Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeISSN 2282-667X
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Il ruolo degli investitori istituzionali passivi nella governance delle società quotate: problemi aperti e prospettive (di Eugenio Sabino, Dottorando di ricerca di diritto commerciale, Università degli Studi di Torino)


Negli ultimi anni, il mercato dei capitali sta assistendo ad una sempre maggiore presenza di investitori istituzionali che adottano strategie di investimento passive nell’azionariato di società quotate. Tuttavia, l’analisi delle implicazioni che l’adozione di simili strategie di investimento può avere sulla corporate governance sembra tutt’ora palesare alcune zone d’ombra, che appaiono meritevoli di essere meglio esplorate alla luce dell’attuale quadro normativo, teso a promuovere l’impegno a lungo termine da parte degli azionisti. Nello scenario delineato, il presente lavoro si propone di indagare il ruolo degli azionisti istituzionali passivi nelle società quotate italiane ai fini della promozione di un modello di governance che riponga maggiore attenzione alla sostenibilità dell’impresa.

The role of passive institutional investors in the governance of listed companies: open issues and perspectives

In recent years, the capital market has been witnessing an increasing presence of institutional investors adopting passive investing strategies in the shareholders’ structure of listed companies. However, the implications that such investment strategies may have on corporate governance still seems to show certain shadow areas that deserve to be better explored, also in light of the current regulatory framework aimed at promoting a long-term shareholders engagement. Moving from this background, the article aims to investigate the potential role that passive institutional investors may have in the Italian listed companies for the promotion of a governance model that places greater emphasis on corporate sustainability.

Sommario/Summary:

1. Premessa e piano d’indagine. - 2. Considerazioni introduttive sul ruolo degli investitori istituzionali come azionisti delle società quotate nel quadro normativo delineato dalla Shareholders Rights Directive II. - 3. Alcune riflessioni sulle implicazioni derivanti dall’adozione di strategie di investimento passive nella governance delle società quotate. - 4. Investitori istituzionali passivi e politiche di engagement: lineamenti del dibattito. - 5. Engagement tra azionisti istituzionali e amministratori delle società quotate italiane: problemi e ipotesi. - 6. Viribus unitis: il coordinamento tra azionisti istituzionali quale possibile soluzione al problema del c.d. "short-termism". - NOTE


1. Premessa e piano d’indagine.

La crescente presenza degli investitori istituzionali nell’azionariato delle società italiane rende oltremodo attuale interrogarsi in merito alle implicazioni che la presenza di tali soggetti ha (ovvero può avere) sul perseguimento da parte del consiglio di amministrazione di politiche di gestione maggiormente responsabili e tendenti alla creazione di valore nel lungo termine. I lineamenti del dibattito sull’attivismo degli investitori istituzionali e sulle relative implicazioni di governance sono ben noti in letteratura [1]. Al contempo, però, pare opportuno rilevare come, nella maggior parte dei casi, questo tema sembri esser stato analizzato senza prestare adeguata attenzione alla particolare natura delle strategie di investimento perseguite da un determinato azionista istituzionale [2]. Quella degli investitori istituzionali, non deve dimenticarsi, è una categoria che tanto per varietà di interessi di cui sono portatori, quanto per una differente lunghezza del relativo orizzonte di investimento, appare difficilmente inquadrabile in termini unitari. Ed infatti, un conto è la strategia di investimento adottata da un investitore istituzionale attivo e speculativo (essenzialmente hedge funds), la quale consiste tipicamente nell’intervenire in società con problematiche di governance allo scopo di realizzare rendimenti elevati e, conseguentemente, aumentare il valore dell’investimento [3]; ben altro è la strategia di investimento c.d. “passiva” adottata dai fondi comuni indicizzati (tra i quali gli Exchange Traded Funds – ETF) [4]. Quest’ultima, infatti, si caratterizza per il fatto di avere ad oggetto una o più società che afferiscono alla composizione di un dato indice azionario di riferimento (tra gli altri, basti pensare all’indice S&P 500), e consiste nel replicarne tanto il rischio quanto il rendimento complessivo. In particolare, gli investitori passivi, a differenza di quelli attivi e speculativi, non possono esercitare alcuna discrezionalità in ordine all’acquisto ovvero alla vendita delle azioni possedute al fine di cogliere eventuali opportunità di investimento favorevoli, dal momento che le loro scelte di investimento sono esclusivamente dettate dalla composizione dell’indice assunto come benchmark in relazione al portafoglio gestito. Per rispondere a tale esigenza di [...]


2. Considerazioni introduttive sul ruolo degli investitori istituzionali come azionisti delle società quotate nel quadro normativo delineato dalla Shareholders Rights Directive II.

Gli investitori istituzionali ricoprono un ruolo importante nelle società quotate nei mercati regolamentati, posto che non di rado gli stessi sono titolari di partecipazioni di significativa entità (ancorché di minoranza) e cercano di raggiungere per lo più obiettivi di carattere finanziario [10]. Anche per tale ragione è stato a più riprese auspicato, nel contesto di diversi ordinamenti, un maggiore coinvolgimento dell’azionista istituzionale nelle dinamiche assembleari e, parimenti, si è cercato di incoraggiare l’adozione di strumenti che possano promuovere in maniera efficace tale partecipazione (c.d. “shareholder empowerment”) [11]. Il tema in esame pare di indubbia attualità, posto che da qualche anno ormai rappresenta una fra le priorità nell’agenda politica del legislatore comunitario in materia societaria [12]: ci si riferisce, in particolare, alla direttiva (UE) 2017/828 (c.d. Shareholders Rights Directive II o “SHRD II”). Da un lato, l’intento del legislatore europeo appare commendevole, in quanto connotato da una preferenza verso l’adozione di strategie di investimento di lungo periodo che siano suscettibili di perseguire uno sviluppo sostenibile dell’impresa, in luogo di forme di attivismo meramente orientate alla creazione di valore nel breve termine. Dall’altro lato, tuttavia, è da osservare che il legislatore comunitario parrebbe non aver preso in adeguata considerazione alcune problematiche connesse al peculiare ruolo che gli azionisti-investitori istituzionali sono chiamati a ricoprire nelle società quotate. In particolare, l’approccio seguito dal legislatore sembra fondarsi su un dato che, a ben vedere, appare tutt’altro che scontato; ossia che gli investitori istituzionali (nella loro qualità di azionisti di società quotate) siano portatori di istanze imprenditoriali e, parimenti, interessati a divenire soci più stabili [13]. Per meglio comprendere quanto si viene dicendo, basterà soffermarsi, seppur brevemente, su alcune caratteristiche e logiche di funzionamento degli investitori istituzionali. Tali soggetti non gestiscono le partecipazioni acquistate nel loro interesse (per così dire “individuale”), ma operano piuttosto nell’interesse di coloro i quali hanno reso disponibile il denaro che costituisce oggetto [...]


3. Alcune riflessioni sulle implicazioni derivanti dall’adozione di strategie di investimento passive nella governance delle società quotate.

Veniamo adesso a soffermarci più compiutamente sulle caratteristiche che valgono a contraddistinguere la categoria degli investitori istituzionali che adottano strategie di investimento passive [17]. Come già si è avuto modo di chiarire, gli investitori passivi (es. i fondi comuni indicizzati tra cui gli ETF), a differenza degli investitori attivi e speculativi (es. gli hedge funds), non possono esercitare alcuna discrezionalità in ordine all’acquisto ovvero alla vendita delle azioni possedute al fine di cogliere eventuali opportunità di investimento favorevoli, dal momento che le loro scelte di investimento sono esclusivamente dettate dalla composizione dell’indice assunto come benchmark in relazione al portafoglio gestito. Ne consegue che questi ultimi, per aumentare il valore del portafoglio, non possono incrementare il peso delle società ritenute maggiormente redditizie, ma devono necessariamente operare in ottica di riduzione del rischio sistematico di portafoglio. A tale riguardo, è interessante notare come il monitoraggio delle esternalità generate dalle società partecipate assuma un’importanza strategica ai fini dell’attuazione di politiche di engagement [18], posto che consente al gestore del portafoglio di ottenere una qualche visibilità sulle ripercussioni negative che dette esternalità possono avere non tanto sulla performance finanziaria della singola società che le ha generate quanto piuttosto sull’attività e sui risultati di altre società che pure fanno parte del portafoglio medesimo. Simili considerazioni inducono a ritenere che gli investitori istituzionali passivi – tanto nella loro qualità di soci, quanto in quella di potenziali investitori – potrebbero rivelarsi i destinatari elettivi dell’informazione non finanziaria prevista dalla Corporate Sustainability Reporting Directive [19]. La produzione, da parte delle società partecipate, di report di sostenibilità affidabili e comparabili assolverebbe ad una duplice finalità: per un verso, agevolare i gestori di fondi passivi (e, in particolare, quelli orientati ai fattori ESG ovvero basati su strategie che perseguono obiettivi di impatto sociale o ambientale) in ordine allo svolgimento di un adeguato monitoraggio dei possibili impatti derivanti dalle esternalità poc’anzi richiamate. Per [...]


4. Investitori istituzionali passivi e politiche di engagement: lineamenti del dibattito.

Il dibattito sulle implicazioni che la presenza degli investitori istituzionali passivi ha sul governo delle società partecipate ruota attorno ad alcuni interrogativi di fondo [29]. Ai fini che qui interessano, sembra utile soffermarsi su quello concernente l’eventuale presenza di adeguati incentivi a promuovere una governance al livello delle società partecipate che abbia altresì riguardo di tematiche concernenti la sostenibilità dell’impresa nel lungo periodo. Secondo un primo orientamento [30], tali soggetti non avrebbero incentivi rilevanti dal punto di vista economico ad intraprendere attività di engagement con gli amministratori delle società partecipate. Ciò in quanto tali attività comporterebbero costi significativi, che in alcuni casi rischiano di rivelarsi di gran lunga maggiori rispetto ai potenziali benefici connessi a tali iniziative [31]. Nella prospettiva qui adottata, è alquanto inverosimile che gli investitori istituzionali (soprattutto quelli di maggiori dimensioni) siano in grado di intraprendere iniziative di engagement che tengano in adeguata considerazione le peculiarità volta a volta riscontrabili al livello di ciascuna fra le decine di migliaia di società che sono ricomprese nel portafoglio gestito [32]. Peraltro, occorre tener presente che la partecipazione posseduta da un fondo passivo in una determinata società in portafoglio, per quanto possa apparire significativa se considerata in quanto tale, rimane comunque di modesta entità (sotto il profilo dei rendimenti attesi), ove la stessa venga presa in considerazione nel più ampio spettro degli investimenti che fanno complessivamente capo al gestore [33]. Il ragionamento condotto finora induce a ritenere, dunque, che il potenziale guadagno che ci si può attendere dall’engagement finisce, di fatto, per avere un rilievo alquanto marginale sulla performance complessiva del gestore. Secondo quanto è stato rilevato in dottrina, vi sarebbe poi un problema di free riding ad aggiungere un’ulteriore dimensione di complessità al fenomeno in esame [34]. Si consideri lo scenario di una società che fa parte di un indice replicato da tre ETF, i quali fanno capo a tre gestori differenti. Ipotizziamo a questo punto che soltanto uno fra i predetti azionisti decida di investire ingenti somme di denaro per avviare [...]


5. Engagement tra azionisti istituzionali e amministratori delle società quotate italiane: problemi e ipotesi.

Come già si è avuto modo di anticipare, uno dei principali obiettivi perseguiti dal legislatore europeo attraverso l’introduzione della SHRD II è quello di promuovere un coinvolgimento di lungo periodo più efficace da parte degli azionisti (e, con particolare riferimento alla figura dell’azionista istituzionale, una maggiore responsabilizzazione in ordine all’attività di monitoraggio delle società oggetto di investimento) [46]. Volgendo lo sguardo all’ordinamento italiano, occorre notare come il d.lgs. 10 maggio 2019, n. 49, dando attuazione alla SHRD II, abbia condotto all’introduzione dell’art. 124-quinquies t.u.f. [47] secondo cui gli investitori istituzionali (e i gestori di attivi) sono tenuti ad adottare e a pubblicare sul proprio sito internet una politica di impegno (engagement policy) che, tra le altre cose, descriva le modalità attraverso le quali questi ultimi «monitorano le società partecipate su questioni rilevanti, compresi la strategia, i risultati finanziari e non finanziari nonché i rischi, la struttura del capitale, l’im­patto sociale e ambientale e il governo societario, dialogano con le società partecipate, esercitano i diritti di voto e altri diritti connessi alle azioni, collaborano con altri azionisti, comunicano con i pertinenti portatori di interesse delle società partecipate e gestiscono gli attuali e potenziali conflitti di interesse in relazione al loro impegno». Nello scenario delineato, dunque, il momento del dialogo tra gli azionisti istituzionali, da un lato, e gli amministratori delle società partecipate, dall’altro lato, sembra assumere un’importanza cruciale in ordine alla definizione di adeguate procedure organizzative e gestionali dell’attività di engagement [48]. Ma, è il caso di domandarsi, come si colloca la fattispecie del dialogo tra azionisti istituzionali e amministratori nell’ambito dei principi generali che presiedono al funzionamento del sistema di diritto societario [49]? Per rispondere a tale interrogativo, va anzitutto verificata la coerenza dell’engagement con la ripartizione inter-organica di competenze all’interno della società per azioni e, più in dettaglio, con il principio di competenza gestoria esclusiva degli amministratori previsto dall’art. 2380-bis c.c. Tale [...]


6. Viribus unitis: il coordinamento tra azionisti istituzionali quale possibile soluzione al problema del c.d. "short-termism".

Il ruolo degli investitori istituzionali passivi appare meritevole di essere altresì esplorato in una diversa ed ulteriore prospettiva: le possibili implicazioni per le campagne attiviste intraprese da investitori attivi speculativi (essenzialmente hedge funds), avendo riguardo al ruolo che i primi possono giocare in relazione al comportamento e alle strategie di investimento adottati dai secondi [64]. Nella prospettiva prescelta, dunque, occorre indagare se la condotta dei gestori di fondi passivi (si precisi, da considerarsi nella loro posizione di “long-term shareholders”) possa in qualche modo atteggiarsi a presidio garantistico contro il problema del c.d. “short-termism” [65], ossia la tendenza a ricercare una remunerazione nel breve termine, trascurando di curare la redditività dell’investimento azionario in una prospettiva di lungo termine. La questione ha senso di porsi in quanto, di frequente, i principali asset managers gestiscono una pluralità di fondi (c.d. “family funds”) le cui strategie di investimento sono caratterizzate da diversi orizzonti temporali e mirano al perseguimento di risultati differenti. In un simile scenario, si può supporre che il possibile coordinamento tra differenti tipologie di azionisti istituzionali potrebbe rivelarsi una soluzione di compromesso tra le istanze vantate da questi ultimi, le quali possono divergere tanto per eterogeneità di interessi quanto per una differente lunghezza dell’orizzonte di investimento [66]. I gestori di fondi passivi, a ben vedere, potrebbero rivelarsi un partner strategico nel contesto di una campagna attivista intrapresa da un hedge fund, dal momento che potrebbero giocare un ruolo decisivo in ordine al successo della campagna medesima. Non di rado, infatti, gli investitori attivi speculativi sono titolari di partecipazioni che, arrestandosi intorno alla soglia del 10%, risultano chiaramente insufficienti per consentire loro un controllo (ovvero un potere di blocco) dell’assemblea della società partecipata [67]. Sotto quest’angolo visuale, non è dunque da escludersi che l’esito di una campagna attivista avviata da un hedge fund venga a dipendere, in maniera pressoché decisiva, dalla capacità di quest’ultimo di persuadere gli azionisti istituzionali passivi (che, si precisi, facciano parte della medesima compagine sociale) circa il [...]


NOTE
Fascicolo 1 - 2024