Nella giurisprudenza nazionale risulta incerta la validità delle opzioni put a prezzo definito, di frequente incluse nei contratti di finanziamento mediante venture capital, in quanto ritenute potenzialmente in contrasto con il divieto di patto leonino. Nel contributo si critica la tesi dominante, favorevole all’estensione a livello parasociale dei vincoli normativi fissati per il piano sociale, tra cui l’art. 2265 c.c., e si suggerisce l’inquadramento della questione della validità delle opzioni put nell’ambito dell’ordinaria disciplina contrattuale, considerando in particolare la meritevolezza di tutela giuridica del patto alla luce della sua causa in concreto.
In the national case law, it is quite uncertain if put options, frequently included in venture-capital financing contracts, are valid or not, because they supposedly infringe a mandatory provision included in company law (art. 2265 of Italian civil code). The approach pretending to extend to shareholder agreements the mandatory corporate law provisions can be criticized on several respects and overcome, in favor of an assessment based on the purpose and the effects of that contract.
1. Introduzione. - 2. Le ragioni della affermata invalidità delle opzioni put adottate nelle operazioni di venture capital: il contrasto con l'art. 2265 c.c. - 3. Critica alla tesi della nullità dell'opzione put per contrasto con norma imperativa societaria. - 4. Critica alla tesi della nullità dell'opzione put per elusione di norma imperativa societaria. - 5. Il giudizio di validità delle opzioni put alla luce della c.d. "causa in concreto" del contratto. - NOTE
Il tema della validità delle clausole parasociali adottate nelle operazioni di venture capital e potenzialmente interferenti con il divieto di patto leonino si è posto a livello giurisprudenziale, ed è stato poi approfondito sul piano dottrinale, specialmente con riguardo ad opzioni c.d. “put” che prevedano un diritto di vendita delle partecipazioni a un prezzo predefinito – normalmente il prezzo di acquisto, maggiorato di un tasso di interesse. L’aspetto problematico di tali pattuizioni si collega, in realtà, alla costruzione complessiva dell’operazione economica, e in particolare al fatto che: i) l’operatore di venture capital, partecipando al capitale dell’impresa, è titolare delle prerogative proprie del socio, tra cui l’esercizio del diritto di voto; ii) in ragione di specifici patti parasociali, egli è spesso in grado di esprimere una rappresentanza nel consiglio di amministrazione, quindi di influenzare la gestione dell’impresa; e iii) tuttavia, sempre in virtù di un patto parasociale stipulato con l’imprenditore/founder dell’impresa, è di fatto reso immune dalle eventuali perdite realizzate dall’impresa tra il momento dell’ingresso a quello dell’exit, perché, nella peggiore delle ipotesi – ossia ove non dovessero emergere più convenienti possibilità di disinvestimento (tra cui, per es., la possibilità di Ipo) –, egli avrà diritto di vendere le partecipazioni al prezzo predefinito, e cioè sostanzialmente al rimborso di quanto versato, maggiorato di un tasso di interesse [1]. Da qui, il sospetto di possibile contrasto di tali clausole con il divieto di patto leonino e, quindi, di possibile invalidità dell’opzione put. La tesi che vorrei sostenere, in questa sede, è che l’art. 2265 c.c. non costituisce di per sé un limite di validità delle opzioni parasociali “put” a prezzo predefinito, ma che per tali clausole il giudizio di validità debba essere formulato caso per caso, alla luce del concreto atteggiarsi del patto, del contesto societario nel quale questo si inserisce, degli obiettivi che persegue e degli effetti cui può dar luogo; il giudizio di validità è ancorato, cioè, a una valutazione di meritevolezza della tutela giuridica in considerazione della c.d. [...]
Nella giurisprudenza in materia, la nullità dei patti sopra descritti è ricondotta, come si diceva, al possibile contrasto con il divieto di patto leonino, ossia al contrasto con norma imperativa – e più nello specifico, con norma imperativa societaria. Invero, la questione della nullità dei patti parasociali per sospetto contrasto con il divieto sancito dall’art. 2265 c.c. sembrava poter essere superata dalla netta presa di posizione da parte della Cassazione nelle ben note ordinanze del 2018 [2], con le quali la Corte qualificava la previsione di divieto come funzionalmente rivolta a «preservare la purezza della causa societatis» – causa che vede, tra i suoi tratti distintivi essenziali, proprio la partecipazione del socio agli utili o alle perdite dell’impresa – e, per tale via, limitava l’operatività del divieto alle clausole sociali, escludendone l’applicazione ai patti parasociali, in quanto destinati ad operare su un piano diverso, ossia quello della relazione contrattuale tra singoli soci. Tuttavia, gli effetti auspicati di limitazione dell’incertezza in ordine alla rilevanza, a livello parasociale, del divieto di patto leonino, come pure l’aspettativa di una contrazione della casistica in materia di validità delle clausole parasociali ad effetto “leonino”, non sembrano essersi pienamente realizzati. Resiste, infatti, un orientamento di merito, al momento forse minoritario, che continua a sottoporre tali clausole a un giudizio di validità basato sul contrasto con il divieto il divieto di patto leonino e a sostenere, con i percorsi argomentativi di cui si dirà, la nullità del patto per contrasto con l’art. 2265 c.c. [3]. La riemersione del tema a livello giurisprudenziale impone di misurarsi nuovamente con la questione della validità di patti parasociali interferenti il divieto di patto leonino, e quindi con la possibilità di richiamare direttamente le norme imperative e i principi del diritto societario come criterio per sindacare la validità dei patti parasociali. Le posizioni, sul tema, sono piuttosto eterogenee, con una prevalenza – sembrerebbe – della soluzione positiva. La tesi, come è noto, si fonda a livello sistematico dall’idea di un “collegamento negoziale” tra contratto sociale e patto parasociale, in virtù [...]
Diverse sono le ragioni che inducono a ritenere poco convincente la tesi che fa discendere la nullità del patto parasociale dal mero riscontro del contrasto con una norma imperativa societaria. In primo luogo, tale tesi appare non del tutto coerente con le caratteristiche proprie del contratto parasociale, per come risultanti dall’evoluzione della fattispecie e per come cristallizzate nella giurisprudenza di legittimità. La validità di principio dei contratti parasociali è ancorata, come è noto, a un presupposto di neutralità giuridica del patto rispetto alla società, e quindi a un presupposto di netta separazione tra sociale e parasociale [8]: il patto parasociale istituisce una relazione personale tra soci, ha un’efficacia puramente inter partes e non è idoneo a produrre effetti giuridici nei confronti della società e dei terzi; non è opponibile a terzi, non incide sulla validità delle decisioni e degli atti sociali, né i contenuti del patto possono trovare attuazione coattiva mediante provvedimenti di esecuzione forzata diretta, con effetto corporativo [9]. Il rapporto tra patti parasociali e attività sociale è retto, quindi, da un rigido principio di separazione (il c.d. Trennungsprinzip di tradizione tedesca); principio non solo ribadito nelle ordinanze della Cass. del 2018, ma anche individuato come cardine della decisione: giacché il divieto di patto leonino afferisce, secondo i giudici, alla “causa societaria”, l’applicazione dell’art. 2265 c.c. deve essere circoscritta alle clausole statutarie e agli atti sociali, ossia al contesto nel quale una clausola “leonina” può effettivamente essere in grado di alterare la struttura e la funzione del contratto sociale o di incidere sullo status di socio [10]. Se la relazione tra piano sociale e piano parasociale è caratterizzata da fisiologica e necessaria separazione, sembra allora contraddittorio definire la validità dei patti parasociali sulla base di vincoli normativi che sono stati dettati, e sono destinati ad agire, su un piano diverso, che è quello sociale. L’approccio ricostruttivo fondato sul richiamo alle norme imperative societarie, in altri termini, non convince proprio nel suo presupposto argomentativo centrale, ossia nel tentativo di assimilazione di patti parasociali e patti sociali, che [...]
Per ragioni analoghe a quelle prima esposte, appare poco convincente la tesi per cui le opzioni put a prezzo definito adottate nelle operazioni di venture capital sono da intendersi come nulle perché elusive del divieto di patto leonino, sancito in una norma imperativa societaria [23]. In generale, il ricorso al criterio della frode alla legge per sostenere l’applicazione, a livello parasociale, di vincoli che valgono, al più per il piano sociale, non sembra particolarmente persuasivo e non sembra discostarsi, negli effetti, dalla tesi del collegamento negoziale. Se, infatti, l’eventuale contrasto con una norma imperativa arriva ad incidere sull’oggetto o sulla causa del programma pattizio parasociale (p.e. impegno a indirizzare l’azione della società in una direzione illecita), allora il patto parasociale è già di per sé nullo [24], senza necessità di ricorrere all’art. 1344 c.c. Se invece i risultati che il patto intende raggiungere sono, in quanto tali, leciti, ma la loro traduzione in un atto societario (clausola statutaria o delibera), sarebbe vietata da una norma imperativa (p.e. la conferma ultratriennale di un amministratore nella spa), il patto parasociale potrà rimanere valido; la sua eventuale traduzione in un atto societario sarebbe soggetta a sindacato giudiziario, ma non vi è necessità di invalidazione del patto parasociale “a monte”. Peraltro, nella ricostruzione prospettata, anche a proposito delle opzioni put a prezzo predefinito, non sembra rintracciarsi un effetto di elusività; a meno che non lo si voglia cogliere nel fatto che quella clausola avrebbe trovato una sua collocazione preferenziale a livello sociale, ma che, non potendo costituire valido oggetto di una clausola statutaria, perché in contrasto con l’art. 2265 c.c., la previsione sia stata inserita in un patto parasociale. Si tratterebbe, tuttavia, di una ricostruzione poco persuasiva, perché sottintende una idea di fungibilità tra patto parasociale e clausole sociali, trascurando la differenza sostanziale tra le due forme di espressione dell’autonomia privata.
Date le specificità del contratto parasociale e data soprattutto la centralità che, nella disciplina dei patti parasociali, assume il principio di separazione tra ambito sociale e ambito parasociale, sembrerebbe più convincente strutturare il giudizio di validità dei patti parasociali, incluso il patto contenente una opzione put, in modo autonomo rispetto al giudizio di validità delle clausole statutarie e degli atti sociali, inquadrandolo nell’ordinaria disciplina contrattuale e verificando se, nel caso di specie, ricorre una della cause di nullità normativamente previste nel diritto generale delle obbligazioni e nella disciplina specifica dei patti parasociali. Nel caso di patti parasociali, le ipotesi di nullità c.d. testuali sono, com’è noto, assai limitate [25] e non sembra ricorrano con riguardo alle clausole che qui si esaminano. Potrebbero, in ipotesi, anche aversi patti di contenuto oggettivamente contra legem, perché in violazione di specifici divieti legali o amministrativi (patti atti a integrare un’intesa restrittiva della concorrenza [26], patti che prevedano l’impegno dei soci a votare a favore della distribuzione di riserve sociali non disponibili, in contrasto con il divieto posto dall’art. 2626 c.c.) applicabili al contratto parasociale – nullità ricondotta, in questo caso, alle cause descritte nel secondo comma dell’art. 1418 c.c. Tuttavia, neppure tale ipotesi sembra ricorrere nel caso di opzioni put. Nell’ipotesi qui considerata, dunque, l’analisi del mero oggetto del contratto non risulta dirimente ai fini del giudizio di validità, a meno che non si voglia dare automatico rilievo, a livello parasociale, alle norme imperative societarie, prospettiva che qui si esclude, per le ragioni prima esposte. È uno scenario che si verifica, in fondo, con la maggioranza dei contenuti pattizi. Per es., rispetto a un patto di non-distribuzione degli utili (anch’esso potenzialmente interferente con il divieto di patto leonino), difficilmente potrà formularsi un giudizio di validità in astratto, pur non riscontrandosi un oggetto di per sé illecito; si dovrà, piuttosto, considerare il concreto atteggiarsi del patto, gli obiettivi in concreto perseguiti e gli effetti attesi. In questo senso, l’impegno pattizio a non votare in favore della distribuzione degli [...]