Con questo lavoro si critica l’opinione, sostenuta dalla Corte di cassazione italiana e approvata dalla dottrina maggioritaria, per cui il divieto di patto leonino, e quindi il divieto di patti in base ai quali un socio sia escluso dagli utili o dalle perdite, che è posto per le sole società di persone dall’art. 2265 c.c., ciò nondimeno si applicherebbe anche alle società di capitali. Tale conclusione sarebbe imposta da una “rilevanza causale” del divieto rispetto all’intero fenomeno societario o, comunque, là dove esso impedisce un’esenzione dalle perdite, per l’esigenza di assicurare un esercizio “responsabile” dei diritti sociali. L’opinione criticata è indicata come caso emblematico di un atteggiamento incline ad affermare l’esistenza di limiti all’autonomia contrattuale allo scopo, più o meno dichiarato, di prevenire abusi. Si sostiene, invece, che sarebbe più opportuno argomentare l’esistenza di limiti all’autonomia privata individuando preliminarmente gli interessi generali da tutelare, che non si ritiene sussistano nel caso delle pattuizioni leonine. In definitiva, si ritiene che i possibili abusi conseguenti a clausole leonine potrebbero e dovrebbero essere governati non fulminando con la nullità le clausole che potrebbero determinarli, ma reprimendoli se e quando si dovessero effettivamente verificare.
This article criticises the view, supported by the Italian Court of Cassation and endorsed by the majority of the Italian authors, according to which the prohibition of leonine agreements, and thus the prohibition of agreements whereby a shareholder is excluded from profits or losses, which is laid down only for partnerships by Article 2265 of the Civil Code, would nevertheless also apply to corporations. This by virtue of a “causal relevance” of the prohibition of leonine agreements with respect to the entire corporate phenomenon or, in any event, in the hypothesis of exemption from losses, due to the need to ensure a “responsible” exercise of corporate rights by the protected shareholder. The opinion is pointed out as an emblematic case of an attitude inclined to affirm the existence of limits to contractual autonomy for the purpose, more or less declared, of preventing abuses. Instead, it is argued that it would be more appropriate to argue the existence of limits to private autonomy identifying the general interests to be protected through the invalidity instrument, which are not considered to exist in the case of leonine agreements. Ultimately, it is held that possible abuses resulting from leonine clauses could and should be governed not by striking down with nullity such clauses, but by repressing them if and when they actually occur.
1. Piano della ricerca. - 2. Il dibattito in corso sull’estensione del divieto di patto leonino applicato alle società di capitali (il caso delle opzioni put a prezzo predefinito). - 3. Critica alla tesi dominante: il (non convincente) tentativo di riduzione teleologica della fattispecie. - 4. Sulla inapplicabilità del divieto di patto leonino alle società di capitali. - 5. L’argomento orientato alle conseguenze. - 6. L’argomento storico-evolutivo: le alterne vicende del divieto di patto leonino in Italia e il mutato contesto socio-economico. - 7. L’argomento comparatistico: il ridimensionamento del divieto di patto leonino in Fran-cia e in Belgio; la Germania e l’approccio al Missbrauchrisiko in caso di clausole su distribuzione di utili e perdite eccessivamente squilibrate. - 8. Riepilogo e prospettive di futura ricerca: la necessaria tipizzazione delle ipotesi di abuso e la centralità dei rimedi successivi. - NOTE
Ad oggi la possibilità che un socio di società di capitali italiana sia in tutto o in parte reso immune dalle perdite per il tramite di pattuizioni, sociali o parasociali, è questione alquanto controversa. Il nodo di tutta la questione sta nell’interpretazione di una norma espressamente dettata per le sole società di persone, l’art. 2265 c.c., che codifica la norma di risalente tradizione del c.d. divieto di patto leonino stabilendo che «è nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite».
Chiamate a pronunciarsi sulla validità delle opzioni put di partecipazioni a prezzo predefinito, standard anche a livello internazionale nelle operazioni di finanziamento privato, la giurisprudenza di legittimità unanime e la dottrina ampiamente maggioritaria: i) prima affermano che dal divieto in parola si ricava un principio generale in base al quale la partecipazione alle perdite costituirebbe elemento caratterizzante del contratto di società; ii) poi lo rendono pressoché innocuo affermando sia che tale esenzione dalle perdite è vietata solo quando è «assoluta e costante», circostanza destinata a non verificarsi quasi mai nella pratica, sia che il divieto non si applicherebbe ai patti parasociali.
Di contro, un’agguerrita giurisprudenza delle corti milanesi, pur condividendo le premesse teoriche in tema di rilevanza causale del divieto in parola, non si conforma al tentativo di ridurne il campo di applicazione. Al contrario, le pronunce milanesi fanno emergere le contraddizioni insiste nell’affermazione per cui i patti parasociali costituirebbero un “porto sicuro” per le pattuizioni leonine. La conseguenza è che non di rado dinanzi alle corti meneghine vengono fulminate di nullità tutte le pattuizioni, sociali o parasociali, in odore di violazione del divieto di patto leonino, in specie quelle di opzione put/call.
Sotto la superficie di quella che, salvo tutto sommato rare eccezioni, appare una comunanza di vedute sulla rilevanza centrale del divieto di patto leonino per l’intero fenomeno societario, ribolle un complesso problema interpretativo dalle rilevantissime conseguenze economiche. Le pronunce si accumulano e l’incertezza aumenta, complici la incompatibilità della tesi restrittiva con peculiari prassi di finanziamento delle imprese, la rilevanza delle corti milanesi nella vita economica della nazione e, non ultimo, il tempo necessario affinché le singole controversie giungano di fronte al giudice di legittimità.
In questo lavoro, dopo aver ricostruito nel § 2 i termini del dibattito, intendo segnalare, sviluppando idee già altrove abbozzate [1], la necessità di una più approfondita riflessione in merito alla sussistenza di un principio generale di divieto di patto leonino applicabile a tutti i tipi societari [2].
Tenterò pertanto di dimostrare che:
1) la riduzione del campo di applicazione del divieto di patto leonino, sub specie di esenzione del socio dalle perdite, alla sola esclusione statutaria “assoluta e costante” dalle perdite, pur se diretta a perseguire condivisibili obiettivi di politica del diritto, non è convincente se si muove delle premesse concettuali accolte dalla giurisprudenza e dottrina dominanti circa la rilevanza del cennato divieto nel definire la causa del contratto di società e, quindi, circa la sua necessaria imperatività (§ 3);
2) il divieto di patto leonino non è espressivo di alcuna caratteristica necessaria del fenomeno societario e, pertanto, non è condivisibile la tesi dominante che ne afferma la imperatività al fine di “preservare la purezza della causa societatis” (§ 4.1);
3) parimenti, non è condivisibile la tesi che argomenta l’imperatività del principio di divieto di patto leonino dalla necessità di assicurare un “responsabile esercizio dei diritti sociali” da parte del socio beneficiario (§ 4.2);
4) l’estensione del divieto di patto leonino alle società di capitali è il frutto di un criticabile atteggiamento di politica del diritto, diffuso in molteplici settori dell’ordinamento, incline ad affermare in via interpretativa l’esistenza di limiti all’autonomia contrattuale, con conseguente nullità delle pattuizioni ad essi contrarie; ciò allo scopo, più o meno dichiarato, di prevenire approfittamenti o, comunque, comportamenti scorretti del titolare di diritti contrattualmente attribuiti (§ 4.3);
5) gli argomenti a supporto della tesi sub 4) sono:
a) quello orientato alle conseguenze, fondato sulla considerazione che, in assenza della disponibilità di determinati strumenti, alcuni mercati, di cui si afferma la centralità al fine dello sviluppo economico (ad esempio, ma non solo, quelli di Private Equity e di Venture Capital), semplicemente non possono svilupparsi (§ 5);
b) quello storico-evolutivo, giacché da un’analisi degli orientamenti giurisprudenziali e dottrinari susseguitisi sin dal secolo scorso, ritengo si evinca che il maggiore o minore spazio applicativo attribuito al divieto di patto leonino sia stato ampiamente influenzato dalla coerenza di particolari forme di finanziamento che con esso confliggono con il contesto economico di riferimento, profondamente modificatosi rispetto al tempo in cui è stata elaborata la tesi oggetto di critica (§ 6);
c) quello comparatistico, in quanto anche i diritti europei che prevedono una espressa codificazione del divieto di patto leonino lo hanno relegato ad ambiti applicativi residuali, con la conseguenza che, in ragione della concorrenza tra ordinamenti, il percorrere una strada in senso opposto comporterebbe per l’ordinamento italiano conseguenze esiziali, soprattutto con riferimento al mancato sviluppo di un sistema di finanziamento delle imprese altamente innovative (c.d. Venture Capital financing), la cui prassi contrattuale, di chiara matrice statunitense, prevede l’adozione di clausole che spesso si pongono in contrasto con il divieto in parola (§ 7);
6) la legittimità delle clausole, sociali o parasociali, di esenzione dalle perdite nelle società di capitali non significa che gli eventuali abusi non debbano essere repressi; soccorre a tal fine un accorto e efficace uso degli ordinari rimedi, impugnatori e risarcitori, già previsti dall’ordinamento; e questo analogamente a quanto avviene in quegli ordinamenti, come quello statunitense, in cui clausole di sostanziale esenzione dalle perdite sono ammesse e in cui si è sviluppato un ampio corpus di precedenti giurisprudenziali che, pur lasciando spazio alla libera contrattazione delle parti, sanziona molto efficacemente ipotesi di approfittamento o abuso (§ 8).
Gli argomenti che precedono, peraltro, sono coerenti con quello che storicamente ha sempre costituito uno dei tratti metodologici caratterizzanti la disciplina del diritto commerciale: la previa attenta analisi della realtà socio-economica in funzione della costruzione di una sua efficiente regolazione [3].
Nell’ambito del finanziamento privato alle imprese è alquanto diffusa la figura delle partecipazioni a scopo di finanziamento (o, che è lo stesso, di finanziamento in forma partecipativa) [4]. Tale forma di finanziamento usualmente prevede una pattuizione – in Italia, per le ragioni che si vedranno, perlopiù parasociale – che prevede in favore del finanziatore, che acquista la qualità di socio dell’impresa finanziata, un’opzione put a prezzo predefinito, ossia la possibilità per il socio finanziatore di provocare l’acquisto a un prezzo fisso della propria partecipazione da parte del socio interessato a che la società sia finanziata. In tal modo il socio-finanziatore si garantisce una più o meno intensa immunità sostanziale dalle perdite e, talvolta, un rendimento minimo garantito “di sostituzione” dell’investimento effettuato.
Le opzioni put parasociali a prezzo predeterminato hanno di recente determinato un intenso dibattito in giurisprudenza.
Da un lato la Cassazione, nel dichiarato intento di porsi in continuità con un proprio precedente del 1994 [5] che, per la prima volta, aveva affermato la generale applicabilità dell’art. 2265 c.c. a tutte le società, di persone e dei capitali, ha prima ammesso [6] e poi ribadito [7], con decisioni nel cui solco si sono poste numerose pronunce di merito [8], la validità delle clausole (parasociali) in questione. Ciò secondo questo percorso argomentativo: i) il divieto di p.l., seppur espressamente dettato dall’art. 2265 c.c. per la sola società semplice (e quindi, in virtù degli artt. 2293 e 2315 c.c., anche per la s.n.c. e la s.a.s.), si applicherebbe in via interpretativa, in quanto espressione di un principio avente forza imperativa, a tutti i tipi sociali, anche se di capitali; ii) il risultato che precede si imporrebbe poiché il divieto di p.l. sarebbe connaturato alla (anzi, sarebbe addirittura volto a «preservare la purezza» della) causa tipica del contratto di società stabilita dall’art. 2247 c.c., e ciò al fine di tutelare un «generale interesse alla corretta amministrazione delle società», che potrebbe essere intaccato dal (possibile) disinteresse del socio “leone” alla proficua gestione dell’impresa sociale o, addirittura, (dal possibile) compimento di attività «avventate» o «non corrette»; iii) conseguentemente, sarebbero fulminati da nullità tutti i patti che, in via diretta (art. 1418 c.c.) o indiretta (art. 1344 c.c.), prevedano un «conferimento di capitale non collegato allo scopo di cooperare all’attività economica cui è volta l’impresa societaria condividendone gli esiti, pur se avente eventualmente altri fini»; iv) ciò nonostante, l’opzione parasociale put a prezzo predefinito, a livello di causa concreta comporta un «trasferimento del rischio puramente interno fra un socio e un altro socio o un terzo», pertanto non incidendo sulla causa della società (cioè non mutandola da associativa a mero scambio) e, così, non comportando (né direttamente né indirettamente) quella esclusione «assoluta e costante» dalle perdite del socio beneficiario, ritenuta necessaria per la configurazione del patto vietato e quindi nullo; v) in ogni caso il patto in questione, in quanto atipico, dovrebbe essere sottoposto al giudizio di meritevolezza degli interessi perseguiti ex art. 1322, secondo comma, c.c. che, peraltro, «quando si tratti di soggetti entrambi imprenditori […] non può che essere del tutto residuale»; vi) la causa concreta del patto di opzione put a prezzo predefinito, di «partecipazione a scopo di finanziamento», oltre ad essere lecita (rispetto all’art. 2265 c.c.), sarebbe allora anche meritevole di tutela (rispetto all’art. 1322 c.c.), essendo il «finanziamento partecipativo correlato ad un’operazione strategica di potenziamento ed incremento del valore societario [che] potrebbe addirittura reputarsi di interesse latamente generale, in quanto operazione coerente con i fini d’incentivazione economica perseguiti dal legislatore, quale strumento efficiente della finanza d’impresa», ciò a maggior ragione alla luce: a) della sempre più evidente crisi del nesso potere-rischio nella legislazione societaria più recente, espressiva di «uno sviluppo e di una linea di tendenza dell’ordinamento che non pare corretto ignorare quale canone generale ricostruttivo del sistema»; b) del «favor del diritto positivo per le tecniche anche atipiche di apporto all’impresa», da ultimo anche esteso alla s.r.l. (start-up innovativa, P.M.I. innovativa e P.M.I.).
Dall’altro lato, alcune decisioni di merito, hanno esplicitamente disatteso l’orientamento del giudice di legittimità del 2018, affermando, sulla scorta di precedenti [9], l’invalidità delle clausole (parasociali e, a maggior ragione, statutarie) put a prezzo predefinito, qualora si accompagnino con l’attribuzione al beneficiario di un effettivo potere di influire sulla gestione dell’impresa sociale [10].
Più in particolare, tali decisioni, pur condividendo tutte le affermazioni di principio della Cassazione sopra riportate sub i), ii), iii) e v), non ritengono in primo luogo logicamente fondata quella sub iv), e cioè che l’opzione put parasociale non incide sulla causa societaria, ma comporta un mero trasferimento del rischio d’impresa tra i soci. Secondo il Tribunale di Milano, infatti, tale affermazione comporterebbe, peraltro in modo eccentrico rispetto alla configurazione della fattispecie del negozio in frode alla legge data dalla stessa giurisprudenza di legittimità in altri ambiti, quali quello del divieto di patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c. [11], la «negazione della configurabilità di un effetto leonino indiretto, configurabilità affermata invece [dalla Cassazione] in via generale nella prima parte della motivazione in riferimento alla disciplina di cui all’art. 1344 c.c.» [12]. Non è condivisa nemmeno l’affermazione sub vi) (cioè, quella sulla meritevolezza della causa in concreto della clausola in esame), non reputandosi meritevole di tutela il «mero intento – di per sé sotteso alle opzioni put a prezzo predeterminato – di reperire ed erogare un finanziamento svincolato dal rischio d’impresa» [13]. Tutto ciò senza che possano essere evocati a sostegno della diversa tesi: né la progressiva diluizione del nesso “potere-rischio” nel diritto societario, che non avrebbe comunque inciso «sulla struttura fondamentale del rapporto sociale […] in riferimento alla messa in comune di patrimoni per lo svolgimento di attività economica della quale si sopportano simmetricamente i rischi e, dunque, si è interessati alla miglior conduzione» [14]; né l’apertura di nuove tecniche di finanziamento tipicamente azionarie anche alla s.r.l., che continuerebbe ad essere caratterizzata da una struttura fortemente personalistica, sicché nel tipo s.r.l. sarebbe ancor più rilevante l’interesse, messo a rischio dalla pattuizione leonina, «della società ad essere gestita mediante il contributo e l’apporto di ogni socio, nessuno escluso, ai fini del suo buon governo» [15].
La soluzione escogitata dalla Cassazione per non porsi in contraddizione con i propri precedenti circa l’applicabilità del divieto di patto leonino alle società di capitali e, al contempo, affermare la validità delle clausole parasociali put a prezzo predefinito costituisce un classico caso di “riduzione teleologica” della fattispecie. La giurisprudenza, infatti, riduce l’ambito di applicazione del principio imperativo che ha costruito nel momento in cui realizza che la sua applicazione indiscriminata porterebbe a conseguenze inaccettabili [16].
Giova richiamare in sintesi le eccezioni congegnate dalla Cassazione a salvaguardia del principio, che ne esce così riaffermato in astratto, ma in concreto quasi del tutto sterilizzato.
Il divieto di patto leonino opera solo nell’ipotesi in cui l’esclusione dalle perdite sia “assoluta e costante”.
Anche in caso di esclusione “assoluta e costante” i patti parasociali leonini, che hanno effetti limitati ai soli contraenti, vanno valutati in base non alla regola di cui si ribadisce l’imperatività (il divieto di patto leonino), ma sotto il profilo della meritevolezza degli interessi perseguiti.
Nelle pronunce più recenti la Cassazione non richiama invece un altro argomento, molto valorizzato in un precedente del 2000 [17], secondo il quale il divieto di patto leonino non opererebbe qualora il socio esentato dalle perdite non abbia, in ragione dei diritti amministrativi attribuitigli e/o della potenza di voto, la possibilità di incidere sulle dinamiche societarie. Anzi, nella più recente pronuncia in materia [18] è stata affermata la legittimazione di un’opzione put concessa a favore di un socio che deteneva la maggioranza del capitale sociale [19].
Pur perseguendo obiettivi di politica del diritto tutto sommato condivisibili, l’appena descritto apparato di eccezioni non convince. Con esse, infatti, per salvare il principio della generale applicabilità del divieto di patto leonino, ci si avviluppa in una serie di contraddizioni che possono essere risolte solo attaccando la premessa maior, ossia l’applicazione del divieto stesso anche alle società di capitali.
Si procederà pertanto prima a mettere in luce la debolezza delle eccezioni all’applicazione del divieto, per poi argomentare la tesi della insussistenza del principio che tali eccezioni, per l’appunto non convincentemente, cercano di limitare nel suo campo applicativo.
3.1. La debolezza dell’argomento che ritiene violativa del divieto la sola esclusione dalle perdite “assoluta e costante”.
La limitazione del divieto di patto leonino all’esclusione dalle perdite assoluta e costante [20] origina da una lettura, per la prima volta proposta da una pronuncia di legittimità del 1994 [21], evidentemente contra spiritum dell’art. 2265 c.c. [22], la cui lettera vieta il patto di esclusione «da ogni partecipazione agli utili o alle perdite». Contra spiritum, in quanto l’utilizzo dell’aggettivo “ogni”, contrariamente a quanto sostenuto dalla Cassazione, non ha lo scopo di restringere la fattispecie, ma di allargarla a qualsiasi forma (o intento) del patto di esclusione [23].
Secondo la tesi fatta propria dalla Cassazione sarebbe invece sufficiente una seppur minima partecipazione alle perdite, anche nummo uno, o una esenzione ancorata a seppur labilissime condizioni (ad esempio il mancato raggiungimento di certe performances aziendali vagamente indicate o, addirittura, da accertarsi da parte dell’organo amministrativo), per non integrare la fattispecie del divieto, in sede sia sociale sia parasociale. Così procedendo, però, si svuota di qualsiasi significato l’affermazione, quasi unanimemente condivisa e qui criticata, che il divieto di patto leonino presiederebbe alla necessità di assicurare un responsabile esercizio dei diritti sociali. Come è infatti stato convincentemente osservato, «non si vede quale incentivo all’intraprendenza possa nascere da una partecipazione eventuale e discontinua agli utili e quale stimolo alla prudenza derivi dal timore di perdere investimenti insignificanti in condizioni non solo remotissime, ma anche solo improbabili» [24].
Del pari, non appare condivisibile quanto affermato rispetto al requisito della assolutezza e costanza, ossia che esso non verrebbe integrato qualora il patto di riacquisto sia sottoposto a termini e condizioni. Questi termini e condizioni cui è ancorata la possibilità di esercitare l’opzione sono infatti in gran parte espressivi di una situazione di crisi della società finanziata o, perlomeno, di mancata realizzazione del progetto imprenditoriale, sicché essi, in definitiva, costituiscono un diverso modo per esprimere il concetto di perdita [25].
Ne consegue che l’affermazione in merito alla generale vigenza del divieto di patto leonino imporrebbe, per coerenza, una volta correttamente ricostruito il suo campo applicativo, di ricomprendere nel suo perimetro di applicazione “ogni” esenzione dalle perdite e, quindi, sottoporre a scrutinio di validità anche quelle clausole che comportassero una partecipazione irrisoria del socio protetto ai risultati negativi o, comunque, che sottoponessero la possibilità di esenzione a termini e condizioni.
3.2. La debolezza dell’argomento che fa leva sulla meritevolezza degli interessi perseguiti per affermare un maggior spazio concesso all’autonomia parasociale.
L’affermazione di una tendenziale validità dei patti parasociali leonini solo se volti a perseguire un interesse meritevole di tutela affonda le sue radici nella storia dell’interpretazione del divieto [26] ed è a tutt’oggi approvata da parte di una nutrita dottrina [27].
Per porre al riparo l’opzione parasociale put a prezzo predefinito dalla scure dell’invalidità che dovrebbe conseguire dalla violazione del divieto di patto leonino, la Cassazione utilizza l’argomento della meritevolezza ex art. 1322, secondo comma, c.c. degli interessi perseguiti, individuati nel «potenziamento ed incremento del valore societario» [28]; meritevolezza da escludersi soltanto in «difetto di una ragione giustificativa plausibile del vincolo, il quale non merita allora tutela e non è coercibile, restando indifferente per l’ordinamento» [29].
In tal modo la Cassazione adotta un’impostazione riduttiva ai fini del superamento del giudizio di meritevolezza, nel senso della sufficienza di una razionalità minima della singola operazione economica scrutinata [30].
Ci si deve però interrogare sulle conseguenze che derivano dalla declinazione di tale impostazione riduttiva nell’ambito di un patto parasociale. Sembrerebbe infatti essere stata lasciata in ombra la questione se il giudizio di meritevolezza debba compiersi avuto riguardo ai soli interessi in concreto perseguiti dalle parti contraenti, ovvero se rilevi, e in caso positivo in quale grado, l’interesse della società e, ancor più, quello generale alla conformazione del finanziamento dell’attività d’impresa [31]. In tale contesto, infatti, il diverso atteggiarsi della “autonomia dei privati” rispetto alla “autonomia d’impresa” [32], dovrebbe indurre a chiedersi se un approccio riduttivo al giudizio meritevolezza, senz’altro congeniale agli atti occasionali di scambio, possa utilmente utilizzarsi per un contratto d’impresa [33].
Sembra, comunque, che l’argomento della meritevolezza degli interessi perseguiti per il tramite del patto parasociale leonino sia utilizzato in questo contesto attribuendo alla nozione di meritevolezza un significato ben più ampio ed inclusivo di quello che le viene attribuito in diversi contesti. E ciò al solo scopo di uscire dall’empasse pratica che dovrebbe (invece coerentemente) conseguire all’affermazione di una rilevanza causale del divieto di patto leonino rispetto al fenomeno societario.
L’interesse ad indagare la solidità dell’argomentazione tesa ad affermare la validità, in quanto meritevoli, dei patti parasociali leonini deriva anche da una considerazione di ordine più generale. L’argomento che predica un maggior spazio di autonomia dei patti parasociali si riscontra invero in altre ipotesi, simili a quella in esame e di indubbia rilevanza applicativa. Il caso più frequente è quello delle clausole parasociali, aventi anch’esse ad oggetto la distribuzione del rischio d’impresa tra soci, di drag along [34] e di russian roulette [35], di cui si afferma la legittimità rispetto al principio della c.d. necessaria equa valorizzazione della partecipazione, cui la maggioranza degli interpreti attribuisce valenza imperativa, con conseguente non irrilevante diffusione della tesi per cui le stesse clausole sarebbero nulle se inserite in statuto non all’unanimità.
A tali opinioni si può però in primo luogo obiettare che la clausola put, al pari ad esempio di quella di russian roulette, a prescindere dalla sua collocazione, statutaria o parasociale, dispiega i suoi effetti sui soli soci contraenti e non sui terzi, come invece accade in ipotesi di prelazione o altre clausole limitative della libera circolazione, della cui introducibilità in sede statutaria peraltro non si discute. Non si vede, quindi, come sia possibile giustificare la legittimità di tali clausole nel solo contesto parasociale basandosi su una caratteristica, quella della opponibilità ai terzi della pattuizione, che tutto sommato non assume rilevanza in concreto.
A ciò si aggiunga che la violazione dell’obbligo di acquistare a seguito di un’opzione put conduce in ogni caso, quale che sia la collocazione della clausola, a un rimedio “reale” a favore del socio non inadempiente: che sia la rivendica della partecipazione, nel caso in cui la clausola sia strutturata sul modello dell’opzione di vendita, o la sentenza costitutiva dell’obbligo di concludere un contratto ex art. 2932 c.c., nel caso in cui il modello sia quello dell’opzione di preliminare. Nel primo caso, infatti, all’esercizio dell’opzione consegue immediatamente, ex art. 1376 c.c., l’effetto traslativo sulla partecipazione; nel secondo, invece, all’esercizio dell’opzione conseguirà l’obbligo a contrarre dell’altra parte, se del caso azionabile ex art. 2932 c.c., con differenti modalità per le partecipazioni in s.p.a. e s.r.l. [36].
Ma l’obiezione che appare più rilevante è di ordine generale e verte sulla correttezza metodologica di un’impostazione che pretendesse di esentare tutti i patti parasociali, quale che ne sia l’oggetto, dal necessario rispetto di una norma, o di un principio, di cui al contempo si affermi l’imperatività.
Tale approccio è invero storicamente risalente, datando almeno da quando la diversa estensione dell’autonomia nel campo parasociale è stata sostenuta per i patti parasociali cc.dd. di voto, ossia interferenti sui processi deliberativi societari. Dato che i sindacati di voto hanno efficacia meramente interna tra i soci, e sono quindi incapaci di interferire con i suddetti processi deliberativi, essi non solo si sono oramai affrancati dai sospetti di invalidità che in passato li avevano riguardati, ma per molti possono contenere clausole e pattuizioni che non sarebbe possibile inserire in statuto [37]. La legittimità dei patti parasociali di voto è quindi argomentata non sul piano astratto della validità, non mettendosi in discussione l’imperatività delle norme (organizzative) i cui precetti entrano in conflitto con il patto, ma su quello concreto degli effetti e dei rimedi, semplicemente riscontrando l’inopponibilità del patto alla società e, quindi, la sua incapacità di influire sulla validità degli atti adottati, con conseguenze affermato maggior spazio di manovra per i paciscenti.
Ebbene, è lecito dubitare della corretta estensione di tale ragionamento anche ai patti parasociali incidenti sulla circolazione delle partecipazioni, quali ad esempio le opzioni put. L’imperatività del divieto di patto leonino non può infatti dipendere dalla collocazione, sociale o parasociale, della clausola che va ad impattarvi. Dimostrata l’analoga efficacia della tutela a disposizione del socio non inadempiente, l’unico argomento a sostegno dell’avversata tesi della legittimità dei patti parasociali ad effetto leonino rimane quello della collocazione topografica della pattuizione. Ciò a meno che non si voglia sostenere che nel caso dell’opzione put non sussisterebbe l’interesse meta-individuale (il corretto esercizio dei poteri amministrativi da parte del socio beneficiario) che il divieto di patto leonino è, in thesi, destinato a proteggere. Ma ciò non è possibile, se non a pena di un’insanabile contraddizione logica. Se, infatti, si afferma l’esistenza di un principio di divieto di patto leonino imperativo, in quanto volto a perseguire un interesse generale al non abusivo esercizio dei diritti nell’ambito societario, è irrilevante la collocazione della clausola che lo viola o che lo aggira [38]. L’invalidità di un patto parasociale può in astratto derivare non solo dal suo porsi testualmente in contrasto con una norma o un principio dotati di forza imperativa, ma anche dalla sua qualificazione come negozio volto ad eludere l’applicazione della norma o del principio di cui si afferma l’imperatività, e perciò nullo per illiceità della causa ex artt. 1343 e 1344 c.c. [39].
In sintesi: qualora si affermi l’esistenza di un principio imperativo di divieto di patto leonino sono necessariamente nulle anche le pattuizioni parasociali che comportino indirettamente l’effetto non voluto dal principio [40]. è allora proprio la fattispecie del negozio in frode alla legge di cui all’art. 1344 c.c. a venire in rilievo, soprattutto se si considera che, a fronte di una impostazione giurisprudenziale più risalente secondo la quale la comune finalità contraria alla legge doveva costituire la funzione oggettiva intenzionalmente attribuita dalle parti al negozio [41], ad oggi la giurisprudenza adotta una nozione di causa in concreto, tale da recepire i concreti interessi economici che le parti intendono perseguire con la singola operazione economica [42] e, quindi, da allargare notevolmente la fattispecie dei negozi in frode [43].
3.3. La debolezza dell’argomento che predica la validità del patto di esonero delle perdite del socio che non sia in concreto in grado di influire sulle dinamiche societarie.
La terza esenzione escogitata al fine di ridurre la portata dell’affermata generale applicazione del divieto di esenzione dalle perdite – invero non richiamata dalla Cassazione negli ultimi suoi arresti e, anzi, implicitamente smentita dalla pronuncia più recente [44] – afferma la validità di un’opzione put se pattuita in favore di un socio di società di capitali che, in ragione dei diritti amministrativi attribuitigli o per il fatto di detenere una partecipazione di minoranza, non sia in grado di influire sulla gestione della società [45]. L’esenzione è, peraltro, del tutto coerente con il presupposto teorico secondo il quale il divieto di patto leonino costituirebbe una norma di ordine pubblico perché è diretta a imporre un responsabile esercizio dei diritti sociali. Se l’azionista non è in grado di orientare le scelte strategiche della società, allora l’esercizio non responsabile dei suoi diritti sarebbe irrilevante. Chi sostiene tale tesi discute poi, con tutte le incertezze interpretative che ciò comporta, sul grado di influenza che il socio dovrebbe avere affinché la pattuizione di esonero sia effettivamente leonina [46].
L’argomento in questione è stato sottoposto a critica, rilevando che nelle società di capitali i soci, ad eccezione degli accomandatari di s.a.p.a., non sono in quanto tali investiti di competenze gestorie, sicché essi potrebbero solo indirettamente incidere sulla gestione della società [47]. La constatazione è senz’altro condivisibile se si prende in considerazione il modello astratto di gestione delle società di capitali azionarie previsto dal legislatore (art. 2380-bis c.c.). Lo è meno se si prende in considerazione quella tipologia di società, anche azionarie, definite come “chiuse” o “a base ristretta” in cui è ben possibile, e anzi molto frequente, sia che i soci siano attivamente coinvolti nelle scelte strategiche [48], sia che specifiche clausole statutarie o parasociali attribuiscano loro penetranti poteri in merito alla gestione degli affari sociali, quali ad esempio particolari diritti di voto e/o di veto su specifiche materie o, più semplicemente, che siano previsti per certe materie quorum rafforzati anche per le assemblee di seconda convocazione o, quantomeno per le s.r.l., clausole unanimistiche [49].
Se si considera che le opzioni put a prezzo predefinito sono diffuse proprio in società a ristretta compagine sociale, perlopiù a responsabilità limitata, emerge con sufficiente chiarezza la non rispondenza dell’esenzione in esame alle esigenze della prassi. Affermare la validità di opzioni put a favore di soci del tutto privi di quei poteri amministrativi significa infatti negare la stessa categoria delle partecipazioni a scopo di finanziamento, in cui il privilegio economico è indissolubilmente legato alla possibilità di influire sulla gestione, a tutela dell’investimento effettuato [50].
A ciò si aggiunga l’incoerenza, puntualmente rilevata da chi sostiene la necessità di un’applicazione estensiva del divieto di p.l. [51], derivante dalla costruzione in astratto di un principio ad ampio spettro operativo, poi però depotenziato nella sua applicazione in concreto, sulla base di uno sfuggente principio di offensività.
Esposte le ragioni per cui i tentativi di riduzione teleologica della fattispecie “divieto di esenzione leonina dalla perdite” elaborati dalla Cassazione non convincono, si porrà in dubbio la sua applicabilità alle società di capitali e, comunque, la sua imperatività.
A tal fine è necessario, in primo luogo, analizzare criticamente l’affermazione per cui il divieto in questione sarebbe coessenziale allo stesso fenomeno societario, sì che non potrebbe parlarsi di società in presenza di soci esclusi dalle perdite (§ 4.1).
Esclusa la imperatività “per coerenza con la fattispecie societaria”, si procederà ad argomentare come non sia comunque possibile ricavare dall’art. 2265 c.c. un principio imperativo (§ 4.2).
Esclusa la possibilità di affermare l’imperatività del principio di divieto di esenzione dalle perdite, si indagheranno le ragioni che, comunque, hanno indotto per così lungo tempo dottrina e giurisprudenza ad affermare il contrario (§ 4.3).
4.1. L’estensione del divieto di patto leonino alle società di capitali non è imposta da alcuna necessità di coerenza con la causa societaria né di preservazione di una sua supposta “purezza”.
Il discorso sull’applicabilità del divieto di patto leonino alle società di capitali è opportuno muova dalla distinzione tra utili e perdite registrati dalla società e incremento o decremento del valore della partecipazione sociale del singolo socio [52]. é sulla base di tale distinzione che alcuni autori affermano: i) l’irrilevanza ai fini del divieto di patto leonino dell’esclusione dagli utili o dell’esenzione dalle perdite individuali, così rigettando la teoria che rinviene la giustificazione del divieto nella necessità di assicurare un responsabile esercizio dei diritti sociali e, invece, affermando la validità di tutti quei patti tra soci volti a regolare il trasferimento della partecipazione, e quindi a regolare il regime delle perdite individuali [53]; ii) che comunque non potrebbe ammettersi una partecipazione sociale che veda il socio escluso dalle perdite o esentato dagli utili, così affermando l’invalidità di patti, sociali o parasociali, che in concreto determinino tale situazione [54].
L’impossibilità di un’esenzione statutaria dalle perdite sociali viene invero argomentata sia dal divieto di patto leonino sia dalle regole in tema di riduzione reale del capitale sociale e di distribuzione del valore del patrimonio in sede di liquidazione della società, che vede il socio, come noto, in posizione residuale rispetto a quella dei creditori sociali [55]. L’impossibilità di escludere un socio dagli utili viene parimenti argomentata sia dal divieto di patto leonino sia dalla «funzione stessa della società» e, quindi, al fondo dalla sua causa lucrativa così come indicata dall’art. 2247 c.c. [56].
L’estensione del divieto di patto leonino, in assenza di norma espressa, anche alle società di capitali può quindi essere sviluppata con tre diversi, e a ben vedere indipendenti, argomenti: i) per quanto riguarda l’esenzione dalle perdite, facendo leva sull’imperatività del sistema del capitale sociale e della disciplina in tema di riduzione del capitale per perdite; ii) per l’esclusione dagli utili, affermando che la partecipazione agli utili sia coessenziale allo stesso fenomeno societario; iii) per entrambi, al fine di perseguire un responsabile esercizio dei diritti sociali. I tre argomenti non sono necessariamente richiamati congiuntamente. La Cassazione, ad esempio, richiama esclusivamente il secondo e il terzo. Parte della dottrina richiama il primo e il secondo, altra tutti e tre. Conviene pertanto analizzarli partitamente.
L’impostazione che fonda il divieto di esenzione dalle perdite dall’imperatività della disciplina in tema di riduzione obbligatoria per perdite non convince. Essa, infatti, sembra mettere sullo stesso piano situazioni diverse: altro è affermare l’applicazione del divieto di patto leonino anche alla conformazione della partecipazione in società di capitali; altro è affermare l’invalidità di clausole che conducano alla violazione delle norme, o dei principi da esse ricavabili, in tema di riduzione del capitale sociale per perdite. Non vi è infatti dubbio che nel sistema delle società di capitali non sia possibile esentare il socio da quelle perdite che rilevano ai fini dell’attivarsi del meccanismo della riduzione del capitale, soprattutto se obbligatoria ai sensi dell’art. 2447 c.c., e ciò in ragione della sicura imperatività delle disposizioni in materia [57]. Da tale disciplina non sembra però potersi desumere un principio di ordine generale di divieto di esenzione statutaria dalle perdite, quali che esse siano, e quindi anche a prescindere dalla loro rilevanza ai fini dell’attivazione del sopradescritto meccanismo. è infatti sottratta all’autonomia statutaria solo la gestione (cioè: il criterio di sopportazione) di quelle perdite rilevanti ai sensi dell’art. 2446 c.c., o che comportino una perdita del capitale minimo. Non altrettanto sembra potersi affermare per quelle perdite che, invece, non facciano scattare il meccanismo di riduzione, per le quali è ben possibile stabilire un diverso criterio di sopportazione che, al limite, esenti totalmente dal pati uno dei soci (si pensi alla oramai sicura legittimità delle azioni postergate nelle perdite).
È allora necessario esaminare il secondo argomento: quello per cui l’applicazione alla società di capitali del divieto di patto leonino si fonderebbe sulla coessenzialità della partecipazione agli utili e alle perdite allo stesso fenomeno societario per come scolpito dall’art. 2247 c.c. La necessaria partecipazione a utili e perdite viene così elevata al rango di “norma inderogabile per coerenza con la fattispecie”.
Tale tesi, però, si presta a una prima critica di ordine generale: il “modello” [58] preso a riferimento dal legislatore in un dato momento storico per regolare un certo fenomeno della realtà non dovrebbe infatti rappresentare di per sé un vincolo per l’autonomia contrattuale, oltre a essere di ben difficile ricostruzione con sufficiente chiarezza [59].
La nettezza dell’affermazione che precede necessita però di alcune precisazioni, soprattutto se calata nel campo del diritto societario, ove l’autonomia concessa ai privati nel regolare i propri interessi è molto più ristretta rispetto a quella (contrattuale in senso stretto) concessagli quando stipulano un qualsiasi altro contratto.
Nel diritto societario la legge non stabilisce solo il numero (Typenzwang, in Italia codificato dall’art. 2249 c.c.), ma anche il contenuto (Typenfixierung) di ogni singolo tipo disponibile per i privati [60]. Ai privati non è insomma data la possibilità di regolare i propri interessi al di fuori dei tipi sociali predisposti dal legislatore [61], sicché il diritto societario è un esempio di «spazio giuridico tipizzato chiuso» [62]. Nel campo del diritto dei contratti, invece, la scelta di uno dei tipi nominati non esaurisce l’ambito di autonomia dei privati, cui è data la possibilità di regolare altrimenti i loro interessi, purché meritevoli di tutela, qualunque sia il significato che si intenda attribuire a quest’espressione. Si può poi discutere se la qualificazione delle scelte compiute dai privati debba avvenire secondo un criterio formalista (conta il nomen iuris prescelto dalle parti) o sostanzialista (conta la funzione concretamente perseguita) [63].
Nonostante la fondamentale importanza del principio di tipicità nel diritto societario, ancora di recente si è posta in luce la scarsa attenzione ad esso dedicata sotto il profilo della sua giustificazione razionale [64]. In estrema sintesi, le opinioni spaziano da chi sostiene che tale scelta deriva dalla efficacia reale del fenomeno societario, con conseguente necessità di tutelare i terzi (principalmente i creditori) che vi vengono in contatto [65], a chi richiama interessi di rilievo pubblico [66], o infine a chi valorizza l’esigenza di ridurre i costi di transazione [67].
A quanto sopra osservato consegue che le ragioni che determinano l’imperatività di una norma che concorre a formare il tipo sono diverse nel diritto dei contratti e nel diritto societario. Ciò che appare certo è che nel diritto societario non è sufficiente desumere l’imperatività di una norma o di un principio dalla mera affermazione che essa definisce il “contenuto tipologicamente essenziale” di un tipo, o che essa contribuisce a identificare il tipo [68]. Il criterio così definito è evidentemente troppo vago e suscettibile d’arbitrio e, quindi, deve essere meglio affinato.
A tal proposito, seguendo un approccio condivisibilmente sostanzialista, si è suggerito di individuare le “norme d’identificazione dei tipi sociali” distinguendo due diversi nuclei di disciplina. Da un lato, quello concernente «i modi di partecipazione dei soci all’operazione ed, in particolare, all’esercizio dell’attività ed ai risultati dell’esercizio» [69]; dall’altro quello relativo agli «atteggiamenti di quello che diremmo il rilievo reale del contratto di società» [70], in sostanza il regime di responsabilità per le obbligazioni sociali. Sono allora solo le norme ascrivibili al secondo nucleo, ossia quelle attinenti ai profili reali, o metaindividuali, della disciplina societaria, a poter essere qualificate come inderogabili [71]. Non altrimenti può invece dirsi di quelle norme ascrivibili al primo nucleo, in cui i soci sono liberi di stabilire liberamente ogni aspetto della partecipazione all’esercizio (ed ai risultati dell’esercizio) dell’attività sociale [72].
In buona sostanza, la tesi appena richiamata, in consonanza con quanto avviene in altri ordinamenti europei [73] e, come si vedrà, simmetricamente agli approdi cui giunge a tutt’oggi la giurisprudenza in ambito contrattuale [74], individua le ragioni dell’imperatività delle norme di diritto societario non espressamente qualificate come tali nell’esigenza di tutelare l’interesse generale alla protezione dei terzi che hanno rapporti con la società.
È pur vero che successivamente alla Riforma del 2003 si è contestata in senso ancor maggiormente riduzionistico la fondatezza di tale insegnamento, che poteva dirsi molto radicato. Si è infatti autorevolmente sostenuto che la “sdrammatizzazione” della responsabilità limitata operata dalla riforma avrebbe fortemente ridotto il grado di imperatività della disciplina societaria [75]. Quanto al profilo del collegamento tra imperatività, rilievo reale del fenomeno societario e tutela dei terzi, ciò avrebbe comportato, quantomeno per la s.p.a., una selezione dei soggetti da proteggere, individuati nei soli investitori di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. In buona sostanza, questa tesi ha tentato di restringere ulteriormente il campo di imperatività a quelle norme volte a proteggere i terzi che vengono in contatto con alcune s.p.a. (quotate).
D’altro canto, anche chi, non condividendo nella sua radicalità l’impostazione appena riportata, ha sostenuto che la Riforma del 2003 abbia mantenuto un non minimale tasso di imperatività nella regolazione del fenomeno societario, lo ha fatto con riferimento al profilo della disciplina dell’organizzazione societaria (riparto di competenze tra organi; possibili modelli di organizzazione; controlli), ammettendo invece il pieno dispiegarsi dell’autonomia nel vasto campo dei rapporti tra società e i suoi azionisti/finanziatori, oltre che tra questi ultimi [76]. Ciò anche al fine di garantire la capacità innovativa e l’efficiente adattamento del diritto societario, che se venisse inteso in senso pan-imperativo porterebbe a una eccessiva restrizione della libertà di organizzazione e, quindi, a una scarsa adattabilità del sistema giuridico all’evoluzione dei tempi [77].
Nessuno, a quanto si è potuto constatare, ha mai affermato espressamente che esistano, nella disciplina dei tipi societari, delle norme appartenenti al nucleo che regola il rapporto di finanziamento dell’attività d’impresa (partecipativo o meno) che siano anche tipologicamente caratterizzanti e, quindi, inderogabili, nemmeno all’unanimità. Né, peraltro, un’impostazione così restrittiva si ritiene avrebbe alcun senso in un contesto come quello attuale dell’Unione Europea, in cui a seguito della decisione della CGUE Centros e della sua “progenie”, l’ordinamento interno è sottoposto a una pressione competitiva da parte degli orientamenti che, come vedremo, o non prevedono o, comunque, hanno sterilizzato, il divieto che ci occupa [78].
Se si conviene con questo primo risultato, è allora necessario riconsiderare criticamente gli orientamenti che limitano l’autonomia statutaria e parasociale nell’ambito di rapporti di finanziamento partecipativi in base all’esistenza di principi (in primis, divieto di patto leonino) desumibili da caratteristiche “essenziali” del fenomeno societario. La norma dell’art. 2265 c.c. costituirebbe quindi una scelta, seppur criticabile, del legislatore del 1942, che dovrebbe però rimanere confinata nell’ambito delle società di persone.
Quanto appena osservato non è però sufficiente a supportare la tesi che si intende sostenere dell’inapplicabilità del divieto di patto leonino agli statuti e ai patti parasociali di società di capitali. È infatti necessario confrontarsi con il terzo possibile argomento, che ravvisa il fondamento di tale divieto nella necessità di assicurare un responsabile esercizio dei diritti sociali. Ciò con la precisazione che in quest’ottica perde di rilevanza la distinzione tra perdite «sociali» e perdite «individuali» richiamata al principio del presente paragrafo: l’irresponsabile esercizio dei diritti sociali può infatti conseguire sia a un’esenzione della partecipazione detenuta dal socio rispetto alle perdite registrate dalla società sia all’esenzione del patrimonio del singolo socio rispetto alla perdita di valore della partecipazione che è conseguenza del diminuito valore del patrimonio sociale [79].
4.2. Dall’art. 2265 c.c. non è comunque possibile ricavare un principio imperativo tale da determinare la nullità di clausole con esso confliggenti contenute in statuti o patti parasociali di società di capitali.
La nullità delle pattuizioni in contrasto con il supposto principio generale di divieto di esenzione dalle perdite non può essere argomentata affermando che esso costituirebbe un incentivo nei confronti dei soci affinché esercitino responsabilmente i diritti sociali o, che è lo stesso, una forma di nullità di protezione per introdurre nel diritto societario una qualche forma di tutela del contraente/socio debole [80].
Anche a voler ammettere – come non si ritiene né possibile né opportuno fare [81] – che sussista un generale principio di responsabile esercizio dei diritti sociali, non sembra fondatamente possibile affermare che esso sia assistito dai caratteri dell’imperatività richiesta dall’art. 1418, primo comma, c.c. né, conseguentemente, affermare la nullità di clausole, sociali o parasociali, in ragione della mera possibilità che le parti potrebbero porre in essere comportamenti con esso contrastanti.
A tutt’oggi la giurisprudenza di legittimità è infatti condivisibilmente ferma nel ritenere che il carattere dell’imperatività ai fini della configurabilità di una nullità virtuale debba predicarsi solo per le “norme di validità”, ossia per quelle norme inderogabili concernenti elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto. Al contrario, non può mai rilevare ai fini della nullità la violazione di norme imperative “di comportamento”. Non può quindi mai rilevare il comportamento delle parti anteriore alla conclusione del contratto e, tantomeno, successivo a detto momento (e, peraltro, nel caso che qui occupa solo eventuale). Questo orientamento, riaffermato nella celebre pronuncia a Sezioni Unite del 2007 in tema di doveri di comportamento degli intermediari finanziari [82], è stato da ultimo ribadito, sempre a Sezioni Unite, in tema di mutuo fondiario c.d. eccedentario [83], di fideiussione prestata da un c.d. confidi minore [84], oltre che di contratto concluso in violazione della normativa antiriciclaggio [85] e di necessaria iscrizione del servicer di una cartolarizzazione nell’albo di cui all’art. 106 t.u.b. [86], e parrebbe essersi oramai definitivamente consolidato, seppur in presenza di un panorama dottrinale quantomai variegato [87].
In ogni caso, la conclusione cui si è giunti non si ritiene muterebbe più di tanto anche a voler considerare superate le classiche concezioni della nullità come conseguenza vuoi della difettosità di uno degli elementi strutturali [88], vuoi della difformità dell’atto di autonomia rispetto allo schema legale espresso come struttura e contenuto/funzione [89], vuoi dell’inidoneità dell’assetto di interessi programmato a costituire la fonte di diritti ed obblighi. Anche a voler abbandonare ogni logica della fattispecie per ammettere che il regime attuale della invalidità può nel suo complesso essere considerato una forma di reazione negativa dell’ordinamento al regolamento d’interessi perseguito dalle parti [90], è comunque da condividere, pena un incontrollabile ampliamento del genere delle norme imperative, l’affermazione fatta propria dalla Cassazione per cui la nullità è forma di tutela posta a tutela di interessi generali, quali all’evidenza non sono quelli coinvolti nelle forme di finanziamento partecipativo dell’attività d’impresa svolta in forma societaria, in cui al centro è solo un accordo tra soci-imprenditori sulla suddivisione del rischio d’impresa.
L’affermazione che precede richiede un’ulteriore precisazione al fine di escludere la rilevanza di situazioni di “squilibrio” tra i soci paciscenti. Individuare la nozione tradizionale di “norma imperativa” tale da determinare ex art. 1418 c.c. la nullità delle pattuizioni ad essa contrarie è opera al giorno d’oggi senz’altro complicata dal fiorire, in primo luogo in sede di recezione della legislazione europea, di nullità speciali, spesso poste a tutela di interessi non solo generali, ma spesso “seriali”, ossia di categorie o classi di contraenti reputati meritevoli di protezione [91], e quindi fondative di un “ordine pubblico di protezione”. Nella difficoltà di stabilire un discrimen tra interesse generale e interessi particolari, pur se seriali, la conclusione che appare più accreditata è però pur sempre quella che argomenta l’imperatività non tanto dall’inderogabilità della norma violata, quanto piuttosto «dall’indisponibilità dell’interesse da quella protetto, e della relativa tutela» [92]. Indisponibilità che nel caso delle partecipazioni a scopo di finanziamento non sembra possibile ricavare da alcun luogo dell’ordinamento, quantomeno se si condivide quanto sopra s’è detto in merito all’inesistenza di un principio che imponga ai soci di società di capitali una equilibrata sopportazione delle perdite.
In ultimo, la stessa previsione dell’art. 1418, primo comma, c.c., che esclude la nullità per violazione di norma imperativa là dove la legge «disponga diversamente» [93] costituisce solido fondamento della tesi che si intende sostenere, e cioè che l’esigenza di assicurare un “responsabile” o, per meglio dire “non abusivo”, esercizio dei diritti sociali trova già nell’ordinamento idonei strumenti rimediali [94].
4.3. La costruzione di un generale principio imperativo di divieto di esenzione dalle perdite al fine di assicurare un responsabile esercizio dei diritti sociali costituisce espressione di un criticabile atteggiamento nei confronti del “pericolo d’abuso”.
Esclusa la possibilità di affermare la nullità di clausole leonine per necessaria coerenza con la fattispecie societaria, in virtù di un generale principio volto a imporre preventivamente il responsabile esercizio dei diritti sociali o, infine, in applicazione di una qualche forma di tutela del socio debole, è necessario interrogarsi sul perché la tesi qui criticata ha avuto un successo così diffuso e duraturo.
Al riguardo, esposte le ragioni che inducono a dubitare della fondatezza normativa della suddetta teoria, può nondimeno essere utile ripercorrere idealmente ogni suo singolo passaggio (spesso non esplicitato dagli interpreti). Ciò al fine di fornire un’ipotesi delle motivazioni, per così dire sociologiche, alla base di ciascuno di detti passaggi:
1) nella prassi emerge la necessità di regolare concreti assetti di interessi nuovi, ossia molto distanti rispetto a quelli presi a riferimento dal legislatore storico, oltre che maggiormente oggetto di attenzione a livello accademico;
2) sulla base di tale esigenza concreta viene elaborato a livello di autonomia contrattuale un nuovo assetto di tali interessi;
3) non esistono specifici indici normativi nel senso della validità o invalidità di tale assetto di interessi;
4) è però facilmente intuibile, anche in ragione della novità delle pattuizioni (che impedisce all’interprete di avere una chiara visione di tutte le possibili controversie che potrebbero scaturire), che si potrebbero verificare abusi;
5) da tale possibilità d’abuso – percepita come non facilmente governabile o, comunque, come indesiderabile – viene fatta derivare, per risolvere il problema alla radice, l’invalidità delle relative pattuizioni;
6) l’invalidità della singola pattuizione viene però espressamente argomentata nella maggior parte dei casi non richiamando il rischio di abuso, ma sulla base di una pretesa incompatibilità dell’assetto d’interessi venutosi a creare con la “struttura”, il “tipo” o le “caratteristiche necessarie” di un istituto, ovvero con i “principi” che lo regolano;
7) non sempre, anzi raramente, l’argomentazione individua con precisione quegli interessi di grado superiore, o comunque ricavabili dall’ordinamento, che si porrebbero in conflitto con quelli delle parti contraenti al punto tale da determinare la nullità delle loro pattuizioni [95];
8) nella maggior parte dei casi non è quindi ben chiaro se l’interesse in conflitto con la pattuizione sgradita sia effettivamente di grado superiore rispetto a quello dei contraenti, e quindi meta-individuale o se, invece, esso si identifichi in una sorta di generale interesse, di stampo conservatore, al mantenimento della stabilità del sistema, messa in crisi dall’emergere di nuovi fenomeni;
9) se, invece, l’interesse appena descritto viene individuato, spesso si ha la sensazione che esso si identifichi, più o meno esplicitamente, in una qualche forma di funzionalizzazione di stampo istituzionalistico dei diritti passibili d’abuso [96].
Tale modo di procedere è da respingere, in quando porta all’elaborazione di un armamentario concettuale e di strumenti applicativi che, invece di consentire un efficace governo dei fenomeni socio-economici, non fa altro che escludere la rilevanza giuridica di quelli che non rispondono a un modello predeterminato al solo fine di evitare il crearsi di situazioni concrete in cui l’abuso possa prosperare. L’affermazione della nullità non è quindi frutto di un giudizio politico, ideologico o morale (cioè della risposta all’interrogativo se il determinato contratto è incompatibile con il sistema economico vigente, o è ingiusto o immorale), peraltro nei limiti in cui l’ordinamento dà cittadinanza a questi argomenti tramite il richiamo all’ordine pubblico o mercè l’utilizzo della nullità virtuale [97], ma deriva esclusivamente dalla sfiducia che l’interprete ha nella capacità del sistema, nel suo complesso, di governare adeguatamente il fatto nuovo e i possibili casi di esercizio patologico (cioè abusivo) dei diritti frutto della contrattazione tra le parti.
A sostegno di quanto appena osservato in termini sociologici e apodittici si possono portare tre argomenti, che saranno oggetto di attenzione nel prosieguo. Uno orientato alle conseguenze: in assenza di determinati strumenti alcuni mercati non si sviluppano (§ 5). Uno storico-evolutivo: l’esame dell’atteggiamento di giudici ed accademici nei confronti di patti di esenzione dalle perdite lungo tutto il XX sec. mostrerà infatti la notevole relatività delle affermazioni che oggi sono invece spesso considerate dogmi immutabili (§ 5). Uno comparatistico: negli altri ordinamenti vicini a quello italiano il divieto di esenzione dalle perdite ha perso la sua centralità nel definire il fenomeno societario, mentre, anche in assenza di tale divieto, l’esigenza di reprimere possibili abusi da parte di soci esentati dalle perdite o cui vengono attribuiti tutti o quasi tutti gli utili è soddisfatta mediante rimedi del caso concreto (§ 6).
Il canale bancario, a tutt’oggi ancora centrale per il finanziamento delle imprese [98], oltre a subire una generale contrazione si è dimostrato incapace, per le sempre più stringenti regole prudenziali successivi alla grande crisi economica del 2007-2011, di finanziare imprese ad alta capacità innovativa e di crescita ma prive di adeguati collaterali. Ciò, in una chiave di necessaria differenziazione, ha comportato una sempre maggior rilevanza del finanziamento privato di Private Equity o Venture Capital [99] che, come s’è detto, spesso viene veicolato in partecipazioni a scopo di finanziamento con annesse opzioni put a prezzo predefinito, ma che in Italia cresce ad un ritmo inferiore rispetto agli altri paesi europei [100].
La tesi che si sostiene in questo lavoro parte quindi dalla dichiarata intenzione di costruire, per quanto possibile, un ambiente normativo capace di accogliere una forma di finanziamento dell’attività d’impresa dall’importanza cruciale per lo sviluppo dell’economia nazionale [101].
In tale dichiarato contesto argomentativo orientato alle conseguenze, è necessario prendere in considerazione quello che è un argomento, spesso non dichiarato ma che emerge in trasparenza, alla base di quelle ricostruzioni che circondano di divieti imperativi l’agire del finanziatore privato. Ad una prima sommaria analisi, infatti, potrebbe sembrare che, grazie alla particolare ibridazione di caratteristiche strutturali del capitale di debito e di rischio propria delle partecipazioni a scopo di finanziamento, ancor più se assistite da un patto di esenzione o immunità dalle perdite, il socio finanziatore abbia ampio spazio per “approfittarsi” dell’inerme finanziato (il socio imprenditore). Il finanziatore può ottenere, e normalmente ottiene, vantaggi che potrebbero apparire agli occhi dell’interprete del tutto spropositati, e come tali non meritevoli di tutela, così aprendosi la strada ad interventi eteronomi sotto il segno dell’invalidità per contrarietà a norme imperative.
È però opportuno sin da subito sgombrare il campo da queste tentazioni. Un’attenta considerazione degli interessi in gioco e della struttura di questo particolare mercato fa comprendere come è la rischiosità dell’investimento, con tutti i conseguenti problemi di asimmetria informativa e possibile hold-up del finanziato, che impongono tali strutture “sbilanciate”, in assenza delle quali nessun soggetto razionale sarebbe disposto a finanziare un’impresa rischiosa [102]. Tale aspetto deve necessariamente essere preso in considerazione in un’ottica di interpretazione orientata ai risultati [103], nel senso di una necessaria consapevolezza per cui l’affermazione di norme imperative in assenza di un chiaro interesse generale a reprimere determinate condotte comporta, comunque, il mancato sviluppo di tutti quei settori del mercato che, a livello globale, si servono di quegli strumenti di cui si predica l’invalidità.
Si aggiunga poi che, come condivisibilmente osservato, un intervento sul piano della nullità appare poco funzionale rispetto all’obiettivo di protezione degli interessi esterni al patto, dato che nulla impedisce, ove sussista un concreto interesse delle parti, che il patto trovi comunque attuazione [104].
La questione della validità dei patti parasociali “leonini” o “para-leonini” è oggetto di un peculiare processo di evoluzione delle idee che conviene per sommi capi ricostruire al fine di individuare il contesto socio-economico in cui si sviluppò l’idea della c.d. transtipicità del divieto di patto leonino, veicolata tramite l’affermazione di un principio generale di tutto il diritto societario per cui il socio dovrebbe sempre necessariamente essere esposto a un rischio apprezzabile d’impresa, che nel caso di società di capitali significherebbe null’altro che rischio di perdere il proprio investimento.
Ciò non tanto al fine di sostenere la necessità di un’interpretazione psicologica dell’art. 2265 c.c., tale per cui non sarebbe possibile che una norma di legge assuma nel tempo significati diversi rispetto a quelli originariamente voluti dal legislatore storico [105], quanto per mettere in luce il profondo mutamento che hanno subito le condizioni socio-economiche di riferimento rispetto all’epoca in cui la tesi in contestazione si è sviluppata e, così, per sostenere la necessità di un’interpretazione evolutiva dell’art. 2265 c.c. che ne escluda tout court l’applicazione alle società di capitali.
6.1. Gli anni ’20 del XX sec.: l’atteggiamento riduzionista nei confronti del divieto del patto leonino.
Nella prima metà del secolo scorso, vigente l’art. 1719 del codice civile del 1865, espressamente dettato per la sola società civile, era del tutto pacifica l’opinione secondo la quale solo la partecipazione agli utili fosse coessenziale alla causa delle società. Il divieto di esonero dalle perdite, pur codificato, si riteneva rispondesse a ragioni di stampo morale e politico, figlie del divieto canonico dell’usura, perciò insuscettibili di estensione alle società di capitali [106]. Ad esempio, in una vicenda processuale degli anni ’20 che vide coinvolti alcuni maestri del diritto commerciale dell’epoca, la Corte d’Appello di Roma, nell’escludere espressamente l’applicabilità del divieto di patto leonino alle società di capitali, affermò espressamente che il divieto di esenzione dalle perdite, sconosciuto al diritto romano [107] e nato nel diritto canonico [108], sviluppatosi senz’ordine [109], era passato sospinto dalla tradizione nelle codificazioni ottocentesche, e ciò «in contrasto col sistema del diritto positivo delle obbligazioni, il quale lascia ai contraenti larga libertà di provvedere ai propri interessi, e in contrasto specialmente con lo spirito di associazione dei nuovi tempi, a tendenza spiccatamente economica, che mal si adatta alle limitazioni della libertà di contrattare [sicché esso doveva essere] ristretto e nettamente delimitato [alla assoluta e incondizionata esclusione da guadagni o esclusione dalle perdite, osservando a commento finale che patti di tal fatta si rivelavano] ragionevoli e giust[i], sol che si ponga mente a ciò che l’esperienza insegna, vale a dire che sono purtroppo frequenti i casi nei quali la costituzione di una società anonima promossa allo scopo di apportare un’azienda commerciale e industriale si risolve, in buona sostanza, nel salvataggio del concessionario dell’azienda medesima e nel danno degli incauti sovventori» [110].
La decisione fu poi confermata dalla Cassazione con quello che, a quanto consta, è stato il primo utilizzo della formula della necessaria “assolutezza e costanza” (non ricorrente nel caso di specie) dell’esenzione dalle perdite per configurare il divieto [111].
Questa ricostruzione non a caso si affermò in coincidenza con la grande crisi economica successiva al primo conflitto mondiale e, come si vedrà subito, si consolidò successivamente alla ancor più profonda crisi economica del 1929, quando l’esigenza di supportare imprese in crisi tramite canali diversi da quello bancario (spesso di matrice statale) reclamava nuovi e più raffinati strumenti (privati) di finanziamento.
6.2. Gli anni ’30: la tesi riduzionista si trincera nel solo campo parasociale.
Nel corso degli anni ’30 in cui la Cassazione continuò ad adottare un atteggiamento riduzionista, giudicando ad esempio esclusi dal divieto di patto leonino: negli anni 1930-31 il patto con il quale un socio [112] o la società stessa [113] si obbligavano a pagare un utile minimo annuo a favore di un altro socio che aveva conferito in godimento di un immobile; nel 1939 un patto parasociale con il quale tutti i soci di una anonima, successivamente ad un aumento di capitale sottoscritto da un terzo, avevano garantito di tenerlo indenne dai risultati della gestione sociale [114].
La pronuncia del 1939 costituì però un punto di svolta. La Cassazione, pur affermando in un obiter dictum nemmeno troppo approfondito la rilevanza “causale” dal divieto di esenzione dalle perdite con conseguente sbarramento al suo ingresso in statuto, gli aprì la strada nel campo parasociale. Andò allora sempre più consolidandosi in dottrina [115] e nella giurisprudenza [116] l’orientamento per cui i patti parasociali leonini, proprio in ragione della loro rilevanza non reale, dovevano essere soggetti a un giudizio, che si potrebbe definire “bifasico”, in base al quale la pur riscontrata esenzione totale e costante dalle perdite non avrebbe comportato nullità nell’ipotesi in cui tramite essi le parti avessero inteso perseguire un interesse meritevole di tutela.
A tale conclusione si giungeva qualificando l’impegno di un socio a mallevare dalle perdite l’altro socio come «contratto di garanzia vero e proprio [che] si ha allorché l’un contraente per sorreggere o promuovere un’impresa già iniziata o da iniziarsi dall’altro contraente assume contrattualmente, e ordinariamente senza corrispettivo, nella sua totalità, o entro determinati limiti, il rischio che all’impresa stessa è collegato» [117]. Anzi, si precisava anche che, nella varietà degli interessi tramite tali pattuizioni perseguibili, assumesse rilevanza quello (in thesi meritevole di tutela) dei soci preesistenti, che, vedendo «nell’ulteriore apporto del garantito l’unico mezzo per il risanamento economico dell’azienda hanno un interesse a che egli effettui tale partecipazione, e a renderla possibile o a facilitarla stipulano il rapporto di garanzia» [118].
6.3. Gli anni ’50: la bancarizzazione del sistema di finanziamento delle imprese e la nuova fortuna del divieto di patto leonino.
L’atteggiamento permissivo degli anni ’30 e ’40 iniziò però ad entrare in crisi nel medesimo torno di tempo, vuoi per la chiusura ad investimenti esteri imposta dall’economia di guerra, vuoi con la progressiva “bancarizzazione” dei canali di finanziamento delle imprese [119]. Non è un caso se in questo periodo dottrina e giurisprudenza iniziarono a ricondurre entrambi i divieti (di esenzione dagli utili e dalle perdite) ad una comune giustificazione, variamente individuata vuoi in un generale principio di equivalenza delle prestazioni [120], vuoi nella necessaria corrispondenza tra potere e rischio conseguente all’esercizio in comune dell’attività d’impresa [121]. L’evoluzione del sistema di finanziamento delle imprese italiane, sempre più bancocentrico, aveva insomma fatto passare in secondo piano quelle forme di finanziamento partecipativo pur conosciute nei decenni precedenti, in sostanza inducendo gli interpreti a tener molto ben separate la qualifica di socio da quella di creditore.
All’apice di questo ulteriore processo di evoluzione del ruolo del divieto di patto leonino si colloca l’opera di Ernesto Simonetto che nel 1959 [122], con ricostruzione ad oggi ampiamente condivisa [123], ricondusse il divieto di esenzione dalle perdite non alla riprovazione dell’usura [124] né a astratte affermazioni sulla “essenza” del fenomeno societario, quanto a «ragioni di politica economica» [125]. Queste ragioni erano individuate a loro volta in ciò, che il socio esentato dalle perdite ma ammesso a concorrere, in assemblea, alla formazione della volontà dei soci «sarebbe in un permanente conflitto di interessi rispetto a coloro che possono sia perdere sia guadagnare […] che importa (penserebbe il socio escluso dalle perdite) se altri arrischia se noi guadagneremo di più, in caso di buona fortuna, mentre non arrischiamo nulla?» [126].
È da questo momento che si andò sempre più consolidando l’opinione, come appena visto all’origine frutto di un ragionamento consapevolmente ed espressamente giuspolitico a sua volta fondato su una netta distinzione tra le figure di socio e creditore finanziario, che il divieto di p.l. integrerebbe la nozione di contratto di società, qualificando la partecipazione di ogni socio sia agli utili sia alle perdite come elemento essenziale del contratto stesso [127].
Parallelamente, però, si consolidava in dottrina [128] e giurisprudenza [129] l’intuizione di Graziani secondo la quale l’assunzione parasociale di un obbligo di tenere indenne un socio dalle perdite costituiva un autonomo “contratto di garanzia” valido in quanto meritevole di tutela. Tutto ciò, è opportuno ribadirlo, non senza critiche autorevoli (e qui condivise [130]) come quelle di Giorgio Oppo o Luigi Carraro, che misero in luce le aporie dell’argomento che faceva leva sulla sola efficacia obbligatoria dei patti parasociali per affermare un loro maggior spazio operativo [131].
6.4. La fine del XX sec.: l’intervento delle finanziarie regionali, la decisione della Cassazione del 1994.
Il quadro appena descritto, spaccato tra affermazione della rilevanza causale del divieto di patto leonino oramai assunto come dogma in sé e indulgenza verso i patti parasociali “ad effetto leonino”, si consolidò ulteriormente quando a cavallo degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso il divieto di patto leonino fu al centro di una serie di contenziosi relativi all’intervento delle cc.dd. “finanziarie regionali”, ossia società costituite dalle Regioni allo scopo di erogare finanziamenti volti a favorire lo sviluppo di p.m.i. e/o a supportarle in situazioni di crisi temporanea. Il fenomeno [132] è a tutt’oggi regolato dalla l. 5 ottobre 1991, n. 317 (“Interventi per l’innovazione e lo sviluppo delle piccole imprese”), che impone alle S.F.I.S. (“Società finanziarie per l’innovazione e lo sviluppo”) un vincolo di temporaneità delle partecipazioni assunte [133] quale condizione affinché tali società possano beneficiare di anticipazioni sui finanziamenti erogati da parte del Mediocredito centrale [134].
Le partecipazioni detenute dalla S.F.I.S. sono privilegiate in sede di liquidazione e, soprattutto, postergate nelle perdite, destinate a scaricarsi prima sulle azioni ordinarie. Di qui si accese, soprattutto avanti ad alcune corti friulane, il dibattito in merito alla legittimità di tali clausole rispetto al divieto di patto leonino che, nonostante discordi voci di accademici chiamati a rendere i propri pareri pro veritate sulla vicenda [135], fu risolto nel senso della loro validità [136].
Le operazioni di finanziamento effettuate dalle S.F.I.S., come visto strutturalmente destinate ad entrare nel capitale delle imprese finanziate per un periodo di tempo limitato, prevedevano poi costantemente, e prevedono tuttora, patti parasociali di opzione put a prezzo predefinito [137], con ciò accendendo il dibattito sulla loro compatibilità con il divieto di patto leonino.
In quest’occasione le partecipazioni a scopo di finanziamento riemersero dal fiume sotterraneo in cui sembrava essersi inabissate sin dagli anni ’40, quantomeno scorrendo le riviste giuridiche. Furono così pubblicati alcuni pareri pro veritate che, pur riaffermando la applicabilità del divieto di patto leonino alle società di capitali, conclusero nel senso della validità di tali opzioni “di smobilizzo” [138]. La tesi “à la Simonetto” fu insomma corretta nel senso che il divieto di patto leonino non sarebbe stato violato a condizione che all’esclusione dalle perdite non corrispondesse alcuna possibilità per il socio esentato (e quindi de-responsabilizzato) di partecipare all’indirizzo della vita sociale [139].
La questione giunse sino alla Cassazione che, con una celebre sentenza del 1994 [140], pur affermando per la prima volta esplicitamente l’applicabilità del divieto di patto leonino alle società di capitali quale presidio della “purezza” della causa societatis, ne restrinse l’applicazione ai soli casi in cui la clausola scrutinata comportasse un’esclusione “assoluta e costante” del socio beneficiario dalle perdite, circostanza non riscontrata nel caso esaminato, in cui la facoltà di esercitare l’opzione put era subordinata al ricorrere di determinate condizioni.
L’indirizzo “mediano”, secondo il quale la esclusione dalle perdite era legittima se limitata o controbilanciata dall’assenza di poteri gestori, fu poi confermato dalla Cassazione nel 2000 [141], seppur in tema di società di persone, affermando la validità di una pattuizione che escludeva un socio d’opera di società semplice dagli utili e dalle perdite in quanto bilanciata dall’esonero dello stesso socio anche dall’obbligo di sopperire al fabbisogno finanziario della società, posto a carico esclusivo dei soci di capitale in proporzione delle loro quote.
6.5. Dalla riforma del 2003 ai giorni d’oggi: la perdurante tensione tra affermazioni di principio e applicazioni pratiche.
Nel nuovo millennio si è andata sempre più radicalizzando la tensione tra la riaffermazione di un principio divenuto oramai “totemico” (quello della rilevanza causale del divieto di patto leonino) e la necessità di adattare tale affermazione di principio con le sempre più pressanti esigenze di un mutato contesto socio-economico.
La Riforma del 2003 ha infatti ampiamente scalfito, se non del tutto demolito, ogni rigida necessità di rispettare la proporzionalità tra poteri amministrativi del socio e rischio d’impresa, tanto da far ritenere preferibile la tesi che, ai sensi degli artt. 2346 (per la s.p.a.) e 2468 (per la s.r.l.) c.c., sostiene la piena validità di un’assegnazione non proporzionale di azioni o quote “estrema”, ossia in assenza di conferimento [142]. Tale meccanismo è, per esempio, alla base di alcuni meccanismi tipici della prassi di Venture Capital quali ad esempio le antidilution clauses e la fissazione di un tasso di conversione premiale [143] nei titoli convertibili [144]. Esso appare del tutto ammissibile, attenendo esclusivamente alle relazioni interne tra soci, che dovrebbero essere liberi di determinare i reciproci interessi senza che un intervento eteronomo ponga dei limiti imperativi in assenza di chiari interessi generali da tutelare [145]. Quanto alle voci in dottrina che affermano l’impossibilità di un’attribuzione non proporzionale «estrema» o «gratuita», non è un caso che esse siano argomentate sulla base di un limite implicito all’autonomia privata ricavato dalla nozione stessa di società dettata dall’art. 2247 c.c. che imporrebbe, seppur rivisto rispetto al passato, nel senso di una necessaria titolarità del rischio d’impresa, ossia del rischio di perdere quanto investito, in capo a chi concorre a formare la volontà dell’impresa [146].
Del pari, quando si tratta di individuare il perché dell’estensione del divieto di p.l. anche alle società di capitali (e ai relativi patti parasociali) la risposta della dottrina più recente è ancora variegata. Da parte di alcuni, con argomento la cui fondatezza è stata sopra messa in discussione [147], si sostiene che il divieto costituisce un elemento essenziale del fenomeno societario (teoria della c.d. purezza della causa societatis) [148]. Altri, invece, recuperando la tesi à la Simonetto [149], affermano che esso risponde all’esigenza di garantire un avveduto e corretto esercizio dei poteri amministrativi spettanti al socio che: a) qualora fosse ammissibile una totale (quella parziale, o comunque, non proporzionale, essendo connaturata al sistema [150]) e costante (cioè non condizionata) esenzione dalle perdite, potrebbe (ed il condizionale è d’obbligo) trovarsi in una situazione di interesse difforme rispetto a quello degli altri soci; mentre b) in ipotesi di totale esclusione dagli utili, si potrebbe trovare in una situazione di carenza d’interesse.
Il divieto di esenzione dalle perdite costituisce quindi secondo i più un vero e proprio limite esterno all’autonomia concessa ai privati nel disegnare il contenuto della partecipazione a società di capitali [151]. La maggior parte degli autori [152] mostra però di condividere il triplice ordine di eccezioni, già oggetto di critica [153], secondo le quali il divieto in parola si applicherebbe: i) solo in caso di esclusione «assoluta e costante»; ii) alle sole clausole statutarie e non, quindi, anche ai patti parasociali [154]; iii) solo nell’ipotesi in cui il socio beneficiario non sia in grado di influire sulla gestione della società [155].
È il caso di rilevare come non siano mancate voci che, anche valorizzando il venir meno del nesso potere-rischio [156], hanno posto in dubbio l’applicazione del divieto di patto leonino alle società di capitali [157].
Ciò nonostante, e salve le appena menzionate eccezioni, a tutt’oggi dottrina e giurisprudenza maggioritarie si esercitano su di una difficile opera di bilanciamento tra: a) la costruzione, qui criticata, di un principio generale di divieto di esonero dalle perdite per tutti i soci di tutte le società e b) i tentativi, anch’essi criticamente analizzati, di individuare porti sicuri che consentano, con una logica caso per caso, di affermare quantomeno la validità degli accordi parasociali che si pongono in contrasto con detto divieto.
La tesi che si intende sostenere è supportata dall’argomento comparatistico [158], nel senso che interessa rilevare non tanto l’ovvio, ossia che molti ordinamenti al mondo non conoscono minimamente un divieto di esenzione dalle perdite e negano che la partecipazione ad esse possa costituire un requisito indefettibile del fenomeno societario [159], ma che anche quegli ordinamenti che tale divieto conoscono, anche in misura molto più severa ed esplicita di quello italiano, hanno da tempo imboccato un percorso volto a relativizzarlo ed aggiornarlo rispetto alle mutate esigenze della realtà economico-sociale. Da tali osservazioni dovrebbe emergere con ancor più evidenza la già segnalata relatività – geografica, storica, culturale, ideologica ed economica – delle soluzioni prospettate al fine di risolvere l’interrogativo che ci si è posti [160].
Un processo di ridimensionamento del divieto di patto leonino analogo a quello in atto nell’ordinamento italiano si è avuto in Francia, ove il divieto di patto leonino è espressamente previsto per tutti i tipi sociali. L’art. 1844-1 del Code Civil, collocato dal 1978 tra le disposizioni generali dettate per le società, stabilisce infatti l’inefficacia di qualsiasi pattuizione che escluda un socio dalla «totalità delle perdite» [161].
Nonostante tale inequivocabile disposizione normativa, in Francia gli accordi di riacquisto delle partecipazioni (engagements de rachat de parts sociales) sono considerati leciti sin dagli anni ’80 del secolo scorso. La Chambre commerciale della Cour de Cassation ha infatti affermato la validità di siffatte pattuizioni fatto salvo, significativamente per quanto s’è già osservato [162], il caso di frode [163].
Successivamente, all’esito di un vivace confronto tra le sue due Chambres (civile e commerciale) [164], nei primi anni 2000 la cassazione transalpina ha definitivamente ammesso la legittimità degli engagements de rachat, considerando la garanzia di riacquisto quale equa contropartita del «service financier» prestato (alla società) dal socio finanziatore, ma a condizione che contengano degli elementi utili ad escludere la possibilità d’abuso: fissazione di un prezzo minimo [165] o di un termine per l’esercizio dell’opzione [166]. Un rapido esame della giurisprudenza più recente fa emergere che allo stato in Francia un accordo il cui oggetto sia, mediante un prezzo liberamente convenuto, di trasferire le partecipazioni sociali è valido in quanto estraneo, fatte salve le ipotesi di frode, al patto sociale e, quindi, non ha incidenza sulla partecipazione agli utili e alle perdite [167].
Anche l’ordinamento francese, che a differenza di quello italiano espressamente applica il divieto di patto leonino a tutti i tipi sociali, ne ha quindi notevolmente limitato la portata nei confronti delle opzioni put ai soli casi molto generalmente definiti di “frode”. Il rischio d’abuso è stato quindi risolto non con lo strumento dell’invalidità preventiva, ma imponendo una certa qual delimitazione di occasioni e modalità del potere di attivare l’opzione put.
Ancor più significativa l’evoluzione dell’ordinamento Belga il cui Code des sociétés del 1999 all’art. 32 prevedeva una versione del divieto che comprendeva utili e perdite che non aveva però impedito alla giurisprudenza di affermare la validità delle opzioni put, ma che, a seguito della riforma del 2019, all’art. 4:2 del Code prevede unicamente, al dichiarato fine di consentire il recepimento di patti diffusi nella moderna realtà economica, un divieto di esenzione dagli utili, perciò rendendo senz’altro legittime le clausole di esonero dalle perdite [168].
In Germania, invece, nonostante l’assenza di un espresso divieto e nonostante il § 109 HGB e il § 45, abs. 2, GmbHG aprano alla massima libertà sul punto della distribuzione degli utili e delle perdite – quest’ultima norma in particolare stabilendo che i diritti (amministrativi e patrimoniali) dei soci e le modalità di esercizio di tali diritti sono liberamente stabiliti dallo statuto, con l’unico limite costituito da espresse previsioni di legge – si è storicamente registrato un dibattito sull’ammissibilità di clausole statutarie di GmbH aventi ad oggetto l’esenzione dagli utili, mentre nessun dubbio si ha in merito alla validità di una clausola di esclusione dalle perdite [169]. Dibattito che però si è concluso già nel 1954, con un’importante sentenza del Bundesgerichtof [170] che ha espressamente escluso che la partecipazione agli utili fosse un attributo necessario della qualità di socio, a meno che insieme si concentri in un solo socio non solo il diritto di partecipare agli utili, ma anche il diritto di voto e il diritto alla quota finale di liquidazione [171]. La conclusione è unanimemente riconosciuta valida anche per le Aktiengesellschaften ai sensi del § 60 AktG [172]. Ciò nonostante, si ritiene che sia possibile affermare la nullità per violazione dei Guten sitten (§ 138 BGB) di clausole che, a seguito di un giudizio in concreto, siano eccessivamente squilibrate [173].
Anche in Germania, quindi, il problema del Missbrauchrisiko è ben presente quando si affronta il tema delle pattuizioni leonine, ma, in coerenza con la tradizione di quell’ordinamento, è risolto, molto opportunamente, mediante un giudizio individualizzato caso per caso.
In questo lavoro si è contestata la fondatezza della convinzione, alquanto diffusa nella dottrina e giurisprudenza italiane, secondo la quale il divieto di patto leonino, formalmente sancito dall’art. 2265 c.c. per le sole società di persone, si applicherebbe anche alle società di capitali, soprattutto per quanto riguarda il divieto di esenzione dalle perdite. Ciò con tre autonomi e a volte sovrapposti argomenti, tutti oggetto di critica: a) al fine di preservare la “purezza” di una causa societatis che si ritiene presupponga imperativamente la sopportazione di un minimo di perdite o la partecipazione ad un minimo di utili; b) richiamando le norme sulla riduzione del capitale per perdite; c) al dichiarato fine di evitare l’esercizio irresponsabile dei diritti sociali. Tale affermazione di principio viene però poi temperata da tre casi esemplari, ma dal fondamento altrettanto discutibile, di riduzione teleologica della fattispecie: d) l’esclusione da utili e perdite deve essere assoluta e costante; e) il divieto non si applica ai patti parasociali; f) il divieto non opera se il socio non è in grado di influire sulla vita sociale.
La tesi che si è tentato di dimostrare è invece quella per cui al fondo della tesi avversata, spogliata dei suoi presupposti concettualistici, sta l’intento pratico, diffuso in ambiti ben più ampi rispetto a quello oggetto d’indagine [174], di governare con lo strumento dell’invalidità il “rischio d’abuso”. Tesi che, però, non convince in ragione di un triplice ordine di argomenti: quello orientato alle conseguenze; quello storico-evolutivo; quello comparatistico.
La posizione critica che si è assunta non significa negare la necessità di approntare adeguati rimedi al rischio d’abuso. L’individuazione di tali rimedi deve però necessariamente essere preceduta da un’opera di sistemazione, che in questa sede può solo abbozzarsi nelle sue linee essenziali, delle possibili ipotesi d’abuso da parte del socio “leone” e dei possibili rimedi, diversi dalla nullità, a tal scopo approntati dall’ordinamento, per poi tentare di ricondurre ad unità le svariate ipotesi in base ad un criterio ordinatore orientato all’efficiente gestione dell’impresa.
Qualunque sia la risposta che si intende fornire alla domanda sul ruolo dell’abuso del diritto nell’ordinamento dei privati [175], al centro del suo studio – come per lo studio di qualsiasi nozione a contenuto variabile, generale o indefinito [176] – non può stare la fissazione una volta per tutte di un concetto [177]. Lo studio del fenomeno dell’abuso non può infatti avvenire in termini dommatici, vista l’irriducibilità dello stesso in una formula rigida e la contraddittorietà di rinchiudere un rigido circolo definitorio uno strumento tutto basato sull’elasticità. Esso deve invece dirigersi nel senso di individuare le “figure sintomatiche” del suo campo applicativo. Il che, si badi beni, non significa ridursi a una mera razionalizzazione delle tendenze in atto, giacché l’analisi della casistica comporta inevitabilmente l’interrogarsi, di volta in volta, sulla risposta che è necessario fornire alla vicenda esaminata in termini di coerenza normativa, adeguatezza ed efficienza economica.
Sulla base di questa doverosa premessa è quindi possibile in linea generale affermare che il possibile esercizio “irresponsabile” dei diritti da parte del socio esentato dalle perdite può concretarsi in atteggiamenti che si collocano ai due estremi dello spettro che va dall’iperattività alla totale inerzia o, con altre parole, che si declinano in senso commissivo o omissivo [178].
8.1. Le ipotesi di abuso “commissivo”.
In senso commissivo, il socio che nulla rischia, perché ha la garanzia di rientro del capitale investito, potrebbe in primo luogo essere indotto a premere sugli amministratori per una maggiore assunzione di rischio imprenditoriale, almeno nella misura in cui è in grado di prevedere che le possibili conseguenze negative di tale linea d’azione saranno sopportate dai soci destinati a sopportare le perdite da cui egli è esentato o reso indenne. Tale eventualità, in effetti del tutto plausibile nel suo verificarsi, a mio giudizio non fa emergere la necessità di alcuna tutela, almeno sino a quando la “pressione” all’assunzione del rischio si situa in una normale, per quanto aggressiva, strategia imprenditoriale e, soprattutto, sino a quando essa non comporta la violazione delle regole che presiedono alla corretta gestione imprenditoriale e alla protezione dei creditori sociali e dei terzi. Ci si trova infatti di fronte a un’attribuzione di poteri gestori e a una suddivisione del rischio d’impresa che sono state consapevolmente e liberamente stabilite tra i soci, sicché una loro messa in discussione potrebbe essere coerentemente argomentata solo muovendo da premesse paternalistiche, che qui si rifuggono, o, comunque, di sfiducia nella superiore efficienza, almeno in questo specifico campo, di un risultato affidato alla libera contrattazione.
Ovviamente diverse sarebbero le conseguenze se la pressione del socio all’assunzione di un maggior rischio d’impresa si risolva in atti dannosi per il patrimonio sociale. In tal caso, infatti, soccorreranno le normali regole in tema di responsabilità degli amministratori cui l’ordinamento italiano, senza dubbio per le s.r.l., all’art. 2476, ottavo comma, c.c., accompagna la responsabilità c.d. deliberativa dei «soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato» il compimento degli atti dannosi e, quindi, anche del socio-finanziatore [179].
Sempre in senso commissivo, il socio esentato o iperprotetto dalle perdite potrebbe essere indotto a esercitare i propri diritti per indurre l’organo amministrativo a una liquidazione dell’investimento, tramite cessione dell’azienda (asset deal), in misura solo sufficiente a rientrare del proprio investimento. Allo stesso modo, potrebbe essere il socio direttamente, avvalendosi di clausole di trascinamento, a concludere una vendita dell’intero capitale della società (share deal) ad un prezzo ingiustificatamente penalizzante delle aspettative del socio trascinato. È questo il tema delle cc.dd. “fire sales” o delle vendite potenzialmente “value-destroying”, ben noto nell’ambito della prassi di Venture Capital [180], ove peraltro il socio finanziatore in occasione di determinati liquidity events è protetto da una liquidation preference, ossia da una preferenza sul ricavato della liquidazione dell’investimento, inteso come ogni forma di monetizzazione del complesso aziendale e quindi con un’ampiezza ben più ampia della mera preferenza sugli utili o sul residuo attivo di liquidazione della società [181]. Non è allora un caso se alcuni autori hanno prospettato un possibile conflitto tra il meccanismo della liquidation preference e il divieto di patto leonino [182], con argomenti che però non convincono del tutto, soprattutto se si considera che il soddisfacimento della pretesa del finanziatore protetto in questo caso non è automatica, ma dipende dal ricavato del liquidity event, sicché si ha comunque sottoposizione al rischio d’impresa [183].
La clausola di liquidation preference, nello stabilire la preferenza di alcuni soci sul ricavato di un evento di liquidità, è allora una pattuizione tra soci in astratto del tutto legittima. Ciò, ovviamente, fatti salvi i casi d’abuso, governabili tramite gli usuali strumenti impugnatori, ad esempio nei casi di deliberazioni di approvazione della vendita dell’azienda ex art. 2479, secondo comma, n. 5, c.c. [184] e risarcitori, ad esempio nei confronti degli amministratori o del socio di maggioranza. Non a caso, peraltro, nella giurisprudenza statunitense tali conflitti sono governati tramite lo strumento della responsabilità degli amministratori, sui quali grava il dovere di massimizzare il valore per gli azionisti ordinari, in quanto in posizione residuale rispetto al flusso economico tratto dal liquidity event [185].
Abbandonata ogni tentazione di attribuire forza imperativa a preconcezioni su come il rapporto di finanziamento dovrebbe articolarsi in astratto, gli eventuali concreti comportamenti abusivi, cioè influenti in modo distorto sull’agire sociale, posti in essere dal socio esentato dalle perdite debbono invece essere governati attraverso strumenti successivi, primo tra tutti quello del risarcimento del danno, gli unici, nella prospettiva di vertice che si è in premesso dichiarato di voler coltivare, capaci di colpire i comportamenti abusivi senza impedire il libero svolgimento delle contrattazioni.
8.2. Le ipotesi di abuso “omissivo”.
In senso omissivo, invece, si possono immaginare, anche se si tratta di ipotesi più che altro di scuola vista la professionalità dei soggetti coinvolti, situazioni, perlopiù ma non solo di crisi o pre-crisi, in cui il socio esentato dalle perdite potrebbe non avere alcun interesse ad esercitare i propri diritti, al limite giungendo a comportamenti disinteressati, apatici o addirittura assenteisti, tali da determinare la paralisi gestionale e deliberativa della società sino al punto del suo scioglimento ex art. 2484, n. 3, c.c.
Il tema, che meriterebbe un’attenzione ben maggiore rispetto a quella che è possibile dedicargli in questa sede [186], evoca in primo luogo il dibattito in merito all’impugnabilità delle delibere negative, ammessa dalla dottrina e giurisprudenza maggioritarie [187], discutendosi poi sulla possibilità per il giudice dell’impugnazione di pronunciare una sentenza costitutiva che tenga luogo della delibera non adottata [188] o se, invece e a mio giudizio più fondatamente, debba escludersi la fattibilità di un intervento giudiziale così invasivo [189]. Per le s.r.l. il cui atto costitutivo preveda un’apposita clausola emerge inoltre il rimedio dell’esclusione del socio ai sensi dell’art. 2473-bis c.c., qualora si ritenga che la violazione del dovere di buona fede possa costituire causa d’esclusione e, comunque, con il non trascurabile limite applicativo derivante dalla necessità di accertare in giudizio la sussistenza di tale situazione [190].
[1] Con specifico riferimento alle s.r.l. startup e PMI, v. P. Agstner, A. Capizzi, P. Giudici, Business Angels, Venture Capital e la nuova s.r.l., in questa Rivista, 2020, 353 ss., in part. 429; successivamente, per ulteriori sviluppi delle tesi anzidette anche sulla base di studi empirici, v. A. Capizzi, P. Agstner, P. Giudici, Il design contrattuale delle startup VC-financed in Italia, in AGE, 2021, 229 ss.; P. Giudici, P. Agstner, A. Capizzi, The Corporate Design of Investments in Startups: a European Experience, in EBOR, 2022, 787 ss.
Per considerazioni simili v. in dottrina M.S. Spolidoro, Clausole put e divieto di società leonina, in Riv. soc., 2018, 1285 ss.; Id., Opzione put e patto leonino: le incertezze non sono (ancora) finite, nota critica App. Milano, 3 febbraio 2020, in Società, 2020, 1355 ss.; Id., Ancora una volta a caccia con i leoni. Note critiche sulla recente giurisprudenza di merito su opzioni put e divieto dei patti leonini, in Giur. it., 2021, 624 ss.; Id., Un’introduzione non frettolosa alla società leonina, in questa Rivista, 2024, 217 ss.; R. Felicetti, Venture capital, put options e patto leonino: ragioni giuridiche ed economiche per una rilettura, in AGE, 2021, 305 ss., in part. 319 ss.; F. Cadorin, Il divieto di patto leonino dopo il Codice della crisi, tra incentivi alla corretta gestione imprenditoriale e tutela del contraente debole, in Giur. comm., 2022, I, 124 ss.; v. già E. Barcellona, Clausole di put & call a prezzo predefinito. Fra divieto di patto leonino e principio di corrispettività, Milano, Giuffrè, 2004.
[2] Per la necessità di un’attenta rimeditazione dei principi generali ordinatori della materia del diritto commerciale v. M. Libertini, Ancora a proposito di principi e clausole generali, a partire dall’esperienza del diritto commerciale, in Id., Passato e presente del diritto commerciale, Torino, Giappichelli, 2023, 159 ss. (già in questa Rivista, 2018, 1 ss.), in part. 181 ss.; Id., Appunti sull’autonomia del diritto commerciale dedicati a Pippo Portale, in Id., Passato e presente, cit., 53 ss. (già in Riv. dir. comm., 2019, I, 37 ss.), in part. 61 e 68.
[3] M. Libertini, Diritto civile e diritto commerciale. Il metodo del diritto commerciale in Italia (II), in Id., Passato e presente, (nt. 2), 3 ss. (già in questa Rivista, 2015, 14 ss.), in part. 50; Id., Passato e presente del diritto commerciale. A proposito di tre libri recenti, in Id., Passato e presente, (nt. 2), 71 ss. (già in Quaderni fiorentini, 2020, 735 ss.), in part. 98.
[4] L’espressione fu coniata da G. Minervini, Partecipazioni a scopo di finanziamento e patto leonino, in Contr. impr., 1988, 771 ss., v. infra il § 6.4., nt. 139 e testo corrispondente.
[5] Cass. civ., sez. I, 29 ottobre 1994, n. 8927, cu cui v. infra il § 6.4., nt. 140 e testo corrispondente.
[6] Cass. civ., sez. I, 4 luglio 2018, n. 17498, in Banca, borsa, tit. cred., 2019, II, 70 ss., con nota parzialmente critica di N. de Luca, Il socio “leone”. Il revirement della Cassazione su opzioni put a prezzo definito e divieto del patto leonino; in Notariato, 2018, 635 ss., con nota di E. Mazzoletti, Ancora sulla validità della put option con prezzo a consuntivo. Per un’applicazione moderna del divieto di patto leonino; in Società, 2019, 13 ss., con nota di A. Busani, È valida l’opzione put utile ad attrarre capitale di rischio; in Giur. it., 2019, 366 ss., con nota di A. Petruzzi, Opzioni put & call, finanziamento partecipativo e divieto del patto leonino; in Giur. comm., 2019, II, 285 ss., con nota di M.L. Passador, Hic non sunt leones: la liceità dei patti parasociali di finanziamento partecipativo, in Giur. comm., 2020, II, 300 ss., con nota adesiva di S. Scordo, Partecipazioni sociali, clausole di opzione put e interessi dell’impresa, oltre che occasione dell’ampio saggio critico sul punto di M. Spolidoro, Clausole put, (nt. 1).
[7] V. le stringatissime motivazioni di Cass. civ., sez. I, 21 ottobre 2019, n. 26774, in Il Foro Plus, e Cass. civ., sez. I, 21 ottobre 2020, n. 22960, ivi, e, con l’esplicito di ribadire la tesi affermata nel 2018 a fronte dei dissensi emersi nella giurisprudenza di merito, Cass. civ., sez. I, 7 ottobre 2021, n. 27227, in Foro it., 2022, I, 1091 ss., con nota di A. Capizzi, in Giur. it., 2022, 660 ss., con nota di M.L. Passador, Hic non sunt leones: la riaffermata liceità dei patti parasociali con opzione put, in Banca, borsa, tit. cred., 2023, II, 701 ss., con nota critica di I. Argentino, La riaffermata validità delle clausole di put sulle partecipazioni azionarie nella giurisprudenza di Cassazione: il rapporto potere-rischio si sta dunque estinguendo? Da ultimo v. Cass. civ., sez. I, 25 marzo 2024, n. 7934, in Il Foro Plus.
[8] Trib. Bologna, 12 febbraio 2018, in www.giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Roma, 8 novembre 2019, in Foro it., 2020, I, 359 ss., con nota di richiami; Trib. Modena, 25 novembre 2021, ilcaso.it; Trib. Roma, 16 febbraio 2022, in Foro it., 2022, I, 1465 ss., con nota di A. Capizzi; Trib. Milano, 20 ottobre 2022, in www.giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Milano, 8 maggio 2023, in Società, 2023, 1359 ss., con nota critica (quanto agli argomenti ma non all’esito finale del giudizio) di D. Iorio, Clausole put: l’impegno al riacquisto con plusvalenza garantita viola il divieto di patto leonino?; Trib. Genova, 22 giugno 2023, in www.giurisprudenzadelleimprese.it.
[9] Trib. Milano, 31 dicembre 2011, in Società, 2012, 1158, con nota critica di A.M. Perrino, Patti parasociali di finanziamento partecipativo e divieto di patto leonino, oltre che in Giur. comm., 2012, II, 729 ss., con nota adesiva di F. Delfini, Opzioni put con prezzo determinato “a consuntivo”, arbitraggio della parte e nullità, in Riv. dir. comm., 2012, II, 233, con nota critica di A. Tucci, Patto di riacquisto di azioni «a prezzo garantito» e patto leonino, in Riv. dir. soc., 2013, 64 ss., con nota (apparentemente) critica di A. Sorace, Opzioni put e divieto del patto leonino, che giudicò nulla una clausola put che non prevedeva limiti temporali o condizioni per l’esercizio dell’opzione; App. Milano, 17 settembre 2014, in Società, 2015, 555 ss., con nota critica di E. Bonavera, Partecipazione a scopo di finanziamento tra patto leonino e patto commissorio, a giudizio del quale non è condivisibile l’approccio «per cui l’interesse meritevole di tutela debba riguardare quello collettivo dell’impresa, la quale si pone quale soggetto terzo rispetto alla pattuizione put», oltre che in Giur. it., 2015, 898 ss., con osservazioni di F. Riganti, in Contr., 2015, 999, ma con data 20 ottobre 2014, con nota adesiva di C. Palomba, Opzione put e patto parasociale leonino: profili ermeneutici.; Trib. Milano, 22 luglio 2015, in www.giurisprudenzadelleimprese.it; App. Milano, 19 febbraio 2016, in Società, 2016, 692 ss., con nota critica di A.M. Perrino, Autonomia, liceità e meritevolezza dei patti di parasociali di finanziamento partecipativo, oltre che in Giur. it., 2016, 1652, con osservazioni di A. Petruzzi, Brevi note in tema di clausole di put & call a prezzo predefinito rispetto al divieto del patto leonino, in Notariato, 2016, 489, con nota critica di E. Mazzoletti, Put option e patto leonino: un divieto ancora attuale? (che ha confermato Trib. Milano, 31 dicembre 2011, cit. ed è stata poi riformata da Cass. civ., sez. I, 4 luglio 2018, nt. 6).
Nella giurisprudenza arbitrale v., sempre nel senso dell’invalidità, Arb. 15 novembre 2006, in Riv. dir. impresa, 2007, 205 ss., con nota adesiva di A.A. Rinaldi, Patti parasociali di «put and call» e divieto del patto leonino.
[10] Trib. Bologna, 22 luglio 2019, in www.giurisprudenzadelleimprese.it; App. Milano, 3 febbraio 2020, (nt. 1); Trib. Milano, 27 marzo 2020, in Foro it., Rep. 2020, voce Società, n. 697; App. Milano, 20 maggio 2020, in www.giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Milano, 23 luglio 2020, in Foro it., 2021, I, 1093 ss., con nota di A. Capizzi; App. Milano, 3 novembre 2021, in www.giurisprudenzadelleimprese.it. Da ultimo v. l’intervento del presidente della Sezione specializzata per l’Impresa del Tribunale di Milano A. Mambriani, Il divieto di patto leonino tra giurisprudenza e fattispecie, in questa Rivista, 2024, 284 ss.
[11] V. Cass. civ., sez. II, 19 maggio 2004, n. 9466, in Foro it., Rep. 2004, voce Patto commissorio, n. 6, oltre che in Contr., 2004, 979 ss., con nota di L. Cilia, Divieto del patto commissorio e negozi collegati, in Riv. dir. civ., 2006, II, 509, con nota di M.V. Verdi, Patto commissorio e collegamento negoziale, e Cass. civ., sez. II, 5 marzo 2010 n. 5426, in Foro it., Rep. 2010, voce cit., n. 4.
[12] Così, per tutte, Trib. Milano, 23 luglio 2020, (nt. 10).
[13] Ibidem.
[14] Ibidem.
[15] Ibidem.
[16] Come noto la tesi della teleologische Reduktion fu elaborata in Germania per interpretare il § 139 BGB in tema di nullità parziale, v. K. Larenz, Storia del metodo nella scienza giuridica, Milano, Giuffrè, 1966; G.B. Portale, Lezioni di diritto privato comparato, Milano, Giuffrè, 2001, 153.
[17] V. il § 6.4.
[18] Cass. civ., sez. I, 7 ottobre 2021, (nt. 7).
[19] Valorizza criticamente quest’aspetto I. Argentino, (nt. 7), 711.
[20] Per una ricognizione della giurisprudenza in materia v. C. Presciani, Opzione di vendita delle partecipazioni sociali e divieto di patto leonino, in Riv. dir. civ., 2020, 1148 ss., in part. 1157 ss.
[21] V. infra il § 6.4.
[22] Così condivisibilmente M.S. Spolidoro, Un’introduzione, (nt. 1), 227.
[23] Così, con ferree argomentazioni, E. Simonetto, Responsabilità e garanzia nel diritto delle società, Padova, Cedam, 1959, 162 ss.
[24] M.S. Spolidoro, Clausole put, (nt. 1), 1301, la cui opinione è condivisa da F. Cadorin, (nt. 1), 134. Analogamente già E. Barcellona, (nt. 1), 36; G. Penzo, Opzione di vendita a prezzo fisso e divieto di patto leonino: una convivenza possibile, in Società, 2014, 146 ss., in part. 150.
[25] C.F. Giampaolino, Le azioni speciali, Milano, Giuffrè, 2004, 176 nt. 50.
[26] V. infra il § 6.
[27] R. Santagata, Patti di retrocessione a prezzo garantito e divieto del patto leonino, in Riv. dir. priv., 1997, 54 ss. (saggio occasionato da Cass. civ., sez. I, 29 ottobre 1994, n. 8927), in part. 68-69, a giudizio del quale nelle ipotesi in esame ricorre l’interesse meritevole di tutela e non si verifica un caso di negozio in frode alla legge e che propone di inquadrare il negozio nello schema tipico della vendita di titoli azionari con patto di riscatto, pur con i necessari adattamenti; A.M. Leozappa, Le partecipazioni a scopo di finanziamento, in Riv. dir. comm., 1998, I, 290 ss.; Arb., 7 aprile 2000, in Contr. impr., 2000, 959 ss., in part. 977 ss., e 980 ss. per la dichiarazione di dissenso dell’arbitro Giorgianni e conseguente replica degli altri due arbitri; M. Torsello, Partecipazione a scopo di finanziamento e patto leonino parasociale, in Contr. impr., 2000, 917 ss.; E. Barcellona, (nt. 1), 48 ss., 56 ss. e 77 ss., il quale, qualificati tali accordi come «traslativi del rischio di perdite», ritiene che la loro validità debba essere valutata alla luce del solo principio di corrispettività, poiché il divieto di p.l. opererebbe solo con riferimento all’originaria esclusione di un socio dal rischio di perdite; Id., Rischio e potere nel diritto societario riformato. Fra golden quota di s.r.l. e strumenti finanziari di s.p.a., Torino, Giappichelli, 2012, 111 ss.; analogamente P. Carrière, Le operazioni di portage azionario. Tra proprietà temporanea e proprietà economica, Milano, Giuffrè, 2008, 255 ss.; P. Sfameni, Azioni di categoria e diritti patrimoniali, Milano, Giuffrè, 2008, 90; R. Santagata, Partecipazioni in s.r.l. a scopo di finanziamento e divieto del patto leonino, nota adesiva a Trib. Cagliari, 3 aprile 2008, in Riv. dir. comm., 2011, II, 95 ss., 752, a giudizio del quale la validità si avrebbe solo nell’ipotesi, da accertare in concreto, di mancato coinvolgimento del socio finanziatore nella gestione dell’impresa sociale, sui cui v. infra il § 3.3; C. Angelici, Fra “mercato” e “società”: a proposito di venture capital e drag along, in Studi in ricordo di Pier Giusto Jaeger, Milano, Giuffrè, 2011, 181 ss. (e anche in Dir. banca merc. fin., 2011, 23 ss.), in part. 206 ss., secondo il quale «le esigenze proprie del diritto societario, quella in particolare che il relativo assetto d’interessi sia congegnato secondo i criteri oggettivi che lo caratterizzano nel sistema, non escludono in quanto tali che le posizioni giuridiche del socio siano oggetto di negoziazione; e non escludono che, in tal caso, la valutazione dell’ordinamento avvenga secondo i criteri generali in tema di negoziazioni nel mercato, soprattutto quello che richiede una “giustificazione causale”», osservando poi, all’esito di un ben più ampio ragionamento, che la analoga sostanza economica delle due operazioni, statutaria e parasociale, non può condurre a un loro identico trattamento, essendo differenti le tecniche giuridiche e i criteri valutativi utilizzati a seconda che si adottino gli strumenti del “mercato” o della “gerarchia”; Id., La società per azioni. Principi e problemi, in Trattato Cicu-Messineo, Milano, Giuffrè, 2012, 246, il quale, per il caso di trasferimento di diritti sociali, porta ad esempio il caso dell’alienazione del diritto al dividendo tramite il meccanismo delle cedole; A. Tucci, (nt. 9), 240, a giudizio del quale «quando la regola pattizia trova un’autonoma giustificazione nel rapporto sinallagmatico fra alienante e acquirente, non sembra corretto utilizzare, quale parametro nel giudizio di validità, l’assetto di interessi che conseguirebbe alla trasposizione del patto in sede statutaria»; V. Salafia, Tutela cautelare del credito da cessione quote sociali di cui si chiede la costituzione in sede giudiziaria, nota adesiva a Trib. Milano, 9 febbraio 2012, in Società, 2012, 369 ss., in part. 376.; R. Santagata, Dai patti di retrocessione a prezzo garantito alle azioni “redimibili” (una rilettura del divieto del patto leonino nella s.p.a. riformata), in Riv. dir. comm., 2013, I, 537 ss. (e anche in Società, banche e crisi d’impresa. Liber amicorum Pietro Abbadessa, Torino, Utet, 2014, 605 ss.), in part. 542 ss.; da ultimo M. Filippelli, Tecniche di finanziamento mediante venture capital e divieto di patto leonino: il caso delle opzioni put, in questa Rivista, 2024, 268 ss.; G. Ferri jr, Note minime in tema di patto leonino, in Riv. not., 2024, 3 ss.
[28] Cass. civ., sez. I, 4 luglio 2018, (nt. 6). Per alcuni esempi di analisi nel dettaglio volte ad argomentare la meritevolezza delle opzioni put v. R. Felicetti, (nt. 1), 316 ss. e M. Filippelli, (nt. 27), 277 ss.
[29] Cass. civ., sez. I, 4 luglio 2018, (nt. 6).
[30] Sposata là dove si è affermata la validità del c.d. preliminare di preliminare, v. Cass. civ., sez. un., 6 marzo 2015, n. 4628, in Foro it., 2015, I, 2016 ss., con nota di F. Giovannella. Più recentemente, in tema di leasing corredato da clausola di indicizzazione e rischio di cambio, v. la complessa motivazione di Cass. civ., sez. un., 23 febbraio 2023, n. 5657, in Foro it., 2023, I, 1070 ss., con numerosi commenti, tra cui quello di F. Piraino, La magica Porta di Ishtar e la via accidentata delle sezioni unite per la meritevolezza, e in Contr., 2023, 260 ss., con nota di G. D’Amico, La meritevolezza del contratto secondo il canone delle Sezioni Unite; riprende espressamente il dictum delle appena citate sez. un. Cass. civ., sez. III, 11 gennaio 2024, n. 1253, in Foro it., 2024, I, 804 ss., con nota di A. Palmieri, Il debutto in Cassazione del contratto di risparmio edilizio: il complesso innesto di uno schema d’importazione tedesca (ritenuto non immeritevole).
In dottrina d’obbligo il riferimento a G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, Giuffrè, 1966, 347 ss.; Id., Motivi, presupposizione e l’idea di meritevolezza, in Europa, dir. priv., 2009, 551 ss.; G. Palermo, Funzione illecita e autonomia privata, Milano, 1970, 202; C. Scognamiglio, Problemi della causa e del tipo, in A. Vettori (a cura di), Il regolamento. Trattato sul contratto, diretto da V. Roppo, II, Milano, Giuffrè, 2006, 86 ss., in part. 176 e 202. Con specifico riferimento al caso di specie v. C. Angelici, Fra “mercato”, (nt. 27), 215 ss. Da ultimo il tema della meritevolezza è oggetto del numero inaugurale 1/2022 della rivista Storia Metodo Cultura nella scienza giuridica. Seconda e rinnovata serie di Diritto romano attuale.
[31] Per un accenno v. G. Penzo, Legittimità delle opzioni di vendita di partecipazioni societarie a prezzo fisso di natura parasociale, in Società, 2016, 1294 ss., in part. 1297.
[32] M. Libertini, Autonomia individuale e autonomia d’impresa, in G. Gitti, Maris. Maugeri, M. Notari (a cura di), I contratti per l’impresa, I, Bologna, Il Mulino, 2012, 48 ss.; più recentemente Id., Dalla dicotomia fra contratti civili e contratti commerciali alla frammentazione della disciplina del contratto. Nuove riflessioni sui contratti d’impresa, in Id., Passato e presente, (nt. 2), 205 ss. (già in questa Rivista, 2022, 373 ss.), in part. 222 ss.
[33] R. Santagata, Dai patti, (nt. 27), 547, il quale invita a non trascurare «gli effetti della convenzione sulle modalità ordinarie di svolgimento dell’attività d’impresa». Nella dottrina civilistica v. F. Piraino, (nt. 30), 1092, ove ulteriori riferimenti, che argomenta la necessità di riferire il giudizio di meritevolezza allo schema contrattuale e non al concreto negozio come specifica composizione ed equilibrio di interessi in vista di un fine.
[34] V. M. Notari, Exit forzato ed equa valorizzazione: un binomio indissolubile?, in AGE, 2021, 383 ss., in part. 387; M. Speranzin, Clausole di esclusione e patti parasociali: giurisprudenza tedesca e art. 2473-bis c.c., in Riv. dir. soc., 2007, 147 ss.; Id., «Deroga» all’atto costitutivo di s.r.l. in tema di liquidazione del socio receduto e conversione della decisione in patto parasociale, in Società, banche e crisi d’impresa. Liber amicorum Pietro Abbadessa, Torino, Utet, 2014, 1959 ss. V. da ultimo, commentando adesivamente Trib. Milano, 20 ottobre 2022, M. Ventoruzzo, Accordo di riacquisto quote, disciplina del recesso e dell’esclusione del socio e rapporti tra statuto e accordi parasociali, in Società, 2023, 701 ss., in part. 720.
[35] Cass. civ., sez. I, 25 luglio 2023, n. 22375, in Foro it., 2023, I, 3515 ss., con note di A. Capizzi, Patti parasociali di russian roulette e R. Grimaldi, La validità della russian roulette e il problema dell’equa valorizzazione: si può fare di più, in Riv. dir. comm., 2023, II, 525 ss., con nota di A.M. D’Orta, Russian roulette clause: patto parasociale a prescindere?, in Riv. not., 2023, 1329 ss., con nota di M. Costanza, Clausole di roulette russa all’italiana, nonché occasione dei saggi di M. Notari, Roulette russa ed equa valorizzazione (appunti a margine di Cass. 22375/2023), in Riv. not., 2024, 11 ss., M. Stella Richter jr, Russian roulette clause e new italian style delle sentenze, ivi, 19 ss., e del colloquio tra N. Abriani e A. Toffoletto, Spunti per una lettura di Cass. 25 luglio 2023, n. 22375, in tema di clausole antistallo contenute in patti parasociali e dintorni, ivi, 27 ss., secondo la quale «un problema di applicabilità dell’art. 2437-sexies c.c. alla russian roulette clause [ha] una sua ragion d’essere solo allorché essa sia inserita nello statuto, mentre non [può] essere sollevato laddove si tratti di una clausola di un patto parasociale, stante la sua valenza puramente obbligatoria e l’assenza di tutela “reale” in caso di inadempimento […] ove la clausola russian roulette sia contenuta in un patto parasociale, l’avvenuta pattuizione a opera delle parti esclude in radice che si possa parlare di abusività genetica della previsione, in quanto avente precipua funzione organizzativa all’interno della società […] Il principio di equa valorizzazione non può trovare applicazione, come si è visto, in presenza di una previsione di patto parasociale»; C.N. Milano, massima n. 181, Clausola «anti-stallo» di riscatto o di acquisto forzato di partecipazioni sociali (c.d. clausola della «roulette russa» o clausola del «cowboy»), a giudizio della quale nel parasociale «non sussistono limiti normativi espressi alla libertà negoziale delle parti di programmare le condizioni economiche di un contratto di scambio che vincola solo le parti stesse». In dottrina v. G.A. Rescio, Stalli decisionali e roulette russa, in Id., M. Speranzin (a cura di), Patrimonio sociale e governo dell’impresa. Dialogo tra giurisprudenza, dottrina e prassi in ricordo di G.E. Colombo, Torino, Giappichelli, 2020, 355 ss., in part. 372 e nt. 28, ove ulteriori riferimenti (anche ai precedenti scritti del medesimo A. Id., I patti parasociali nel quadro dei rapporti contrattuali dei soci, in Liber amicorum G.F. Campobasso, 1, Torino, UTET, 2006, 447 ss. e Id., La distinzione del sociale dal parasociale (sulle c.d. clausole statutarie parasociali), in Riv. soc., 1991, 596 ss.).
[36] Autentica delle sottoscrizioni e successivo deposito presso il registro delle imprese ex art. 2470 c.c. per le s.r.l., girata autenticata ex art. 2355 c.c. per le s.p.a. Sull’ammissibilità del rimedio ex art. 2932 c.c. per i patti d’opzione v. Trib. Milano, 3 ottobre 2013, in Foro it., Rep. 2014, voce Società, n. 446, in Società, 2014, 688 ss., in Giur. comm., 2012, II, 729 ss., con nota (non sul punto) di F. Delfini, Opzioni put con prezzo determinato “a consuntivo”, arbitraggio della parte e nullità, che, giudicando valida un’opzione put a prezzo predefinito, condannò ex art. 2932 c.c. la parte inadempiente; analogamente Trib. Roma, 16 febbraio 2022, (nt. 8). In dottrina v. M.V. Benedettelli, Una (bozza di) dissent arbitrale in materia di opzione put e divieto di patto leonino, in Riv. dir. soc., 2021, 581 ss., in part. 595 ss., il quale osserva come un fattore di complicazione è dato dalla recezione nella prassi dei modelli di opzione provenienti dagli ordinamenti di common law, in cui è costante la distinzione tra il momento del signing e quello del closing, il che però dovrebbe indurre a qualificare tali contratti, anziché come meri preliminari, come «definitivi ad efficacia differita»; da ultimo Trib. Torino, 17 aprile 2023, in Foro it., 2023, I, 1644 ss. La questione (quantomeno quando oggetto dell’opzione è una partecipazione azionaria) si intreccia invero con quella, ancora dibattuta, relativa alla sottoposizione della circolazione dei titoli di credito al principio consensualistico, v., nel senso affermativo, Trib. Firenze, 16 luglio 2015, in Foro it., 2016, I, 721 ss., ove ulteriori riferimenti, e in Società, 2016, 286 ss., con nota di C. Di Bitonto, Opzioni “put” parasociali su azioni: profili di (in)validità, in part. 296-297 per ulteriori riferimenti.
Sul tema, evidentemente ben più ampio, dell’eseguibilità in forma specifica di tutti i patti parasociali (anche di voto, ad esempio) v., in senso contrario all’ammissibilità generalizzata del rimedio oltre i rapporti inter partes e destinato a sostituire un determinato atto societario, M. Libertini, Limiti di validità dei patti parasociali, RULES (Research Unit Law and Economics Studies) Bocconi, Paper No. 2013‐7, in part. 13 ss., ove ulteriori riferimenti e, più recentemente, A. Abu Awwad, I patti parasociali nelle società chiuse, Torino, Giappichelli, 2022, 131 ss. e V. Donativi, Patti parasociali, in Trattato Buonocore, VII, 12, Torino, Giappichelli, 2022, 199 ss. Il problema è invero affrontato in modo molto più circospetto in ipotesi di sindacati di voto: in giurisprudenza v., per la soluzione contraria all’eseguibilità in forma specifica, Trib. Napoli, 8 ottobre 2020, (nt. 49); per ulteriori riferimenti v., esponendo le ragioni di coerenza che imporrebbero la soluzione negativa, M. Filippelli, Patto parasociale di voto a favore di terzo e legittimità del patto di nomina degli amministratori per una durata superiore al triennio, nota a Cass. civ., sez. I, 23 novembre 2021, n. 36092, in Giur. comm., 2023, II, 254 ss., in part. 274 ss.
[37] V. da ultimo, anche per ulteriori riferimenti, M. Filippelli, (nt. 36), 272-273.
[38] Per analoghe considerazioni v. M. Filippelli, (nt. 27), 277, a giudizio della quale se «l’eventuale contrasto con una norma imperativa arriva ad incidere sull’oggetto o sulla causa del programma pattizio parasociale (p.e. impegno a indirizzare l’azione della società in una direzione illecita), allora il patto parasociale è già di per sé nullo, senza necessità di ricorrere all’art. 1344 c.c.».
[39] In generale v., elaborando una distinzione tra patti “eversivi” e patti “elusivi”, M. Libertini, I patti parasociali nelle società non quotate. Un commento agli articoli 2341 bis e 2341 ter del Codice Civile, in Liber amicorum G.F. Campobasso, 4, Torino, Utet, 2007, 463 ss., in part. 477 ss.; P.M. Sanfilippo, I patti parasociali. Per una riflessione sulle tecniche di controllo, in Nuova giur. civ. comm., 2014, 1135 ss., in part. 1137, ove ulteriori riferimenti. M. Spolidoro, Sindacati di blocco, manoscritto consultato per la cortesia dell’A., 16 ss. In giurisprudenza v. Cass. civ., sez. I, 18 luglio 2007, n. 15963, in Foro it., 2009, I, 2195 ss., con nota redazionale di M. Silvetti, in Giur. it., 2007, 2754 ss., con nota di G. Cottino, Patti parasociali: la Cassazione puntualizza, che in un obiter ha reputato nullo un patto parasociale con ad oggetto la ricapitalizzazione di una società in presenza di perdite erosive dell’intero capitale sociale.
[40] V. già, criticando la giurisprudenza della Cassazione che avallò il criticato orientamento (su cui v. infra il § 6.2), G. Oppo, Contratti parasociali, Milano, Giuffrè, 1942, 7 ss. e 105 ss. e L. Carraro, Negozio in frode alla legge, Padova, Cedam, 1943, 221 ss.
Successivamente, nello stesso senso, G. Cottino, Diritto commerciale, I, Padova, Cedam, 1987, 141; G. Oppo, Le convenzioni parasociali tra diritto delle obbligazioni e diritto delle società, in Riv. not., 1987, 647 ss. (anche in Scritti giuridici, II, Padova, Cedam, 1992, 176 ss.), in part. 658: «il problema non è eludibile parlando di “confusione di piani logici” (Jaeger): la distinzione di piani logici è reale ma il piano della meritevolezza non è solo logico, è giuridico, ed è su questo piano che va apprezzato l’incontro o scontro del parasociale con il sociale. L’art. 1344 c.c. dimostra che il legislatore non si è lasciato […] confondere dalla diversità dei piani logici. Allo stesso modo non basta qualificare l’accordo parasociale alla stregua della “irrilevanza sul piano organizzativo” societario o della estraneità agli “schemi formali dell’agire societario”»; L. Farenga, I contratti parasociali, Milano, Giuffrè, 1987, 151 ss.; A. Morano, T. Musumeci, Brevi note in tema di patti parasociali, in Riv. not., 1989, 535 ss., in part. 551; G.A. Rescio, I patti parasociali, in L’arbitrato e i patti parasociali, Milano, Giuffrè, 1991, 99 ss.; M. De Acutis, Clausole atipiche e contratti parasociali, in Vita not., 1992, 500 ss.; F. Pernazza, Brevi riflessioni in tema di patti parasociali, in Riv. dir. comm., 1992, II, 205 ss.; N. Abriani, Il divieto di patto leonino, Milano, Giuffrè, 1994, 138 ss.; A. Ciaffi, Finanziaria regionale e patto leonino, nota parzialmente critica a Cass. civ., sez. I, 29 ottobre 1994, n. 8927, (proprio con riferimento al trattamento delle pattuizioni parasociali, valide se perseguenti un interesse meritevole ex art. 1322 c.c.), in Giur. comm., 1995, II, 478 ss., in part. 491-492; C.F. Giampaolino, (nt. 25), 177; E. Macrì, Patti parasociali e attività sociale, Torino, Giappichelli, 2007, 27 nt. 75; N. de Luca, (nt. 6), 70 ss.; Id., Dal socio leone all’agnello sacrificale? Considerazioni sulla clausola di recesso a prezzo predefinito, nota a Trib. Roma, 15 gennaio 2020, in Foro it., 2020, I, 1802 ss.; M.S. Spolidoro, Clausole put, (nt. 1); Id., Opzione put, (nt. 1), 1366; Id., Ancora una volta a caccia con i leoni, (nt. 1); Id., Un’introduzione, (nt. 1), 228; F. Cadorin, (nt. 1), 137 e nt. 75; A. Mambriani, (nt. 10), 289.
[41] Cass. civ., sez. I, 18 aprile 1975, n. 1459, in Foro it., 1976, I, 1673; 18 giugno 1987, n. 5371, Mass. Foro it., 1987, 924; 11 maggio 1987, n. 4333, ivi, 728 ss.
[42] Nella letteratura recente v. V. Roppo, Causa concreta: una storia di successo? Dialogo (non reticente, né compiacente) con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Riv. dir. civ., 2013, 957 ss.; S. Pagliantini, Le stagioni della causa in concreto e la c.d. interpretazione abusiva del contratto: notarelle critiche su regole e principi (del diritto dei contratti), in Contr., 2016, 604 ss.; G. Lener, Il nuovo «corso» giurisprudenziale della meritevolezza degli interessi, in Foro it., 2018, V, 221 ss.
[43] Con specifico riferimento alle clausole put v. M.S. Spolidoro, Opzioni put, (nt. 1), 1365, il quale mette in luce, per criticarne la correttezza, come la decisione di Cass. civ., sez. I, 4 luglio 2018, n. 17498, (nt. 6), ha motivato in maniera estremamente stringata l’inapplicabilità dell’art. 1344 c.c., ipotizzando «con un certo sforzo che la ragione di tale irrilevanza sarebbe dipesa dal fatto che la norma (contemporaneamente qualificata transtipica e d’ordine pubblico) sarebbe stata direttamente connessa alla definizione di società: poiché insomma non si potrebbero eludere le definizioni, ma solo i comandi e i divieti, non sarebbe neanche possibile applicare l’art. 1344 c.c.».
[44] V. supra nt. 7 e testo corrispondente.
[45] L’affermazione è ad oggi ampiamente condivisa in dottrina, v. N. Abriani, (nt. 40), 151 ss.; I. Capelli, sub art. 2265 c.c., in S. Patriarca, I. Capelli, Società semplice, in Commentario Scialoja Branca, Bologna-Roma, Zanichelli, 2021, 224 ss., in part. 248; L. Farenga, (nt. 40), 153; C.F. Giampaolino, (nt. 25), 183 ss., per il quale la portata precettiva del divieto deve essere diversamente valutata per le azioni prive del diritto di voto, o addirittura necessariamente, come automatica conseguenza del “patto di rilievo”, mentre per le azioni con voto «l’applicazione del divieto del patto leonino deve essere compiuta ponderando il potere attribuito e la conseguenza patrimoniale»; A.M. Leozappa, (nt. 27); M. Maugeri, Partecipazione sociale e attività di impresa, Milano, Giuffrè, 2010, 31; G.A. Rescio, I patti parasociali, in L’arbitrato e i patti parasociali, Milano, Giuffrè, 1991, 99 ss.; R. Santagata, Patti di retrocessione, (nt. 27), 59 ss.; Id., Dai patti, (nt. 27), 546-547, il quale ritiene (ivi, 559 ss.) che la sostanza dell’operazione economica sottostante possa essere trasporta sia negli strumenti finanziari partecipativi – che, non attribuendo la qualità di socio, non sarebbero sottoposti al divieto di p.l., ma che vedono fortemente limitato il loro diritto di voto dall’art. 2351, quinto comma, c.c. – sia (ivi, 571 ss.) attraverso l’emissione di azioni redimibili (o riscattande), che però sarebbe comunque limitata dal divieto di p.l., operante anche in sede di liquidazione della quota del socio uscente, sub specie di necessità di quantificare il valore della partecipazione redimenda (o riscattanda) in base alla concreta situazione economico-finanziaria della società al momento del suo esercizio (peraltro evincibile dagli art. 2355 bis, secondo comma, 2505 bis e 2506 bis, quarto comma, c.c., considerati quali ipotesi legali di put; M. Torsello, (nt. 27), 906.
[46] V. quale esempio di posizione molto rigorosa, che ammette la compatibilità delle sole ipotesi in cui il socio esonerato sia di diritto escluso dalla gestione, N. de Luca, (nt. 6), 99.
[47] F. Cadorin, (nt. 1), 134.
[48] Nelle società chiuse, infatti, è abbastanza intuitivo che gli amministratori si limitino, in concreto, ad agire sulla base di decisioni assunte dai soci.
[49] Il problema della validità di clausole unanimistiche – cui sembra essere precluso ogni spazio nella s.p.a. in ragione della formulazione dell’art. 2369, quarto comma, c.c., espressione di un principio di conservazione dell’ente (v. P.M. Sanfilippo, Sub art. 2479-bis. Problemi disciplinari relativi all’adozione del metodo assembleare, in S.r.l. Commentario dedicato a G.B. Portale, Milano, 2011, 821 ss., in part. 833 ss.; per un caso di applicazione giurisprudenziale del principio, che ha portato a dichiarare nullo un patto parasociale con il quale si innalzava il quorum per qualsiasi delibera assembleare, v. Trib. Napoli, 8 ottobre 2020, in Giur. comm., 2022, II, 267 ss., con nota di M. Filippelli, Patti parasociali di voto, promessa del fatto del terzo e deroghe convenzionali ai quozienti assembleari, ove ulteriori aggiornati riferimenti) – si pone, come noto, soprattutto per la s.r.l., visto il costante richiamo in materia di quorum di una possibile diversa previsione dell’atto costitutivo, con l’opinione maggioritaria nel senso dell’ammissibilità di dette clausole, anche superando considerazioni di tipo efficientistico/istituzionalistico: v. M. Cian, Le decisioni dei soci: competenze decisorie e decisioni assembleari, in C. Ibba, G. Marasà (a cura di), Le società a responsabilità limitata, II, Milano, Giuffrè, 2020, 1325 ss., in part. 1379-1380, ove in nt. ulteriori riferimenti, anche alle minoritarie posizioni contrarie.
Il tema, vale la pena ricordarlo, si pose anche negli USA negli anni ’40 del secolo scorso, con alcune pronunce giurisprudenziali che, in assenza di un sistema “a doppio tipo”, fulminarono di nullità tali clausole, v. Benintendi v. Kenton Hotel, Inc., 294 N. Y. 112, 60 N.E. 2d 829 (1945), il cui principale argomento era appunto quello di evitare il proliferare di situazioni di stallo, cui seguì l’immediata reazione del legislatore dello Stato di New York, sulla scia di quanto all’epoca già previsto in Illinois e Delaware, volta ad assicurarne la validità sulla vicenda v. C.D. Israels, The Close Corporations and the Law, in Corn. Law Rev., 1948, 488 ss.
[50] V. supra nt. 4 e testo corrispondente.
[51] A. Mambriani, (nt. 10), 286.
[52] V. F. Accettella, L’assegnazione non proporzionale delle azioni, Milano, Giuffrè, 2018, 108 ss., che distingue tra: i) «perdita del patrimonio investito dal socio nell’attività d’impresa» (nt. 98 per riferimenti), osservando che in tal caso il socio viene sempre investito in sede di liquidazione dalla perdita di valore del patrimonio sociale, anche se ritiene che in casi limite, in cui cioè è molto difficile attribuire un valore al conferimento effettuato dal socio (ad es. in caso di non facere, o di partecipazione di un soggetto dotato di credito sul mercato), potrebbe forse porsi un problema di violazione del divieto di patto leonino; ii) «decremento del valore della partecipazione sociale». Più di recente la medesima impostazione è adottata da I. Capelli, (nt. 45), 1805 e G. Ferri jr, (nt. 27), 3 ss., che rileva come «l’operazione di investimento e disinvestimento può coinvolgere l’organizzazione societaria, e dunque incidere sul valore del patrimonio sociale […] ovvero svolgersi integralmente al suo esterno».
[53] G. Ferri jr, (nt. 27), 8.
[54] G. Ferri jr, (nt. 27), 8, che reputa invalidi per contrarietà al divieto di patto leonino «il patto che prevede l’obbligo di un socio di corrispondere stabilmente ad altro o altri soci una somma pari a tutte le perdite sofferte, qualunque sia la loro misura, e cioè di addivenire ad una sorta di restituzione “privata”, o meglio, “individuale”, del valore del conferimento pur ormai perduto o, rispettivamente, di riversare, allo stesso modo stabilmente, a costui o a costoro tutti gli utili percepiti dalla società». Con ancor maggior ampiezza applicativa, fornendo una sorta di interpretazione “autentica” dei precedenti ambrosiani citati alle nt. 9 e 10, v. A. Mambriani, (nt. 10), 287, a giudizio del quale «la posizione di socio implica necessariamente la partecipazione, almeno eventuale ed almeno minimale, agli utili oppure alle perdite».
[55] F. Accettella, (nt. 52), 109, che per argomentare il divieto di escludere categorie di azioni dalle perdite richiama la rilevanza delle norme in tema di riduzione obbligatoria del capitale sociale, che impongono, salve le cause di postergazione, una partecipazione alle perdite in capo a tutti i soci; G. Ferri jr, (nt. 27), 7, che, con argomentazione che è opportuno riportare nel suo integrale svolgimento, reputa «senz’altro invalide [quelle clausole statutarie] che escludono integralmente un socio dalle perdite, che cioè riconoscono al socio il diritto, nei confronti della società, ad ottenere l’integrale restituzione del valore del conferimento in ogni caso, anche qualora il capitale risulti integralmente perduto [in quanto foriere di un risultato] frontalmente contrario a discipline comuni a tutte le società, ed in particolare a quella della riduzione reale del capitale e alla regole che, in materia di distribuzione del valore del patrimonio in sede di liquidazione della società, configura quella del socio alla restituzione del capitale in termini di pretesa residuale», però riconoscendo che «potrà discutersi se tali clausole, che finiscono per far assumere a chi ricopre la qualità di socio una posizione sostanzialmente corrispondente a quella di un finanziatore […] siano invalide per violazione del divieto di patto leonino o, prima ancora, in quanto contrarie [alla disciplina del capitale], e dunque indipendentemente dalla violazione di quel divieto: certo è che esse devono ritenersi […] radicalmente nulle per contrarietà a norme imperative, come sono tanto il divieto di patto leonino quanto le altre discipline in esame»; sinteticamente sul punto A. Mambriani, (nt. 10), 288.
[56] G. Ferri jr, (nt. 27), 7.
[57] Non è possibile affrontare la complessa tematica degli interessi protetti dalla disciplina della riduzione del capitale per perdite, peraltro incisa da ultimo dai noti provvedimenti emergenziali che ne hanno “temporaneamente” sospeso la portata, per riferimenti v. tra i molti G. Ferri jr, La funzione del capitale sociale nel diritto azionario europeo, in Riv. soc., 2022, 683 ss.; M. Maugeri, Struttura finanziaria della s.p.a. e funzione segnaletica del capitale nel diritto europeo armonizzato, in Riv. dir. comm., 2016, 1 ss.; L. Stanghellini, sub art. 2446, in Le società per azioni, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, II, Milano, Giuffrè, 2016, 2709 ss.
[58] Inteso come “tipo empirico”, v. per tutti G. De Nova, Il tipo contrattuale, Milano, Giuffrè, 1976.
[59] V. già, occupandosi del medesimo problema, G. Minervini, (nt. 4), 777; M.S. Spolidoro, Clausole put, (nt. 1), 1299 e, sulla scia, F. Cadorin, (nt. 1), 127 e nt. 23; v. inoltre in linea generale M.S. Spolidoro, Considerazioni generali sulle ragioni della scelta del tipo s.r.l., in Riv. not., 1992, 1 ss., in part. 11, che critica la costruzione di «norme inderogabili per coerenza con la fattispecie», rilevando «la contraddittorietà della pretesa di estrarre da uno strumento conoscitivo, per di più connotato dalla sua elasticità ed indeterminatezza, quale è il tipo, divieti o limiti invalicabili dell’autonomia privata» e, dopo la Riforma del 2003, M. Libertini, Scelte fondamentali di politica legislativa e indicazioni di principio nella riforma del diritto societario del 2003. Appunti per un corso di diritto commerciale, in Riv. dir. soc., 2008, 198 ss., in part. 215 nt. 43, il quale invita a tenere distinti, e non sovrapporre, il problema del «contenuto tipologicamente essenziale» che attiene alla qualificazione di una fattispecie in un sistema in cui vige il numerus clausus dei tipi dal diverso problema del «carattere imperativo o dispositivo delle disposizioni di legge che si pongono all’interno della disciplina applicabile ad una fattispecie già qualificata, con riferimento all’uno o all’altro tipo legale».
Considerazioni analoghe in P. Agstner, A. Capizzi, P. Giudici, (nt. 1), 402, ove, nel criticare gli orientamenti favorevoli all’importazione nella s.r.l. “aperta” (in quanto “crowdfunded”) di norme e principi della s.p.a. si richiama l’opinione di G. Zanarone, Società a responsabilità limitata, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, Padova, CEDAM, 1985, 19 ss.; Id., Della società a responsabilità limitata, in Commentario Schlesinger, I, Milano, Giuffrè, 2010, 56; Id., La società a responsabilità limitata. Un modello “senza qualità”? (Un ideale dialogo con Oreste Cagnasso), in M. Irrera (a cura di), La società a responsabilità limitata: un modello transtipico alla prova del Codice della Crisi. Studi in onore di Oreste Cagnasso, Torino, Giappichelli, 2020, 13, secondo il quale è «assai difficile, per quanto non da escludere in modo assoluto, dimostrare, nel silenzio del legislatore, che la regolamentazione di uno o più aspetti del modello cui si ispira un determinato tipo societario sia stata voluta anche in funzione di analogo modello per ipotesi presente in un tipo diverso e abbia quindi carattere trasversale fra i due tipi». Analogamente, seppur con riferimento all’interpretazione del nuovo art. 2475 c.c. in tema di competenza dell’organo gestorio, v. M. Campobasso, La società a responsabilità limitata. Un modello “senza qualità”?, in M. Irrera (a cura di), La società a responsabilità limitata, cit., 23. Da ultimo in senso critico verso un approccio che valorizzi eccessivamente le potenzialità del metodo tipologico di integrazione extralegislativa dell’ordinamento, A.D. Scano, Il “tipo”, in C. Ibba, G. Marasà (a cura di), Le società a responsabilità limitata, I, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre, 2020, in generale 38 ss. e, con più specifico riferimento al fenomeno della s.r.l. “aperta”, 80 ss.
[60] Sul senso di “tipicità” quale appartenenza ad un numerus clausus e sui concetti di Typenzwang e Typenfixierung v. L. Passerini Glazel, La forza normativa del tipo. Pragmatica dell’atto giuridico e teoria della categorizzazione, Macerata, Quodlibet, 2005, 209 ss. Sul punto, per la letteratura di diritto societario, v. P. Spada, La tipicità delle società, Padova, Cedam, 1974, P. Abbadessa, Le disposizioni generali sulle società, in Trattato Rescigno, XVI, Torino, Utet, 1985, 4 ss.; P. Spada, Autorità e libertà nel diritto della società per azioni, in Riv. dir. civ., 1996, 703 ss.; Id., Classi e tipi dopo la riforma organica, ivi, 2003, 489 ss.; P. Spada, M. Sciuto, Il tipo società per azioni, in Trattato Colombo-Portale, 1*, Torino, Utet, 2004, 4 ss.; G. Zanarone, Il ruolo del tipo societario dopo la riforma, in Liber amicorum G.F. Campobasso, 1, Torino, Utet, 57 ss. Nella dottrina tedesca v. recentemente H. Fleischer, Der numerus clausus im Gesellschaftsrecht: Rechtsdogmatik – Rechtsvergliechung – Rechtsökonomie – Rechtspolitik, in ZGR, 2023, 261 ss.
[61] V. sul punto L. Passerini Glazel, (nt. 60), 210 nt. 307, il quale, rifacendosi alla distinzione tra “type” e “token” (su cui v., per un primo approfondimento e una ricca bibliografia, L. Wetzel, Types and Tokens, in E.N. Zalta (a cura di), The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall. 2018 Edition), https://plato.stanford.edu/entries/types-tokens/), esclude che nell’ambito di quelle categorie di type caratterizzate dal numerus clausus (diritti reali, atti giuridici in senso stretto, promesse unilaterali, contratti agrari, tipi societari, reati, atti amministrativi, etc.) possa darsi un fenomeno di “token-atipicità”, ossia di tokens che siano (parzialmente) difformi dal proprio type.
[62] Così L. Passerini Glazel, (nt. 60), 234 ss., il quale in questo caso indica la necessaria conformità del token al type con l’espressione “conformità non scalare ad un tipo”, o Typenhaftigkeit (nel senso di “avere un tipo al quale essere conforme”), ossia “binaria” (conforme/non conforme, tertium non datur), contrapposta ad ipotesi di “conformità scalare ad un tipo”, ossia “assiologica” (nel senso che è possibile una conformità più o meno intensa), identificabile come typicalitê (in francese sostantivo distinto da typicitê) o Typenmäßigkeit (in tedesco distinto da Typenhaftigkeit).
[63] Cfr. sul punto M. Libertini, (nt. 59), 215, il quale ricorda come in Italia tale indagine è normalmente compiuta in senso sostanzialista per i contratti, formalista per i titoli di credito, formalista «ma con varie incertezze» per i tipi societari.
[64] Con riferimento alla dottrina tedesca, ma con considerazione che potrebbe assumere valenza generale, v. H. Fleischer, (nt. 60), 265: «Gemessen an der strukturprägenden Bedeutung des numerus clausus für das Gesellschaftsrecht fallen die Begründungen für seine Geltung eher schmallippig aus».
[65] Così P. Spada, La tipicità, (nt. 60), 7 e nt. 8, ove un richiamo alla tesi di A. Graziani, Sull’ammissibilità delle c.d. società atipiche, in Id., Studi di dir. civ. e comm., Napoli, 1952, 466 ss., nel senso che «la libertà che l’ordinamento giuridico consente ai privati non si estende a tutto il campo del diritto delle obbligazioni, ma al più ristretto campo di quei negozi che, posti in essere tra determinati soggetti, sono destinati unicamente ad avere efficacia nei confronti delle parti medesime. Ma quando un determinato negozio è destinato ad avere efficacia non unicamente tra le parti contraenti (e il contratto di società […] è sempre […] destinato a produrre un complesso di effetti nei confronti dei terzi) a garanzia dei terzi non può consentirsi che il negozio venga posto in essere se non negli schemi dal legislatore previsti».
[66] Un noto esempio di attenta valorizzazione di questi interessi nell’ambito della peculiare disciplina dei conferimenti in natura si rinviene in G.B. Portale, I conferimenti in natura «atipici» nella s.p.a., Milano, Giuffrè, 1974, 18 ss., che valorizza gli «interessi di rilievo pubblico (ad es. quello concernente l’incremento della produttività)».
[67] Cfr., per un’interpretazione del principio di numerus clausus nel senso di una riduzione dei costi di transazione, seppur declinata nel diverso ambito della c.d. tipicità dei diritti reali, H.E. Smith-T.W. Merrill, Optimal Standardization in the Law of Property: The Numerus Clausus Principle, in Yale Law Journ., 2000, 1 ss., oggetto di attenzione da parte di H. Fleischer, (nt. 60), 287-288. Per una simile considerazione v. L. Passerini Glazel, (nt. 60), 240, a giudizio del quale «il ricorso al principio di tipicità […] è funzionale al perseguimento del valore della certezza del diritto. Grazie al principio di tipicità è, infatti, possibile conoscere con certezza quali siano le conseguenze e gli effetti giuridici connessi da un ordinamento, ad esempio, ad un determinato tipo di atto, ed è, dunque, possibile prevedere con certezza quali saranno le conseguenze e gli effetti giuridici di un qualsiasi token [i.e. di una manifestazione concreta di un type] di quell’atto». V. inoltre M. Libertini, (nt. 59), 212, il quale ricollega l’esistenza di norme imperative nel diritto societario alla necessità di ridurre i costi di transazione là dove afferma che «In astratto, potrebbe essere pienamente liberista anche un ordinamento che fornisse al mercato un certo numero di schemi rigidi di organizzazione, così riducendo al minimo i costi transattivi nei momenti della costituzione dell’impresa, dell’insorgere di conflitti interni e della contrattazione con i terzi».
[68] Sul punto v. criticamente D. Giordano, Le limitazioni all’autonomia privata nelle società di capitali, Milano, Giuffrè, 2006, 102 ss.
[69] Cfr. P. Spada, La tipicità, (nt. 60), 27.
[70] Ibidem.
[71] Ivi, 72.
[72] Ivi, 74 e 218 ss., ove una suddivisione di tale nucleo di disciplina in: a) programmazione delle operazioni sociali e organizzazione della programmazione; b) disciplina del risultato, dei modi di erogazione-percezione del risultato; c) regimi di produzione-imputazione.
[73] Ad esempio quello tedesco, in relazione al quale H. Fleischer, (nt. 60), 268 e in nt. riferimenti, afferma che «ist zu guter Letzt hervorzuheben, dass die geschlossene Zahl der Rechtsformen den Parteien nach verbreiteter Überzeugung keine übermäßig engen Fesseln anlegt [precisando che] Rechtsprechung und Lehre haben nämlich davon abgesehen, dem gesellschaftsrechtlichen numerus clausus einen ebensolchen Typenzwang an die Seite zu stellen, der atypische Gestaltungen als unzulässig verwirft»; a p. 269 ss. l’analisi del tema negli ordinamenti di Austria, Svizzera, Francia, Belgio, Italia, Regno Unito. Stati Uniti, Spagna, Liechtenstein e Danimarca.
[74] V. infra il § 4.2.
[75] F. d’Alessandro, «La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinata». Ovvero: esiste ancora il diritto societario?, in Riv. soc., 2003, 34 ss.
[76] V. ad esempio M. Libertini, (nt. 59), 214 ss., il quale ritiene che dalla violazione delle «norme tipologicamente essenziali» derivi l’invalidità della clausola solo se non vi sono «modelli organizzativi sovraordinati» (di applicazione residuale), se invece vi sono modelli di applicazione residuale allora si può affermare la “riqualificazione” nell’ambito di un altro tipo; C. Ibba, In tema di autonomia statutaria e norme inderogabili, in G. Cian, Le grandi opzioni della riforma del diritto e del processo societario, Padova, Cedam, 143 ss., che distingue tra norme implicitamente imperative “di struttura” e “di protezione”.
[77] Per analoghe notazioni H. Fleischer, (nt. 60), 291, che, oltre a riportare l’ammonimento di Otto Von Gierke a diffidare, nel campo della proprietà, da tesi eccessivamente restrittive rispetto alla possibilità di “schöpferische Thaten” da parte dei soggetti coinvolti, richiama le tesi dell’economista istituzionalista Douglass North.
[78] Per una sintesi del tema v. S. Lombardo, Regulatory competition in European company law. Where do we stand twenty years after Centros?, in Riv. dir. banc., 2019, 297 ss. Sul rapporto tra Typenzwang e regulatory competition v. già S. Lombardo, Regulatory Competition in Company Law in the European Union after Cartesio, in EBOR, 2009, 627 ss.
[79] Così, condivisibilmente, F. Cadorin, (nt. 1), 133 nt. 54.
[80] Si occupa di smentire la fondatezza di tale sfaccettatura del problema, con condivisibili argomenti cui conviene senz’altro rinviare, F. Cadorin, (nt. 1), 142 ss.
[81] § 4.3.
[82] Cass. civ., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26724 e 26725, pubblicata in numerose riviste, tra cui Giur. it., 2008, 347 ss., con nota di G. Cottino, La responsabilità degli intermediari finanziari e il verdetto delle Sezioni unite: cause, considerazioni, e un elogio dei giudici, in Foro it., 2008, I, 784 ss., con nota di E. Scoditti, La violazione delle regole di comportamento dell’intermediario finanziario e le sezioni unite, in Nuova giur. civ. comm., 2008, 432 ss., con nota di U. Salanitro, Violazione della disciplina dell’intermediazione finanziaria e conseguenze civilistiche: ratio decidendi obiter dicta delle sezioni unite, Danno e responsabilità, 2008, 525 ss., con nota di V. Roppo, La nullità virtuale del contratto dopo la sentenza Rordorf, nonché occasione di numerosi saggi, tra cui v. almeno C. Scognamiglio, Regole di validità e di comportamento: i principi e i rimedi, in Eur. dir. priv., 2009, 599 ss. Da ultimo v. Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2021, n. 15099, in Il Foro Plus.
[83] Ossia stipulato oltre i limiti di finanziabilità, Cass. civ., sez. un., 16 novembre 2022, n. 33719, pubblicata tra le tante in Contratti, 2023, 132 ss., con nota di F. Piraino, Il mutuo fondiario e la violazione del limite di importo massimo finanziabile: “scotismo” e onnipotenza delle etichette e in Banca, borsa, tit. cred., 2023, II, 323 ss., con nota di U. Salanitro, Dopo le Sezioni Unite, quale disciplina per il credito fondiario eccedente il limite di finanziabilità?
[84] Cass. civ., sez. un., 15 marzo 2022, n. 8472, in Foro it., 2022, I, 1659 ss., con nota di S. Pagliantini, La fideiussione al pubblico di un confidi minore: perché non una nullità virtuale di protezione?
[85] Cass. civ., sez. III, 15 gennaio 2020, n. 520, in Il Foro Plus.
[86] Cass. civ., sez. III, 18 marzo 2024, n. 7243, in Il Foro Plus.
[87] Per le diverse opinioni espresse in merito a tale complessa tematica v. da ultimo, per un quadro aggiornato v. M. Mantovani, Le nullità e il contratto nullo, in A. Gentili (a cura di), Trattato del contratto a cura di V. Roppo, IV, Rimedi 1, Milano, Giuffrè, 2023, 1 ss., ove ulteriori riferimenti.
[88] V., per riferimenti, M. Mantovani, (nt. 87), 15, nt. 40.
[89] V. Scalisi, Invalidità e inefficacia. Modalità assiologiche della negozialità, in Riv. dir. civ., 2003, I, 201 ss.
[90] Riferimenti in M. Mantovani, (nt. 87), 16 e nt. 44.
[91] M. Mantovani, (nt. 87), 27 ss., richiamando A. Gentili, Nullità, annullabilità, inefficacia (nella prospettiva del diritto europeo), in Contr., 2003, 201 ss.
[92] Riferimenti in M. Mantovani, (nt. 87), 39 nt. 20 e 21.
[93] Sul significato di tale eccezione, tutt’altro che pacifico, v. M. Mantovani, (nt. 87), 41 ss., in part. nt. 31-35, e 49 ss. per la casistica, la quale riconosce come la giurisprudenza afferma la necessità di controllare la “natura” della disposizione violata, e quindi, l’interesse (pubblico o privato) protetto.
[94] V. infra il § 8.
[95] Per una critica a tale approccio v. già G.L. Pellizzi, Sui poteri indisponibili della maggioranza assembleare, in Riv. dir. civ., 1967, I, 113 ss., in part. 139-140, criticando «una certa tecnica interpretativa che, volendo afferrare gli elementi cosiddetti “sostanziali” d’un problema, spesso trascura quella parte di realtà che la formula giuridica, appunto perché formula astratta, nella sua generalità contempla: il negare la validità d’una clausola statutaria solo per l’eventualità che un suo possibile uso porti indirettamente, e di fatto, a un risultato sostanzialmente divergente da quello voluto da una sia pur cogente norma di legge (artt. 2448, n. 5, e 2369, u.c., c.c.) significa, a nostro avviso, appuntarsi su di un solo elemento d’una realtà più complessa […] La frode va colpita quando sia in concreto dimostrata: […] non va presunta in atti e negozi i cui possibili effetti occupano orizzonti più vasti»; F. d’Alessandro, I titoli di partecipazione, Milano, Giuffrè, 1968, 135 ss., riepilogando i risultati della critica svolta nei confronti della visione unitaria della partecipazione, quale esempio paradigmatico di una «tendenza alla reificazione delle nozioni sintetiche»; P. Jaeger, Il voto divergente nella società per azioni, Milano, Giuffrè, 1976, 51, criticando le teorie secondo le quali il voto divergente si sarebbe posto in contrasto con la funzionalizzazione del potere di voto al perseguimento di interessi metaindividuali non meglio specificati; P. Schlesinger, L’autonomia privata e i suoi limiti, in Giur. it., 1999, 1003 ss. che critica l’uso eccessivamente disinvolto fatto dalla giurisprudenza della categoria delle nullità virtuali, frutto in particolar modo nel diritto societario di una «tendenza della magistratura ad assumere con troppa facilità una sorta di tutela di interessi assunti come super individuali, ma costruiti senza adeguato riguardo alla volontà dei soci, che spesso sono, in realtà, gli unici protagonisti cui si dovrebbe rispetto».
[96] Traggo lo spunto da P.G. Jaeger, (nt. 95), 51, che a sua volta lo trae da F. d’Alessandro, (nt. 95), 135 ss., che richiama, per criticarle, quelle teorie secondo le quali il voto divergente si porrebbe, per l’appunto, in contrasto con la funzionalizzazione del potere (e non diritto) di voto ad interessi meta-individuali
[97] V. supra il § 4.2.
[98] I. Visco, La finanza d’impresa in Italia: recente evoluzioni e prospettive, intervento alla Conferenza Baffi Carefin Bocconi – Equita The Italian Corporate Bond Market, 13 febbraio 2019, https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/interventi-governatore/integov2019/Visco-3.02.2019.pdf, 4, il quale rileva come ancora nel 2007 l’incidenza di prestiti bancari sul totale dei debiti finanziari raggiungeva in Italia il 75%, mentre era pari a circa il 50% nell’area Euro e inferiore al 40% in Regno Unito e USA e nel 2019, dopo l’enorme evoluzione del settore a seguito della grande crisi, era comunque pari a quasi il 60%, il valore più elevato tra i principali paesi dall’area Euro.
[99] I. Visco, (nt. 98), 3. V. anche G.D. Mosco, C.A. Nigro, Editoriale, in AGE, 2021, 1 ss.
[100] I. Visco, (nt. 98), 5. V. i dati contenuti nel Piano Strategico 2022-2024 di Cassa Depositi e Prestiti, Linea guida strategico settoriale n. 5 Mercato dei capitali, https://www.cdp.it/resources/cms/documents/CDP_MERCATO_DEI_CAPITALI_ITA.pdf, 11, da cui si apprende che nel periodo 2018-2021 l’Italia ha visto investiti 3,6 miliardi nel settore Venture Capital, a fronte dei 25,5 miliardi investiti in Francia, dei 34 miliardi in Germania e dei 69 in Regno Unito; nel 2021 gli investimenti di Private Equity in Italia corrisponde allo 0,29% del PIL, a fronte del 0,33% della Germania, dell’1,10% della Francia e del 2,47% del Regno Unito.
[101] Considerazioni in parte analoghe in M. Maugeri, Venture capital, preferenze di liquidazione e conflitti tra soci, in questa Rivista, 2024, 244 ss., in part. 250.
[102] V., per analoghe considerazioni calate nello specifico contesto del finanziamento di Venture Capital, quanto già osservato in P. Agstner, A. Capizzi, P. Giudici, (nt. 1), 379 ss. e, ancor più approfonditamente, C.A. Nigro, J.R. Stahl, Venture Capital‐Backed Firms, Unavoidable Value‐Destroying Trade Sales, and Fair Value Protections, in EBOR, 2021, 39 ss.; R. Felicetti, (nt. 1), 314-316. è opportuno richiamare le considerazioni di un illustre Autore svolte con riferimento ai soli patti di covendita, ma dotate di notevole efficacia, v. A. Mazzoni, Patti di covendita e doveri fiduciari, in A. Crivellaro (a cura di), Trasferimenti di partecipazioni azionarie, Milano, Giuffrè, 2017, 211 ss., in part. 215, ove si osserva che: «se la partecipazione in una società (maggioritaria o minoritaria che sia) è considerata, nella sua essenza, non tanto come una proprietà identitaria e infungibile, quanto come un co-investimento monetario in un progetto mirante a realizzare un profitto all’interno di un contesto di mercato, in cui hanno un valore di scambio le imprese che nascono e sono finanziate in virtù di progetti di coinvestimento della stessa natura, allora è molto più facile guardare con favore a (o comunque senza nutrire sospetti pregiudiziali nei confronti di) patti con cui gli aderenti si obbligano, ora per allora, a liquidare il proprio coinvestimento».
[103] V. Cariello, Osservazioni preliminari sull’argomentazione e sull’interpretazione “orientate alle conseguenze” e il “vincolo del diritto positivo per il giurista”, in Impresa e mercato. Studi dedicati a Mario Libertini, Milano, Giuffrè, 2015, III, 1714 ss.
[104] M. Filippelli, (nt. 27), 275 e nt. 21, ove ulteriori riferimenti.
[105] In proposito v. F. Cadorin, (nt. 1), 128 e nt. 29. Sulle tecniche di interpretazione degli atti normativi v. per tutti G. Tarello, L’interpretazione della legge, in Trattato Cicu-Messineo, I**, Milano, Giuffrè, 1980, 364 ss.
[106] App. Genova, 11 agosto 1914, in Foro it., Rep. 1914, voce Società, n. 72, e in Riv. dir. comm., 1915, II, 291 ss., con nota critica di A. Sraffa, poi confermata da Cass. Torino, 4 giugno 1915, in Foro it., Rep. 1915, voce Società, n. 50, che, ritenendo che il divieto di esonero dalle perdite fosse di «diritto singolare» e quindi non estensibile oltre la lettera della norma, giudicò in base ad esso nullo il patto stipulato in una s.a.s. che, in caso di liquidazione, obbligava gli accomandatari a tenere indenni gli accomandanti sino al valore nominale della quota sottoscritta, obbligazione garantita dal privilegio sulle quote degli stessi accomandatari. La decisione di primo grado, si diceva, fu criticata da A. Sraffa, secondo il quale il divieto di esenzione dalle perdite, in quanto ispirato da ragioni di ordine pubblico, sarebbe stato suscettibile di interpretazione estensiva. Lo stesso autore, nel saggio Id., Patto leonino e nullità del contratto sociale, in Riv. dir. comm., 1915, I, 956 ss., mutò parzialmente il proprio orientamento, ammettendo che l’esenzione dalle perdite fosse conseguenza (lecita) di una donazione, così configurandosi una causa mista.
[107] Che prevedeva solo l’ipotesi dell’attribuzione esclusiva dei guadagni a uno o più soci e, invece, consentiva l’esonero dalle perdite di uno o più soci, v. Ulpiano, L. 29 § 1, Dig. pro socio, XVII, 2 e, per la sua condivisa interpretazione, B. Windscheid, Pandette, Torino, UTET, 1902, II, § 205 e nt. 17, sul punto v. l’accurata ricostruzione storiografica di N. Abriani, (nt. 40), 1-8 e il monumentale studio di K.M. Hingst, Die societas leonina in der europäischen Privatrechtsgeschichte. Der Weg vom Typenzwang zur Vertragsfreiheit am Beispiel der Geschichte der Löwengesellschaft vom römischen Recht bis in die Gegenwart, Berlin, Duncker & Humblot, 2003, ove una meticolosa analisi storiografica delle fonti romane (35 ss.), della letteratura medievale (128 ss.), di quella del periodo rinascimentale e dell’Usus modernus (170 ss.), del diritto naturale (270 ss.) e, infine, della scuola storica e di quella pandettistica della Germania ottocentesca (328 ss.); più recentemente v. nella letteratura italiana l’efficace sintesi di M.S. Spolidoro, Un’introduzione, (nt. 1), 219 ss.
[108] V. l’accurata ricostruzione di M.S. Spolidoro, Un’introduzione, (nt. 1), 222 ss. del manoscritto.
[109] Al punto tale da confondersi con il concetto di usurarietà v., seppur con eccezioni, esemplificativamente J. Domat, Les loix civiles dans leur orde naturel, Parigi, Brunet, 1694, I, tit. VIII, seg. I, n. 9.
[110] Così App. Roma, 9 gennaio 2023, in Foro it., 1923, I, 100, riformando integralmente Trib. Roma, 8 giugno 1922, ivi, Rep. 1922, voce Società, n. 102, e in Riv. dir. comm., 1922, II, 602, con nota adesiva di U. Navarrini, In materia di società leonina (che però era il legale della parte vittoriosa), che aveva dichiarato nulla un’anonima il cui statuto, nel prevedere l’emissione di azioni privilegiate e ordinarie (“comuni”), stabiliva che in ipotesi di riduzione del capitale occorso nei primi cinque anni di attività della società le azioni ordinarie, che non avrebbero avuto diritto di voto su tale deliberazione, avrebbero integralmente sopportato la riduzione fino a una certa somma (pari al loro valore nominale).
[111] Cass. civ., 5 novembre 1923, in Foro it., 1923, I, 1025 ss.
[112] Cass. civ., 29 luglio 1930, in Foro it., Rep. 1930, voce Società civile e commerciale, n. 58-58 ter.
[113] Cass. civ., 15 maggio 1931, id., Rep. 1931, voce Società, n. 145. Questa decisione e quella citata alla nt. precedente furono pubblicate in Riv. dir. comm., 1932, II, 138 ss., con nota critica di P. Greco, Garanzie di utili e retribuzione di apporti nel contratto di società che assunse una posizione particolare, di cui si trovano invero tracce in opinioni a tutt’oggi sostenute. L’illustre A., infatti, riconosceva come l’applicazione del divieto di p.l. «non deve tuttavia disconoscere le reali esigenze della vita economica che portano a differenziare il valore degli uomini e quello dei beni che posseggono […] [così che] non v’è ragione di negare nei contratti associativi la prevalenza di chi detiene i beni o servigi produttivi più efficienti […] Questa realtà economica spiega come, malgrado qualunque astrazione, il persistente e diffuso fenomeno della diversità di trattamento dei soci, spinta talvolta fino a rasentare il divieto del patto leonino, abbia spesso trovato presso i giuristi un’accoglienza favorevole, giustificata con teoriche ingegnose, ma non sempre immuni da artifizio». Fatta questa premessa il Greco, argomentando dalla contrapposizione tra contratti “di produzione” (quelli sociali) e “di scambio”, riteneva impossibile «che quel carattere tipico del contratto di scambio, che è il carattere commutativo, per cui il compenso della prestazione di un contraente risiede e si esaurisce nella prestazione dell’altro, si compenetri col contratto di società», sicché «la prestazione di un socio, quando risulti voluta e convenuta a titolo di apporto o conferimento sociale, non può, senza contraddire ad un requisito tipico del contratto di società, trovare il suo compenso in controprestazioni di altri soci» (ibidem, 146, enfasi nel testo), però poi salvandone la liceità mercé una riqualificazione parziale del conferimento come contratto di scambio (ibidem, 147).
[114] Cass. civ., 14 giugno 1939, n. 2029, in Foro it., 1940, I, 94 ss. e 647, con nota critica sul punto di A. Arena, Patto leonino e autonoma convenzione di esonero dalle perdite, secondo il quale l’accordo sarebbe stato nullo non per violazione del divieto di patto leonino ma per assenza di causa (in quanto autonomo), in Dir. e prat. comm., 1940, II, 165, con nota adesiva di N. Gasperoni, Convenzioni di esonero dalle perdite e titoli azionari, in Giur. comp. dir. comm., 1941, 117, con osservazioni adesive di A. Graziani, Patto leonino e contratto di garanzia (anche in Id., Studi di dir. civ. e comm., Napoli, 1952, 189), secondo la quale l’allora vigente art. 1719 c.c. «colpisce di nullità il cosiddetto patto leonino soltanto nei riflessi della società e dei soci, inquantoché l’attribuzione della totalità dei guadagni ad un socio o l’esonero di uno o più soci da qualunque contributo nelle perdite contrastano addirittura con l’essenza del contratto di società e rendono incensurabile la sussistenza di una società per mancanza dei suoi proprî fini ed obbietti».
[115] Fondamentale fu l’apporto di A. Graziani, (nt. 114), 121, che, commentando adesivamente Cass. civ., 14 giugno 1939, (nt. 114), osservava che nel sistema «il principio della difesa del contraente più debole non costituisce norma generale, sibbene è limitato a particolari casi specificamente enunciati, [sicché] non possono le disposizioni di tal genere avere applicazioni estensiva»; posizione ribadita in Id., Diritto delle società, Napoli, 1963, 71; N. Gasperoni, (nt. 114), 169 e autori citati alla nt. 1, anch’esso nel senso della validità della pattuizione parasociale.
[116] Per quella di legittimità v. Cass. civ., 30 maggio 1941, n. 1618, in Foro it., Rep. 1941, voce Società, n. 89, in Dir. fall., 1941, II, 381 ss., in Dir. prat. comm., 1942, II, 33, in Riv. dir. comm., 1942, II, 305 ss., con nota aspramente critica di L. Lordi, Patto leonino: garanzia di soci che esonerano un altro socio dalle perdite, in cui l’azionista entrante e protetto dalle perdite era già creditore della società che versava in profondo dissesto finanziario; per quella di merito Trib. Roma, 2 marzo 1949, in Dir. fall., 1949, II, 119 ss., con nota redazionale di Pazzaglia, invero per un’ipotesi di patto leonino stipulato a livello statutario.
[117] A. Graziani, (nt. 114), 121.
[118] Ibidem.
[119] Cfr. V. Castronovo, Storica economica d’Italia, Torino, Einaudi, 2021, 204 ss., sugli strettissimi legami tra banca e industria che, nel 1932, a fronte di depositi e conti correnti per 4,5 miliardi di lire, vedevano immobilizzi industriali delle banche a ben 12 miliardi di lire. V. già le osservazioni di P. Sraffa, The Bank Crisis in Italy, in Econ. Journ., 1922, 178 ss., in part. 194, che, esponendo le vicende che portarono alla crisi della Banca Italiana di Sconto, osservava che il finanziamento bancario dell’industria costituiva una «absolute necessity. Owing to the scarcity of capital in the country, the general unwillingness to invest in personal property and the timidity and ignorance of many capitalists, the industries could not otherwise get the capital they need».
[120] Cfr. T. Ascarelli, Appunti di diritto commerciale. Parte generale e le società commerciali, Roma, 1933, 158 e, sulla scia, L. Lordi, Patto leonino, (nt. 116), 308, secondo il quale, la ratio di entrambi i divieti è da ricercarsi nel generale principio di “equivalenza delle prestazioni” e, quindi, «il patto leonino è vietato perché contrario all’essenza del contratto di società, perché distrugge quella specie di fratellanza che v’è fra soci» (enfasi nel testo); analogamente Cass. civ., 31 luglio 1952, n. 2449, in Foro it., 1952, I, 1506, seppure dettata in tema di associazione in partecipazione.
[121] Cfr. già G.G. Auletta, Il contratto di società commerciale, Milano, Giuffrè, 1937, 170 ss., il quale argomentava dal concetto di comunione di scopo «che ogni legislatore ha tenuto presente nel regolare il rapporto di società [essendo] astrattamente anche concepibile che si richieda la comunanza di perdite, per riconoscere quella comunione d’interessi che giustifica la comunione di mezzi» e non giustificandosi altrimenti la rigorosa sanzione della nullità comminata per la violazione del divieto (dall’allora vigente art. 1719 c.c.), giacché nelle disposizioni legislative allora vigenti ispirate allo scopo di tutelare la parte più debole le conseguenze di una loro violazione erano assai diverse; Id., Appunti di diritto commerciale, Milano, Giuffrè, 1946, 61; A. De Gregorio, Delle società e delle associazioni commerciali, 6ª ed., Torino, Utet, 1938, 19 ss., secondo il quale «tutti i soci partecipano potenzialmente alla gestione sociale – e quindi alla produzione degli utili e delle perdite – sì che debbono sottostare alle conseguenze di una tale gestione»; R. Bolaffi, La società semplice. Contributo alla teoria delle società di persone, Milano, Giuffrè, 147, 371; A. Brunetti, Trattato del diritto delle società, I, Milano, Giuffrè, 1948, 216-217; L. Mossa, Trattato del nuovo diritto commerciale, II, Società commerciali personali, Padova, Cedam, 1951, 288-289; C. Ruperto, Delle società, in Commentario Ruperto-Torrente, sub art. 2265, Torino, Utet, 1962, 138 ss.; P. Greco, Le società nel sistema legislativo italiano, Torino, Giappichelli, 1959, 101 ss.; Trib. Roma, 5 maggio 1960, in Temi rom., 1960, 520 ss.; seppure in un obiter dictum, Cass. civ., 22 giugno 1963, n. 1686, in Foro it., Rep. 1963, voce Società, n. 101, in Giust. civ., 1963, 2040 ss., in Dir. fall., 1963, II, 658 ss., Cass. civ., 29 dicembre 1966, n. 2972, in Foro it., Rep. 1966, voce cit., n. 167, in Dir. fall., 1967, II, 311.
[122] E. Simonetto, (nt. 23), 133 ss. La tesi fu ulteriormente sviluppata dall’A. in Id., Società, contratto a prestazioni corrispettive e dividendo come frutto civile, in Banca, borsa, tit. cred., 1962, I, 487 ss.; Id., L’apporto nel contratto di società, in Riv. dir. civ., 1958, 1 ss.
[123] Che, come fa notare N. Abriani, (nt. 40), 30 ss., si inserisce nel graduale processo di obiettivizzazione dell’istituto del divieto di p.l. registrato a partire dalla fine del XIX sec. in Francia ed Italia, all’esito del quale il suo fondamento venne «ricollegato all’esigenza di rendere partecipe il socio dei risultati economici della società, per far sì che egli abbia interesse a collaborare alla miglior conduzione degli affari sociali o, quanto meno, a vigilare su di essi».
[124] Argomentata dal confronto con l’istituto con la rescissione con lesione: E. Simonetto, (nt. 23); F. Cadorin, (nt. 1), 138.
[125] O «psicologico-pratiche, inerenti alla gestione alla tutela, indiretta ma indispensabile, dei terzi e dell’economia nazionale» (Ibidem).
[126] Ibidem.
[127] Cfr. G. Cottino, La società per azioni, voce del Noviss. dig. it., Torino, Utet, 1971, § 11, sub 9; Id., Diritto commerciale, I, Padova, Cedam, 1987, 142; F. Ferrara, Gli imprenditori e le società, Milano, Giuffrè, 1971, 235; M. Ghidini, Società personali, Padova, Cedam, 1972, 136; P. Spada, La tipicità delle società, Padova, Cedam, 1974, 157 ss., nt. 118, 176 ss., nt. 149, 182 ss., nt. 107, a giudizio del quale il divieto di p.l. sarebbe “causalmente espressivo”; Id., Le azioni di risparmio, in Riv. dir. civ., 1974, II, 585 ss., in part. 594 ss.; N. Piazza, Patto leonino, voce dell’Enc. dir., XXXII, Milano, Giuffrè, 1982, 526 ss., secondo il quale entrambi i divieti troverebbero la propria ragione nella stessa nozione di società, sicché le società che li prevedessero difetterebbero di causa; G. Marasà, Le «società» senza scopo di lucro, Milano, Giuffrè, 1984, 135, a giudizio del quale il divieto di p.l. varrebbe a caratterizzare non tanto la causa del contratto di società, quanto la causa della singola prestazione conferimento; Id., Le società. Società in generale, Milano, Giuffrè, 2000, 228 ss.; P. Abbadessa, Le disposizioni generali sulle società, in Trattato Rescigno, 16, Torino, UTET, 1985, 34 ss., a giudizio del quale la necessità che ogni socio partecipi alle perdite consegue al concetto stesso di conferimento; A. Gambino, Il principio di correttezza nelle società per azioni, Milano, Giuffrè, 1987, 171, a giudizio del quale il fatto che i soci esercitino l’attività “in comune” impone che in comune siano anche i costi che ne conseguono; C. Angelici, Le azioni, in Comm. Schlesinger, Milano, Giuffrè, 1992, 19 ss., 32 ss., 62 ss., secondo il quale il divieto di p.l. costituisce un vero e proprio “limite esterno” all’autonomia concessa dall’art. 2348 c.c.
[128] G. Ferri, Delle società, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, Zanichelli, 1962, 202; U. Morello, Frode alla legge, Milano, Giuffrè, 1969, 409 ss.; G. Santoni, I patti parasociali, Napoli, Jovene, 1985, 41; G. Piazza, La causa mista credito-società (parere), in Contr. impr., 1987, 803 ss.; C. Ceroni, Simulazione e patti parasociali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1990, 1111 ss., in part. 1152 ss., nel senso della possibilità di costruire il patto parasociale di retrocessione quale «controdichiarazione relativa al negozio dissimulato» (di finanziamento), che si opporrebbe al contratto (simulato) di società; A. Di Amato, Impresa e nuovi contratti, Napoli, ESI, 1991, 54 ss.; L. Calvosa, La clausola di riscatto nella società per azioni, Milano, Giuffrè, 1995, 242 ss.; Id., L’emissione di azioni riscattabili come tecnica di finanziamento, in Riv. dir. comm., 2006, I, 195 ss., in part. 203 ss.; F. Galgano, Diritto commerciale. Le società, Bologna-Roma, Zanichelli, 1996, 75 e nt. 78.
[129] Cass. civ., 22 giugno 1963, (nt. 121), Cass. civ., 25 marzo 1966, (nt. 121) e Cass. civ., 12 settembre 1970, n. 1401, in Foro it., Rep. 1970, voce Società, n. 143, che hanno escluso la nullità di una pattuizione che prevedeva il pagamento di un importo quale corrispettivo del godimento temporaneo di diritti sociali, qualificata come mero contratto di scambio (c.d. “locazione di quota”) dal quale esulava ogni intento associativo.
[130] § 3.2.
[131] V., criticando l’impostazione di Cass. civ., 14 giugno 1939, (nt. 114) e Cass. civ., 30 maggio 1941, (nt. 116), G. Oppo, (nt. 40), 7 ss. e 105 ss., nel senso che la convenzione parasociale può avere una sua causa autonoma ed è pertanto necessario verificare caso per caso se il patto parasociale sia stato effettivamente stipulato in frode alla legge, come in effetti l’A. riteneva, ravvisando nel patto di esonero dalle perdite un negozio accessorio nullo, in quanto in frode all’art. 2265 c.c.; L. Carraro, (nt. 40), 221 ss.
[132] Su cui v. V. Buonocore, Le società finanziarie regionali in un libro recente, in Studi in memoria di Pettiti, I, Milano, Giuffrè, 1973, 153 ss.; M.T. Cirenei, L’impresa pubblica, Milano, Giuffrè, 1983, 479 ss. e 617 ss.; A. Clarizia, Società finanziarie regionali, voce del Noviss. dig. it., Appendice, VII, Torino, Utet, 1987, 368 ss.; G. Racugno, Finanziaria (società), voce del Digesto, disc. priv., sez. comm., VI, Torino, Utet, 1991, 170 ss.
[133] L’art. 2, primo comma, l. n. 317/1991 stabilisce infatti che l’oggetto sociale delle S.F.I.S. può consistere esclusivamente nella «assunzione di partecipazioni temporanee al capitale di rischio di piccole imprese costituite in forma di società di capitali, che non possano comunque dar luogo alla determinazione delle condizioni di cui all’art. 2359 c.c.». Ai sensi dell’art. 2, quarto comma, lett. e), della l. n. 317/1991, l’art. 11, d.m. 19 novembre 1992, n. 575 ha poi determinato «le modalità applicative del vincolo di temporaneità delle partecipazioni assunte», stabilendo che «le partecipazioni assunte devono essere dismesse entro 8 anni dalla data di effettuazione del primo investimento partecipativo», salvo deroga, di durata massima triennale, concessa dal Ministero dello sviluppo economico, sentita la Banca d’Italia, «nei casi in cui la dismissione delle partecipazioni entro il termine [predetto] possa arrecare grave pregiudizio alle S.F.I.S. o alle società partecipate».
[134] L’art. 6 del d.m. 11 novembre 1998, n. 491 (“Regolamento recante condizioni e modalità di concessione di anticipazioni finanziarie per l’acquisizione temporanea di partecipazioni di minoranza nel capitale di rischio di piccole e medie imprese”), emanato in attuazione dell’art. 2, secondo comma, d.l. 20 maggio 1993, n. 149, conv. con mod. in l. 18 luglio 1993, ha stabilito che affinché le S.F.I.S. possano fruire da parte del Mediocredito centrale di anticipazioni sui finanziamenti erogati, la durata della partecipazione da esse acquisita non può avere durata inferiore a 3 e superiore a 7 anni, prorogabile per non più di 3 anni, pena l’obbligo per la S.F.I.S. di restituire l’anticipazione ricevuta.
[135] V., in Giur. comm., 1979, I, 369 ss., i tre pareri (tutti nel senso dell’invalidità della clausola) di A. Dalmartello, Azioni privilegiate e partecipazione alle perdite, secondo il quale la clausola, oltre a non configurare un “diritto” della categoria di azioni ma della categoria di azionisti nei confronti di altra categoria, avrebbe violato il divieto di p.l., potendo comportare la totale estromissione degli azionisti ordinari; A. Gambino, Azioni privilegiate e partecipazione alle perdite, argomentando sia dal principio di parità di posizioni, derogato dall’(allora vigente) art. 2348, secondo comma, c.c. «con una normativa speciale, che pone solo dei limiti a quel canone, senza peraltro poterlo travolgere in quanto elemento essenziale dell’assetto di interessi societari previsto dal legislatore», sia dal (ritenuto) imprescindibile nesso potere-rischio; P.G. Jaeger, Azioni privilegiate e partecipazione alle perdite, argomentando in base, oltre che alla violazione del divieto di p.l., all’essenzialità rispetto al fenomeno associativo della partecipazione alle perdite da parte dei soci e, a contrario, dal fatto che la medesima previsione per le azioni di risparmio era stata espressamente sanzionata dal citato art. 1, quindicesimo comma, l. n. 216/1974 che, nel privare gli azionisti di risparmio dal diritto di voto, confermava la connessione tra potere e rischio propria del sistema.
V. però, nel senso della validità, G. Caselli, Azioni privilegiate e partecipazione alle perdite, in Giur. comm., 1980, II, 682 ss., secondo il quale non si sarebbe verificata alcuna violazione del divieto di esclusione dalle perdite, non essendoci alcuna categoria di soci in assoluto esclusa dalle perdite, peraltro non comprendendosi per quale motivo non si fosse mai dubitato della ammissibilità delle azioni con privilegio sugli utili che, in concreto e specularmente alla situazione analizzata, avrebbero potuto vedersi attribuiti tutti gli utili a scapito delle ordinarie, o di quelle privilegiate in sede di liquidazione, che potrebbero essere integralmente rimborsate a scapito di quelle ordinarie; F. Tedeschi, Azioni privilegiate e partecipazione alle perdite, ivi, I, 832 ss., il quale individua la sostanza economica dell’operazione nell’esigenza della società di reperire fonti di finanziamento (di capitale) trovandosi, però, nella necessità di chiudere, per un determinato numero di esercizi, il proprio bilancio in passivo (ad es. per ingenti investimenti iniziali effettuati), argomentando la legittimità della clausola sia dal carattere non eccezionale ma confermativo della prassi dell’art. 1, quindicesimo comma, l. n. 216/1974 sia dalla previsione di azioni privilegiate in sede di liquidazione che «il codice consideri implicitamente valida una totale esclusione dalle perdite di alcuni dei soci, quando ciò sia determinato da clausole particolari che cercano di favorire la raccolta di capitali fra i risparmiatori».
[136] Trib. Udine, 10 aprile 1981 e 25 novembre 1981, in Foro it., Rep. 1983, voce Società, n. 364 e 365, in Giur. comm., 1982, II, 884 ss., con nota critica di L. Guglielmucci, Le azioni postergate nelle perdite, secondo il quale non era possibile desumere un principio generale da una «tendenza legislativa», nel senso di compensare la privazione di diritti amministrativi con il riconoscimento di diritti patrimoniali (e viceversa) ma, ciò nonostante, la clausola avrebbe fatto emergere l’assoluta estraneità all’intento associativo dell’operazione “creditizia” posta in essere dal socio finanziatore, con conseguente sua nullità; Trib. Verona, 9 febbraio 1989, in Foro it., Rep. 1989, voce cit., n. 497, in Società, 1989, 738 ss., con nota di Bonavera; Trib. Trieste, 2 giugno 1994, in Società, 1995, 87 ss., con nota critica sul punto di R. Rordorf, Azioni e quote di società postergate nella partecipazione alle perdite.
[137] V. sul punto L. Guglielmucci, Lo smobilizzo delle partecipazioni nei patti parasociali delle finanziarie regionali private, in Riv. soc., 1980, 1196 ss., ove anche esempi di questi “patti di rilievo”, con una conclusione dubitativa.
[138] G. Piazza, (nt. 128); G. Sbisà, Circolazione delle azioni e patto leonino (parere), ibidem, 824 ss.
[139] G. Minervini, (nt. 4), 779. V. supra il § 3.3.
[140] Cass. civ., sez. I, 29 ottobre 1994, n. 8927, in Foro it., Rep. 1995, voce Società, n. 554, in Notariato, 1993, 244 ss., con nota adesiva di U. La Porta, Patti parasociali e patto leonino, in Società, 1995, 178 ss., con nota adesiva di D. Batti, Il patto leonino nell’ambito di partecipazioni a scopo di finanziamento, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, 1161 ss., con nota di adesiva C. Tedeschi, Sul divieto di patto leonino, in Giur. comm., 1995, II, 478 ss., con nota parzialmente critica (con riferimento al trattamento delle pattuizioni parasociali, valide se perseguenti un interesse meritevole ex art. 1322 c.c.) di A. Ciaffi, Finanziaria regionale e patto leonino, nonché occasione del saggio di R. Santagata, Patti di retrocessione, (nt. 27).
[141] Cass. civ., sez. II, 21 gennaio 2000, n. 642, in Foro it., Rep. 2000, voce Società, n. 794, in Società, 2000, 697 ss., con nota di Fanti, Natura e portata del divieto di patto leonino.
[142] Con specifico riferimento al tema che qui occupa v. le considerazioni al riguardo spese da Cass. civ., sez. I, 4 luglio 2018, (nt. 6) supra riportate al § 2. Per la constatazione circa una «coincidenza di temi» tra divieto di patto leonino e assegnazione non proporzionale v. C. Angelici, Fra “mercato”, (nt. 27), 205. In generale sul tema dell’assegnazione non proporzionale v. F. Accettella, (nt. 52), 73 ss., che propende per la soluzione negativa al quesito posto nel testo, e 75 nt. 18 riferimenti agli Autori che sostengono la tesi negativa e 76 nt. 19 a quelli che sostengono la tesi affermativa, e 104 ss., per la conclusione dell’irrilevanza del divieto di patto leonino rispetto al problema dell’assegnazione non proporzionale; M. Notari, La proporzionalità tra rischio e potere nelle società di capitali: un canone fondamentalissimo o una regola suppletiva?, in ODCC, 2016, 392 ss. e gli aggiornati riferimenti in F. Cadorin, (nt. 1), 131-132.
[143] Cioè tale da permettere l’attribuzione di partecipazioni in modo più che proporzionale rispetto al valore dei titoli di compendio.
[144] V. sul punto P. Agstner, A. Capizzi, P. Giudici, Business Angels, (nt. 1), 412 ss. e 422 ss.
[145] C.N. Milano, massima n. 186, Clausole statutarie antidiluizione, e la dottrina, pro e contra, citata nella nota bibliografica
[146] V. ad esempio F. Accettella, (nt. 52), 75 ss., a giudizio del quale il conferimento, se del caso anche «atipico» costituisce elemento causale del contratto di società e, quindi, imprescindibile per l’acquisto della qualità di socio assegnatario di azioni in misura non proporzionale; A. Valzer, sub art. 2346, commi 4 e 5, in P. Abbadessa, G.B. Portale (diretto da), M. Campobasso, V. Cariello, U. Tombari (a cura di), Le società per azioni. Codice civile e norme complementari, I, Milano, Giuffrè, 2016, 472 ss., in part. 476 ss., ove ulteriori riferimenti bibliografici. V. inoltre la completa rassegna compiuta sul punto da N. de Luca, (nt. 6), nt. 11. Nel senso che la correlazione tra rischio e potere costituirebbe un canone fondamentale del diritto societario v. gli scritti di E. Barcellona, Rischio e potere, (nt. 27).
[147] V. supra il § 4.1.
[148] Esplicitamente in questo senso P. Sfameni, (nt. 27), 76 nt. 13, il quale esplicitamente rigetta la tesi del principio di ordine pubblico economico, affermando che il divieto ha lo «scopo di preservare la causa tipica societaria, mancando di causa quel conferimento che fosse escluso dalla partecipazione al rendimento, come contraria alla causa societaria sarebbe il conferimento a rendimento garantito, cioè escluso da ogni partecipazione alle perdite. Non tanto l’ordinato esercizio dei poteri, bensì invece, l’essenza della società, starebbe alla radica del divieto» (corsivo nel testo).
[149] V. supra il § 6.3.
[150] V. supra nt. 52 e testo corrispondente.
[151] La bibliografia sul punto è sterminata, v. ad es. M. Cian, La nozione di società e i principi generali, in Id. (a cura di), Diritto commerciale, III, Diritto delle società, Torino, Giappichelli, 2017, 41; L. Pisani, Le società di persone, ivi, 92 ss.; G.C.M. Rivolta, Diritto delle società. Profili generali, in Trattato Buonocore, Torino, Giappichelli, 2015, 221 ss.; da ultimo la completa trattazione di I. Capelli, (nt. 45).
[152] Contra, nel senso della nullità e in esplicito dissenso rispetto alle recenti pronunce di legittimità, M.V. Benedettelli, Una (bozza di) dissent arbitrale in materia di opzione put e divieto di patto leonino, in Riv. dir. soc., 2021, 581 ss.;
[153] V. supra il § 3.
[154] V. gli Autori citati al § 3.1.
[155] V. gli Autori citati al § 3.3.
[156] E. Barcellona, (nt. 1), 29 ss., argomentando dalle convenzioni previste dall’art. 2352 c.c. in ipotesi di vincoli sulle azioni, dall’esistenza di azioni di godimento con diritto di voto, dalla possibilità di riconoscere diritti amministrativi ai possessori di strumenti finanziari partecipativi ex art. 2346, sesto comma, c.c., nonché dall’art. 1548 c.c., che consente alle parti di attribuire liberamente il diritto di voto al riportatore ovvero al riportato; L. Calvosa, L’emissione di azioni riscattabili come tecnica di finanziamento, in Riv. dir. comm., 2006, I, 200 ss., nel senso di una «decolorazione […] se non vero e proprio tramonto, del divieto del patto leonino nell’ambito del tipo azionario»; Id., Azioni e quote riscattabili: delimitazione dei confini di operatività dell’istituto, in Società, 2019, 1327 ss., in part. 1329.
[157] M.S. Spolidoro, Clausole put, (nt. 1), 1311 ss., il quale circoscrive l’applicazione del divieto alle sole società di persone, alle s.a.p.a., in caso di promesse di esonero delle perdite fatte dall’accomandatario, oltre che nelle s.r.l. ove vi siano soci d’opera, e i successivi scritti supra citati alla nt. 1, e F. Cadorin, (nt. 1), 132 ss., che nega la fondatezza dell’estensione del divieto sia se considerato espressione di un principio di corretta gestione sia se derivato dalla necessità di proteggere il contraente (i.e. il socio) debole; A. Tucci, (nt. 9), 244 e nt. 24 (riprendendo le affermazioni di G. Ferri, Validità dei sindacati azionari di amministrazione, in Nuova riv. dir. comm., 1949, I, 17 ss.), il quale, pur sostenendo che non vi sarebbe contraddizione tra il sostenere che l’esenzione dalle perdite di un socio sia incompatibile con la disciplina delle società di capitali e il riconoscere la meritevolezza di un patto parasociale di pari oggetto, osserva che in caso di effettivo contrasto soccorre la disciplina dell’art. 2373 c.c., così rivelandosi fragile il presupposto del ragionamento «appunto perché si fonda sull’idea di poter identificare in astratto e in modo, per così dire, “permanente” fattispecie contrattuali»; v. già G. Penzo, (nt. 24), 146 ss., il quale, facendosi dichiaratamente portatore delle esigenze della prassi, sferra una critica serrata all’impostazione sopra riferita, ritenendo non «corretta [la] scelta di politica economica [di] ricercare una tutela mirata a prevenire comportamenti solo teorici o comunque non così determinati, determinanti o illegittimi da non poter essere tutelati da altri istituti (responsabilità amministratori, abuso del diritto ecc.) a discapito della stessa attività di investimento», peraltro notando che nella pratica non si dà l’ipotesi di comportamenti “poco responsabili” degli investitori istituzionali, che hanno tutto l’interesse (professionale, costituendo l’investimento la loro attività d’impresa) a non veder depresso il proprio investimento; comportamenti che, comunque, non potrebbero comunque essere posti in essere a causa del complesso delle clausole che contornano le opzioni in parola (poteri di veto; minoranze di blocco, etc.).
[158] E senza voler entrare nella disputa sulla funzione dell’argomento comparatistico: di fonte transnazionale interpretativa, e financo integrativa, del diritto interno, v. ad es. P.G. Monateri, A. Somma, «Alien in Rome». L’uso del diritto comparato come interpretazione analogica ex art. 12 preleggi, in Foro it., 1999, V, 47 ss., per una valorizzazione della possibilità di utilizzare la lex alii loci come referente del procedimento di analogia legis previsto dall’art. 12, secondo comma, primo periodo, preleggi, con ricchi riferimenti al dibattito sul punto sviluppatosi in Germania sin dall’inizio del XX sec., più recentemente G.B. Portale, Il diritto societario tra diritto comparato e diritto straniero, in Riv. soc., 2013, 325 ss.; di stimolo argomentativo, capace di offrire all’interprete idee o implicazioni ulteriori ed impreviste nell’interpretazione di una norma armonizzata a livello europeo, ma non precetti, v. ad es. R. Weigmann, L’interpretazione del diritto societario armonizzato nella Unione Europea, in Contr. impr., 1996, 487 ss., in part. 497-498, ove vengono riprese le idee già espresse da M. Lutter, Dies Auslegung angeglichenen Rechts, in Jurist. Zeit., 1992, 593 ss.;
[159] Ad esempio, negli ordinamenti di common law inglese, statunitense e canadese, ove financo per le partnerships si esclude senz’altro che la partecipazione ai risultati negativi dell’attività d’impresa costituisca, al contrario della partecipazione agli utili, requisito indefettibile del fenomeno societario, v. N. Abriani, (nt. 40), 157-158, ove riferimenti ai precedenti giurisprudenziali inglesi di fine ’800 e inizio ’900 che consolidarono quest’opinion, e infra l’analisi degli ordinamenti allora vigenti di Svizzera, Austria e Polonia, tutti orientati nello stesso senso; più recentemente v. G. Terranova, Il divieto di patto leonino: un’analisi comparata alla luce della recente riforma del diritto belga, in Nuove leggi civ. comm., 2020, 811 ss., in part. 813-816, ove ulteriori aggiornati riferimenti.
È inoltre il caso di segnalare, vista l’attuale rilevanza di quest’ordinamento nella lotta competitiva tra ordinamenti europei, che in Olanda sin dalla prima versione del Burgerlijk Wetboek l’art. 1672 per le società di persone prevede espressamente la possibilità di esenzione dalle perdite, ma non l’esclusione dagli utili. Dal 2012, inoltre, per la società a responsabilità limitata (Besloten Venootschap) l’art. 216 consente di esentare dalle perdite o di escludere dalla partecipazione agli utili le azioni di una certa categoria.
[160] V. già T. Ascarelli, Interpretazione del diritto e studio del diritto comparato, in Id., Saggi di diritto commerciale, Milano, Giuffrè, 1955, 481 ss. (e in Riv. dir. comm., 1954, I, 157 ss.), in part. 503, là dove, dopo una negazione della funzione del diritto comparato integratrice delle lacune dell’ordinamento interno sulla base della funzione intimamente creatrice dell’atto interpretativo, si afferma: «il diritto comparato è sostanzialmente «esperienza»; è esperienza giuridica in un ambito più vasto di quello segnato dalla sovranità dei vari stati. Esso, perciò, permette a ciascun giurista di essere cosciente della storicità delle proprie categorie. Questa coscienza storica (ché l’esperienza comparativistica è alla fine esperienza storica) permette all’interprete di cogliere una serie di premesse dei propri concetti e delle proprie categorie (e della stessa sua tecnica dell’interpretazione) delle quali altrimenti è incosciente, proprio perché la mancanza di una più vasta esperienza lo induce a ritenere costanti e universali fenomeni o credenza storicamente determinate». Cfr. in termini non troppo dissimili V. Cariello, Sensibilità comuni, uso della comparazione e convergenze interpretative: per una Metodenlehre unitaria nella riflessione europea sul diritto dei gruppi di società, in Riv. dir. soc., 2012, 255 ss., in part. 258 ss., che richiama la teorica gorliana sui “servizi” della comparazione tra diritto nostrano e diritto straniero, v. G. Gorla, Diritto comparato (ad vocem), in Enc. dir., XII, Milano, Giuffrè, 1964, 933.
[161] «Toutefois, la stipulation attribuant à un associé la totalité du profit procuré par la société ou l’exonérant de la totalité des pertes, celle excluant un associé totalement du profit ou mettant à sa charge la totalité des pertes sont réputées non écrites», v. F. Cadorin, (nt. 1), 127, che richiama N. Abriani, (nt. 40) 174 nt. 53 per riferimenti alla dottrina contemporanea alla riforma e K.M. Hingst, (nt. 107), 359 ss.
[162] Supra § 4.3.
[163] Cassation, Ch. Comm., 20 maggio 1986, in Rev. sociétés, 1986, 592 ss., con osservazioni di D. Randoux, secondo la quale «qu’en effet est prohibée par l’article 1844-1 du Code civil la seule clause qui porte atteinte au pacte social dans les termes de cette disposition légale; qu’il ne pouvait en être ainsi s’agissant d’une convention, même entre associés, dont l’objet n’était autre, sauf fraude, que d’assurer, moyennant un prix librement convenu, la transmission de droits sociaux» (enfasi aggiunta). Per riferimenti al favorevole accoglimento di quest’innovazione da parte della dottrina francese v. K.M. Hingst, (nt. 107), 364-365.
[164] Per riferimenti utili alla ricostruzione della vicenda v. R. Santagata, Patti di retrocessione, (nt. 27), 70 ss., ove riferimenti di giurisprudenza e dottrina e, successivamente, aggiornamenti in Id., Partecipazioni in s.r.l., (nt. 27), 751 nt. 3 e Id., Dai patti, (nt. 27), 541 nt. 4, ove riferimento anche all’esperienza belga; P. Sfameni, (nt. 27), 92 ss., ove anche un’esposizione dei Certificats de valeur garantie, importati dall’esperienza anglo-americana, emessi dalla società offerente in caso di OPA e offerti agli oblati, che incorporano il diritto di ricevere l’eventuale differenza tra prezzo offerto in sede di OPA e valore a una certa data futura delle azioni del target; C. Angelici, Fra “mercato”, (nt. 27), 204; da ultimo G. Terranova, (nt. 159), 825 ss.
[165] Cass., Ch. Comm., 16 novembre 2004, in Rev. sociétés, 2005, 593 ss., con nota di H. Le Nebasque, Clause de prix insérée dans les promesses d’achat de droits sociaux: l’interrogation continue, la quale osserva che è del tutto valida la clausola che consente al finanziatore, «lequel est avant tout un bailleur de fonds, le remboursement de l’investissement auquel il n’aurait pas consenti sans cette condition déterminante».
[166] Cass., Ch. Comm., 22 febbraio 2005, in Rev. sociétés, 2005, 595 ss.
[167] Cass., Ch. Comm., 21 giugno 2023, ECLI:FR:CCASS:2023:CO00454.
[168] Sulla vicenda v. G. Terranova, (nt. 159), 829 ss.
[169] V. H. Fleischer, Gewinn- und stimmrechtslose Personengesellschafts- und GmbH-Geschaftsanteile, in M. Casper, L. Klöhn, W.H. Roth, C. Schmies (Hrsg.), Festschrift für Johannes Köndgen zum 70. Geburtstag, Köln, RWS-Verlag, 2016, 201 ss., per riferimenti alla dottrina più antica.
[170] Bundesgerichtshof, 14 luglio 1954, in BGHZ, 1954, 271 ss., seguita dalla successiva pronuncia del 6 aprile 1987, in NJW, 1987, 3124 ss., che ha ammesso l’esclusione dai profitti e dalle perdite. V. ampiamente K.M. Hingst, (nt. 107), 397 ss.
[171] V. J. Ekkenga, Kommentar zu § 29, in H. Fleischer, W. Goette (a cura di), Münchener Kommentar GmbH-Gesetz4, 3, München, Beck, 2022, Rdn. 68, ove ulteriori riferimenti a sostegno del fatto che sulla validità di clausole che escludano i profitti si riscontra in dottrina una «allgemeine Meinung» e, soprattutto, rn. 195, ove l’affermazione per cui «absolute Gestaltungsgrenzen gibt es für Gewinnverteilungsklauseln kaum […] Selbst gegen den einvernehmlichen vollständigen Ausschluss der Gewinnbeteiligung einzelner bestehen keine Bedenken».
[172] K.M. Hingst, (nt. 107), 404-405.
[173] H. Fleischer, (nt. 169), 208 ss., ove ulteriori riferimenti.
[174] Ad esempio, nell’ipotesi della tesi, anch’essa largamente approvata da dottrina e giurisprudenza, che predica l’imperatività di una “equa valorizzazione” della partecipazione in caso di exit involontario, v. supra nt. 34 e testo corrispondente per qualche accenno.
[175] Bibliografia sterminata, tale da rendere non opportuno in questa sede anche solo un tentativo di sistematizzazione, v. per tutti nella letteratura giuscommercialistica lo scritto di sintesi di P. Montalenti, L’abuso del diritto nel diritto commerciale, in Riv. dir. civ., 2018, 873 ss.
[176] V. per tutti M. Libertini, Ancora a proposito di principi, (nt. 2).
[177] N. Lipari, Ancora sull’abuso del diritto. Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, 1 ss.
[178] Per analoga distinzione v. già lo scritto, segnalatomi da Peter Agstner, di M. Lutter, Theorie der Mitgliedschaft. Prolegomena zu einem Allgemeinen Teil des Korporationsrechts, in Arch. civ. Pr., 1980, 84 ss.
[179] Dottrina amplissima sul punto, v. di recente, anche per ulteriori riferimenti, la visione riduzionistica (non si ha responsabilità dei soci anche in caso di espressa autorizzazione al compimento degli atti che gli amministratori non potrebbero in nessun caso compiere), di C. Sandei, Sulla (ir)responsabilità dei soci per indebita prosecuzione dell’attività d’impresa in caso di azzeramento del capitale. Considerazioni intorno all’art. 2476, ottavo comma, c.c., in questa Rivista, 2023, 443 ss. Per un approccio comparatistico al tema v. P. Agstner, Gli azzardi morali dei soci nelle s.r.l. in crisi, in Società, banche e crisi d’impresa. Liber amicorum Pietro Abbadessa, 3, Torino, Utet, 2014, 2463 ss.
[180] C.A. Nigro, J.R. Stahl, (nt. 102), successivamente supportato dai dati empirici sulle operazioni di trade sale raccolti in B. Bian, Y. Li, C.A. Nigro, Conflicting Fiduciary Duties and Fire Sales of VC-backed Start-ups (July 07, 2023). LawFin Working Paper No. 35, disponibile su SSRN: https://ssrn.com/abstract=4139724. Ancor prima C.A. Nigro, Venture capital-backed firms, trade sales e tutela dell’imprenditore tra shareholder value maximization e equa valorizzazione, Tesi di dottorato discussa il 18 giugno 2019 presso la LUISS Guido Carli di Roma, disponibile su: https://iris.luiss.it/handle/11385/201081.
[181] Per una descrizione del concreto atteggiarsi degli interessi facenti capo a investitore e founders in un’impresa VC-backed, v. P. Agstner, A. Capizzi, P. Giudici, (nt. 1), 379 ss. e, con specifico riferimento alla clausola di liquidation preference, 385-286; per un’analisi empirica della peculiare struttura delle clausole di liquidation preference adottate nell’esperienza di VC italiana v. A. Capizzi, P. Agstner, P. Giudici., (nt. 1), 244 ss. e Eid., The Corporate Design, (nt. 1), 806 ss. Da ultimo M. Maugeri, (nt. 101), 244 ss.
[182] C.A. Nigro, L. Enriques, Venture capital e diritto societario italiano: un rapporto difficile, in AGE, 2021, 149 ss., in part. 172 ss.
[183] V. P. Agstner, A. Capizzi, P. Giudici, (nt. 1), 433 ss.; P. Giudici, P. Agstner, A. Capizzi, (nt. 1), 809, ove ulteriori riferimenti alle due contrapposte tesi e un riferimento alla prassi, evidentemente legata alla (criticata, v. supra il § 3.1.) formalistica impostazione che ritiene rilevante l’esenzione dalle perdite solo se “assoluta e costante”, di prevedere che prima del soddisfacimento del socio-finanziatore tutti i soci debbano ricevere un ammontare compreso tra il valore nominale della partecipazione e 0,01 euro. Per analoghe considerazioni M. Maugeri, (nt. 101), 251.
[184] Sul punto M. Maugeri, (nt. 101), 254 e nt. 32 mette in luce la necessità di raggiungere la prova, alquanto ardua nel caso di specie in cui il socio-finanziatore si limita a perseguire il proprio interesse a una miglior valorizzazione della propria partecipazione, di un intento fraudolento e che, pertanto, propone un criterio “concorsuale” di soluzione del conflitto, mutuato dal noto principio sorto nel diritto della riorganizzazione delle imprese in crisi, in base al quale i valori da porre a raffronto per giudicare della legittimità dell’operazione sarebbero quelli derivanti dalla “liquidazione” (per quanto non propriamente intesa come tale, visto che il liquidity event, soprattutto in caso di share deal, non determina la liquidazione della società, sicché essa va intesa nel senso di valore attribuito all’azienda sociale) e quelli derivanti dalla prosecuzione dell’attività.
[185] Il riferimento è, ovviamente, alla nota, e invero alquanto contestata, decisione della Chancery Court del Delaware, In re Trados Inc. Shareholder Litigation, 73 A.3d 17 (Del. Ch. 2013). Sul punto v., nella dottrina italiana, G.D. Mosco, C.A. Nigro, I doveri fiduciari alla prova del capitalismo finanziario, in AGE, 2021, 257 ss., in part. 269, ove ulteriori riferimenti, e M. Maugeri, (nt. 101), 253. Nella dottrina internazionale v. W.W. Bratton, M.L. Wachter, A Theory of Preferred Stock, in U. Pa. L. Rev., 2013, 1815 ss., in part. 1874 ss. e, da ultimo, lo studio econometrico, critico rispetto alla dottrina Trados, di S. Sanga, E.L. Talley, Don’t Go Chasing Waterfalls: Fiduciary Duties in Venture Capital Backed Startups, in Journ. Leg. Stud., 2024, 21 ss.
[186] Coinvolgendo il delicato profilo della sussistenza di un interesse della società alla propria sopravvivenza nonostante il comportamento “ad effetto dissolutivo” tenuto dai suoi soci, su cui v. per tutti G.C.M. Rivolta, Ragioni dell’impresa e principio di conservazione nel nuovo diritto societario, in Riv. dir. civ., 2007, 561 ss.
[187] V. le opere monografiche di M. Cian, La deliberazione negativa dell’assemblea nella società per azioni, Torino, Giappichelli, 2003, di C.E. Pupo, Il voto negativo nell’assemblea della società per azioni. Profili ricostruttivi dell’abuso di maggioranza e di minoranza, Milano, Giuffrè, 2016, e di E. La Marca, La mancata approvazione della deliberazione assembleare. Deliberazione “negativa”, deliberazione apparente e deliberazione negata, Milano, Giuffrè, 2020. In dottrina v. inoltre G.B. Portale, «Minoranze di blocco» e abuso del voto nell’esperienza europea: dalla tutela risarcitoria al «gouvernement des juges»?, in Eur. dir. priv., 1999, 153 ss., M. Centonze, Qualificazione e disciplina della proposta (c.d. «delibera negativa»), in Riv. soc., 2007, 414 ss.; V. Pinto, Il problema dell’impugnazione della delibera negativa nella giurisprudenza delle imprese, in Riv. dir. civ., 2016, 901 ss.; da ultimo, con aggiornati riferimenti, F. Corazza, Deliberazioni negative e regime codicistico delle invalidità delle deliberazioni assembleari, in Giur. comm., 2022, I, 905 ss.
[188] V. ad esempio gli obiter dicta di Trib. Catania, 10 agosto 2007, in Corr. giur., 2008, 397 ss., con nota adesiva sul punto di M. Cian, Abus d’egalité, tutela demolitoria e tutela risarcitoria, e di Trib. Milano, 28 novembre 2014, in Società, 2015, 689 ss., con note adesive di C. Di Bitonto, Abuso del diritto di voto a carattere ostruzionistico (c.d. «delibere negative»): profili sostanziali, e di M. Gaboardi, Delibera assembleare negativa e tutela cautelare d’urgenza (profili processuali), oltre che in Riv. dir. soc., 2016, 167, con nota critica di A. Pandolfi, L’impugnazione delle delibere assembleari negative, e in Giur. comm., 2016, II, 200 ss., con nota critica di A. Toniolo, La delibera «negativa» dell’assemblea: un futuro ancora incerto.
[189] V. per tutti G.B. Portale, (nt. 187) e più recentemente V. Pinto, (nt. 187), 915.
[190] V. M. Speranzin, Clausole di esclusione e patti parasociali: giurisprudenza tedesca e art. 2473-bis c.c., in Riv. dir. soc., 2007, 147 ss.