Con questo lavoro si critica l’opinione, sostenuta dalla Corte di cassazione italiana e approvata dalla dottrina maggioritaria, per cui il divieto di patto leonino, e quindi il divieto di patti in base ai quali un socio sia escluso dagli utili o dalle perdite, che è posto per le sole società di persone dall’art. 2265 c.c., ciò nondimeno si applicherebbe anche alle società di capitali. Tale conclusione sarebbe imposta da una “rilevanza causale” del divieto rispetto all’intero fenomeno societario o, comunque, là dove esso impedisce un’esenzione dalle perdite, per l’esigenza di assicurare un esercizio “responsabile” dei diritti sociali. L’opinione criticata è indicata come caso emblematico di un atteggiamento incline ad affermare l’esistenza di limiti all’autonomia contrattuale allo scopo, più o meno dichiarato, di prevenire abusi. Si sostiene, invece, che sarebbe più opportuno argomentare l’esistenza di limiti all’autonomia privata individuando preliminarmente gli interessi generali da tutelare, che non si ritiene sussistano nel caso delle pattuizioni leonine. In definitiva, si ritiene che i possibili abusi conseguenti a clausole leonine potrebbero e dovrebbero essere governati non fulminando con la nullità le clausole che potrebbero determinarli, ma reprimendoli se e quando si dovessero effettivamente verificare.
This article criticises the view, supported by the Italian Court of Cassation and endorsed by the majority of the Italian authors, according to which the prohibition of leonine agreements, and thus the prohibition of agreements whereby a shareholder is excluded from profits or losses, which is laid down only for partnerships by Article 2265 of the Civil Code, would nevertheless also apply to corporations. This by virtue of a “causal relevance” of the prohibition of leonine agreements with respect to the entire corporate phenomenon or, in any event, in the hypothesis of exemption from losses, due to the need to ensure a “responsible” exercise of corporate rights by the protected shareholder. The opinion is pointed out as an emblematic case of an attitude inclined to affirm the existence of limits to contractual autonomy for the purpose, more or less declared, of preventing abuses. Instead, it is argued that it would be more appropriate to argue the existence of limits to private autonomy identifying the general interests to be protected through the invalidity instrument, which are not considered to exist in the case of leonine agreements. Ultimately, it is held that possible abuses resulting from leonine clauses could and should be governed not by striking down with nullity such clauses, but by repressing them if and when they actually occur.
1. Piano della ricerca. - 2. Il dibattito in corso sull’estensione del divieto di patto leonino applicato alle società di capitali (il caso delle opzioni put a prezzo predefinito). - 3. Critica alla tesi dominante: il (non convincente) tentativo di riduzione teleologica della fattispecie. - 4. Sulla inapplicabilità del divieto di patto leonino alle società di capitali. - 5. L’argomento orientato alle conseguenze. - 6. L’argomento storico-evolutivo: le alterne vicende del divieto di patto leonino in Italia e il mutato contesto socio-economico. - 7. L’argomento comparatistico: il ridimensionamento del divieto di patto leonino in Fran-cia e in Belgio; la Germania e l’approccio al Missbrauchrisiko in caso di clausole su distribuzione di utili e perdite eccessivamente squilibrate. - 8. Riepilogo e prospettive di futura ricerca: la necessaria tipizzazione delle ipotesi di abuso e la centralità dei rimedi successivi. - NOTE
Ad oggi la possibilità che un socio di società di capitali italiana sia in tutto o in parte reso immune dalle perdite per il tramite di pattuizioni, sociali o parasociali, è questione alquanto controversa. Il nodo di tutta la questione sta nell’interpretazione di una norma espressamente dettata per le sole società di persone, l’art. 2265 c.c., che codifica la norma di risalente tradizione del c.d. divieto di patto leonino stabilendo che «è nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite». Chiamate a pronunciarsi sulla validità delle opzioni put di partecipazioni a prezzo predefinito, standard anche a livello internazionale nelle operazioni di finanziamento privato, la giurisprudenza di legittimità unanime e la dottrina ampiamente maggioritaria: i) prima affermano che dal divieto in parola si ricava un principio generale in base al quale la partecipazione alle perdite costituirebbe elemento caratterizzante del contratto di società; ii) poi lo rendono pressoché innocuo affermando sia che tale esenzione dalle perdite è vietata solo quando è «assoluta e costante», circostanza destinata a non verificarsi quasi mai nella pratica, sia che il divieto non si applicherebbe ai patti parasociali. Di contro, un’agguerrita giurisprudenza delle corti milanesi, pur condividendo le premesse teoriche in tema di rilevanza causale del divieto in parola, non si conforma al tentativo di ridurne il campo di applicazione. Al contrario, le pronunce milanesi fanno emergere le contraddizioni insiste nell’affermazione per cui i patti parasociali costituirebbero un “porto sicuro” per le pattuizioni leonine. La conseguenza è che non di rado dinanzi alle corti meneghine vengono fulminate di nullità tutte le pattuizioni, sociali o parasociali, in odore di violazione del divieto di patto leonino, in specie quelle di opzione put/call. Sotto la superficie di quella che, salvo tutto sommato rare eccezioni, appare una comunanza di vedute sulla rilevanza centrale del divieto di patto leonino per l’intero fenomeno societario, ribolle un complesso problema interpretativo dalle rilevantissime conseguenze economiche. Le pronunce si accumulano e l’incertezza aumenta, complici la incompatibilità della tesi restrittiva con peculiari prassi di [...]
Nell’ambito del finanziamento privato alle imprese è alquanto diffusa la figura delle partecipazioni a scopo di finanziamento (o, che è lo stesso, di finanziamento in forma partecipativa) [4]. Tale forma di finanziamento usualmente prevede una pattuizione – in Italia, per le ragioni che si vedranno, perlopiù parasociale – che prevede in favore del finanziatore, che acquista la qualità di socio dell’impresa finanziata, un’opzione put a prezzo predefinito, ossia la possibilità per il socio finanziatore di provocare l’acquisto a un prezzo fisso della propria partecipazione da parte del socio interessato a che la società sia finanziata. In tal modo il socio-finanziatore si garantisce una più o meno intensa immunità sostanziale dalle perdite e, talvolta, un rendimento minimo garantito “di sostituzione” dell’investimento effettuato. Le opzioni put parasociali a prezzo predeterminato hanno di recente determinato un intenso dibattito in giurisprudenza. Da un lato la Cassazione, nel dichiarato intento di porsi in continuità con un proprio precedente del 1994 [5] che, per la prima volta, aveva affermato la generale applicabilità dell’art. 2265 c.c. a tutte le società, di persone e dei capitali, ha prima ammesso [6] e poi ribadito [7], con decisioni nel cui solco si sono poste numerose pronunce di merito [8], la validità delle clausole (parasociali) in questione. Ciò secondo questo percorso argomentativo: i) il divieto di p.l., seppur espressamente dettato dall’art. 2265 c.c. per la sola società semplice (e quindi, in virtù degli artt. 2293 e 2315 c.c., anche per la s.n.c. e la s.a.s.), si applicherebbe in via interpretativa, in quanto espressione di un principio avente forza imperativa, a tutti i tipi sociali, anche se di capitali; ii) il risultato che precede si imporrebbe poiché il divieto di p.l. sarebbe connaturato alla (anzi, sarebbe addirittura volto a «preservare la purezza» della) causa tipica del contratto di società stabilita dall’art. 2247 c.c., e ciò al fine di tutelare un «generale interesse alla corretta amministrazione delle società», che potrebbe essere intaccato dal (possibile) disinteresse del socio “leone” alla proficua gestione dell’impresa sociale o, addirittura, (dal [...]
La soluzione escogitata dalla Cassazione per non porsi in contraddizione con i propri precedenti circa l’applicabilità del divieto di patto leonino alle società di capitali e, al contempo, affermare la validità delle clausole parasociali put a prezzo predefinito costituisce un classico caso di “riduzione teleologica” della fattispecie. La giurisprudenza, infatti, riduce l’ambito di applicazione del principio imperativo che ha costruito nel momento in cui realizza che la sua applicazione indiscriminata porterebbe a conseguenze inaccettabili [16]. Giova richiamare in sintesi le eccezioni congegnate dalla Cassazione a salvaguardia del principio, che ne esce così riaffermato in astratto, ma in concreto quasi del tutto sterilizzato. Il divieto di patto leonino opera solo nell’ipotesi in cui l’esclusione dalle perdite sia “assoluta e costante”. Anche in caso di esclusione “assoluta e costante” i patti parasociali leonini, che hanno effetti limitati ai soli contraenti, vanno valutati in base non alla regola di cui si ribadisce l’imperatività (il divieto di patto leonino), ma sotto il profilo della meritevolezza degli interessi perseguiti. Nelle pronunce più recenti la Cassazione non richiama invece un altro argomento, molto valorizzato in un precedente del 2000 [17], secondo il quale il divieto di patto leonino non opererebbe qualora il socio esentato dalle perdite non abbia, in ragione dei diritti amministrativi attribuitigli e/o della potenza di voto, la possibilità di incidere sulle dinamiche societarie. Anzi, nella più recente pronuncia in materia [18] è stata affermata la legittimazione di un’opzione put concessa a favore di un socio che deteneva la maggioranza del capitale sociale [19]. Pur perseguendo obiettivi di politica del diritto tutto sommato condivisibili, l’appena descritto apparato di eccezioni non convince. Con esse, infatti, per salvare il principio della generale applicabilità del divieto di patto leonino, ci si avviluppa in una serie di contraddizioni che possono essere risolte solo attaccando la premessa maior, ossia l’applicazione del divieto stesso anche alle società di capitali. Si procederà pertanto prima a mettere in luce la debolezza delle eccezioni all’applicazione del divieto, per poi argomentare la tesi della insussistenza del principio [...]
Esposte le ragioni per cui i tentativi di riduzione teleologica della fattispecie “divieto di esenzione leonina dalla perdite” elaborati dalla Cassazione non convincono, si porrà in dubbio la sua applicabilità alle società di capitali e, comunque, la sua imperatività. A tal fine è necessario, in primo luogo, analizzare criticamente l’affermazione per cui il divieto in questione sarebbe coessenziale allo stesso fenomeno societario, sì che non potrebbe parlarsi di società in presenza di soci esclusi dalle perdite (§ 4.1). Esclusa la imperatività “per coerenza con la fattispecie societaria”, si procederà ad argomentare come non sia comunque possibile ricavare dall’art. 2265 c.c. un principio imperativo (§ 4.2). Esclusa la possibilità di affermare l’imperatività del principio di divieto di esenzione dalle perdite, si indagheranno le ragioni che, comunque, hanno indotto per così lungo tempo dottrina e giurisprudenza ad affermare il contrario (§ 4.3). 4.1. L’estensione del divieto di patto leonino alle società di capitali non è imposta da alcuna necessità di coerenza con la causa societaria né di preservazione di una sua supposta “purezza”. Il discorso sull’applicabilità del divieto di patto leonino alle società di capitali è opportuno muova dalla distinzione tra utili e perdite registrati dalla società e incremento o decremento del valore della partecipazione sociale del singolo socio [52]. é sulla base di tale distinzione che alcuni autori affermano: i) l’irrilevanza ai fini del divieto di patto leonino dell’esclusione dagli utili o dell’esenzione dalle perdite individuali, così rigettando la teoria che rinviene la giustificazione del divieto nella necessità di assicurare un responsabile esercizio dei diritti sociali e, invece, affermando la validità di tutti quei patti tra soci volti a regolare il trasferimento della partecipazione, e quindi a regolare il regime delle perdite individuali [53]; ii) che comunque non potrebbe ammettersi una partecipazione sociale che veda il socio escluso dalle perdite o esentato dagli utili, così affermando l’invalidità di patti, sociali o parasociali, che in concreto determinino tale [...]
Il canale bancario, a tutt’oggi ancora centrale per il finanziamento delle imprese [98], oltre a subire una generale contrazione si è dimostrato incapace, per le sempre più stringenti regole prudenziali successivi alla grande crisi economica del 2007-2011, di finanziare imprese ad alta capacità innovativa e di crescita ma prive di adeguati collaterali. Ciò, in una chiave di necessaria differenziazione, ha comportato una sempre maggior rilevanza del finanziamento privato di Private Equity o Venture Capital [99] che, come s’è detto, spesso viene veicolato in partecipazioni a scopo di finanziamento con annesse opzioni put a prezzo predefinito, ma che in Italia cresce ad un ritmo inferiore rispetto agli altri paesi europei [100]. La tesi che si sostiene in questo lavoro parte quindi dalla dichiarata intenzione di costruire, per quanto possibile, un ambiente normativo capace di accogliere una forma di finanziamento dell’attività d’impresa dall’importanza cruciale per lo sviluppo dell’economia nazionale [101]. In tale dichiarato contesto argomentativo orientato alle conseguenze, è necessario prendere in considerazione quello che è un argomento, spesso non dichiarato ma che emerge in trasparenza, alla base di quelle ricostruzioni che circondano di divieti imperativi l’agire del finanziatore privato. Ad una prima sommaria analisi, infatti, potrebbe sembrare che, grazie alla particolare ibridazione di caratteristiche strutturali del capitale di debito e di rischio propria delle partecipazioni a scopo di finanziamento, ancor più se assistite da un patto di esenzione o immunità dalle perdite, il socio finanziatore abbia ampio spazio per “approfittarsi” dell’inerme finanziato (il socio imprenditore). Il finanziatore può ottenere, e normalmente ottiene, vantaggi che potrebbero apparire agli occhi dell’interprete del tutto spropositati, e come tali non meritevoli di tutela, così aprendosi la strada ad interventi eteronomi sotto il segno dell’invalidità per contrarietà a norme imperative. È però opportuno sin da subito sgombrare il campo da queste tentazioni. Un’attenta considerazione degli interessi in gioco e della struttura di questo particolare mercato fa comprendere come è la rischiosità dell’investimento, con tutti i conseguenti [...]
La questione della validità dei patti parasociali “leonini” o “para-leonini” è oggetto di un peculiare processo di evoluzione delle idee che conviene per sommi capi ricostruire al fine di individuare il contesto socio-economico in cui si sviluppò l’idea della c.d. transtipicità del divieto di patto leonino, veicolata tramite l’affermazione di un principio generale di tutto il diritto societario per cui il socio dovrebbe sempre necessariamente essere esposto a un rischio apprezzabile d’impresa, che nel caso di società di capitali significherebbe null’altro che rischio di perdere il proprio investimento. Ciò non tanto al fine di sostenere la necessità di un’interpretazione psicologica dell’art. 2265 c.c., tale per cui non sarebbe possibile che una norma di legge assuma nel tempo significati diversi rispetto a quelli originariamente voluti dal legislatore storico [105], quanto per mettere in luce il profondo mutamento che hanno subito le condizioni socio-economiche di riferimento rispetto all’epoca in cui la tesi in contestazione si è sviluppata e, così, per sostenere la necessità di un’interpretazione evolutiva dell’art. 2265 c.c. che ne escluda tout court l’applicazione alle società di capitali. 6.1. Gli anni ’20 del XX sec.: l’atteggiamento riduzionista nei confronti del divieto del patto leonino. Nella prima metà del secolo scorso, vigente l’art. 1719 del codice civile del 1865, espressamente dettato per la sola società civile, era del tutto pacifica l’opinione secondo la quale solo la partecipazione agli utili fosse coessenziale alla causa delle società. Il divieto di esonero dalle perdite, pur codificato, si riteneva rispondesse a ragioni di stampo morale e politico, figlie del divieto canonico dell’usura, perciò insuscettibili di estensione alle società di capitali [106]. Ad esempio, in una vicenda processuale degli anni ’20 che vide coinvolti alcuni maestri del diritto commerciale dell’epoca, la Corte d’Appello di Roma, nell’escludere espressamente l’applicabilità del divieto di patto leonino alle società di capitali, affermò espressamente che il divieto di esenzione dalle perdite, sconosciuto al diritto romano [107] e nato nel diritto canonico [108], [...]
La tesi che si intende sostenere è supportata dall’argomento comparatistico [158], nel senso che interessa rilevare non tanto l’ovvio, ossia che molti ordinamenti al mondo non conoscono minimamente un divieto di esenzione dalle perdite e negano che la partecipazione ad esse possa costituire un requisito indefettibile del fenomeno societario [159], ma che anche quegli ordinamenti che tale divieto conoscono, anche in misura molto più severa ed esplicita di quello italiano, hanno da tempo imboccato un percorso volto a relativizzarlo ed aggiornarlo rispetto alle mutate esigenze della realtà economico-sociale. Da tali osservazioni dovrebbe emergere con ancor più evidenza la già segnalata relatività – geografica, storica, culturale, ideologica ed economica – delle soluzioni prospettate al fine di risolvere l’interrogativo che ci si è posti [160]. Un processo di ridimensionamento del divieto di patto leonino analogo a quello in atto nell’ordinamento italiano si è avuto in Francia, ove il divieto di patto leonino è espressamente previsto per tutti i tipi sociali. L’art. 1844-1 del Code Civil, collocato dal 1978 tra le disposizioni generali dettate per le società, stabilisce infatti l’inefficacia di qualsiasi pattuizione che escluda un socio dalla «totalità delle perdite» [161]. Nonostante tale inequivocabile disposizione normativa, in Francia gli accordi di riacquisto delle partecipazioni (engagements de rachat de parts sociales) sono considerati leciti sin dagli anni ’80 del secolo scorso. La Chambre commerciale della Cour de Cassation ha infatti affermato la validità di siffatte pattuizioni fatto salvo, significativamente per quanto s’è già osservato [162], il caso di frode [163]. Successivamente, all’esito di un vivace confronto tra le sue due Chambres (civile e commerciale) [164], nei primi anni 2000 la cassazione transalpina ha definitivamente ammesso la legittimità degli engagements de rachat, considerando la garanzia di riacquisto quale equa contropartita del «service financier» prestato (alla società) dal socio finanziatore, ma a condizione che contengano degli elementi utili ad escludere la possibilità d’abuso: fissazione di un prezzo minimo [165] o di un termine per l’esercizio [...]
In questo lavoro si è contestata la fondatezza della convinzione, alquanto diffusa nella dottrina e giurisprudenza italiane, secondo la quale il divieto di patto leonino, formalmente sancito dall’art. 2265 c.c. per le sole società di persone, si applicherebbe anche alle società di capitali, soprattutto per quanto riguarda il divieto di esenzione dalle perdite. Ciò con tre autonomi e a volte sovrapposti argomenti, tutti oggetto di critica: a) al fine di preservare la “purezza” di una causa societatis che si ritiene presupponga imperativamente la sopportazione di un minimo di perdite o la partecipazione ad un minimo di utili; b) richiamando le norme sulla riduzione del capitale per perdite; c) al dichiarato fine di evitare l’esercizio irresponsabile dei diritti sociali. Tale affermazione di principio viene però poi temperata da tre casi esemplari, ma dal fondamento altrettanto discutibile, di riduzione teleologica della fattispecie: d) l’esclusione da utili e perdite deve essere assoluta e costante; e) il divieto non si applica ai patti parasociali; f) il divieto non opera se il socio non è in grado di influire sulla vita sociale. La tesi che si è tentato di dimostrare è invece quella per cui al fondo della tesi avversata, spogliata dei suoi presupposti concettualistici, sta l’intento pratico, diffuso in ambiti ben più ampi rispetto a quello oggetto d’indagine [174], di governare con lo strumento dell’invalidità il “rischio d’abuso”. Tesi che, però, non convince in ragione di un triplice ordine di argomenti: quello orientato alle conseguenze; quello storico-evolutivo; quello comparatistico. La posizione critica che si è assunta non significa negare la necessità di approntare adeguati rimedi al rischio d’abuso. L’individuazione di tali rimedi deve però necessariamente essere preceduta da un’opera di sistemazione, che in questa sede può solo abbozzarsi nelle sue linee essenziali, delle possibili ipotesi d’abuso da parte del socio “leone” e dei possibili rimedi, diversi dalla nullità, a tal scopo approntati dall’ordinamento, per poi tentare di ricondurre ad unità le svariate ipotesi in base ad un criterio ordinatore orientato all’efficiente gestione dell’impresa. Qualunque sia la risposta che si intende fornire alla [...]