta rispetto a quelli finanziari) [9]; così come fisiologicamente contemplata è la negoziabilità del token in apposite sedi [10].
Ad un tempo univoca è tuttavia la volontà del legislatore di assoggettare sempre e comunque gli ART alla disciplina MiCAR, reciprocamente sottraendoli alla categoria degli strumenti finanziari. Questa volontà deve dunque trovare una giustificazione sistematica, da ricercare a mio avviso nella funzione monetaria degli ART, che li attrae nella categoria degli «strumenti di pagamento» [11], e reciprocamente li esclude dalla categoria dei «valori mobiliari», secondo quanto espressamente prevede l’art. 4.1, n. 44, MiFID.
La funzione monetaria degli ART va ora ulteriormente approfondita. In via generale, da un punto di vista economico sociale, assolvono una funzione monetaria i titoli rappresentativi di unità di misura di valore [12] accettati come mezzo di scambio sulla base della fiducia riposta in una corrispondente accettazione da parte dei membri di una comunità [13]. L’accettazione su base fiduciaria presupposta dalla funzione della moneta deve in particolare prescindere dall’intrinseco valore d’uso (di consumo o produttivo) del supporto (metallico, cartaceo, contabile, informatico) che la incorpora [14].
La comunità disposta ad accettare una determinata moneta può essere, in termini più moderni e aderenti al linguaggio degli economisti, qualificata come “area monetaria” o “area valutaria” [15]. Il successo economico di un’area monetaria dipende essenzialmente dalla sua capacità di realizzare effetti di rete: e perciò di attrarre una comunità sufficientemente ampia da potere soddisfare attraverso l’uso di una moneta unica le proprie esigenze di scambio e finanziamento. Questa attrattività dipende a sua volta dalla capacità dell’area valutaria di dare una soddisfacente soluzione a due fondamentali problemi: e precisamente da un lato il problema di determinare la quantità di moneta da immettere in circolazione; dall’altro il problema di decidere a chi destinare la moneta al momento della sua emissione. Nei momenti (logicamente e temporalmente) successivi a questa emissione, il problema della distribuzione della moneta può infatti essere risolto dal libero gioco degli scambi sul mercato. La determinazione dei primi destinatari di titoli rappresentativi di valore monetario richiede invece una scelta “politica”, che la comunità deve operare in relazione ai propri interessi di scambio e finanziamento.
La funzione monetaria assolta sul piano socioeconomico da titoli rappresentativi di unità di misura di valore assume rilievo giuridico se ed in quanto giudicata meritevole di protezione e perciò riconosciuta dal legislatore [16]. Alla luce delle precedenti considerazioni, mi sembra che questo giudizio dipenda essenzialmente dai criteri elaborati dall’area valutaria per determinare i destinatari e la quantità di moneta da emettere. Il legislatore riconosce perciò giuridicamente come moneta quella emessa secondo criteri che gli paiono soddisfare gli interessi al funzionamento di un ordinato sistema di scambi e al finanziamento della produzione e della crescita economica.
In questa prospettiva possono essere lette alcune scelte dell’ordinamento sufficientemente chiare. È anzitutto evidente che gli ordinamenti statali si propongono (normalmente) di definire aree valutarie “legali” in funzione del perseguimento dei propri obiettivi di politica economica [17]: e in base a questi obiettivi stabiliscono le regole di emissione della moneta così qualificata come “moneta legale”. Nell’attuale momento storico, per quanto riguarda l’Italia, l’area monetaria legale è definita in funzione di scelte di politica economica coordinate nella UE (art. 119 T.F.U.E.): e in particolare delle scelte di politica monetaria espresse dal sistema europeo di banche centrali (SEBC), eseguite nell’ambito dell’eurosistema attraverso gli indirizzi e le decisioni della BCE (art. 12 statuto SEBC) [18]. Gli indirizzi e le decisioni della BCE si esprimono fra l’altro attraverso la determinazione degli obiettivi monetari, dei tassi di interesse, dell’offerta di riserve e il controllo dell’emissione «delle uniche banconote aventi corso legale nell’Unione» (art. 128.1 T.F.U.E. e art. 16 St. SEBC) [19]. La moneta emessa in funzione dell’attuazione delle decisioni di politica economica della BCE si qualifica perciò come moneta “legale” [20].
Ad un tempo d’altro canto gli ordinamenti non hanno mai negato giuridica rilevanza alla formazione di aree monetarie diverse da quella legalmente definita in funzione dei propri obiettivi di politica economica nazionale [21]. Il riconoscimento della validità di obbligazioni pecuniarie assunte in moneta non legale è univocamente desumibile dagli artt. 1278-1279 c.c. e 126-octies t.u.b. Le norme appaiono del resto applicazione di un più generale principio di diritto internazionale privato che lascia le parti libere di obbligarsi in una valuta diversa da quella del paese (o dei paesi) [22] della lex contractus [23].
La logica sottostante al riconoscimento di aree valutarie diverse da quella legale è peraltro discussa. Una prima ricostruzione la correla al riconoscimento della sovranità degli stati esteri. Secondo questa ipotesi di lettura il riconoscimento di monete non legali dovrebbe intendersi limitato alle monete straniere [24]. Una lettura alternativa propone invece di estendere questo riconoscimento ad altri mezzi di scambio, non correlati al perseguimento di obiettivi statali di politica economica [25], e perciò ora tipicamente alle criptovalute [26].
In questo contesto il legislatore del MiCAR (artt. 22-23) riconosce espressamente la funzione tipicamente monetaria di “mezzo di scambio” dei token collegati ad attività [27]. Lo scambio non può in particolare essere ricondotto al contratto di permuta, secondo un ragionamento che definisca metafisicamente l’ART (o qualsiasi altra forma di criptovaluta) come “bene immateriale” [28]. L’ART in quanto tale, così come qualsiasi altra criptovaluta, non ha alcun valore d’uso intrinseco: ben presente invece nei cc.dd. beni immateriali [29]. Lo scambio di prodotti o servizi con criptovalute non è dunque scambio di valori d’uso, ma è scambio di prodotti o servizi con una rappresentazione di valore ideale e puramente numerica, accettata in base alla fiducia in una corrispondente generale accettazione all’interno di una comunità. In questa prospettiva lo scambio con criptovalute non presenta alcun elemento di differenziazione rispetto a quello tipicamente realizzato con somme di denaro [30]. Il contratto di permuta persegue all’opposto una funzione di scambio di valori d’uso, e perderebbe completamente la sua autonomia causale se venisse esteso a ricomprendere controprestazioni prive di questo valore [31].
Alla luce delle precedenti considerazioni il riconoscimento della funzione monetaria dell’ART equivale al riconoscimento dell’area valutaria che essi definiscono attraverso le relative regole di emissione [32]. Si tratta di un riconoscimento importante, perché ha ad oggetto un’emissione monetaria che l’ordinamento protegge pur in assenza di obiettivi di politica economica perseguiti da poteri sovrani. La protezione della funzione monetaria degli ART non può dunque esprimere il riconoscimento di sovranità nazionali o straniere, e deve trovare una giustificazione diversa, su cui è opportuno interrogarsi.
L’emissione di ART determina la nascita di un’area monetaria definita dall’iniziativa privata, in risposta alla “subottimalità” delle aree monetarie legali rispetto agli interessi di scambio dei membri di una comunità d’affari. In particolare mi sembra che l’interesse degli stati a definire aree valutarie “ottimali” per i propri obiettivi di politica economica possa non coincidere con esigenze di scambio private, e che in queste ipotesi i privati ben possano avere un diverso interesse a formare aree valutarie alternative funzionali a queste loro esigenze [33].
L’esempio più semplice di questa situazione ricorre quando i membri di una comunità di scambio risiedono in diversi stati e perciò operano in diverse aree valutarie legali. Qui fisiologicamente è immaginabile che ciascun membro della comunità sia interessato a scambiare nella valuta del proprio paese di appartenenza, peraltro non coincidente con quello di altri membri della comunità. L’inesistenza di un’area valutaria legale ottimale rispetto agli interessi di tutti i membri della comunità può dunque spingere alla formazione di un’area valutaria privata, che contemperi le diverse esigenze dei partecipanti: ad esempio, e tipicamente, attraverso la definizione di una valuta “paniere” dei valori delle diverse monete statali. Proprio questa ipotesi è infatti contemplata dalla disciplina degli ART, che espressamente menziona la possibilità di mantenere il valore del token stabile rispetto a «più valute ufficiali» [34]. Così pure è pensabile che i membri della comunità siano interessati ad investire in determinati settori finanziari o merceologici, e perciò ad ancorare le loro transazioni all’andamento di questi valori: e anche questo interesse può essere perseguito attraverso la definizione di un ART stabile rispetto a indici comunque definiti.
La subottimalità di un’area valutaria può derivare tuttavia anche da ragioni più sofisticate, e ad esempio dall’interesse a scambiare monete su piattaforme DLT e a regolarvi i relativi pagamenti. Questo interesse può ricorrere anche quando il valore del token sia stabilizzato rispetto ad una sola valuta ufficiale, ed assuma le caratteristiche di EMT [35]: qui in particolare la criptoattività può essere utile per disintermediare la circolazione della moneta rispetto ai canali bancari; nonché per regolare in tempo reale trasferimenti di denaro, eventualmente in funzione della conclusione di smart contracts strutturati per essere conclusi ed eseguiti istantaneamente [36].
Il riconoscimento della funzione monetaria degli ART assume d’altro canto un parallelo riconoscimento dei criteri di emissione definiti dalla relativa area valutaria. Qui si rivela anzi istruttivo il confronto con le regole di emissione della moneta legale. I sistemi monetari moderni, e in particolare il sistema dell’euro, rinunciano a predeterminare quantitativamente la moneta in circolazione: e ne filtrano l’accesso attraverso la politica del tasso di interesse della BCE, che si trasmette al sistema economico influenzando il tasso di interesse praticato dalle banche commerciali a famiglie e imprese [37]. Sistemi così strutturati si caratterizzano quindi per un’offerta di moneta che soddisfa la domanda di credito espressa da famiglie e imprese in corrispondenza di un determinato tasso di interesse (c.d. carattere endogeno della moneta) [38].
Diversamente da quanto avviene nel caso di moneta legale, non sembra che l’emissione degli ART possa trovare la propria causa giustificativa in operazioni di concessione di credito. Contrastano con questa possibilità la previsione di un obbligo di rimborso e di accantonamento di corrispondenti valori a riserva. Un’emissione del token a credito sarebbe dunque possibile soltanto a fronte di un previo accantonamento a riserva delle risorse destinate a fare fronte agli obblighi di rimborso. Il MiCAR (art. 36.8, lett. d) impone tuttavia in via generale agli emittenti di descrivere la procedura secondo cui «emissione e rimborso comporteranno un corrispondente aumento e decremento della riserva di attività»; mentre non contempla alcuna possibilità di invertire temporalmente questi due momenti e di anticipare la formazione della riserva rispetto all’emissione del token. Questo dato letterale riflette del resto un’esigenza sistematica di tutela degli interessi dei creditori. Gli asset destinati a riserva formano infatti un patrimonio separato a garanzia dei diritti di rimborso dei titolari dei token. Il legislatore assume dunque che i valori accantonati a riserva siano stati versati dai sottoscrittori dei token; e reciprocamente vieta la formazione della riserva attraverso la separazione di asset acquisiti indipendentemente dall’emissione del token, che sono e devono continuare ad essere destinati a soddisfare (anche) le pretese dei creditori estranei al ceto dei titolari della criptoattività [39]. La formazione della riserva si colloca perciò in un momento temporale successivo a quello della ricezione dei fondi; si configura quale obbligo di destinazione dei fondi ricevuti; esclude qualsiasi possibilità di emissione indipendente da questa previa ricezione [40].
Gli ART ugualmente condividono con la moneta legale una significativa caratteristica, rappresentata dalla mancata predeterminazione quantitativa delle dimensioni di emissione [41]. L’obbligo assunto dall’emittente di mantenere la stabilità dell’ART implica infatti un corrispondente obbligo di adeguarne l’offerta alle dimensioni degli scambi e perciò all’interesse della comunità a partecipare all’area valutaria. Una diminuzione di questo interesse determina in particolare richieste di rimborso del token, che l’emittente è obbligato a soddisfare secondo il valore dell’indice. Il rispetto di quest’obbligo dovrebbe così evitare eccessive vendite sul mercato secondario, mantenere stabile il valore dell’ART rispetto all’indice, e ad un tempo ridurre il numero di token in circolazione, in corrispondenza del diminuito interesse alla partecipazione alla relativa area valutaria. All’opposto già si è visto che l’interesse a partecipare agli scambi potrebbe aumentare e determinare una “scarsità” della criptovaluta, con conseguenti eccessivi rialzi della sua quotazione sul mercato secondario: e che l’emittente pare allora ragionevolmente obbligato a mantenere la stabilità del token procedendo a nuove emissioni al valore dell’indice [42], così ancora una volta adeguandone l’offerta alla domanda espressa dall’area valutaria. In un sistema così congegnato, moneta legale (almeno nel suo attuale assetto) e ART condividono la natura endogena di un’offerta che deve costantemente essere adeguata alla crescita (o alla diminuzione) delle esigenze di finanziamento e scambio di un’area valutaria. Diverso rimane il criterio di determinazione dei soggetti cui attribuire la moneta in sede di emissione: mentre la moneta legale è emessa a favore di chi ne assume il rischio di restituzione maggiorata di un tasso di interesse, definito secondo gli obiettivi pubblici di politica economica della BCE; gli ART vengono emessi a favore di chi assume il rischio di andamento di un indice economico sottostante, definito secondo obiettivi privati di creazione di un’area valutaria.
Le precedenti considerazioni consentono sotto diversi profili di trarre ora alcuni primi corollari utili per la ricostruzione della categoria dei cc.dd. token diversi. Sotto un primo profilo, le norme su emissione e rimborso degli ART possono ben essere lette come norme che impongono la formazione di un’area valutaria caratterizzata da un’offerta di moneta “endogena”: in quanto adeguata alle dimensioni della relativa domanda. Questa domanda a sua volta riflette l’interesse alla partecipazione agli scambi sull’area valutaria: interesse suscettibile di esprimersi non solo al momento della richiesta di sottoscrizione o rimborso dei token, ma più in generale anche in sede di contrattazione sul mercato secondario. Le negoziazioni sul mercato secondario, infatti, se da un lato non determinano ampliamenti o contrazioni dell’area valutaria, dall’altro comportano una modificazione dei soggetti che vi partecipano, e dunque riflettono pur sempre l’interesse ad entrare e rispettivamente uscire da quest’area.
In questo contesto, il MiCAR esclude gli ART dalla categoria degli strumenti finanziari: e con ciò dimostra di volere prendere in considerazione la funzione e gli interessi puramente monetari, non finanziari, sottostanti alle operazioni di emissione, rimborso e negoziazione. Certo è ben possibile, e forse addirittura fisiologico, che nell’intenzione soggettiva di uno od altro contraente (o di entrambi) queste operazioni avvengano per finalità essenzialmente speculative collegate all’andamento dell’indice sottostante, e non per finalità di utilizzazione dell’ART come moneta di scambio in un’area valutaria. Indubbiamente di fatto in questo caso l’interesse soggettivamente perseguito può assumere caratteri di finanziarietà sostanzialmente corrispondenti a quelli propri della negoziazione di strumenti derivati. La volontà del legislatore di escludere il carattere finanziario degli ART riflette tuttavia l’irrilevanza di questo interesse sul piano giuridico. Così come il trading su valute legali di differenti paesi non ha ad oggetto strumenti finanziari, quand’anche sottenda valutazioni speculative sull’andamento dei corsi, analogamente estranee alla disciplina degli strumenti finanziari sono le operazioni sugli ART che pure sottendano valutazioni speculative sull’andamento del relativo indice [43].
Sotto un ulteriore profilo, la definizione degli ART fa giustizia della “leggenda metropolitana” che vorrebbe desumere il concetto di moneta dalla presenza di una funzione “pregiuridica” di strumento di conservazione del valore, dotato perciò di caratteristiche di stabilità [44]. Il concetto di stabilità è già intrinsecamente “fragile”: una moneta non è stabile o instabile in assoluto, lo è eventualmente rispetto ad altri valori che possono essere molto diversi e condurre a differenti conclusioni in ordine alla presenza di una funzione monetaria. Così, ad esempio, la stabilità potrebbe essere “misurata” in termini di mantenimento di potere d’acquisto, a sua volta calcolabile in relazione a “panieri” di beni o servizi in certa misura comunque arbitrari; o ancora potrebbe essere fatta dipendere dal rapporto di cambio con monete straniere [45]. I sistemi monetari d’altro canto fisiologicamente accettano il fenomeno dell’inflazione [46]: così che l’accertamento della stabilità dovrebbe risolversi in una valutazione, priva di riferimenti normativi, sul livello di inflazione accettabile [47]. L’inconsistenza (almeno giuridica) dell’idea della moneta quale strumento di conservazione del valore è allora ben evidenziata dal fenomeno degli ART: che certo si propongono di mantenere un valore stabile rispetto a indici di riferimento; ma ben possono essere costruiti su “valori o diritti” estremamente instabili rispetto alla moneta legale, fra i quali non vi è ragione di escludere il valore di altre criptovalute assoggettate a forti oscillazioni di mercato, quali i bitcoin [48]. Il mancato riferimento legislativo alla stabilità del “valore o diritto” sottostante agli ART, e ad un tempo il riconoscimento generale della loro funzione monetaria, consentono di ricostruire questa funzione del tutto indipendentemente dalla conservazione di valori costanti rispetto alla moneta legale.
lla luce delle precedenti considerazioni, occorre ora affrontare il problema della finanziarietà dei token diversi (dagli ART ed EMT). È innegabile che le giustificazioni addotte per argomentare la causa monetaria degli ART non possono essere trasposte de plano ai token diversi. Qui già si è visto che le somme raccolte attraverso l’emissione di ART devono essere necessariamente destinate a riserva per tutelare le aspettative di rimborso dei relativi titolari. Gli ART non possono quindi costituire tecniche di raccolta di capitali, o più precisamente non consentono di raccogliere capitali destinati a finanziare i progetti imprenditoriali dell’emittente [49].
All’opposto, l’emissione di token diversi è fisiologicamente funzionale a raccogliere capitali da investire in un progetto imprenditoriale e a sollecitare il risparmio degli investitori: tipicamente per finanziare la realizzazione della piattaforma su cui la criptoattività è destinata a circolare. Di qui la diffusa utilizzazione dell’espressione initial coin offerings, e del corrispondente acronimo ICO, per descrivere il fenomeno sulla falsariga delle tecniche di raccolta di capitali attraverso initial public offerings (IPO) [50].
In realtà l’istituzione di questo parallelismo rischia di disorientare già sul piano terminologico. Parlare di “coin offerings” significa letteralmente fare riferimento a un fenomeno monetario, non finanziario; mentre all’opposto il parallelismo con le IPO sembra rinviare al fenomeno tipicamente finanziario dell’appello al pubblico risparmio. Questa ambiguità sembra in effetti voluta dalle impostazioni tradizionali, per le quali le ICO non potrebbero essere ricostruite unitariamente, ma presenterebbero caratteristiche talvolta monetarie, talvolta finanziarie, talvolta ancora diverse, con possibili contaminazioni e sovrapposizioni reciproche. Di qui la frequente categorizzazione dei token in security (o investment) tokens, caratterizzati da una causa finanziaria; currency tokens, caratterizzati da una causa monetaria; utility tokens, caratterizzati da una causa meno sicuramente riconducibile a quella finanziaria, ma comunque diversa da quella monetaria [51]. Di qui inoltre la possibilità che queste diverse cause possano talora sovrapporsi, dando luogo alla figura dei cc.dd. token “ibridi” [52].
Le basi concettuali di questa categorizzazione appaiono tuttavia, a ben vedere, discutibili. In via generale, anzitutto non mi sembra che l’emissione di token nell’ambito di operazioni di raccolta di capitale sia di per sé sufficiente (almeno secondo la attuale disciplina europea armonizzata) ad attrarre la criptoattività nel campo degli strumenti finanziari, indipendentemente da una valutazione delle prospettive di rendimento del capitale così investito [53]. Token rappresentativi di versamenti di capitali a fondo perduto, tipicamente per scopi puramente altruistici (che ad esempio attestino la partecipazione a iniziative di rilievo sociale) non mi paiono qualificabili come strumenti finanziari [54].
La finanziarietà presuppone dunque un’attesa di rendimento del capitale investito: ma nel mondo dei token le caratteristiche di questo rendimento appaiono “sfuggenti”. Al riguardo, non convince una ricostruzione che valorizzi i diritti incorporati nel token ad ottenere «l’accesso a un bene o a un servizio prestato dal suo emittente», e consideri questi diritti (e il loro eventuale incremento di valore) come una remunerazione dell’investimento, sia pur in forma non “monetaria” [55]. Questa spiegazione anzitutto parrebbe valere soltanto per i token di utilità, che nel MiCAR non sembrano esaustivi della categoria dei token diversi: e lascerebbe dunque aperto il problema relativo alla natura del rendimento finanziario dei token che non incorporino diritti di accesso a prodotti o servizi [56]. La possibilità di considerare questi diritti quali forme di remunerazione di tutti i token diversi potrebbe in effetti essere argomentata aderendo alle tesi secondo cui una funzione utilitaria caratterizza strutturalmente qualsiasi tipo di token: e consiste nella utilizzabilità della criptoattività negli scambi all’interno della piattaforma finanziata dall’emissione. In questa prospettiva il successo dell’economia di rete realizzata dagli scambi nella piattaforma incrementerebbe il valore del token, e determinerebbe un corrispondente rendimento finanziario per i sottoscrittori; così come il successo dell’attività sociale aumenta il valore delle azioni e determina un corrispondente rendimento finanziario degli azionisti [57].
Questa opinione si fonda su alcuni presupposti concettuali largamente condivisibili, su cui sarà necessario ritornare [58]. Certo comunque essa, nell’attuale contesto legislativo, condurrebbe non a dimostrare, ma al contrario a confutare la funzione finanziaria di tutti i token diversi. L’impianto sistematico del MiCAR esprime infatti chiaramente la volontà di attrarre nel suo campo di applicazione i token di utilità, e ad un tempo reciprocamente di escluderli dalla categoria degli strumenti finanziari. Dire allora che inevitabilmente qualsiasi token assume una funzione utilitaria, riconducibile alla possibilità di partecipazione a una piattaforma di scambio, significa dire che comunque questa funzione esclude la possibilità di attrarre i token diversi nella categoria degli strumenti finanziari: e perciò esclude ogni parallelismo con le azioni di società. In ultima analisi quindi ogni tentativo di argomentare la finanziarietà del token adducendo l’esistenza di un rendimento rappresentato dalla sua (comunque intesa) funzione utilitaria si scontra con la chiara volontà del MiCAR di disciplinare in via generale questa funzione di «fornire l’accesso a un bene o a un servizio prestato dal suo emittente» (art. 3.1, n. 9, MiCAR); e reciprocamente di escluderne la natura finanziaria rilevante per l’applicazione della disciplina MiFID/Pilot.
Un diverso possibile profilo di rendimento del capitale investito nei token, pretesamente caratterizzante la loro finanziarietà, è stato individuato nelle prospettive di remunerazione monetaria che essi frequentemente offrono, spesso correlate al successo della piattaforma. Qui, tuttavia, occorre distinguere l’eventualità che l’emittente prometta una remunerazione in moneta legale, da quella fisiologica e più frequente di remunerazione in forma di attribuzione di altri token (siano essi omogenei a quelli originariamente sottoscritti o assumano diverse caratteristiche tecnologiche) [59]. Il presente paragrafo si concentra precisamente su questa seconda eventualità; mentre la remunerazione in moneta legale verrà presa in considerazione separatamente al seguente paragrafo 11.
L’idea che la remunerazione in forma di attribuzione di nuovi token costituisca un rendimento del capitale investito [60], sostanzialmente omogeneo al rendimento in moneta legale, presenta anzitutto un profilo di contraddittorietà. L’equivalenza del rendimento in token e in moneta legale assume infatti a ben vedere una equivalenza giuridico-funzionale delle due remunerazioni: e precisamente assume che la remunerazione in token abbia caratteristiche monetarie corrispondenti a quelle della remunerazione in moneta legale. Se tuttavia i token emessi a titolo di remunerazione sono moneta, occorre spiegare perché invece non lo siano i token originariamente sottoscritti e così remunerati [61]: e in particolare occorre dimostrare che l’emissione dei token può assumere una causa finanziaria quando avviene a fronte di apporti di capitale, e una causa monetaria quando avviene a titolo di remunerazione di questi apporti.
In effetti l’idea di una possibile coesistenza di differenti cause giustificative di emissione del token è diffusa: ed appare spesso correlata ai vari momenti temporali di circolazione della criptoattività. È stata cioè prospettata la tesi che in un momento iniziale (fase 1) la sottoscrizione del token abbia una causa di finanziamento della piattaforma, e si esponga al rischio tecnologico di mancata realizzazione o malfunzionamento dell’infrastruttura finanziata. Solo successivamente al completamento di questa infrastruttura (fase 2) i token da essa supportati potrebbero acquisire una funzione monetaria o di utilità, sottraendosi alle regole di funzionamento dei mercati finanziari. In questa prospettiva non avrebbe grande importanza che i token circolanti nella “fase 2” di funzionamento della piattaforma “a regime” siano tecnicamente uguali a quelli già emessi in “fase 1” di realizzazione dell’infrastruttura, o invece siano emessi a seguito di un processo tecnico di “conversione” della criptoattività originariamente sottoscritta: nulla vieterebbe di considerare un token, ancorché tecnicamente identico, come strumento finanziario nella “fase 1” di predisposizione della piattaforma; e rispettivamente come currency o utility token nella “fase 2” di funzionamento dell’infrastruttura tecnologica [62].
Questa visione appare tuttavia ora in contrasto con la disciplina del MiCAR e con l’impianto sistematico sotteso. Il MiCAR è in particolare univoco nell’assoggettare alla sua disciplina (escludendone la natura finanziaria) i token di utilità fin dalla “fase 1” di predisposizione dell’infrastruttura di accesso al bene o servizio; ed anzi all’opposto in linea di principio esclude dal campo di applicazione del titolo II i token di utilità che forniscono accesso «a un bene o servizio esistente o in gestione» (art. 4.3, lett. b) e perciò si trovano nel momento temporale della “fase 2”. Questa regola è applicabile in primis quando l’utilità incorporata nel token consiste nella partecipazione ad un servizio di piattaforma. Il MiCAR dunque chiaramente sottrae alla categoria degli strumenti finanziari proprio i token che “promettono” utilità consistenti nella partecipazione a servizi di piattaforma: e ciò sempre e comunque fin dalla “fase 1” in cui l’infrastruttura non è ancora operativa e non può dunque dare accesso ad un bene o servizio “esistente”.
Quest’ultima considerazione appare d’altro canto tranquillamente estensibile all’ipotesi in cui la piattaforma promette ai sottoscrittori dei token una “remunerazione” consistente nell’attribuzione di nuovi token (siano essi tecnicamente diversi o corrispondenti a quelli emessi originariamente). Qui anzitutto l’acquisto di token di nuova emissione potrebbe essere considerato come una forma di acquisto dei servizi di piattaforma cui i token medesimi diano eventualmente accesso. In tal caso, precisamente, i token emessi fin dalla “fase 1” potrebbero essere considerati come token di utilità, che danno accesso a servizi non ancora esistenti e in futuro incorporati nei token emessi nella “fase 2”. Secondo questa ricostruzione i token emessi sin dalla “fase 1” sarebbero attratti de plano nella disciplina MiCAR e reciprocamente sottratti a quella MiFID/Pilot.
Questa conclusione appare peraltro confermata da una diversa prospettiva, che svaluti la funzione utilitaria dei token emessi in “fase 2”, e ne esalti la componente monetaria. Se i token emessi a titolo di “remunerazione” dell’investimento sono moneta, lo sono all’interno di un’area valutaria definita dalle regole tecniche di funzionamento della piattaforma: e in particolare dalle regole tecniche di emissione e attribuzione della moneta incorporata nel token. L’interesse sottostante alla sottoscrizione dei token in “fase 1” è dunque essenzialmente un interesse alla partecipazione ad un’area valutaria, caratterizzato da un rischio monetario, non finanziario. Si tratta precisamente di un rischio relativo alla capacità della piattaforma di predisporre regole di funzionamento di un’area monetaria che suscitino l’interesse di una comunità di scambi di dimensioni sufficienti a realizzare effetti economici di rete. Rispetto a questo interesse, la realizzazione di un’infrastruttura tecnologica assume rilievo essenzialmente strumentale. Per l’investitore è indifferente che l’incapacità della piattaforma di predisporre un’area valutaria dipenda da “fallimenti” tecnologici dell’infrastruttura nella “fase 1”, o dalla mancanza di interesse di una comunità di affari a partecipare a scambi su questa infrastruttura nella “fase 2”. Si tratta comunque di malfunzionamenti dell’area valutaria, che si traducono in analoghe perdite di valore dei token: siano essi sottoscritti ab initio in “fase 1” o ricevuti successivamente in “fase 2”.
Non vi è dunque ragione di assoggettare questo identico profilo di rischio a differenti discipline in relazione a diverse fasi temporali o diverse emissioni di token. La volontà del MiCAR di disciplinare unitariamente questo rischio, e ad un tempo di escludere l’applicazione del sistema di tutela MiFID/Pilot, non può essere contestata adducendo il carattere finanziario di un investimento remunerato attraverso l’assegnazione di nuovi token.
Le ricostruzioni precedentemente criticate riflettono probabilmente una concezione più generale, che pone al centro del fenomeno finanziario la predisposizione di meccanismi di negoziazione dei relativi strumenti sui mercati secondari [63]. In questa prospettiva la possibilità di negoziare lo strumento finanziario, ed ora anche il token, in apposite sedi di contrattazione consente di monetizzarne il valore di mercato. La monetizzazione del valore del token per effetto della negoziazione in apposite sedi (siano esse organizzate sulla stessa piattaforma dell’emittente o su piattaforme interoperabili di terzi) costituirebbe quindi una forma di rendimento assoggettato al rischio, tipicamente finanziario, di andamento delle quotazioni. Questa ipotesi di ricostruzione è tuttavia a mio avviso da respingere anzitutto sulla base di considerazioni di carattere generale, che nel MiCAR trovano puntuale conferma.
Il prezzo di uno strumento finanziario conseguibile sul mercato secondario deve razionalmente stimare la capitalizzazione dei flussi di cassa attesi, ponderata per il relativo rischio [64]. Anche la negoziazione di strumenti finanziari derivati dovrebbe pur sempre capitalizzare il valore di esposizione al rischio di (mancata) produzione di flussi reddituali dovuti a esterne vicende economiche sottostanti [65]. Nulla autorizza ad estendere il concetto di rendimento finanziario alle ipotesi in cui l’asset tokenizzato non produce flussi reddituali, e ad un tempo il token non fa riferimento ad alcun “sottostante” caratterizzato da profili di rischio relativo a questi flussi [66]. Non varrebbe qui in particolare estendere il concetto di “sottostante” al punto da ricomprendervi il valore del “bene o servizio” incorporato in un token di utilità. Così, ad esempio, la negoziazione del token che attribuisce un diritto di parcheggio (in un’area realizzata attraverso gli investimenti finanziati dai sottoscrittori) è negoziazione del valore del diritto di parcheggio, non è un derivato di un “sottostante” esterno costituito dal diritto di parcheggio [67]. Il diritto di parcheggio non esiste e non può essere oggetto di contrattazione al di fuori del token [68], non offre prospettive reddituali autonome e non può essere considerato un sottostante esterno. Considerazioni analoghe valgono a fortiori per i token di utilità che consentono la partecipazione agli scambi sulla piattaforma. Argomentare diversamente significherebbe estendere il concetto di sottostante al punto di attrarre nella categoria dei derivati sostanzialmente tutti gli strumenti finanziari, ed in primis le azioni: che a questo punto dovrebbero essere considerate derivato del valore del patrimonio sociale [69].
L’estensione del concetto di rendimento al punto da ricomprendervi tutti i prezzi comunque conseguibili sul mercato secondario, pur scorrelati da qualsiasi prospettica capitalizzazione di (inesistenti) flussi reddituali e dei relativi rischi, stravolgerebbe del resto completamente la logica del sistema finanziario, almeno come sin qui pacificamente ricostruita. Qualsiasi token si presta infatti strutturalmente ad una negoziazione su un mercato secondario, indipendentemente da ogni funzione di spostamento di liquidità da “soggetti in surplus a soggetti in deficit”, secondo la frequente ricostruzione della funzione finanziaria [70]. Il tema è emerso all’attenzione con riferimento alla più nota forma di criptovaluta, e precisamente ai bitcoin. È noto che i bitcoin sono oggetto di ampie contrattazioni sul mercato secondario. Di qui un’opinione diffusa ne argomenta la finanziarietà, almeno quando l’offerta e l’acquisto avvengano per finalità di investimento [71]. Si tratta tuttavia di una prospettiva che non convinceva anteriormente al MiCAR, e che il MiCAR ulteriormente smentisce. Si tratta inoltre di prospettiva che comunque dovrebbe assumersi la responsabilità “politica” di “cestinare” la tradizionale ricostruzione della funzione dei mercati finanziari. Il bitcoin non è emesso a fronte di raccolta di capitali; non è strumento di trasmissione di liquidità da soggetti in surplus a soggetti in deficit, e nemmeno sul mercato secondario è (tipicamente) scambiato in funzione del finanziamento di progetti imprenditoriali che richiedano l’acquisizione di liquidità [72]; non è infine tecnica di assunzione del rischio reddituale di una (inesistente) attività sottostante accostabile agli strumenti finanziari derivati [73].
Ciò non significa evidentemente sottovalutare l’importanza dei mercati secondari dei capitali dal punto di vista degli interessi al finanziamento delle imprese. Significa però ribadire che questi mercati devono essere pur sempre funzionali ad agevolare il collocamento dei capitali [74]. Significa negare la capacità dei mercati secondari di definire autoreferenzialmente il concetto di finanziarietà. Significa valorizzare le norme del MiCAR che, pur contemplando fisiologicamente la negoziazione delle criptoattività su un mercato secondario, in linea di principio ne negano la natura finanziaria. Significa infine apprezzare una scelta del legislatore che, sul piano del diritto positivo, smentisce una pur diffusa tendenza a valorizzare un preteso interesse autoreferenziale a massimizzare il numero e il valore delle transazioni sui mercati secondari [75].
Le precedenti considerazioni critiche portano dunque a ripensare la tradizionale categorizzazione: per concludere che i token non possono mai assumere una funzione finanziaria in assenza di un rendimento dovuto dall’emittente; e che questo rendimento non può comunque essere rappresentato né da utilità di accesso a beni o servizi, né dall’assegnazione di nuovi token, né dal loro prezzo di vendita sui mercati secondari [76]. In assenza di un rendimento, l’assegnazione di token diversi può trovare una causa giustificatrice giuridicamente rilevante solo in interessi non finanziari ad ottenere «l’accesso a un bene o a un servizio prestato dal suo emittente», o a partecipare a un’area valutaria.
La possibilità di ricondurre anche i token diversi ad una funzione monetaria di partecipazione a un’area valutaria è stata già in realtà perspicuamente evidenziata da chi ha paragonato il funzionamento della piattaforma di circolazione dei token ad un sistema monetario [77]. Una parte del pensiero dottrinale ha poi ulteriormente sostenuto che la predisposizione di questo sistema può ben essere considerata come prestazione di utilità di accesso ad un servizio; e ha concluso che un servizio del genere assume valenza finanziaria, con conseguente irragionevolezza della distinzione fra token di utilità e token finanziari [78]. Questa opinione risale tuttavia ad un momento storico anteriore all’approvazione del MiCAR. L’attuale disciplina a mio avviso dimostra invece univocamente la volontà di sottrarre dall’ambito finanziario tanto la funzione utilitaria, quanto quella monetaria dei token. Pienamente condivisibile rimane tuttavia la riconduzione della piattaforma di scambio di token ad un sistema monetario [79]. Ed in realtà a ben vedere tutte le diverse possibili caratteristiche di emissione e negoziazione dei token sono tranquillamente riconducibili ai meccanismi di funzionamento di una corrispondente area valutaria [80].
Così anzitutto in via generale la sottoscrizione di token sottintende l’interesse ad utilizzare la criptoattività (se non come titolo per la prestazione di beni e servizi nei rapporti con l’emittente, almeno) come mezzo di scambio nel sistema di rapporti e negoziazioni all’interno della piattaforma: secondo la funzione propria di qualsiasi moneta all’interno della propria area valutaria. La situazione non cambia nell’eventualità che l’emittente si obblighi ad attribuire ai sottoscrittori criptoattività di nuova emissione: ad esempio, e tipicamente, in corrispondenza del successo e del volume di scambi sulla piattaforma [81]. Questa attribuzione costituisce una regola di emissione della moneta all’interno della corrispondente area valutaria: e precisamente una regola di determinazione endogena della moneta in proporzione ai volumi di scambio della comunità [82]. Sotto questo profilo è poi irrilevante che la “nuova” moneta attribuita ai sottoscrittori del token abbia caratteristiche corrispondenti, e rappresenti dunque un’unità di misura omogenea, rispetto alla criptoattività originariamente sottoscritta; o viceversa dia titolo all’assegnazione di criptoattività diverse (magari estratte attraverso operazioni computazionali finanziate grazie all’emissione della criptoattività originaria) [83]. Comunque la sottoscrizione del token avviene in funzione dell’attribuzione di nuove criptoattività economicamente utili in quanto scambiabili all’interno di una piattaforma: e perciò in funzione della partecipazione alla relativa area valutaria.
Nella medesima prospettiva le operazioni di acquisto e vendita di token sul mercato secondario riflettono interessi tipicamente non finanziari (se non all’acquisto di un valore d’uso di beni o servizi) di ingresso ed uscita da un’area valutaria, analogamente a quanto avviene sul mercato delle valute. Così come nel mercato delle valute la finalità puramente speculativa (fondata sull’aspettativa di andamento delle quotazioni) dell’acquisto di una moneta non la trasforma in strumento finanziario; analogamente nel mercato delle criptoattività la finalità speculativa (fondata sulle prospettive di rivendita sul mercato secondario) non altera la funzione monetaria del token, pur in assenza di un interesse alla sua utilizzazione come mezzo di scambio.
La funzione monetaria così ricostruita spiega d’altro canto anche alcune delle utilizzazioni dei token tipiche del mercato Fintech. I token possono ad esempio costituire una tecnica di organizzazione di piattaforme di finanza decentralizzata (DEFI): e precisamente di raccolta di capitali destinati a finanziare iniziative imprenditoriali attraverso il prestito di criptoattività sulla piattaforma [84]. Questa tecnica dovrebbe teoricamente consentire non solo il risparmio dei costi di intermediazione bancaria e finanziaria, ma anche una più elevata automazione delle relative operazioni: ad esempio attraverso regolamenti “in tempo reale” dei flussi di liquidità dei finanziamenti e dei rimborsi, automatismi di calcolo delle posizioni di credito e di debito, evidenziazione dei rischi di insolvenza, conclusione automatica di contratti secondo tecniche algoritmiche che ponderino questi rischi [85]. Simili forme di intermediazione riflettono a ben vedere l’assenza di analoghe possibilità di finanziamento sull’area monetaria legale: ad esempio perché in quest’area non è possibile adottare le tecniche di gestione dei rischi e di negoziazione algoritmica incorporate nei “codici” dei token. La piattaforma di DEFI predispone dunque un’area valutaria attraverso l’emissione del token; e assorbe nella causa monetaria di questa emissione le conseguenti relative operazioni di finanziamento e scambio.
Le considerazioni da ultimo svolte mi paiono valere anche per le forme di finanza realizzate attraverso decentralized autonomous organizations (DAO). La particolarità di questi fenomeni è stata infatti individuata nella partecipazione dei sottoscrittori di token alle decisioni della organizzazione, secondo meccanismi che dovrebbero consentire una esecuzione automatizzata delle operazioni approvate da un certo numero di membri [86]. L’esecuzione delle decisioni della DAO avviene comunque pur sempre attraverso la “movimentazione” di criptoattività (ad esempio, nell’ambito della concessione di finanziamenti) e perciò su una piattaforma che definisce un’area valutaria. La partecipazione dei membri della DAO al processo decisionale non sposta l’interesse sottostante all’emissione dei token [87]: che è quello a definire un’area monetaria di finanziamento e scambio. Solo questa prospettiva aiuta a superare sulla base delle norme del MiCAR gli interrogativi che diversamente si porrebbero in ordine alla stessa legittimità delle DAO. Una diversa prospettiva, che valorizzasse il processo decisionale per ricondurre la sottoscrizione del token a una funzione finanziaria di acquisto di titoli di partecipazione, farebbe sorgere forti problemi di compatibilità della DAO con le tipizzazioni legislative nazionali dei modelli societari [88].
Le precedenti considerazioni portano dunque a restringere la categoria dei token finanziari alle ipotesi in cui essi prevedono: a) un rendimento dovuto dall’emittente e regolato in moneta legale [89]; b) un rendimento costituito dall’attribuzione di strumenti finanziari remunerati in moneta legale, secondo criteri predeterminati ex ante; e forse anche c) un rendimento in token che l’emittente si obbliga a convertire in moneta legale, secondo un rapporto di cambio predeterminato ex ante.
A. L’ipotesi di token remunerati in moneta legale è quella strutturalmente più semplice, e sostanzialmente coincide con il fenomeno della tokenizzazione degli strumenti finanziari emessi conformemente alle regole generali del diritto societario. Il presente lavoro evidentemente non affronta il problema dei limiti di ammissibilità di questa tokenizzazione, che può presentare profili delicati, ad esempio per quanto riguarda (almeno nel nostro sistema) la tokenizzazione delle quote e degli strumenti finanziari delle s.r.l. Le considerazioni qui svolte si limitano a constatare il carattere finanziario degli strumenti tokenizzati di finanziamento di società in quanto ammissibili e in quanto remunerati in moneta legale. L’interesse alla remunerazione in moneta legale per definizione di ipotesi non attiene alla partecipazione ad un’area valutaria alternativa; ed è un interesse che le regole di funzionamento dell’area monetaria legale proteggono secondo la disciplina degli strumenti finanziari. Corrispondentemente, le possibilità di remunerazione consentite dalla vendita del token sul mercato secondario riflettono il valore atteso dei flussi di cassa dei rendimenti in moneta legale, non il valore monetario di scambio del token con beni e servizi all’interno della relativa area valutaria.
Nella situazione qui considerata non rileva che la remunerazione regolata in moneta legale sia dovuta in misura fissa e indipendente dal successo economico dell’iniziativa (secondo uno schema analogo a quello della promessa di un tasso di interesse); oppure sia parametrata ad indici relativi al successo economico della piattaforma. D’altro canto non è essenziale che l’emittente si obblighi a restituire in moneta legale il capitale apportato a fronte dell’emissione del token, secondo uno schema sostanzialmente corrispondente (almeno nell’ipotesi fisiologica di emissione di una serie di token omogenei) a quello di un prestito obbligazionario. L’operazione può evidentemente assumere natura finanziaria anche semplicemente per effetto della promessa di un rendimento in moneta legale, pur in assenza di un obbligo di restituzione del capitale [90].
B. Il token che attribuisce un diritto all’assegnazione di strumenti finanziari remunerati in moneta legale[91] rientra in linea di principio nella nozione di “valore mobiliare” dell’art. 4.1, n. 44, MiFID, in particolare nella tipologia di «qualsiasi altro valore mobiliare che permetta di acquisire o di vendere tali valori mobiliari». Non vi è ragione in tal caso di escludere il token dalla categoria degli strumenti finanziari del sistema MiFID/Pilot: considerando che anche qui l’interesse finale perseguito dal sottoscrittore non è quello ad entrare in un’area valutaria alternativa, ma è quello ad acquisire strumenti finanziari remunerati secondo le regole, e disciplinati dal sistema di tutele, caratteristiche dell’area monetaria legale.
L’ipotesi così ricostruita presuppone comunque che l’attribuzione di strumenti finanziari avvenga secondo criteri predeterminati ex ante in rapporto al risultato dell’investimento (ad es., un certo numero di azioni dell’emittente del token in corrispondenza di un certo numero di transazioni sulla piattaforma). Il token non assume invece natura finanziaria quando venga remunerato attraverso l’assegnazione di nuove criptoattività, che l’emittente si impegni a negoziare (in proprio o favorendo l’incontro di domande e offerte) sulla propria piattaforma, secondo rapporti di cambio con strumenti finanziari o corrispettivi in moneta legale determinati dall’andamento delle quotazioni sul mercato secondario. Qui in realtà il token attribuito a titolo di remunerazione dell’investimento non avrebbe un proprio valore corrispondente a strumenti finanziari (o moneta legale), ma verrebbe negoziato sul mercato secondario, per il suo valore di scambio all’interno della corrispondente area valutaria. La remunerazione rifletterebbe dunque pur sempre il valore della partecipazione all’area valutaria definita dai token assegnati. Nella medesima prospettiva la possibilità di negoziare il token su un mercato secondario sottenderebbe una causa non finanziaria, ma monetaria, riconducibile a quella generale del mercato delle valute.
C. La possibilità di remunerare il token attraverso l’assegnazione di nuove criptoattività convertibili in moneta legale appare in realtà problematica. Le criptoattività convertibili potrebbero infatti sembrare riconducibili alla categoria degli ART o degli EMT, e ad un tempo emesse in contrasto con le regole dettate per questi ultimi: in primis con le regole che ne consentono l’emissione previa la ricezione di fondi e la destinazione a riserva delle relative somme. Il problema della disciplina degli ART ed EMT quale disciplina “esaustiva” della possibilità di emissione di token convertibili in valute legali non può essere qui approfondito. In ogni caso, ammessa (e non concessa) la possibilità di emettere token convertibili da assegnare a titolo di remunerazione dell’investimento nella piattaforma, parrebbe ragionevole attrarre l’operazione nell’orbita finanziaria MiFID/Pilot[92]. Qui a ben vedere l’operazione presenta aspetti “ibridi”: in quanto può sottendere un interesse alla partecipazione all’area monetaria definita dal token emesso per remunerare l’investimento; ma ad un tempo un interesse ad ottenere un rendimento in moneta legale attraverso l’esercizio del diritto di conversione. Ritengo comunque, per le ragioni esposte nel seguente paragrafo, che la presenza di una causa “ibrida” valga, per scelta politica del MiCAR, a far prevalere l’elemento di finanziarietà su quello monetario: sempre che (per le medesime ragioni esposte al punto B) il diritto di conversione venga riconosciuto secondo un rapporto di cambio prefissato dall’emittente, e non secondo l’andamento delle quotazioni riscontrate sul mercato secondario del token.
Le considerazioni svolte portano a ridimensionare fortemente il problema della natura finanziaria dei cc.dd. “token ibridi”, che sembrano perseguire una pluralità di funzioni. Al riguardo è utile distinguere differenti possibili tipologie di ibridazione.
A. Una prima forma di ibridazione è stata immaginata quando il token è emesso per finanziare la costruzione di una piattaforma (fase 1) e solo successivamente a questa costruzione (fase 2) può assumere una funzione monetaria di scambio o utilitaria di accesso a beni o servizi sull’infrastruttura tecnologica. Qui è stato allora ipotizzato un possibile mutamento di funzione: originariamente di tipo finanziario, da assoggettare alle regole MiFID/Pilot, e successivamente di tipo monetario o di utilità, da assoggettare alle regole MiCAR[93]. Già si è visto tuttavia che questa ricostruzione non convince, e che in realtà la funzione del token deve essere ricostruita in chiave unitaria in tutte le sue fasi, tenendo conto dell’interesse finale perseguito dal sottoscrittore. Questo interesse fin dall’inizio è rivolto all’accesso ad un’area monetaria o al conseguimento di utilità di piattaforma, così escludendo profili di finanziarietà.
B. Una seconda forma di ibridazione è stata immaginata nell’eventualità che il token, successivamente all’emissione, venga ammesso ad una piattaforma di negoziazione. In questa prospettiva la negoziazione del token varrebbe a caratterizzarlo per una causa finanziaria, che si sovrapporrebbe alla funzione originaria (di utilità o monetaria) sottostante all’emissione[94]. Anche a questo proposito tuttavia già si è visto che la destinazione a una sede di negoziazione è elemento “neutro” rispetto alla finanziarietà, e non vale dunque a ipotizzare una ibridazione del token che combini funzioni monetarie o di utilità a una funzione propriamente finanziaria.
C. Una terza forma di ibridazione è stata immaginata quando il token combina funzioni monetarie o finanziarie a funzioni di utilità. Qui tuttavia già si è visto che la funzione finanziaria presuppone una prospettiva di rendimento (diretta o indiretta, ad esempio attraverso l’assegnazione di strumenti finanziari) in moneta legale. Ove questa prospettiva non vi sia, è esclusa ogni possibilità di ibridazione di una (inesistente) funzione finanziaria con altre e diverse funzioni del token; mentre ove vi sia, eventuali profili di ibridazione meritano di essere considerati separatamente, secondo quanto emergerà al successivo punto D.
Ora è opportuno invece considerare le innegabili possibilità di sovrapposizione fra funzione monetaria e funzione utilitaria del token [95]. L’ambito di questa sovrapposizione dipende fra l’altro dal concetto di “utilità” che si ritiene giuridicamente rilevante nell’emissione dei token. Chi sostiene che la stessa possibilità di partecipazione agli scambi della piattaforma conferisce al token una funzione utilitaria, è portato a concludere che questa funzione caratterizza pressoché inevitabilmente qualsiasi criptoattività, così normalmente sovrapponendosi ad ulteriori possibili funzioni monetarie o di investimento [96]. Indipendentemente dall’adesione ad una simile impostazione, va comunque segnalato che la funzione monetaria del token è sempre concettualmente distinta da quella utilitaria, e può almeno in alcuni casi sovrapporvisi. La distinzione e possibile sovrapposizione derivano dal fatto che funzione monetaria e rispettivamente utilitaria si esprimono nei rapporti con diverse cerchie di soggetti. La funzione utilitaria attiene ai rapporti fra titolare ed emittente del token, e si esprime nel diritto ad ottenere una prestazione da parte di quest’ultimo. In un rapporto del genere il token non è propriamente “speso” e non è oggetto delle vicende circolatorie tipiche della moneta. Quand’anche (come possibile, ma non necessario e forse nemmeno frequente) l’accesso al bene o servizio determini la perdita della disponibilità del token da parte del titolare, il token non passa in capo all’emittente (che non può evidentemente vantare nei confronti di sé stesso una corrispondente prestazione) ma è oggetto di una vicenda estintiva incompatibile con una funzione monetaria di scambio [97]. Ugualmente in questi casi il token può svolgere una funzione di moneta ed essere oggetto di vicende circolatorie nei rapporti fra i vari utenti della piattaforma. E così si può immaginare un token che dia diritto alla prestazione di servizi (ad esempio, di accesso a memoria informatica per operazioni di calcolo) nei confronti dell’emittente, e che ad un tempo sia utilizzato in funzione di scambio di prestazioni da uno ad altro utente della piattaforma [98]. In queste situazioni il token presenta in effetti un carattere “ibrido”, peraltro giuridicamente irrilevante. È in particolare inutile interrogarsi sulla prevalenza della funzione di utilità o di moneta: perché l’una e l’altra funzione attraggono comunque la criptoattività nella categoria unitaria dei token diversi, assoggettata alla medesima disciplina.
D. Un’ultima forma di ibridazione può derivare dalla sovrapposizione di una funzione finanziaria ad una funzione utilitaria o monetaria. Al riguardo già si è visto che la funzione finanziaria presuppone prospettive di remunerazione (dirette o indirette) in moneta legale; ma non si può escludere che a questa remunerazione si sovrapponga una funzione utilitaria (penso a un token che dia diritti alla partecipazione agli utili della piattaforma e contemporaneamente dia accesso ad alcuni suoi servizi)[99] o monetaria (penso a un token remunerato in moneta legale e che contemporaneamente incorpori diritti di assegnazione di nuovi token puramente monetari). Già si è inoltre ipotizzata l’emissione di token remunerati attraverso l’emissione di nuovi token convertibili in moneta legale: e si è visto che in questo caso il token combina l’interesse finanziario ad un rendimento in moneta legale con l’interesse monetario alla partecipazione ad un’area valutaria. In tutti questi casi (probabilmente infrequenti) a me sembra che la volontà del MiCAR di fare salva l’applicazione della disciplina degli strumenti finanziari esprima la volontà “politica” di attrarre in via generale nella (sola) disciplina MiFID/Pilot tutte le criptoattività comunque caratterizzate da aspettative di rendimento in moneta legale. Il MiCAR mi sembra precisamente volere escludere ogni possibilità di applicazione congiunta delle sue norme e rispettivamente di quelle MiFID/Pilot, anche quando la causa finanziaria si affianchi alle funzioni proprie dei token diversi.
Le considerazioni precedentemente svolte portano dunque in conclusione a ricostruire la natura finanziaria dei token sulla base di un parametro tendenzialmente rigido (rule), costituito da prospettive di rendimento in moneta legale, anche eventualmente per effetto dall’assegnazione di strumenti finanziari a loro volta remunerati in moneta legale. Reciprocamente le medesime considerazioni portano a respingere la diffusa opinione secondo cui la finanziarietà del token dovrebbe essere accertata caso per caso in base alle possibilità di negoziazione su un mercato secondario e di realizzazione di plusvalenze di trading [100]. La soluzione qui suggerita presenta in effetti profili di “tensione” con l’art. 5.2 MiCAR, che attribuisce all’ESMA il potere di elaborare «orientamenti […] sulle condizioni e sui criteri per la qualificazione delle cripto-attività come strumenti finanziari». Quest’ultima norma sembra infatti attribuire all’ESMA un certo spazio di discrezionalità amministrativa di riconoscimento della natura finanziaria dei token, secondo una valutazione caso per caso.
Il dato ricavabile dall’art. 5.2 MiCAR non mi pare comunque decisivo. Anzitutto l’esercizio di un potere amministrativo deve comunque rispettare la gerarchia delle fonti e non può dunque contraddire criteri rigidi di esclusione della natura finanziaria elaborati sulla base di un’interpretazione sistematica delle norme primarie. D’altro canto le precedenti considerazioni hanno volutamente omesso di trattare un problema che non può essere risolto attraverso una concettualizzazione altrettanto rigida, e che in effetti può richiedere una valutazione caso per caso del funzionamento delle sedi di negoziazione. Mi riferisco precisamente all’eventualità che i token possano essere strutturati per incorporare diritti parametrati all’andamento economico di un “sottostante”: e con ciò assumere le caratteristiche di strumenti finanziari derivati.
Al riguardo, già si è visto che il token non può assumere natura derivata sulla base del riferimento ad un preteso “sottostante” costituito dalle utilità promesse dall’emittente o dalle possibilità di scambio offerte dalla piattaforma. Utilità e possibilità di scambio non sono un “sottostante” esterno al token ma formano direttamente il contenuto dei diritti in esso incorporati: non valgono perciò a qualificare il token in termini di derivato, così come il patrimonio della società non vale a qualificare in termini di derivati le azioni che lo rappresentano. Ciò tuttavia non esclude la possibilità di incorporare nei token diritti derivati da un sottostante esterno, anche di natura non finanziaria. Così come un derivato, qualificato dal legislatore in termini di strumento finanziario, può essere costruito su un valore non finanziario (valute, merci, eventi climatici, rischi di insolvenza), analogamente il token può essere qualificato in termini finanziari quando faccia riferimento ad un sottostante esterno, ancorché non finanziario, ed in primis a un altro token con funzione monetaria o di utilità [101].
È allora ben possibile che un token possa assumere natura finanziaria derivata da altri token: ed occorre interrogarsi sui presupposti di questa situazione. In linea di principio mi pare che la questione vada impostata in base ai princìpi ricostruiti in precedenza. I token che incorporano diritti di trasformazione o assegnazione di altri token remunerati in moneta legale assumono comunque natura finanziaria: perché perseguono un interesse finale ad ottenere questa forma di moneta. La conclusione è allora generalizzabile nel senso di riconoscere comunque natura finanziaria ai token che perseguono un interesse finale di corresponsione di moneta legale [102]; e ad esempio incorporino il diritto al pagamento di una somma di denaro determinata in base al valore di mercato di un altro token, rispetto al quale dunque non sussista un obbligo di “consegna”.
L’intrasferibilità dei token in forma fisica non vale infatti a negare la possibilità di identificare concettualmente e di riconoscere autonomia di trattamento alle ipotesi di “consegna” della criptoattività in forma immateriale, e rispettivamente alle ipotesi in cui il “venditore” dei token promette di corrispondere moneta legale in relazione all’andamento di quotazioni di mercato. La “consegna” della criptoattività consiste nella trasmissione dal venditore all’acquirente di un protocollo informatico utilizzabile poi autonomamente dall’acquirente medesimo per beneficiare del valore utilitario del token o per trasferire il suo valore monetario a ulteriori terzi aventi causa. Ove l’acquirente non abbia pretese su questo protocollo, ma vanti soltanto un diritto alla corresponsione in moneta legale del valore di mercato del token, non si ha alcuna “consegna”, nemmeno in forma immateriale: e per definizione di ipotesi l’operazione non è riconducibile all’interesse ad acquisire la disponibilità di un valore d’uso o monetario scambiabile su un’area valutaria alternativa a quella legale. In assenza di questo interesse, la negoziazione del token persegue una funzione finanziaria corrispondente a quella di un derivato.
La presenza di un reale interesse al trasferimento della disponibilità di un token non finanziario va d’altro canto verificata alla luce delle concrete modalità di regolamento del rapporto definite dalle parti. Costituiscono ad esempio indici sintomatici della mancanza di un interesse effettivo all’acquisto di valori d’uso o di scambio su aree valutarie alternative: a) la definizione di obblighi di consegna in base a posizioni nette calcolate a livello multilaterale; b) la possibilità di rinviare il regolamento di queste posizioni alla chiusura di successivi periodi di contrattazione; c) la compensabilità di posizioni attive su token con posizioni passive su importi dovuti in moneta legale; d) la compensabilità di posizioni su token differenti, calcolate sulla base del valore di mercato delle relative criptoattività [103].
Si tratta di indici che in effetti difficilmente possono essere definiti in astratto dal legislatore, e che del resto risultano funzionali alla soluzione di un problema del tutto analogo a quello della distinzione fra contratti che perseguono fini commerciali di acquisto di merci e rispettivamente speculazioni finanziarie sull’andamento dei relativi prezzi [104]. Di qui, in entrambi i casi, l’attribuzione alla normazione secondaria della Commissione (allegato I, sezione C, punto 7, MiFID, attuato dall’art. 7 del reg. 2017/565 della Commissione) o alla soft law degli orientamenti ESMA (art. 5.2 MiCAR) dei compiti di distinguere la finanziarietà dalla funzione commerciale (per quanto riguarda in via generale i derivati) o dalla funzione monetaria e di utilità (per quanto riguarda i token) [105]. Il MiCAR attribuisce allora in particolare all’ESMA il potere di verificare le caratteristiche delle sedi di negoziazione delle criptoattività e dei relativi sistemi di regolamento e compensazione; e di elaborare in base a queste caratteristiche criteri di determinazione dell’interesse dei contraenti ad accedere alle utilità incorporate nel token o a partecipare agli scambi su un’area valutaria; o, rispettivamente, ad assumere obbligazioni quantificate in moneta legale, anche in base alle quotazioni di altri token (ancorché non finanziari) sottostanti.
[1] Particolarmente significativo al riguardo è il considerando 9 del reg. Pilot, secondo cui «la legislazione dell’Unione in materia di servizi finanziari non è stata concepita tenendo conto della tecnologia a registro distribuito e delle cripto-attività, e contiene disposizioni che potenzialmente precludono o limitano l’uso della tecnologia a registro distribuito nell’emissione, nella negoziazione e nel regolamento delle cripto-attività che rientrano nella definizione di strumenti finanziari»: mentre «lo sviluppo di un mercato secondario per tali cripto-attività potrebbe apportare molteplici vantaggi».
[2] Il presente lavoro non si propone di ricostruire una nozione generale di “strumento finanziario” rilevante per l’applicazione del sistema MiFID/Pilot/TUF, e perciò non riesamina criticamente le varie nozioni proposte al riguardo; cfr. ad esempio F. Annunziata, La disciplina del mercato dei capitali12, Torino, Giappichelli, 2023 94 ss.; R. Costi, Il mercato mobiliare13, a cura di S. Gilotta, Torino, Giappichelli, 2024, 8 ss.; A. Niutta, Prodotti, strumenti finanziari e valori mobiliari nel TUF aggiornato in base alla MIFID, in Riv. dir. comm., 2009, I, 807 ss.; P. Ferro-Luzzi, Attività e “prodotti” finanziari, in Riv. dir. civ., 2010, II, 133 ss.; V.V. Chionna, Strumenti finanziari e prodotti finanziari nel diritto italiano, in Banca borsa tit. cred., 2011, I, 1 ss.; E. Righini, Strumenti e prodotti finanziari, in Enc. dir., Ann. IV, Milano, Giuffrè, 2011, 1162 ss.; M. Onza, L. Salamone, Prodotti, strumenti finanziari, valori mobiliari, in Banca borsa tit. cred., 2019, I, 567 ss.; M. Cian, La nozione di strumento finanziario nel sistema del diritto commerciale, in Studium iuris, 2015, 1450 ss. Confido tuttavia di potere ricostruire gli indici che valgono a sottrarre le criptoattività dal campo di applicazione MiCAR, e che lasciano quindi eventualmente spazio all’applicazione dei sistemi MiFID/Pilot/TUF. Posta in questi termini, la riflessione può tranquillamente sottrarsi al dibattito sulla nozione interna di “prodotto finanziario” (art. 1, lett. u, t.u.f.), che anteriormente al MiCAR era spesso richiamata per interrogarsi sull’applicabilità del t.u.f. alle criptoattività; cfr. R. Costi, op. cit., 14 s.; C. Sandei, L’offerta iniziale di cripto-attività, Torino, Giappichelli, 2022, 49 ss.; P. Carrière, Le “criptovalute” sotto la luce delle nostrane categorie giuridiche di “strumenti finanziari”, “valori mobiliari” e “prodotti finanziari”; tra tradizione e innovazione, in Riv. dir. banc., 2019, 117, 157 ss.; G. Rinaldi, Approcci normativi e qualificazione giuridica delle criptomonete, in Contr. impr., 2019, 257, 288; D. Masi, Le criptoattività: proposte di qualificazione giuridica e primi approcci regolatori, in Banca impr. soc., 2021, 241, 255; M. De Mari, Le cripto-attività nella disciplina MiCAr e la finanziarietà delle “cripto-attività non finanziarie”, in Dialoghi dir. ec., dicembre 2023, 3; T.N. Poli, MiCA, Pilot Regime e Decreto Fintech: la regolazione del fenomeno crypto e le difficoltà di inquadramento nel sistema finanziario, ivi, 4 ss.; G. Schneider, Le cripto-attività quali prodotti finanziari: il fine giustifica i mezzi?, in Giur. comm., 2023, II, 959, 979. Attualmente è indiscutibile la volontà del MiCAR di dettare una disciplina esaustiva delle criptoattività rientranti nelle sue definizioni; cfr. F. Annunziata, La disciplina europea del mercato delle cripto-attività (MiCAR), in Riv. soc., 2023, 923, 942; C. Frigeni, Offerta al pubblico e regime di trasparenza nella proposta di regolamento MiCA, in ODCC, 2022, 23, 33; Id., L’offerta sul mercato di non financial token, in Diritto del Fintech2, a cura di M. Cian, C. Sandei, Milano, Wolters Kluwer, 2024, 381, 396 s. Non è in particolare pensabile che la nozione italiana di “prodotto finanziario” venga valorizzata per applicare alle criptoattività MiCAR la disciplina TUF; ed in tal senso v. espressamente l’art. 39 del d.lgs. n. 129/2024, di adeguamento della normativa nazionale al MiCAR, secondo cui «la disciplina del TUF avente a oggetto i prodotti finanziari non si applica alle cripto-attività che rientrano nell’ambito di applicazione del regolamento (UE) 2023/1114». Quest’ultima considerazione vale d’altro canto per tutte le criptoattività MiCAR, compresi i bitcoin, che costituiscono rappresentazioni digitali di valori senz’altro rientranti nella definizione dell’art. 3.1, n. 5, MiCAR. Bitcoin e token similari sono esentati dall’applicazione delle sole norme del titolo II e nei soli limiti previsti dall’art. 4.3, lett. a e b, MiCAR: e perciò solo in quanto offerti gratuitamente o creati automaticamente come ricompensa per il mantenimento della DLT; non condivido perciò i dubbi sul punto espressi da R. Lener, Criptoattività e criptovalute alla luce degli ultimi orientamenti comunitari, in Giur. comm., 2023, I, 376, 384; R. Lener, L. Furnari, Le cripto-attività: una tassonomia, in M. Cian, C. Sandei, op. cit., 175 s. e (apparentemente in senso ancor più radicale di esclusione dei bitcoin dall’ambito del MiCAR) C. Frigeni, L’offerta sul mercato, cit., 384 s. L’offerta di bitcoin non gratuita su un mercato secondario rientra dunque nell’art. 4.1 MiCAR e nel corrispondente obbligo di redazione del white paper; mentre non può essere considerata offerta di prodotti finanziari assoggettata al t.u.f. Superate nell’attuale contesto legislativo risultano dunque le tesi sostenute in giurisprudenza da Cass., 10 novembre 2021, n. 44337, in Banca borsa tit. cred., 2023, II, 1, con nota di M. Cian, Noterelle su finanziarietà e non finanziarietà nei crypto-assets: la Suprema Corte sulla natura del servizio di exchange; Cass. pen., sez. II, 26 ottobre 2022, n. 44378, in Giur. comm., 2023, II, 957, con nota di G. Schneider, cit. (v. anche la nt. 80).
[3] Cfr. M.T. Paracampo, I prestatori di servizi per le cripto-attività, Torino, Giappichelli, 2023, 9; F. Annunziata, An Overview of the Markets in Crypto-Assets Regulation (MiCAR), in EBI Working Paper Series, no. 158, 2023, reperibile in https://papers.ssrn.com, 19; Id., La disciplina europea, (nt. 2), 933; T.N. Poli, (nt. 2), 13; M. Cian, Noterelle, (nt. 2), 8.
[4] L’obbligo di riserva costituisce una presa di posizione “politica” importante su un problema dibattuto. La letteratura giuridica ed economica in particolare si interroga sui rischi di stabilità finanziaria e sugli effetti che l’emissione di stablecoins può avere per la trasmissione delle decisioni delle banche centrali. La questione si pone in termini parzialmente diversi per le emissioni necessariamente coperte da attività di riserva e rispettivamente per quelle prive di questa copertura; cfr. E.D. Martino, Monetary sovereignty in the digital era. The law & macroeconomics of digital private money, in Comp. L. Sec. Rev., 2024, https://www.sciencedirect.com, 7 s. In assenza di riserve a copertura, gli stablecoins sono (a dispetto del nome) fortemente esposti al rischio di instabilità dovuto al timore che l’emittente non sia in grado di garantirne la convertibilità in moneta legale; cfr. H.J. Allen, Defi: shadow banking 2.0?, in 64 Will. Mary L. Rev. 919 (2023), 944 (le riserve a copertura non parrebbero previste dal Lummis-Lillibrand Stablecoin Bill statunitense, che è aspramente criticato anche per i potenziali rischi di instabilità da A.E. Wilmarth, Policy Brief: Congress Should Reject the Lummis-Gillibrand Stablecoin Bill Because It Would Endanger Consumers, Investors, and Our Financial System, in GW Leg. St. Res Pap. 2024-29, https://ssrn.com). In assenza di riserve a copertura, inoltre, la criptovaluta ben può assumere caratteristiche di fiat money emessa nell’ambito di operazioni di concessione di credito, sottratte agli effetti delle politiche di tasso di interesse adottate dalle banche centrali; cfr. S. Cesaratto, E. Febrero, Private and Central Bank Digital Currencies: a storm in a teacup? A Post-Keynesian appraisal, UCLM – Documentos de Trabajo 2022/1, reperibile in https://www.uclm.es, 2022, 7 e 12; più in generale sui rischi di stabilità finanziaria derivanti dall’uso di criptovalute nell’ambito di operazioni creditizie Fintech cfr. FSB, Financial Stability Implications from FinTech, 27 June 2017, reperibile in https://www.fsb.org, 5; FSB, The Financial Stability Implications of Multifunction Crypto-assets Intermediaries, 28 november 2023, reperibile in https://www.fsb.org, 13 ss. La scelta del legislatore europeo di collegare l’emissione di ART (e di EMT) alla costituzione di attività di riserva comporta ragionevolmente un divieto di emissione a credito; cfr. il seguente par. 5 e la nt. 40. In questa prospettiva l’obbligo di riserva non va letto soltanto in funzione prudenziale di prevenzione del rischio di instabilità dell’emittente, in particolare contro i pericoli di “corse” all’esercizio dei diritti di conversione; sul punto cfr. F. Annunziata, La disciplina europea, (nt. 2), 951 ss.; l’obbligo preclude anche l’emissione di fiat money in concorrenza con quella legale e limita i conseguenti rischi di disturbo alle politiche monetarie delle banche centrali.
[5] Al pari di tutte le altre criptoattività rientranti nel campo di applicazione del MiCAR: e perciò al pari degli EMT (alla cui ammissione alla negoziazione fa riferimento l’art. 48 MiCAR) e dei token diversi, compresi quelli esentati dagli obblighi di predisposizione del white paper e dalla regolamentazione del titolo II del MiCAR (cfr. la precedente nt. 2).
[6] In tal senso anche M. Cian, La nozione di criptoattività nella prospettiva del MiCAR. Dallo strumento finanziario al token, e ritorno, in ODCC, n. spec., 2022, 59, 71, che tuttavia non considera problematica la situazione opposta di aumento del valore del token. Anche quest’ultimo aumento deve invece a mio avviso essere evitato dall’emittente, per le ragioni esposte subito oltre nel testo.
[7] Cfr. anche S.T. Omarova, Financial Innovation: Three Fallacies in the Debate (December 14, 2023), in Cornell Legal Studies Research Paper No. 23-27, reperibile in https://ssrn.com, 22 s.: «to the extent stablecoins replicate the value of U.S. dollar and other safe assets, they are fundamentally derivative instruments».
[8] Gli strumenti derivati paiono dunque in ultima analisi assumere carattere finanziario già in quanto «valori mobiliari» contemplati dall’art. 4.1, n. 44, lett. c, MiFID, senza necessità di ricorre all’elencazione dell’allegato I, sez. C, nn. 4-10. Ciò trova del resto riscontro nella definizione di «strumenti derivati» dell’art. 2.1, n. 29, reg. n. 600/2014/UE sui mercati degli strumenti finanziari, che sembra anzi considerare l’elencazione dell’allegato I, sez. C, MiFID quale specificazione della definizione generale di “valori mobiliari”.
[9] L’esistenza di una relazione intersoggettiva quale elemento qualificante della finanziarietà è sostenuta in particolare da M. Cian, (nt. 6), 62 ss., e reciprocamente 63, dove l’assenza di questa relazione è considerata qualificante della funzione monetaria; in senso analogo cfr. C. Sandei, (nt. 2), 28.
[10] L’idea di ricostruire una nozione di finanziarietà basata sulla negoziazione dello strumento in sedi regolamentate costituisce il filo conduttore di diversi lavori di Annunziata, che etichetta questa teoria come approccio top-down. Si tratta in particolare di un approccio che valorizza le caratteristiche generali delle sedi di negoziazione, anziché le caratteristiche particolari dei singoli strumenti finanziari (c.d. contrapposto approccio bottom-up, apparentemente sottostante alla elencazione dei vari strumenti finanziari contenuta nella MiFID); cfr. F. Annunziata, La disciplina delle trading venues nell’era delle rivoluzioni tecnologiche: dalle criptovalute alla distributed ledger technology, in questa Rivista, 2018, 40, 46; Id., Speak, if you can: what are you? An alternative approach to the qualification of tokens and initial coin offerings, in Bocconi Leg St. Res. Papers n. 2636561, February 2019, reperibile in https://papers.ssrn.com, 38 ss. Sul punto avrò modo di ritornare (cfr. il seguente par. 9 e la nt. 63). Non mi sembra tuttavia che questa impostazione, anche se accolta in via generale, possa giustificare la tesi secondo cui la negoziazione all’interno di piattaforme manifesterebbe in concreto la prevalenza di un interesse finanziario idoneo ad attrarre gli ART nel sistema MiFID/Pilot; in tal senso cfr. invece M. Cian, (nt. 6), 67. La negoziabilità su piattaforma è contemplata dal MiCAR come caratteristica fisiologica dei token, ivi compresi gli ART. Dire che questa negoziabilità può valere ad attrarre gli ART nella disciplina MiFID, significa di fatto escludere gli ART dal campo MiCAR proprio in situazioni che lo stesso MiCAR dimostra invece di volere regolare (cfr. subito oltre nel testo).
[11] Cfr. F. Annunziata, La disciplina europea, (nt. 2), 949 s., che rileva la natura di strumenti di pagamento comune ad ART e EMT.
[12] Uso l’espressione “titoli rappresentativi di unità di misura di valore” in un significato che mi pare equivalente a quello dell’espressione più tradizionale “pezzi monetari”. Quest’ultima espressione è stata ampiamente valorizzata da T. Ascarelli, Obbligazioni pecuniarie, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja, G. Branca, Bologna-Roma, Zanichelli – Soc. ed. del Foro italiano, 1959, 12 ss., 67 ss., nell’ambito della sua ricostruzione delle obbligazioni pecuniarie incentrata sulla distinzione concettuale fra mensura e mensuratum. Non intendo con ciò necessariamente aderire a questa distinzione, che non escludo possa conservare importanza a dispetto delle critiche (a mio avviso non decisive ed ispirate alla posizione di A. Nussbaum, Money in the law. National and international, Brooklyn, The Foundation Press, 1950, 12 s., 115) di B. Inzitari, L’adempimento dell’obbligazione pecuniaria nella società contemporanea: tramonto della carta moneta e attribuzione pecuniaria per trasferimento della moneta scritturale, in Banca borsa tit. cred., 2007, I, 133, 136 ss.; Id., Delle obbligazioni pecuniarie, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, Zanichelli – Soc. ed. del Foro italiano, 2011, 15 ss.; A. Di Majo, Le obbligazioni pecuniarie, Torino, Giappichelli, 1996, 33 ss. In ogni caso le impostazioni dottrinali che definiscono la moneta in termini di ideal unit, e perciò essenzialmente di astratta unità di misura, riconoscono che questa astrazione non può prescindere da una «forma di manifestazione materialmente e praticamente necessaria»; cfr. B. Inzitari, Delle obbligazioni pecuniarie, cit., 22; Id., L’adempimento dell’obbligazione pecuniaria, cit., 138; e v. anche L. Farenga, La moneta bancaria, Torino, Giappichelli, 39 s., il quale sostanzialmente opera una sintesi delle tesi di Ascarelli e Nussbaum, segnalando che entrambe distinguono concettualmente l’ideal unit dai suoi mezzi rappresentativi. L’espressione “titoli rappresentativi di unità di misura” mi pare dunque “neutra” rispetto all’accettazione della distinzione fra mensura e mensuratum, e ad un tempo mi pare più moderna dell’espressione tradizionale “pezzi monetari”. Il termine “pezzo” lascia infatti pensare ad una unità di misura necessariamente incorporata in un supporto materiale, mentre allo stato sono sempre più diffuse monete immaterialmente rappresentate da annotazioni contabili o protocolli informatici.
[13] I limiti del presente lavoro non consentono di confrontare analiticamente la funzione della moneta proposta nel testo con gli orientamenti (del resto innumerevoli, e difficilmente censibili analiticamente) emersi nella dottrina economico-giuridica. Confido tuttavia che l’impostazione proposta non si esponga ad obiezioni tali da rimettere in discussione la soluzione del problema centrale qui affrontato: e cioè il problema della distinzione fra la funzione monetaria (o di utilità) e rispettivamente finanziaria dei token. La funzione monetaria ricostruita nel testo non mi pare d’altro canto particolarmente originale in quanto: a) valorizza l’accettazione della moneta all’interno di una “comunità”, in linea con l’idea tradizionale secondo cui «la moneta costituisce ovviamente un fenomeno di gruppo, un istituto d’ordine sociale»; così T. Ascarelli, (nt. 12), 11; in senso analogo E. Quadri, Le obbligazioni pecuniarie, in Trattato di diritto privato2, diretto da P. Rescigno, 9, I, Torino, UTET, 1999, 521 ss.; b) valorizza la funzione di scambio e di unità di misura della moneta, conformemente ancora una volta alle opinioni tradizionali; v. ancora T. Ascarelli, (nt. 12), 12; B. Inzitari, L’adempimento dell’obbligazione, (nt. 12), 138. La definizione del testo mi pare inoltre “neutra” rispetto ad ulteriori problemi a mio avviso irrilevanti per distinguere la funzione monetaria da quella finanziaria. Le considerazioni del testo non vogliono in particolare prendere posizione sul problema della nozione di moneta legale e sulla sua riferibilità non solo alla moneta di banca centrale, ma anche alla moneta scritturale ed elettronica delle banche commerciali e degli istituti di pagamento; qui il dibattito, che ha avuto evoluzioni estremamente complesse, registra fra le più recenti prese di posizione, nel senso di negare carattere di denaro alla moneta scritturale ed elettronica, G. Oppo, Finanziamenti in ECU, clausole monetarie e garanzie del prestito, in Riv. dir. civ., 1985, I, 197, 198; S. Sangiorgi, Il pagamento a mezzo della moneta scritturale, Torino, Giappichelli, 1993, 115 ss.; M. Cian, La criptovaluta – Alle radici dell’idea giuridica di denaro attraverso la tecnologia: spunti preliminari, in Banca borsa tit. cred., 2019, I, 315, 326; H. Siekmann, Monetary aspects of the Euro as single European currency – a German perspective, in R. Freitag, S. Omlor (eds.), The Euro as legal tender, Berlin-Boston, Walter de Gruyter, 2020, 1, 12, 37 ss.; in senso diverso cfr. V. De Stasio, Verso un concetto europeo di moneta legale: valute virtuali, monete complementari e regole di adempimento, in Banca borsa tit. cred., 2018, I, 747, 751; V. De Stasio, S. Boatto, The Euro as legal tender from an Italian perspective, in R. Freitag, S. Omlor, cit., 51, 58; V. Santoro, Le “trasformazioni” della moneta, in questa Rivista, 2024, 39, 48 s.; S. Martuccelli, Obbligazioni pecuniarie e pagamento virtuale, Milano, Giuffrè, 1998, 205; G. Marino, Dalla traditio pecuniae ai pagamenti digitali, Torino, Giappichelli, 2018, 18, 30; M. Giuliano, L’adempimento delle obbligazioni pecuniarie nell’era digitale, Torino, Giappichelli, 2018, 146; M. Semeraro, Moneta legale, moneta virtuale e rilevanza dei conflitti, in Riv. dir. banc., 2019, 237, 243; nonché G. Lemme, Moneta scritturale e moneta elettronica, Torino, Giappichelli, 2003, 24; Id., La rivoluzione copernicana della Cassazione: la moneta legale, dunque, non coincide con la moneta fisica, in Banca borsa tit. cred., 2008, II, 562 ss., che considera la moneta legale come “contesto normativo” di disciplina dell’adempimento, possibile anche attraverso moneta scritturale ed elettronica. Infine il testo infine non affronta il problema del significato e della portata del principio nominalistico, in particolare sotto il profilo della validità delle clausole di indicizzazione della prestazione pecuniaria. Su quest’ultimo punto mi pare condivisibile e ancora estremamente “moderna” l’impostazione di E. Quadri, Principio nominalistico e disciplina dei rapporti monetari, Milano, Giuffrè, 1979, specie 202 ss.; Id., Le obbligazioni pecuniarie, cit., 544 ss., che correla il principio nominalistico al perseguimento di obiettivi di politica economica statale, ed appare conseguentemente cauto nell’ammettere la validità di indicizzazioni in possibile contrasto con questi obiettivi. Nutro dunque perplessità a fronte delle impostazioni (come ad esempio quella di Dalla Massara, Obbligazioni pecuniarie. Struttura e disciplina dei debiti di valuta, Padova, Cedam, 2012, 184 ss.) tendenti a valorizzare il principio di autonomia contrattuale per sostenere tendenzialmente sempre la validità delle clausole di indicizzazione. Nemmeno credo che la questione possa essere ridotta ai profili (certo importanti, ma a mio avviso non esaurienti) di certezza, trasparenza, adeguatezza, proporzionalità dei rischi o abusività della clausola di indicizzazione, secondo la prospettiva di F. Pistelli, L’indicizzazione del regolamento contrattuale, Napoli, Editoriale scientifica, 2023, 211 ss. Il problema mi pare vada posto in via più generale (così come indicato da Quadri) interrogandosi sulla correlazione fra il principio nominalistico e gli interessi politici sottostanti alla definizione dei criteri di emissione della moneta legale.
[14] L’idoneità della moneta a fungere da strumento di scambio in assenza di un valore d’uso è messa in rilievo da M. Semeraro, Pagamento e forme di circolazione della moneta, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2008, 40. Anche nell’eventualità, ormai storicamente superata, che la moneta si incorpori in supporti dotati di un intrinseco valore d’uso, quali i metalli pregiati, «la funzione circolatoria del pezzo (e allora del metallo) viene a contrapporsi al valore d’uso del metallo»; così T. Ascarelli, (nt. 12), 14. L’obbligazione definita dalle parti in relazione al contenuto metallico e perciò al valore d’uso del pezzo trasforma del resto la prestazione pecuniaria in una permuta; cfr. infatti in prospettiva storica E. Barcellona, Ius monetarium, Bologna, Il Mulino, 2012, 121 s., e nella dottrina economica A. Graziani, The theory of the monetary circuit, in Economie et Sociétés, Monnaie et Production, 7/1990, 7, 10, per il quale «an economy using as money a commodity coming out of a regular process of production, cannot be distinguished from a barter economy». In questa prospettiva le impostazioni “nostalgiche” del metallismo e della sua funzione di protezione dell’interesse al mantenimento del valore della moneta (che chiaramente emergono in P. Grossi, Ricerche sulle obbligazioni pecuniarie nel diritto comune, Milano, Giuffrè, 1960, ad es. 93 e 123) finiscono in realtà per contraddire gli stessi fondamenti di un’economia monetaria. Non possono dunque convincere i tentativi (cfr. P. Grossi, cit., 123) di richiamare il ruolo storico del metallismo quale argomento per sostenere la libertà dei privati di introdurre clausole di rivalutazione, a tutela dell’interesse del creditore a non subire perdite di valore della moneta dovutagli (cfr. anche la precedente nt. 13).
[15] L’espressione è suggerita dal linguaggio utilizzato per l’elaborazione della teoria delle «aree valutarie ottimali» (optimal currency areas) da R.A. Mundell, A Theory of Optimum Currency Areas, in 51 Am. Ec. Rev. 657, 1961, il quale fra l’altro evidenziava la non necessaria coincidenza fra area valutaria ottimale e confini statali. In questa prospettiva il linguaggio di Mundell mi sembra particolarmente pertinente per illustrare il problema che l’emissione di token si propone di affrontare: e cioè il problema di non ottimalità dell’area valutaria definita dalle monete statali. La valorizzazione del concetto di area monetaria quale chiave di lettura della funzione economica dei token mi è stata suggerita da E.D. Martino, (nt. 4), 9 s., che sulla falsariga di Mundell conia l’espressione «digital currency area» ed il corrispondente acronimo DCA.
[16] Emerge talvolta l’affermazione secondo cui la moneta costituisce un dato della realtà sociale, cui la legge si limita a fare riferimento; cfr. F. Carbonetti, Moneta, in Dizionari del diritto privato, a cura di N. Irti, 5, N. Irti, G. Giacobbe, Diritto monetario, Milano, Giuffrè, 1987, 375; C. Pernice, Digital currency e obbligazioni pecuniarie, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2018, 144 s.; M. Passaretta, La valuta virtuale nel sistema dei servizi di pagamento e di investimento, Torino, Giappichelli, 2023, 13; S. Simitis, Bemerkungen zur rechtlichen Sonderstellung des Geldes, in AcP, 159 (1960-1961), 406, 418. La visione sociale della moneta si ricollega probabilmente all’impostazione generale di A. Nussbaum, (nt. 12), 8, secondo cui «the attitude of society, as distinguished from state, is paramount». Questa impostazione non può essere seguita se intende sostenere l’esistenza di un concetto pregiuridico di moneta vincolante per il legislatore. Il legislatore è sempre libero di definire i dati della realtà sociale che costituiscono elementi di una fattispecie monetaria giuridicamente rilevante: e di definirli sulla base di una valutazione “politica” di meritevolezza degli interessi sottostanti alla emissione di titoli rappresentativi di unità di misura di valore (v. subito oltre nel testo); in tal senso cfr. anche M. Cian, (nt. 13), 322. Ciò peraltro non significa restringere il concetto di moneta a quella emessa direttamente dagli stati (ora normalmente attraverso le rispettive banche centrali) nell’esercizio di poteri sovrani. La tendenza a contrapporre rigidamente concezioni “stataliste” e rispettivamente “sociali” della moneta è forse diffusa, ed emerge ad esempio in V. De Stasio, M. Rota, Le monete virtuali legali e il progetto dell’Euro Digitale, in M. Cian, C. Sandei, (nt. 2), 127, 133 s. Si tratta tuttavia di una contrapposizione da respingere, in quanto aprioristicamente esclude il potere degli stati di riconoscere funzione monetaria a titoli rappresentativi di unità di misura di valore emessi nell’ambito dell’autonomia privata (cfr. subito oltre nel testo).
[17] Nel linguaggio di G.F. Knapp, Staatliche Theorie des Geldes, Leipzig, Verlag von Duncker & Humblot, 1905, 122, sono queste le öffentliche Zahlgemeinschaften, che non escludono la contemporanea presenza di private Zahlgemeinschaften (nel linguaggio del presente lavoro, aree valutarie non statali).
[18] Sulle problematiche giuridiche di ricostruzione del rapporto fra SEBC, BCE e banche centrali nazionali cfr. C. Zilioli, M. Selmayr, La banca centrale europea, Milano, Giuffrè, 2007, 107 ss., secondo cui la BCE opera quale organo di governo del SEBC. Sulla correlazione fra emissione della moneta e perseguimento di politiche economiche cfr. F. Capriglione, voce Moneta, in Enc. dir., Agg. III, Milano, Giuffrè, 1999, 747, 751 ss.
[19] Di fatto, dal punto di vista economico (e salve le misure non convenzionali di quantitative easing), la politica della BCE si esprime essenzialmente attraverso la determinazione dei tassi di interesse. Rimangono sostanzialmente teorici i poteri previsti dall’art. 12 statuto SEBC di determinazione degli obiettivi monetari e dell’offerta di riserve; cfr. U. Bindseil, The operational target of monetary policy and the rise and fall of reserve position doctrine, in ECB working paper series, no. 372, June 2004, www.ecb.europa.eu. Lo stesso potere di autorizzare l’emissione di banconote in euro assume in realtà un rilievo marginale. L’emissione della banconota deriva dalla conversione (per far fronte a richieste della clientela) di riserve detenute dalle banche commerciali presso la banca centrale; nella dottrina economica cfr. S. Cesaratto, Sei lezioni sulla moneta, Santarcangelo di Romagna (RN), Diarkos, 2021, 44; ma il fenomeno era stato colto magistralmente fra i giuristi da K. Duden, Der Gestaltwandel des Geldes und seine rechtlichen Folgen, Karlsruhe, Verlag C.F. Müller, 1968, 13 s., il quale rilevava che «die Notenausgabe ist kein selbstständiges Geschäft der Zentralbank […] es ist, jedenfalls grundsätzlich, nicht die Zentralbank, sondern der Partner, der über die Ausgabe oder Nichtausgabe der Noten entscheidet […] die Notenausgabe ist wohl auch in Wahrheit keine „währungspolitische Befugnis“». Le riserve presso la banca centrale a loro volta si formano endogenamente per soddisfare la domanda di moneta espressa dal sistema bancario, sempre per effetto della determinazione dei tassi di interesse; cfr. la seguente nt. 37.
[20] La correlazione fra l’istituzione di una moneta unica e il perseguimento delle finalità di politica monetaria dell’Unione mi pare emergere da Corte Giust., 26 gennaio 2021, C-422-423/19, Dietrich, Häring c. Hessischer Rundfunk, in Racc., ECLI:EU:C:2021:63, punti 38 ss.
[21] In tal senso anche M. Cian, (nt. 13), 322, 333 ss.; più in generale, sul carattere monetario delle valute straniere, cfr. T. Ascarelli, (nt. 12), 40.
[22] Tenuto conto della possibilità di assoggettare il contratto a più leggi diverse prevista dall’art. 3.1 reg. 593/2008/CE.
[23] Cfr. C. Proctor, Mann and Proctor on the law of money8, Oxford, Oxford University Press, 2022, 208. Il principio di sovranità monetaria si esprime dunque essenzialmente nel potere dell’ordinamento di emettere una propria moneta (moneta legale) in funzione del perseguimento dei propri obiettivi di politica economica. Sulla base di questo potere l’ordinamento può (ma non necessariamente deve): a) imporre ai residenti nazionali di assumere obbligazioni in moneta legale, o limitare la possibilità di assumere obbligazioni in moneta estera; b) vietare o limitare la possibilità per i residenti esteri di assumere obbligazioni in moneta nazionale. In passato queste limitazioni erano frequentemente imposte dalla disciplina valutaria, cui il codice civile fa infatti riferimento attraverso il rinvio alle “leggi speciali” dell’art. 1281. L’attuale contesto di liberalizzazione dei movimenti di capitali ha favorito la progressiva riduzione di restrizioni valutarie ed una conseguente espansione del principio generale internazionalprivatistico di libertà di assunzione di obbligazioni in moneta estera. In questo contesto la più significativa espressione del potere di sovranità monetaria è probabilmente l’imposizione di assolvimento in moneta legale nazionale degli obblighi tributari. Al di fuori di questi casi particolari, non convince l’affermazione che correla in via generale la sovranità monetaria all’imposizione dell’obbligo di prestare e corrispondentemente accettare moneta legale in pagamento (legal tender): cfr. ad esempio A. Nussbaum, (nt. 12), 56 s.; B. Inzitari, Delle obbligazioni pecuniarie, (nt. 12), 4, 120 s.; V. De Stasio, (nt. 13), 749; V. De Stasio, S. Boatto, (nt. 13), 58; H. Siekmann, (nt. 13), 12, 37; P. De Vecchis, voce Moneta e carte valori, in Enc. Giur. Treccani, 7; V. De Luca, voce Moneta, in Dizionari del diritto privato, promossi da N. Irti, Diritto commerciale, a cura di N. Abriani, Milano, Giuffrè, 2011, 533, 541; M. Mancini, Valute virtuali e Bitcoin, in AGE, 2015, 117, 123. Questa affermazione pare già dubbia alla luce dell’origine storica del corso legale: che è nato per imporre al creditore l’accettazione della moneta cartacea in luogo di quella metallica, ma che nell’attuale contesto di definitivo superamento del principio metallistico è stato considerato sostanzialmente un relitto storico; cfr. F. Carbonetti, (nt. 15), 390, 403 s.; F. Pistelli, (nt. 13), 71; A. Sciarrone Alibrandi, L’interposizione della banca nell’adempimento dell’obbligazione pecuniaria, Milano, Giuffrè, 1997, 25 s. In via generale, comunque, l’obbligo di accettazione assume la volontà privata di contrarre obbligazioni denominate in moneta legale. Dire che i privati possono liberamente definire la valuta di regolamento dei loro rapporti pecuniari, equivale a dire che essi non sono vincolati alla funzione pubblicistica perseguita attraverso l’emissione di moneta legale, e così ridurre il principio di sovranità monetaria ad un mero flatus vocis; cfr. C.P. Gillette, American legal tender rules and risk allocation, in R. Freitag, S. Omlor, (nt. 13), 103, 119, secondo cui «legal tender rules have little effect in a modern economy because they can be circumvented by contractual requirements» (e cfr. anche le conclusioni di p. 127); in senso analogo C. Proctor, (nt. 23), 79. Rileva anche G. Bosi, Diritto monetario, Bologna, Il Mulino, 2023, 210, che l’utilizzazione di valute straniere sottrae allo stato spazi di esercizio di poteri di politica monetaria; e perspicuamente S. Simitis, (nt. 16), 426 s., pur sostenendo che l’obbligo di accettazione è strumentale all’interesse a favorire la circolazione del denaro statale in funzione di obiettivi di politica valutaria, precisa che questi obiettivi a loro volta presuppongono interventi dello stato nella disciplina privata dell’uso del denaro (interventi, mi pare di potere aggiungere, sempre meno frequenti nell’attuale contesto economico). In realtà nell’attuale contesto il principio di sovranità monetaria (al di fuori dei sempre più ridotti divieti di assunzione di obbligazioni in moneta estera) assume rilievo se ed in quanto i privati abbiano scelto di obbligarsi nella valuta definita dal “sovrano”: e ne abbiano condiviso le scelte di politica economica. Precisamente in questi casi spetta al sovrano ed a lui soltanto identificare i titoli rappresentativi di unità di misura del valore che il debitore è obbligato a prestare e il creditore è tenuto a ricevere; cfr. C. Proctor, (nt. 23), 356 ss.; F. Carbonetti, (nt. 15), 400. In sintesi: l’obbligo di accettazione non esprime un potere sovrano di imporre scelte di politica economica; al contrario piuttosto la capacità dell’ordinamento di esprimere scelte di politica economica condivise dalla comunità favorisce l’assunzione di obbligazioni pecuniarie denominate in moneta legale, e determina conseguenti obblighi del creditore di accettazione di questa moneta in pagamento.
[24] Cfr. M. Cian, (nt. 13), 337 s.; M. Mancini, (nt. 23), 123; V. De Stasio, (nt. 13), 759; G.L. Greco, Valute virtuali e valute complementari, tra sviluppo tecnologico e incertezze regolamentari, in Riv. dir. banc., 2019, 61, 64 ss., 80 (che argomenta dall’assenza di un sistema di regolamentazione dei pagamenti). In un contesto anteriore alla diffusione del fenomeno delle criptovalute cfr. anche la netta presa di posizione di S. Sangiorgi, (nt. 13), 118 s., secondo cui oggetto di obbligazione pecuniaria può essere solo la moneta definita come legale dal nostro o da altri ordinamenti.
[25] Lo stesso autore spesso presentato come il “campione” dei sostenitori della natura statale del denaro, e cioè G.F. Knapp, (nt. 17), riduceva a ben vedere il potere statale all’imposizione del contenuto metallico (cfr. p. 7 ss.) e alla definizione delle monete accettate in pagamento dei crediti vantati direttamente dallo stato medesimo. Knapp ad un tempo non negava affatto la libertà dei privati di assumere nei loro reciproci rapporti obbligazioni pecuniarie in monete non statali. Egli in particolare chiaramente ammetteva la funzione monetaria delle banconote, quand’anche emesse da privati, e tipicamente da banche (cfr. p. 86); precisava che queste monete formano comunità di pagamento private (private Zahlgemeinschaften, che l’autore contrappone alla öffentliche Zahlgemeinschaft dello stato, p. 122); e aggiungeva peraltro che le banconote private potevano in certi momenti storici essere accettate in pagamento dallo stato, e così divenire parte dell’ordinamento monetario pubblico; cfr. p. 86 e le affermazioni secondo cui «die Banknoten […] sind nicht von staatlicher Emission, treten aber mitunter in das Geldsystem des Staates ein»; «zum staatlichen Geldsystem gehören demnach alle Zahlungsmittel, mit denen man Zahlungen an den Staat leisten kann».
[26] Cfr. M. Passaretta, (nt. 16), 18, 38 ss.; C. Pernice, (nt. 16), 59; S. Capaccioli, Criptovalute e bitcoin: un’analisi giuridica, Milano, Giuffrè, 2015, 112; M.F. Campagna, Criptomonete e obbligazioni pecuniarie, in Riv. dir. civ., 2019, I, 183, 194 ss.; R. Catalano, L’adempimento dell’obbligazione con monete elettroniche e virtuali, in Banche, intermediari e Fintech, a cura di G. Cassano, F. Di Ciommo, M. Rubino De Ritis, Milano, Giuffrè, 2021, 357, 370 ss.; M.C. di Martino, Soluzioni e prospettive sulla “natura giuridica” delle valute virtuali, ivi, 297, 317 ss. Una funzione monetaria parrebbe comunque generalmente riconosciuta alle valute virtuali emesse dietro ricevimento di fondi vincolati a riserva, e convertibili in moneta legale al valore nominale (secondo lo schema dell’attuale disciplina degli EMT); cfr. F. Moliterni, Criptovaluta, valuta digitale, moneta elettronica e modelli di circolazione, in Le nuove frontiere dei servizi bancari e di pagamento fra PSD 2, criptovalute e rivoluzione digitale, a cura di F. Maimeri, M. Mancini, Banca d’Italia, Quaderni di ricerca giuridica n. 87, 2019, 183, 196; D. Salomone, Stablecoins on the way to the EU regulations on markets in crypto-assets, in Competition and payment services, a cura di V. Profeta, Banca d’Italia, Quaderni di ricerca giuridica n. 93, 2022, 49, 54; Comunicazione della Banca d’Italia relativa al regolamento MiCAR, luglio 2024, 4; cfr. anche G. Ghidini, E. Girino, Criptovalute, criptoattività, regole e concorrenza: la ricerca imperfetta di un equilibrio perfetto, in Financial Innovation tra disintermediazione e mercato, a cura di V. Falce, Torino, Giappichelli, 2021, 63, 77 ss., che riconoscono funzione monetaria a Libra, sulla base della sua copertura con riserve e del suo agganciamento a valute ufficiali.
[27] Erroneamente perciò a mio avviso i considerando 40 e 56 MiCAR sembrano fare riferimento all’utilizzazione degli ART come mezzo di scambio quale mera “eventualità”, anziché come caratteristica strutturale del token; e così pure Banca d’Italia, Comunicazione 22 luglio 2024, 4, fa riferimento all’offerta «alla clientela a fini di pagamento» in termini di possibilità; in dottrina cfr. anche D. Salomone, (nt. 26), 54. In realtà le caratteristiche strutturali degli ART sono le medesime indipendentemente dalle intenzioni soggettive dell’emittente o dei sottoscrittori di utilizzarli in funzione di pagamento. La disciplina MiCAR assume una portata generale e non autorizza in alcun modo l’interprete a circoscrivere l’applicazione delle sue norme sulla base di intenzioni soggettive (fra l’altro diverse, mutevoli e difficilmente accertabili) di sottoscrittori e acquirenti di ART.
[28] Per alcune proposte di qualificare le criptovalute, in primis i bitcoin, in termini di “beni immateriali” o “digitali”, riconducendone conseguentemente lo scambio allo schema della permuta, cfr. M. Cian, (nt. 13), 339; S. Capaccioli, (nt. 26), 153; S.A. Cerrato, Negoziare in rete: appunti su contratti e realtà virtuale nell’era della digitalizzazione, in Riv. dir. comm., 2018, I, 423, 457; D. Fauceglia, La moneta privata. Le situazioni giuridiche di appartenenza e i fenomeni contrattuali, in Contr. impr., 2020, 1253, 1270; D. Maffeis, Monete digitali e banche centrali, in ODCC, 2022, 153, 154 ss. Aderisce all’inquadramento delle criptovalute nella categoria dei beni anche G. Rinaldi, (nt. 2), 292 s. Le considerazioni del testo non toccano evidentemente il problema della qualificabilità in termini di beni degli asset digitali dotati di un intrinseco valore d’uso, come ad esempio gli NFT che incorporino rappresentazioni di immagini. La qualifica di queste tipologie di NFT quali beni può probabilmente essere condivisa; cfr. M.S. Spolidoro, Dal metaverso ad Acchiappa-citrulli? Riflessioni in tema di NFT, in AIDA, 2022, 518, 530 s. Si tratta tuttavia di token esclusi dal campo di applicazione del MiCAR, sia pur sulla base di una previsione (art. 2.3) che lascia spazio a margini interpretativi (cfr. i considerando 10-11).
[29] Non è quindi necessario valorizzare un preteso (e in realtà discutibile) principio di numerus clausus dei beni immateriali, che invece richiamano R. Lener, (nt. 2), 376; M.C. di Martino, (nt. 26), 315 s.; R. Bocchini, Lo sviluppo della moneta virtuale: primi tentativi di inquadramento e disciplina tra prospettive economiche e giuridiche, in Dir. inform., 2017, 27, 32.
[30] Più precisamente, l’unica differenziazione potrebbe essere ricostruita valorizzando non la funzione privatistica di scambio del contratto, ma la funzione pubblicistica del denaro: e cioè sostenendo che gli scambi con astratte rappresentazioni numeriche di valore sono consentiti dall’ordinamento se ed in quanto queste rappresentazioni si incorporano in titoli emessi nell’esercizio di potestà sovrane (eventualmente anche straniere). In questa prospettiva le criptovalute, in quanto non emesse nell’esercizio di potestà sovrane, non potrebbero costituire titolo giustificativo di scambi con beni o servizi. Una ricostruzione del genere tuttavia porterebbe a qualificare gli scambi con criptovalute non come validi contratti di permuta, ma come contratti nulli per illiceità della causa, in violazione dei princìpi di ordine pubblico di sovranità monetaria. Si tratterebbe di una ricostruzione indubbiamente dotata di una sua persuasività e forse anche di ragionevolezza; v. infatti al riguardo le perplessità di M. Tola, Valute virtuali tra sovranità monetaria e tutela costituzionale del risparmio, in Nuove leggi civ. comm., 2021, 1375 ss.; Ead., Valute virtuali e frode alla legge, in Banca, borsa, tit. cred., 2023, I, 794, 810 ss. Ad un tempo tuttavia una ricostruzione del genere è smentita dalla lettera delle norme sugli ART e più in generale dall’impianto sistematico del MiCAR, per le ragioni illustrate nel seguente par. 10.
[31] Rileva efficacemente C. Pernice, (nt. 16), 59, che nella permuta «l’attuazione del programma traslativo è modellata sulla valutazione del valore d’uso dei beni scambiati», mentre nello scambio con le valute virtuali «l’utilità marginale dell’alienante è valutabile esclusivamente in riferimento ai vantaggi che i successivi acquisti sono in grado di assicurare»; nello stesso senso M. Passaretta, (nt. 16), 46 s.
[32] In via generale, la funzione delle criptovalute di istituire aree monetarie è evidenziata da E.D. Martino, (nt. 4), 9 s.
[33] Non credo quindi che la definizione di aree monetarie private costituisca (normalmente) una risposta all’incapacità dell’ordinamento di ottimizzare l’area monetaria legale; né credo che la creazione di un’area monetaria privata dovrebbe seguire i princìpi di ottimalità illustrati da R.A. Mundell, (nt. 15), 661 ss. Si tratta semplicemente di prendere atto che le aree monetarie sono ottimali non in assoluto, ma in relazione alle diverse esigenze di diverse comunità di scambio: e che perciò ad esempio (e tipicamente) comunità di scambio formate da soggetti non coincidenti con i residenti di uno stato possono trovare “subottimale” qualsiasi area valutaria di origine statale (v. subito oltre nel testo).
[34] Un esempio significativo era dato dal progetto Libra di Facebook, che a quanto è dato di capire consisteva nella predisposizione di una moneta costruita sull’indice di un paniere di valute; cfr. A. Ferrari, G. Ferrero, Moneta pubblica e privata in un sistema economico moderno, 2020, http://www.francodebenedetti.it, 34 ss.
[35] Il carattere monetario accomuna senz’altro gli EMT agli ART, per le ragioni che ho già evidenziato in D. Sarti, Fintech e diritto della concorrenza, in M. Cian, C. Sandei, (nt. 2), 43, 59, sulla base della funzione di scambio che il MiCAR attribuisce a entrambe queste criptoattività.
[36] Sulla possibile utilizzazione di criptovalute in funzione della conclusione di smart contracts cfr. G. Gitti, Emissione e circolazione di criptoattività tra tipicità e atipicità nei nuovi mercati finanziari, in Banca borsa tit. cred., 2020, I, 13, 14; F. Mattassoglio, Moneta e tecnologia, Torino, Giappichelli, 61 ss.; F. Gambino, Euro digitale e corso legale della moneta, in Nuove leggi civ. comm., 2024, 743, 750; S.T. Omarova, New Tech v. New Deal: Fintech as a Systemic Phenomenon, 36 Yale Journ. Reg. 735 (2019), 744, 785; D. Arner, R. Auer, J. Frost, Stablecoins: risks, potential and regulation, in BIS Working Papers No. 905, November 2020, https://www.bis.org, 2 s.
[37] Al sito della BCE (https://www.ecb.europa.eu) si legge che «le banche possono ancora ottenere tutta la liquidità di cui hanno bisogno in base al sistema del tasso fisso con piena aggiudicazione degli importi richiesti»; mentre il prospetto della storia dei tassi di interesse praticati dalla BCE reperibile al sito della Banca d’Italia (https://www.bancaditalia.it) evidenzia che «dall’operazione con regolamento 15 ottobre 2008, le operazioni di rifinanziamento principali sono effettuate mediante aste a tasso fisso con piena aggiudicazione degli importi». In questa prospettiva il credito non viene selezionato attraverso la limitazione della liquidità offerta alle banche a fini di copertura degli obblighi di riserva: cfr. S. Cesaratto, (nt. 19), 42; U. Bindseil, (nt. 19). L’idea che l’offerta di riserve costituisca strumento di selezione dell’accesso al credito, presupposta da F. Pistelli, (nt. 13), 74, alla nt. 5, è dunque positivamente smentita dai citati documenti della BCE e della Banca d’Italia. Così pure non va sopravvalutata l’utilizzazione di strumenti quali la manovra del coefficiente di riserva minima delle banche. La dottrina tradizionale ritiene che la manovra di questo coefficiente sia funzionale a determinare l’offerta di moneta attraverso il meccanismo del moltiplicatore dei depositi; cfr. ad esempio F. Carbonetti, (nt. 15), 393 s.; F. Pistelli, op. loc. citt.; G. Stammati, voce Moneta, in Enc. dir., XXVI, Milano, Giuffrè, 1976, 746, 751; P. De Vecchis, Istituto di emissione, in N. Irti, G. Giacobbe, (nt. 16), 315, 341. In realtà la BCE (competente a fissare la percentuale di riserve minime in base all’art. 19 statuto SEBC e al reg. n. 2531/98/CE), pur in anni di forti turbolenze finanziarie, ha modificato il coefficiente una sola volta, abbassandolo dal 2% all’1% con regolamento 1358/2011/UE, di modifica del regolamento 1745/2003/CE (ora sostituito dal reg. 2021/378/UE, che all’art. 6.1, lett. b, ha mantenuto invariata quest’ultima percentuale). La manovra del coefficiente di riserva non vale a limitare l’accesso al credito in un sistema in cui la domanda di liquidità è comunque soddisfatta dalla BCE. La necessità di mantenere una riserva minima si spiega piuttosto in funzione delle esigenze di fluidità del sistema dei pagamenti interbancari e di creazione di una domanda di liquidità offerta dalla BCE ad un tasso di interesse (c.d. interesse per le operazioni di rifinanziamento principali) poi trasmesso (per effetto dell’intermediazione delle banche commerciali) al sistema economico; cfr. S. Cesaratto, op. cit., 55 s.; A. Ferrari, G. Ferrero, (nt. 34), 24; Indirizzo BCE 2015/510, all. 1, punto 2.
[38] Per una descrizione generale del meccanismo endogeno di creazione della moneta da un punto di vista economico cfr. S. Cesaratto, (nt. 19), 36 ss. Nella dottrina giuridica, ho ritrovato una certa consapevolezza di questo meccanismo in G. Bosi, (nt. 23), 10, 27 s., 156. Il carattere endogeno della moneta è tuttavia stato colto e valorizzato in particolare da O. Chessa, La costituzione della moneta, Napoli, Jovene, 2016, 318 ss., che ne ha evidenziato importanti implicazioni di tipo costituzionale (sull’inquadramento costituzionale della funzione monetaria cfr. anche N. Marzona, Funzione monetaria, Padova, Cedam, 1993, in particolare 32 s., dove ipotizza e parrebbe approvare, in linea con le successive scelte del T.F.U.E. criticate da Chessa, un esercizio del potere monetario svincolato da finalità e interessi politici). V. De Stasio, (nt. 13), 750, dà atto dell’interesse ad adeguare la massa monetaria alle esigenze dell’economia (dimostrando con ciò consapevolezza della creazione di moneta calibrata in base alla domanda di credito), ma ritiene che questa esigenza sia soddisfatta dal funzionamento del moltiplicatore bancario; a ben vedere tuttavia, secondo quanto emerso nella precedente nt. 37, le banche non si dotano ex ante di riserve per adeguare l’offerta di credito nei limiti consentiti dal meccanismo moltiplicatore, ma soddisfano elasticamente la domanda di credito dotandosi ex post delle riserve calcolate secondo il relativo coefficiente; cfr. S. Cesaratto, cit., 74 ss.; A. Ferrari, G. Ferrero (nt. 34), 24; nella dottrina giuridica il meccanismo è colto da O. Chessa, op. cit., 323 s. In questa prospettiva è decisamente da respingere la concezione della moneta quale “risorsa scarsa”, e pure va ripensata l’idea che la capacità creditizia delle banche sia limitata dalla quantità di moneta depositata; per considerazioni critiche relative a questa idea nella letteratura giuridica cfr. R.C. Hockett, S.T. Omarova, The Finance Franchise, in 102 Cornell L. Rev. 1143 (2017), 1153; nella letteratura economica cfr. ad esempio a Z. Jakab, M. Kumhof, Banks are not intermediaries of loanable funds – and why this matters, in Bank of England Working Paper No. 529, May 2015, reperibile in https://www.bankofengland.co.uk; M. McLeay, A. Radia, R. Thomas, Money creation in the modern economy, in Bank of England Quart. Bull., 2014 Q1, reperibile in https://www.bankofengland.co.uk. L’equivoco sottostante all’idea che le banche prestino (solo) il denaro precedentemente depositato è del resto efficacemente confutato dalla pubblicazione divulgativa di Bundesbank, Geld und Geldpolitik, 2022, https://www.bundesbank.de, che puntualizza (p. 79 s.): «häufig besteht die Vorstellung, dass Buchgeld nur dadurch entsteht, dass Bargeld auf ein Konto eingezahlt wird […] dabei wird aber übersehen, dass Bargeld vorher von einem Konto abgehoben wurde […] das Buchgeld war also vorher schon da […] die Frage ist deshalb, wer das Buchgeld schafft […] es sind die Banken, etwa wenn sie Kredite vergeben […] kurz gesagt: Die Buchgeldschöpfung ist ein Buchungsvorgang».
[39] Il legislatore segue quindi una tecnica corrispondente a quella della disciplina della gestione dei fondi ricevuti dagli istituti di pagamento non bancari (IP): e in entrambi i casi intende precludere a questi istituti (ivi compresi gli emittenti di ART e EMT) di svolgere operazioni creditizie e quindi sostanzialmente attività bancaria; cfr. V. Santoro, I conti di pagamento degli istituti di pagamento, in Giur. comm., 2008, I, 855, 860 s; M. Giuliano (nt. 13), 60 s.
[40] Il tema della possibile emissione di token attraverso operazioni creditizie è fortemente avvertito specialmente dagli economisti, che segnalano il rischio di ostacolo alle decisioni di politica economica sottostanti all’emissione della moneta legale, cfr. S. Cesaratto, E. Febrero, (nt. 4), 7 s. Non è comunque escluso che, anche nell’attuale sistema di divieto di emissione a credito, gli ART possano comunque diffondersi quale alternativa alla moneta legale e così ostacolare il controllo della politica monetaria; cfr. i timori espressi da BCE, Parere 19 febbraio 2021, in GUUE 29 aprile 2021, C 152/1, par. 2.1.3.
[41] Predeterminazione che invece sussiste per altre tipologie di criptoattività, quali i bitcoin, emessi nelle tempistiche e secondo le quantità predefinite con tecnica algoritmica.
[42] Cfr. il precedente par. 2.
[43] Diversamente da quanto sostenuto nel testo, secondo M. Cian, (nt. 6), 64, il carattere speculativo del trading su valute deriva dal movente individuale del singolo investitore, non dalla destinazione sociale tipica della valuta, che rimane una destinazione monetaria e ne esclude la qualificazione in termini di prodotto finanziario; le criptovalute non hanno invece una destinazione sociale altrettanto definita, e potrebbero assumere una destinazione finanziaria quando in concreto siano oggetto di negoziazioni diffuse in grado di fare emergere opportunità di investimento (cfr. p. 67). Per parte mia ritengo che questa conclusione sia in contrasto con la lettera della disciplina del MiCAR (cfr. il precedente par. 3 e la nt. 10). D’altro canto, a livello generale, non mi convince il tentativo di valorizzare la “destinazione sociale” della criptoattività. Il concetto di destinazione sociale è già di per sé “sfuggente”, anche perché lo scambio della criptoattività può riflettere di volta in volta interessi diversi di ciascun diverso contraente (è certo ad esempio possibile che il venditore del token si proponga di realizzare un rendimento finanziario, e che il compratore si proponga invece di partecipare agli scambi sull’area monetaria). Il discrimine fra funzione monetaria e finanziaria non va perciò ricercato in una “destinazione sociale” dello strumento, ma negli interessi che assumono rilievo giuridico secondo la volontà “politica” del legislatore, indipendentemente dalla loro rispondenza agli obiettivi soggettivamente perseguiti dalle parti nella loro transazione.
[44] Il preteso requisito di stabilità è stato valorizzato talvolta per negare la funzione monetaria del bitcoin; cfr. S.A. Cerrato, (nt. 28), 456; G. Ghidini, E. Girino, (nt. 26), 68 s.; G. Rinaldi, (nt. 2), 282 s.; G. Schneider, (nt. 2), 964 s.; F. Mattassoglio, (nt. 36), 44 ss.; Ead., Quale futuro per bitcoin e la sua decentralizzazione? Riflessioni in attesa della pronuncia sul caso Tulip Trading, in Riv. dir. banc., 2023, 283, 314; G. Lemme, S. Peluso, Criptomoneta e distacco dalla moneta legale: il caso bitcoin, in Riv. dir. banc., 2016, 381, 432; E. Girino, Criptovalute: un problema di legalità funzionale, ivi, 2018, 733, 753 ss.; G. Gasparri, Timidi tentativi giuridici di messa a fuoco del bitcoin: miraggio monetario crittoanarchico o soluzione tecnologica in cerca di un problema?, in Dir. inform., 2015, 415, 419 s.; ECB, Virtual currency schemes – a further analysis, February 2015, https://www.ecb.europa.eu, 23 s.
[45] Pertinente in tal senso mi sembra la critica al preteso requisito di stabilità e conservazione del potere d’acquisto della moneta che si ritrova in M. Passaretta, (nt. 16), 17 s., il quale giustamente rileva che l’applicazione rigorosa di questo principio dovrebbe portare a negare natura monetaria a numerose valute di paesi in via di sviluppo, talvolta colpite da drammatiche perdite di valore (tanto in termini di potere d’acquisto, quanto in termini di rapporto di cambio con le valute delle economie più avanzate). Perplessità sull’effettivo significato del principio di stabilità della moneta si ritrovano anche in M.C. di Martino, (nt. 26), 319. V. pure M.F. Campagna, (nt. 26), 200, che dà al requisito di riserva di valore un significato talmente ampio da potersi adattare alle criptoattività.
[46] Cfr. anche E. Silvestri, Clausole di indicizzazione convenzionale, in N. Irti, G. Giacobbe, (nt. 16), 95, 101, secondo cui l’inflazione ha svuotato la moneta della sua funzione di riserva di valore.
[47] Né vale replicare che l’interesse alla stabilità dei prezzi è positivamente riconosciuto dagli artt. 127, 282.2 T.F.U.E. e 2 statuto SEBC, ed orienta la politica monetaria della BCE. Al di là del fatto che questa politica comunque accetta un contenuto livello di inflazione, attualmente pari al 2% sul medio periodo (cfr. https://www.ecb.europa.eu), e prescindendo dall’arbitrarietà di questo livello e del periodo di riferimento, certo comunque: a) credo che nessuno contesterebbe il mantenimento della funzione monetaria dell’euro anche nei momenti in cui la BCE non fosse in grado di rispettare (nemmeno nel medio periodo) questi target inflazionistici; b) i target inflazionistici sono definiti nell’area monetaria legale dell’euro, e non possono essere arbitrariamente valorizzati per sindacare la funzione monetaria di valute di altri paesi o di origine privata.
[48] L’art. 3.3(3) della proposta 2020/0265 presentata dalla Commissione il 24 settembre 2020 espressamente faceva riferimento alla possibilità di costruire l’ART su un indice rappresentato da «una o più cripto-attività». L’espressa menzione delle criptoattività è scomparsa nella versione definitiva del MiCAR. La versione entrata in vigore ha tuttavia chiaramente voluto allargare, non restringere, la possibile utilizzazione di indici di riferimento, che possono ora venire costruiti genericamente su «valori o diritti», e non più soltanto su monete, criptoattività o «una o più merci». Mi pare dunque difficile ritenere che la volontà del legislatore di consentire l’emissione di ART agganciati genericamente a “valori o diritti” (e non più solo monete, criptoattività o merci) possa sottintendere una esclusione delle criptoattività da questi valori.
[49] In astratto l’emissione di ART potrebbe essere considerata come una tecnica di raccolta di capitali in funzione dell’investimento della corrispondente riserva di attività, considerando anche che i proventi e le perdite di questo investimento «sono a carico dell’emittente del token collegato ad attività» (art. 38.4 MiCAR). La previsione è particolarmente importante in quanto vale a distinguere gli ART dai fondi comuni di investimento; cfr. F. Annunziata, La disciplina europea, (nt. 2), 952 s. Si tratta comunque di un investimento definito non dall’iniziativa autonoma dell’emittente, ma autoritativamente imposto dal legislatore a tutela del diritto di rimborso. Ricondurre l’operazione di emissione dei token a una causa finanziaria di raccolta di capitali allargherebbe i confini di questa causa fino a farle perdere ogni significato sostanziale. La disciplina di raccolta di capitali sul mercato finanziario si giustifica infatti per l’interesse a dare informazioni sul programma di investimento finanziato e sui relativi rischi; nel caso degli ART il programma di investimento è automaticamente definito dalla causa di emissione del token, e rende necessario dare informazioni precisamente su questa causa.
[50] Cfr. C. Sandei, (nt. 2), 158 ss.; F. Annunziata, Speak, if you can, (nt. 10), 5; G. Gitti, (nt. 36), 15, 17 s.; G. Schneider, (nt. 2), 971; C. Frigeni, L’offerta sul mercato, (nt. 2), 381; S.T. Omarova, (nt. 36), 784 ss.; G. Gitti, M.R. Maugeri, C. Ferrari, Offerte iniziali e scambi di cripto-attività, in ODCC, 2019, 95 ss.; M. De Mari, Prime ipotesi per una disciplina italiana delle Initial Token Offerings (ITOs): token crowdfunding e sistemi di scambio di crypto-asset, in questa Rivista, 2019, 267, 270 s.; L. Ferrais, Le initial coin offerings: fattispecie in cerca d’autore, in Fintech, a cura di M.T. Paracampo, II, Torino, Giappichelli, 2019, 269 ss.; S. Bruno, La raccolta del risparmio mediante emissione di cripto-attività: le initial coin offerings, in G. Cassano, F. Di Ciommo, M. Rubino De Ritis, (nt. 26), 273 ss.; I. Capelli, La struttura finanziaria delle imprese e gli strumenti finanziari digitali. Prime considerazioni tra decentralizzazione e regolazione nel contesto del DLT Pilot regime e del decreto Fintech, in Dir. inform., 2023, 645, 659.
[51] Su questa classificazione cfr. C. Sandei, (nt. 2), 6 s.; S. Bruno, (nt. 50), 274; D. Salomone, (nt. 26), 50; I. Capelli, (nt. 50), 661 s.; R. Lener, (nt. 2), 378; M. De Mari, (nt. 50), 285; Id., Le cripto-attività nella disciplina MiCAr e la finanziarietà delle “cripto-attività non finanziarie”, dicembre 2023, https://www.dirittobancario.it, 5; F. Annunziata, Verso una disciplina europea delle cripto-attività. Riflessioni a margine della recente proposta della Commissione UE, ottobre 2020, https://www.dirittobancario.it, 1 s.; E. Rulli, Incorporazione senza res e dematerializzazione senza accentratore: appunti sui token, in questa Rivista, 2019, 121, 131 ss.; F. Mattassoglio, Le proposte europee in tema di crypto-assets e DLT. Prime prove di regolazione del mondo crypto o tentativo di tokenizzazione del mercato finanziario (ignorando bitcoin)?, in Riv. dir. banc., 2021, 413, 424; R. Lener, L. Furnari, (nt. 2), 165.
[52] Il problema del possibile carattere ibrido dei token è spesso sollevato in dottrina; cfr. ad esempio F. Annunziata, La disciplina delle trading venues, (nt. 10), 45; Id., Speak if you can, (nt. 10), 21; L. Ferrais, (nt. 50), 289; M. De Mari, (nt. 50), 271, 298; Id., (nt. 2), 5; s.; G. Gitti, (nt. 36), 37 s.; S. Bruno, (nt. 50), 274; G. Schneider, (nt. 2), 379.
[53] L’idea che la finanziarietà presupponga una aspettativa di rendimento pare generalmente condivisa, cfr. F. Annunziata, La disciplina delle trading venues, (nt. 10), 47; C. Sandei, (nt. 2), 28 (che parla di prospettiva di oggettivo accrescimento della disponibilità); G. Carrière, (nt. 2), 156, con richiami a provvedimenti CONSOB; G. Schneider, (nt. 2), 963; R. Lener, (nt. 2), 380; R. Lener, L. Furnari, (nt. 2), 168 s. Il problema della forma che questo rendimento deve assumere mi pare tuttavia sottovalutato, o comunque superato dalla convinzione (criticabile) che le aspettative di remunerazione possano derivare dalla negoziazione dello strumento su un mercato secondario. Ritiene necessario un rendimento di carattere monetario E. Righini, (nt. 2), 1165, peraltro in un momento storico in cui il problema della natura dei token non si era ancora posto.
[54] La nozione di valore mobiliare contenuta nell’art. 18-bis del d.l. n. 95/1974, introdotto dalla l. 77/1983, vi ricomprendeva anche i titoli rappresentativi di «diritti in […] associazioni». Si trattava tuttavia di nozione probabilmente sprovvista di un reale contenuto tecnico precettivo, e funzionale ad evitare tentativi di elusione: cfr. F. Carbonetti, Che cos’è un valore mobiliare?, in Giur. comm., 1989, I, 280 ss., 289. In ogni caso l’attuale elencazione degli strumenti finanziari dell’all. I, sez. C, MiFID, per quanto resa elastica dalla nozione di “valore mobiliare” dell’art. 4.1, n. 44, non mi pare allargabile fino al punto da ricomprendervi titoli rappresentativi di apporti a fondo perduto, e in tal senso mi sembra del resto orientata la dottrina citata nella nt. precedente. Al riguardo è poi ulteriormente significativo che il reg. 2017/1129/UE (reg. prospetto) all’art. 1.2, lett. e, parla di “titoli” di partecipazione in associazioni, evitando di utilizzare l’espressione “strumenti finanziari”. L’attuale formulazione della norma sembra così volere definitivamente superare l’equivoco terminologico cui poteva indurre l’art. 1.2, lett. e, dell’abrogata direttiva 2003/71/CE, che in effetti utilizzava l’espressione “strumenti finanziari” anche per le partecipazioni emesse da associazioni.
[55] Negano la possibilità di ricondurre le utilità del token a un rendimento finanziario P. Hacker, C. Thomale, Crypto-Securities Regulation: ICOs, Token Sales and Cryptocurrencies under EU Financial Law, in 15 Eur. Comp. Fin. L. Rev. 645 (2018), reperibile in https://ssrn.com, 28 s. Così pure in senso analogo mi paiono tuttora valorizzabili le considerazioni di E. Righini, (nt. 2), 1165, pur non direttamente riferite ai token, ma comunque ragionevolmente da leggere nel senso di escludere in via generale la finanziarietà di vantaggi rappresentati dall’accesso a beni o servizi. Un orientamento diverso (criticato da P. Hacker, C. Thomale, op. cit., 34) sembra in effetti emergere nella giurisprudenza statunitense; in particolare nel leading case SEC v. W. J. Howey Co., 328 U.S. 293 (1946), 301, si legge che «it is immaterial whether the enterprise is speculative or non-speculative or whether there is a sale of property with or without intrinsic value». Così pure in United States of America before the Securities and Exchange Commission – Release No. 10445 / December 11, 2017 – Munchee, si legge (punto 35) «even if […] tokens had a practical use at the time of the offering, it would not preclude the token from being a security». Questi precedenti ammettono dunque esplicitamente la possibile funzione finanziaria di strumenti dotati di intrinsic value utilitario; e ad un tempo implicitamente parrebbero desumere la finanziarietà dalla negoziabilità su mercati secondari, quand’anche il prezzo rifletta la stima di intrinsic value, e non l’attualizzazione di flussi di cassa attesi. La soluzione (forse) sottesa ai precedenti statunitensi è comunque senz’altro incompatibile con la disciplina MiCAR, per le ragioni esposte subito oltre nel testo.
[56] Sulla possibile esistenza di token assolutamente privi di valore utilitario cfr. P. Hacker, C. Thomale, (nt. 55), 13.
[57] Cfr. D. Boreiko, G. Ferrarini, P. Giudici, Blockchain Startups and Prospectus Regulation, in Eur. Bus. Org. L. Rev., 2019, 665, 681: «there are clear similarities with investment in shares»; «the investor does not get dividends and pro quota liquidation value, but instead receives the increase (decrease) in the value of the token that is related to the increase (decrease) in the value of the platform».
[58] Al seguente par. 10.
[59] Rileva C. Sandei, (nt. 2), 34, che i token più autentici non prevedono una ricompensa monetaria.
[60] Come sostengono P. Hacker, C. Thomale, (nt. 55), 13; G.L. Greco, (nt. 24), 82 (nell’ambito di un’argomentazione tendente a ricondurre i token alla categoria dei prodotti finanziari); G. Schneider, (nt. 2), 973; M. Passaretta, (nt. 16), 150 (che parifica il rendimento in valuta virtuale a quello in moneta legale).
[61] M. Semeraro, (nt. 13), 254, sembra equiparare all’interno della categoria della “moneta virtuale” i token emessi in sede di finanziamento della piattaforma e rispettivamente a titolo di partecipazione dei proventi; ma non parrebbe volere escludere in questi casi la compresenza di elementi finanziari e rispettivamente monetari dell’operazione.
[62] Cfr. C. Sandei, (nt. 2), 82: «è ben possibile che, con l’ampliamento della base, la stessa criptovaluta veda finalmente crescere la propria accettazione sociale come mezzo di pagamento e quindi la propria funzione monetaria, a discapito di quella speculativa o di consumo» (e cfr. poi le conclusioni di p. 216).
[63] La “cornice” generale di questa impostazione si ritrova nella tesi di F. Annunziata, La disciplina delle trading venues, (nt. 10), 45 ss., secondo cui la qualifica di finanziarietà dipende dalla disciplina delle sedi di negoziazione, e in ultima analisi dalla contrattazione dello strumento in queste sedi (c.d. approccio top-down, in contrapposizione all’approccio bottom-up basato sulle caratteristiche della singola fattispecie di strumento); cfr. anche Id., Speak, if you can, (nt. 10), 38 ss. L’idea di desumere la finanziarietà del token dalla sua possibilità di negoziazione (tipicamente su mercati secondari, o talvolta addirittura sulla base di impegni dell’emittente al riacquisto del token) è comunque ampiamente diffusa (e da questo punto di vista appare di scarso rilievo la distinzione delle tesi che riconducono la criptoattività alla categoria dei prodotti o rispettivamente degli strumenti finanziari); cfr. C. Sandei, (nt. 2), 42 s.; G.L. Greco, (nt. 24), 82; E. Rulli, (nt. 51), 146 ss.; D. Boreiko, G. Ferrarini, P. Giudici, (nt. 57), 677; G. Gitti, (nt. 36), 37 s.; D. Masi, (nt. 2), 260 s.; M. De Mari, (nt. 2), 21; G. Schneider, (nt. 2), 976; R. Lener, (nt. 2), 382; R. Costi, (nt. 2), 14. Un analogo ordine di idee emerge dalle prese di posizione della CONSOB, e anzitutto dalla celebre comunicazione 22-10-1998, n. DIS/98082979, che ha qualificato finanziaria un’offerta di vendite di vini mediante titoli standardizzati, intermediati da una banca, e destinati alla negoziazione sul mercato secondario (così che infatti la successiva Comunicazione CONSOB, 28-1-1999, DIS/99006197 ha argomentato il venir meno dei profili di finanziarietà a seguito della rinuncia all’organizzazione di un mercato secondario). Cfr. anche CONSOB, Le offerte iniziali e gli scambi di cripto-attività – Rapporto finale, 2 gennaio 2020, https://www.consob.it, 5, che aveva proposto un approccio regolamentare basato sul fatto che «l’appeal delle ICO nei confronti del mercato retail pare in larga misura essere rappresentato proprio dalla prospettazione/possibilità di rivendita dei token su un c.d. mercato secondario». Una interessante (e per numerosi aspetti condivisibile) critica all’idea di desumere la finanziarietà dalle possibilità di rivendita sul mercato secondario si ritrova in P. Hacker, C. Thomale, (nt. 55), 34 ss., peraltro nell’ambito di una impostazione orientata a ritenere (diversamente da quanto sostenuto nel testo) che la remunerazione in criptovaluta costituisca una forma di rendimento idonea a dare al token caratteri di finanziarietà.
[64] Cfr. D. Preite, Recenti sviluppi in tema di contratti differenziali semplici (in particolare caps, floors, swaps, index futures), in Dir. comm. int., 1992, 171, 176, nt. 12; P. Hacker, C. Thomale, (nt. 55), 27; nei flussi di cassa va evidentemente ricompreso il valore del rimborso del capitale alla scadenza.
[65] L’interesse a ridefinire le condizioni di esposizione al rischio è considerato tipicamente alla base delle contrattazioni del mercato secondario: cfr. S.T. Omarova, (nt. 7), 6, secondo cui «secondary markets sit “on top” of primary markets, as a vital “overflow” space for absorbing, sharing and repricing financial risks and rewards inherent in the process of capital formation».
[66] La possibilità di giustificare i derivati sulla base delle funzioni normalmente attribuite al mercato finanziario è problematica. Il derivato, in quanto tale, non è strumento per trasferire risorse da unità in surplus a unità in deficit; cfr. A. Perrone, Il diritto del mercato dei capitali, Milano, Giuffrè Francis Lefbvre, 2020, 23. Lo stesso D. Preite, (nt. 64), 178 s., nt. 14, pur nell’ambito di un’impostazione decisamente orientata ad evidenziare gli effetti positivi dei derivati, dà atto che essi non incentivano la sottoscrizione di titoli o la concessione di crediti. Preite conclude comunque che la contrattazione sui derivati contribuisce al buon funzionamento del mercato sottostante, in quanto aumenta le informazioni sulle stime dei prezzi futuri dei titoli. La rispondenza di questa conclusione alla realtà dei fatti fa in realtà sorgere seri dubbi. Così ad esempio F. Denozza, La frammentazione del soggetto nel pensiero giuridico tardo-liberale, in Riv. dir. comm., 2014, I, 19 ss. ha lamentato la tendenza a fare della moltiplicazione delle transazioni massimizzanti un valore in sé, indipendente da ogni valutazione degli effetti per gli equilibri generali del sistema economico. Analogamente S.T. Omarova, (nt. 7), 15, ha riesaminato criticamente l’orientamento secondo cui «if a new financial product or service promises to generate private cost savings or other quantifiable efficiencies for the transacting counterparties — traders, dealers, lenders, borrowers, etc. — it is presumed to constitute a bona fide financial innovation»; con la conseguenza che «the broader systemic benefits of that product or service are usually simply presumed to follow directly from these micro-level gains».
[67] Il necessario riferimento del derivato ad “altra” attività sottostante è evidenziato da V.V. Chionna, (nt. 2), 4; nonché da M. Cian, La nozione, (nt. 2), 1453 (che parla di parametro esogeno); R. Di Raimo, Dopo la crisi, come prima e più di prima, in Swap tra banche e clienti, a cura di D. Maffeis, Milano, Giuffrè, 2014, 3, 46; C. Angelici, Alla ricerca del “derivato”, Milano, Giuffrè, 2016, 20. I riferimenti all’alterità o esogeneità evidenziano che il sottostante deve essere esterno e autonomo dal rapporto contrattuale costituito dal derivato, come del resto implicito nel concetto stesso di “derivazione” di valore, cfr. A. Niutta, (nt. 2), 833; BCE, The payment system, 2010, https://www.ecb.europa.eu, 93; da questo punto di vista non mi pare assuma diversa portata sostanziale, ma puramente terminologica, la prospettazione di E. Girino, I contratti derivati, Milano, Giuffrè, 2001, 2001, 6, secondo cui lo strumento finanziario “insisterebbe” sul sottostante, piuttosto che derivare da esso.
[68] Segnala D. Preite, (nt. 64), 178 s., nt. 14, che il derivato presuppone un mercato secondario, senza il quale non si creerebbero le differenze di valore su cui si basa il suo contenuto.
[69] Dissento quindi (se ho ben compreso) dal pensiero di F. Annunziata, La disciplina delle trading venues, (nt. 10), 50, secondo cui «quando il token ha, come sottostante, uno strumento di raccolta di capitale riconducibile alle tassonomie note al diritto comune, la sua qualificazione alla stregua di un derivato pare, tutto sommato, agevole»; così che «questo potrebbe essere, ad esempio, il caso di un token emesso […] nel contesto di operazioni di crowdfunding, e che avrebbe […] come “sottostante” quote di società a responsabilità limitata». La possibilità di emettere token derivati da quote di s.r.l. è indubbia, così come indubbia in tal caso è la loro riconducibilità alla categoria degli strumenti finanziari (cfr. il seguente par. 13). L’esempio di Annunziata fa tuttavia pensare ad un token emesso in un’operazione di finanziamento, e corrispondentemente sottoscritto dal finanziatore come titolo di partecipazione al capitale della società. In questo caso il token non è “derivato” dalla quota, ma è esso stesso quota di partecipazione, che incorpora i relativi diritti.
[70] Cfr. A. Perrone, (nt. 66), 4, 11; A. Sciarrone Alibrandi, I bisogni finanziari, in Diritto commerciale, IV, a cura di M. Cian, Torino, Giappichelli, 2024, 14 s. Quest’ultima in effetti allarga la funzione del mercato al soddisfacimento di ulteriori “bisogni finanziari in senso lato” (quali ad es. i bisogni di consulenza e gestione del rischio di investimento), peraltro pur sempre riconducibili ad un generale interesse a un’efficiente allocazione del capitale. Questo interesse è allora a mio avviso assolutamente estraneo all’emissione di bitcoin, dove è assente qualsiasi correlazione con operazioni di raccolta e investimento di capitali.
[71] Cfr. C. Sandei, (nt. 2), 77 ss.; T.N. Poli, (nt. 2), 26; G. Rinaldi, (nt. 2), 288; E. Girino, (nt. 44), 754 ss.; F. Mattassoglio, (nt. 36), 52 ss.; M. De Mari, (nt. 2), 3, 21; M. Cian, Noterelle, (nt. 2), 6 s., che condivide (non le argomentazioni, ma comunque) l’esito dell’annotata decisione di Cass., 10 novembre 2021, n. 44337, (nt. 2); M. Passaretta, Bitcoin: il leading case italiano, in Banca borsa tit. cred., 2017, II, 471, 477; nel senso di negare carattere finanziario ai bitcoin cfr. invece R. Lener, S.L. Furnari, (nt. 2), 176.
[72] Con specifico riferimento alla blockchain, cfr. S.T. Omarova, (nt. 7), 14: «focusing the discussion on the efficiency-enhancing impact of blockchain adoption on primary markets diverts policymakers’ attention away from the far more salient fact that digital assets – cryptocurrencies, tokenized securities, derivatives, and other instruments – are still predominantly used for generating and augmenting secondary market trading with no meaningful connection to any real economic activity».
[73] In effetti, il riconoscimento legislativo degli strumenti finanziari derivati non è sempre facilmente spiegabile in funzione dell’interesse al finanziamento dei soggetti in deficit di liquidità (cfr. la precedente nt. 66). Anche per questa ragione sono state proposte interpretazioni tendenti a circoscrivere fortemente la validità dei contratti derivati (e ad ammetterla essenzialmente per i cc.dd. derivati di copertura); cfr. al riguardo in particolare E. Barcellona, Contratti derivati puramente speculativi: fra tramonto della causa e tramonto del mercato, in D. Maffeis, (nt. 67), 144 ss.; e per un atteggiamento di diffidenza nei confronti dei derivati tendenti a creare artificialmente rischi (quanto meno) di credito cfr. F. Delfini, Contratti derivati OTC: problemi di validità e di qualificazione (a margine di un recente libro in tema di Swap), in Contr. impr., 2014, 910, 926 ss. I derivati dovrebbero tuttavia consentire pur sempre di “prezzare” il rischio dello svolgimento di attività economiche (latamente inteso in senso comprensivo del rischio di andamento dei prezzi di fattori produttivi, ad esempio di merci, o di eventi naturali influenti sullo svolgimento dell’attività imprenditoriale, come i derivati climatici). In linea di principio è dunque sempre sostenibile (quanto meno astrattamente, cfr. i dubbi sollevati alla nt. 66) che le emissioni di strumenti finanziari sul mercato primario da parte dei soggetti in deficit di liquidità beneficiano delle informazioni sulle condizioni di rischio elaborate ed affinate attraverso la negoziazione dei derivati. In questa prospettiva ben si spiega il tendenziale atteggiamento di maggior favore per i derivati negoziati sui mercati regolamentati (ma direi ora anche sui sistemi multilaterali o organizzati di negoziazione definiti dall’art. 4.1, nn. 22-23, MiFID, posto che l’art. 2, n. 7, reg. n. 648/2012, riconosce e perciò credo necessariamente tuteli i derivati over the counter trattati su qualsiasi trading venue vigilata, anche al di fuori dei mercati regolamentati nel senso stretto dell’art. 4.1, n. 21, MiFID); e reciprocamente si spiega la ricerca di una causa giustificativa più puntuale per i derivati negoziati al di fuori di mercati vigilati; cfr. ad esempio C. Angelici, (nt. 67), 155 ss.; D. Maffeis, Contratti derivati, in Banca borsa tit. cred., 2011, I, 604, 608. Non è evidentemente possibile prendere posizione su un tema così delicato, che vede in campo ulteriori opinioni orientate in senso sempre e comunque favorevole a riconoscere la validità del derivato; cfr. ad esempio D. Preite, (nt. 64), 171 ss.; E. Girino, (nt. 67), 163 ss.; F. Caputo Nassetti, I contratti derivati finanziari2, Milano, Giuffrè, 635. Certo comunque l’inclusione delle valute virtuali come il bitcoin nella categoria degli strumenti finanziari non può essere giustificata secondo la logica sottostante al riconoscimento della natura finanziaria dei derivati. Seguendo lo schema concettuale di M. Cossu, P. Spada, Dalla ricchezza assente alla ricchezza inesistente. Divagazioni del giurista sul mercato finanziario, in Banca borsa tit. cred., 2010, I, 401 416 s., il derivato crea “ricchezza inesistente” che trova il proprio titolo giustificativo nell’interesse a prezzare il rischio di andamento economico di ricchezze sottostanti (assenti ma) reali; la criptovaluta crea “ricchezza inesistente” che non può trovare titolo giustificativo in alcun sottostante (cfr. il precedente testo al richiamo della nt. 66).
[74] Rileva efficacemente S.T. Omarova, (nt. 7), 6: che «‘secondary’ markets are just what the name implies: they are functionally secondary, or subordinated, to the primary markets».
[75] Cfr. la precedente nt. 66.
[76] In prospettiva diversa C. Sandei, (nt. 2), 162, rileva che ««non è facile offrire una motivazione per cui una relazione seriale di puro investimento (come quella che di fatto caratterizza molte criptovalute e gli investment token), che sia anche negoziabile in forme analoghe a quelle dei mercati organizzati, dovrebbe subire un trattamento (anche solo in parte) diverso dagli (altri) strumenti finanziari (tipici)»; in senso analogo anche G. Schneider, (nt. 2), 978. In realtà l’equivalenza funzionale dei token e rispettivamente degli strumenti finanziari MiFID costituisce una petizione di principio, almeno fino a quando non si dimostri che in entrambi operano gli stessi meccanismi di remunerazione del capitale. Sotto questo profilo le remunerazioni dei token possono presentare differenze enormi rispetto ai rendimenti di azioni, obbligazioni, o altri strumenti finanziari. La società non crea la moneta destinata a remunerare i suoi azionisti, obbligazionisti e finanziatori; l’emittente dei token all’opposto potrebbe definire un programma di investimento che preveda la creazione diretta da parte dell’emittente medesimo (o di suoi partner commerciali) dei token destinati a “remunerare” gli investitori. Sarebbe assolutamente inaccettabile paragonare questa forma di “rendimento” a quello in moneta legale corrisposto da una società, e parimenti inaccettabile sarebbe qualsiasi paragone fra i profili di rischio e rendimento delle due ipotesi. Il paragone sembrerebbe a prima vista maggiormente plausibile se la remunerazione dei token sottoscritti avvenisse attraverso l’assegnazione di token differenti, emessi da un terzo al di fuori di qualsiasi accordo con l’emittente dei token remunerati. In una simile ipotesi (non so quanto frequente, ma che forse ricorreva nel caso investigato da SEC, Release N. 81207, July 25, 2017, The DAO) tuttavia, dal punto di vista economico, la redditività della remunerazione corrisposta attraverso l’assegnazione dei token emessi da un terzo dipende dalla utilizzabilità di questi ultimi token come mezzo di scambio. Il rischio economico di investimento nei token remunerati si ricollega perciò al successo dell’iniziativa imprenditoriale del terzo emittente dei token assegnati in remunerazione; ed è un rischio strettamente correlato al successo dell’area valutaria in cui questi ultimi token risultano spendibili. Si tratta di profili di rischio essenzialmente monetari, estranei a quelli che caratterizzano la remunerazione dei normali strumenti finanziari. Il sottoscrittore di normali strumenti finanziari non corre il rischio di insuccesso di iniziative imprenditoriali intraprese da un terzo in funzione della creazione di un’area valutaria.
[77] Cfr. E.D. Martino, (nt. 4), 10, che elabora in proposito il concetto di digital currency area (DCA): «digital currency areas can be defined as networks where payments and transactions are made digitally by using a currency that is specific to that network»; d’altro canto D. Boreiko, G. Ferrarini, P. Giudici, (nt. 57), 673, parlano di «complex monetary system», sviluppando le ulteriori argomentazioni riesaminate criticamente subito oltre nel testo.
[78] D. Boreiko, G. Ferrarini, P. Giudici, (nt. 57), 676 ss.
[79] Cfr. D. Boreiko, G. Ferrarini, P. Giudici, (nt. 57), 673: «each ecosystem, whatever the taxonomy of the token, can be compared to a complex monetary system, where money is created, circulated and retired, in addition to increasing or decreasing in value in comparison to alternative currencies».
[80] Le considerazioni del testo valgono per tutti i token, ivi compresi i bitcoin, che non si sottraggono alla disciplina generale del MiCAR, ma solo alla disciplina del titolo II in sede di emissione, in quanto offerte gratuitamente (cfr. la precedente nt. 2). Il bitcoin ha costituito il punto di riferimento generale della riflessione in ordine alla natura monetaria dei token. Al riguardo condivisibilmente Corte di giust. UE, 22 ottobre 2015, C-264/14, Skatteverket c. Hedqvist, in Racc., ECLI:EU:C:2015:718, punto 24, ha affermato che il bitcoin «non ha altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento». Si tratta in effetti di affermazione che la Corte ha sviluppato in funzione dell’applicazione della disciplina tributaria, e che alcuni potrebbero considerare perciò non generalizzabile. In realtà nessun argomento convincente è stato a mio avviso addotto per escludere la funzione monetaria dei token diversi, e a maggior ragione dei bitcoin. Semplicistiche e contraddittorie mi sembrano fra l’altro le argomentazioni (anteriori al MiCAR) di ECB, (nt. 44), 23 ss. In particolare: a) l’argomentazione fondata sulla mancata diffusa accettazione del bitcoin appare anzitutto evanescente, in quanto non fa comprendere quale grado questa accettazione dovrebbe raggiungere e come dovrebbe essere accertata; in ogni caso si tratta di argomentazione che presuppone una inaccettabile nozione sociale e pregiuridica di moneta (cfr. la precedente nt. 16 e il testo corrispondente); b) l’argomentazione fondata sulla mancata denominazione dei bitcoin in una valuta di conto ufficiale è frutto di una petizione di principio, in quanto presuppone, ma non dimostra, che la funzione monetaria debba agganciarsi ad unità di conto definite da poteri sovrani (cfr. anche la precedente nt. 16 e il testo corrispondente); c) l’argomentazione fondata sulla mancanza di legal tender del bitcoin si espone a critiche analoghe a quelle del punto precedente; sopravvaluta l’importanza sistematica del carattere di legal tender (cfr. la precedente nt. 23) e contraddice la precedente affermazione della stessa BCE, secondo cui esistono monete (come quella bancaria) prive di questo carattere; d) l’argomentazione secondo cui «virtual currencies can be used only as contractual money, when there is an agreement between buyer and seller in order to accept a given virtual currency as a means of payment» non nega, ma anzi conferma la funzione monetaria del bitcoin, in un contesto in cui anche la scelta di un’unità di conto legale è comunque normalmente (in assenza di limiti imposti dall’ordinamento all’autonomia privata) frutto di un accordo (ancorché spesso implicito) fra le parti (cfr. la precedente nt. 23). Più in generale tutti gli argomenti della BCE (pur frequentemente ripresi dalla dottrina) soccombono a fronte della scelta di diritto positivo del MiCAR di riconoscere giuridicamente il valore (non finanziario) di scambio che i token esprimono all’interno di un’area valutaria.
[81] Cass. pen., sez. II, 26 ottobre 2022, n. 44378, in Giur. comm., 2023, II, 957, ha qualificato quale prodotto finanziario un token che, a quanto è dato di capire, attribuiva il diritto di assegnazione di nuovi token di utilità, incorporanti il diritto alla partecipazione a una piattaforma logistica. Questa soluzione non può certo sopravvivere al MiCAR, ed era d’altro canto discutibile anche nel contesto normativo anteriore, in quanto non sembrava avvertire la necessità di distinguere i token di utilità da quelli propriamente finanziari; v. infatti in tal senso le critiche della nota di G. Schneider, (nt. 2), 963, secondo cui non tutte le criptoattività si caratterizzano necessariamente per profili di rendimento.
[82] Secondo E.D. Martino, (nt. 4), 10 «the scope of the network defines the DCA»; ma preciserei ulteriormente che «the scope of the network» dipende dai criteri di emissione (e determinazione dei destinatari) della moneta che definisce l’area valutaria.
[83] L’eventualità è presa in considerazione da G. Schneider, (nt. 2), 973 s., secondo cui (diversamente da quanto sostenuto nel testo) l’ipotesi si caratterizza in tal modo per elementi di finanziarietà.
[84] L’ipotesi ricorreva nel caso deciso da Trib. Verona, 24 gennaio 2017, in Banca borsa tit. cred., 2017, II, 467, che qualifica (p. 471) i token come strumenti finanziari, ma in funzione dell’applicazione della disciplina dei servizi finanziari contenuta nel codice del consumo. Le considerazioni del testo si concentrano sui confini dell’applicazione della disciplina MFID / Pilot e rispettivamente MiCAR, e non considerano i profili consumeristici. In effetti, alla luce delle considerazioni del testo, ci si può chiedere se la nozione di servizio finanziario dell’art. 67-ter.1, lett. a, c. cons., valga a ricomprendere i servizi di offerta di ingresso e uscita in aree valutarie. La risposta positiva è forse ragionevole e possibile in base a una interpretazione estensiva della nozione di servizi “di pagamento” (la valuta digitale è uno strumento di pagamento, e la sua offerta parrebbe concernere pur sempre un servizio di pagamento); un intervento espresso del legislatore sarebbe comunque opportuno.
[85] Cfr. S.T. Omarova, (nt. 36), 779 s.
[86] Cfr. F. Annunziata, Speak, if you can, (nt. 10), 15; D. Boreiko, G. Ferrarini, P. Giudici, (nt. 57), 672; G. Gitti, (nt. 36), 33; I. Capelli, (nt. 50), 2023, 659 s.; P. Hacker, C. Thomale, (nt. 55), 10.
[87] Nega che l’attribuzione di diritti di voice rilevi sul piano della finanziarietà anche G. Schneider, (nt. 2), 975.
[88] Né mi convince il tentativo di F. Accettella, Gli strumenti di robo gestione di patrimoni e le DAO, in M. Cian, C. Sandei, (nt. 2), 475, 483 ss., di ricondurre il fenomeno a quello dei fondi comuni di investimento, fra l’altro perché la DAO non investe necessariamente in strumenti finanziari, ma ben può proporsi di concedere crediti a sostegno di iniziative imprenditoriali attraverso piattaforme di finanza decentralizzata.
[89] Ci si è interrogati sull’applicabilità della disciplina MiCAR a token remunerati in moneta legale, ma non rientranti nella categoria degli strumenti finanziari, ad esempio a token rappresentativi di partecipazioni di capitale non negoziabili; cfr. F. Annunziata, La disciplina europea, (nt. 2), 942. L’ipotesi mi pare anzitutto teorica: una tokenizzazione non funzionale alla negoziabilità è difficile da immaginare in pratica; e d’altro canto mi chiedo se l’incorporazione di partecipazioni in token non sia già di per sé indice di negoziabilità (quanto meno in astratto) sufficiente ad applicare la disciplina degli strumenti finanziari. In ogni caso tenderei qui ad escludere l’applicabilità del MiCAR, se non altro perché, diversamente argomentando, questa applicazione finirebbe per dipendere non dalla tipologia dell’investimento (comunque avente ad oggetto la partecipazione a un capitale di società, remunerata in moneta legale e non negoziabile), ma dal ricorso alla DLT, in contrasto con il principio di neutralità tecnologica; in senso diverso v. tuttavia C. Frigeni, Offerta al pubblico, (nt. 2), 33.
[90] Ed evidentemente anche nell’ipotesi inversa di un diritto di restituzione di un capitale in assenza di corresponsione periodica di un interesse (secondo lo schema di un’obbligazione zero coupon).
[91] L’eventualità di remunerazione mediante attribuzione di strumenti finanziari è considerata da G. Schneider, (nt. 2) 973 s., che tuttavia sembra attribuire carattere finanziario anche ai token non remunerati in moneta legale.
[92] In tal senso anche M. Passaretta, (nt. 16), 150, che tuttavia estende l’ipotesi alla promessa di un rendimento in moneta virtuale, e quindi in token, che invece a mio avviso non possono costituire una forma di rendimento giuridicamente rilevante per l’applicazione della disciplina MiFID/Pilot.
[93] Cfr. la precedente nota 62 e il testo corrispondente.
[94] Cfr. M. De Mari, (nt. 2), 21; nonché M. Cian, (nt. 6), 67, che non fa espresso riferimento ad un carattere ibrido, ma ammette un mutamento di natura (da monetaria a finanziaria) del token per effetto della sua negoziazione sul mercato.
[95] Nel pensiero più diffuso, questo tipo di ibridazione deriva dalla sovrapposizione della funzione utilitaria a quella finanziaria; cfr. F. Annunziata, (nt. 51), 6; G. Schneider, (nt. 2), 379; P. Hacker, C. Thomale, (nt. 55), 13. Si tratta di opinioni basate sulla nozione di finanziarietà ampiamente criticata nel testo. Nella prospettiva delle argomentazioni svolte l’ibridazione attiene alla funzione (non finanziaria ma) monetaria dei token.
[96] Cfr. D. Boreiko, G. Ferrarini, P. Giudici, (nt. 57), 691.
[97] Cfr. M. Cian, (nt. 13), 320; C. Sandei, (nt. 2), 68.
[98] Analogamente l’ipotesi può ricorrere per valute virtuali emesse dai gestori di piattaforme di gioco, che i giocatori possono utilizzare per acquistare elementi ludici realizzati e “venduti” da altri utenti, ma che ad un tempo in tal modo danno contemporaneamente accesso ai servizi di gioco predisposti dall’emittente.
[99] Cfr. P. Hacker, C. Thomale, (nt. 55), 33 ss., peraltro nell’ambito di un’impostazione che considera finanziari anche i token remunerati in criptovaluta (cfr. la nt. 60 e il testo corrispondente).
[100] Cfr. la precedente nt. 63.
[101] Cfr. anche M. Passaretta, (nt. 16), 156, che riconduce il derivato su valute virtuali alla categoria dei derivati “esotici”. Per parte mia non vedo difficoltà a far rientrare i derivati da sottostanti token monetari come derivati su valute in senso tecnico (in senso contrario Passaretta richiama l’art. 10.3 del reg. del. 2017/565, che tuttavia disciplina le tecniche di regolamento con valute ufficiali a pronti per escludere, non per riconoscere, le caratteristiche di strumento finanziario derivato); la questione mi sembra comunque essenzialmente terminologica.
[102] E forse anche di corresponsione di ART e EMT, in quanto a loro volta incorporanti un diritto di conversione in moneta legale; dovrebbero qui valere in linea di principio le considerazioni del par. 11, punto C.
[103] Gli indici ricostruiti nel testo corrispondono in buona misura a quelli elaborati da F. Annunziata, La disciplina delle trading venues, (nt. 10), 49, nell’ambito tuttavia di un’impostazione più generale, qui non condivisa, tendente ad attrarre nell’ambito della finanziarietà gli strumenti negoziabili su un mercato secondario. Il ragionamento condotto nel testo porta a valorizzare la negoziabilità dello strumento, ma ai fini della qualificazione finanziaria dei soli derivati su token (fra l’altro evitando di dare al concetto di derivato un significato eccessivamente ampio, cfr. la precedente nt. 69). Le considerazioni del testo inoltre comunque non valorizzano la negoziabilità in quanto tale, ma solo in quanto strumentale ad ottenere remunerazioni in moneta legale; mentre secondo F. Annunziata, (nt. 51), 9 s. il regolamento del contratto in denaro non sembrerebbe decisivo.
[104] Rileva ad esempio A. Perrone, (nt. 66), 24, con riferimento ai contratti futures, che di regola le posizioni vengono chiuse con operazioni di segno opposto, e quindi non riflettono un reale interesse alla consegna, pur quando formalmente prevista dall’accordo; in senso analogo E. Righini, (nt. 2), 1174.
[105] E di qui anche la cautela dell’ESMA, Consultation paper, 29 January 2024, https://www.esma.europa.eu, 16, secondo cui «the question of crypto-assets bearing rights similar to derivatives, but which would be settled in crypto-assets, EMTs or ARTs instead of cash […] is still under consideration by ESMA».