Il contributo, dopo aver individuato l’origine storica di entrambe le norme contenute nell’art. 2265 c.c. che dichiara nullo il c.d. patto leonino (il divieto di esclusione di un socio dalla divisione degli utili e il divieto di esclusione di un socio dalle perdite), argomenta che il divieto di tale patto non ha un fondamento apprezzabile al di fuori delle società di persone, nel caso in cui i soci non sono illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali. Il patto leonino sarebbe invece nullo con riferimento alle società di persone, sia se contenuto nello statuto della società sia se inserito in un patto parasociale.
The paper, after identifying the historical origin of both the rules set forth in Article 2265 of the Civil Code that declares null and void the so-called leonine stipulation (the prohibition of excluding a shareholder from the division of profits and the prohibition of excluding a shareholder from losses), argues that the prohibition of such a stipulation has no appreciable ground outside of partnerships (società di persone), when shareholders are not unlimitedly liable for corporate obligations. In contrast, the leonine stipulation would be null and void with reference to partnerships, whether contained in the company’s bylaws or included in a shareholders’ agreement.
1. Platone fra i leoni. - 2. La societas leonina nel Digesto. - 3. La costituzione di Sisto V Detestabilis avaritiae. - 4. Il divieto di società leonina nel diritto comparato e alla luce del senso comune. - 5. Absint leones! - 6. Il patto e la clausola statutaria. - NOTE
Ho scritto in passato già molto in tema di clausole put e di società leonina [1] e non ho da allora cambiato idea. Non ho trovato nuovi argomenti a sostegno della mia tesi, né ho trovato confutazioni della medesima che non siano mere ripetizioni di ciò che avevo esaminato in precedenza [2]. Dovrei perciò rinunciare a produrre un nuovo scritto. Vi è però una ragione che mi induce a cedere all’invito di Giuliana Scognamiglio, a parte la soddisfazione dell’orgoglio personale che provo nel poter contribuire a un’iniziativa prestigiosa e agli atti che la illustreranno presso la comunità degli studiosi. Tale ragione è espressa con acuta chiarezza in un testo antico, forse di Platone, noto comunque come la sua Settima Lettera, dove si afferma (344 b 4-7) «ἅμα γὰρ αὐτὰ ἀνάγκη μανθάνειν καὶ τὸ ψεῦδος ἅμα καὶ ἀληθὲς τῆς ὅλης οὐσίας, μετὰ τριβῆς πάσης καὶ χρόνου πολλοῦ, ὅπερ ἐν ἀρχαῖς εἶπον: μόγις δὲ τριβόμενα πρὸς ἄλληλα αὐτῶν ἕκαστα, ὀνόματα καὶ λόγοι ὄψεις τε καὶ αἰσθήσεις, ἐν εὐμενέσιν ἐλέγχοις ἐλεγχόμενα καὶ ἄνευ φθόνων ἐρωτήσεσιν καὶ [...]
Riguardo al divieto del patto leonino, è assolutamente certo che esso non è – in senso logico – coevo alla nascita della società, intesa come istituto giuridico, ovunque si situi nella storia il punto d’origine di tale nascita. Insomma, tale divieto non è imposto da una necessità naturale, ma da una considerazione di giustizia correttiva. Giustizia correttiva che, proprio perché tale, è artificiale, niente affatto naturale. Ciò è bene espresso nei frammenti del Digesto che hanno rilievo nel nostro caso, ove si pone chiaramente il problema – ripeto: di giustizia correttiva (non distributiva, come potrebbe sembrare a un osservatore affrettato) – della proporzione della ripartizione degli utili in ragione del valore del conferimento, nel quadro di una società che, per i romani, era solo obbligatoria. Obbligatoria, sto dicendo, in quanto essa si risolveva in un contractus, cioè in un’obbligazione recte contracta di mettere in comune perdite e ricavi di tutte le proprie attività (società universale) o di alcune attività specificate (società particolare). Sottolineo nuovamente che il problema, per i romani di cui abbiamo conservato l’opinione [4], è di giustizia correttiva. Infatti, non si tratta di distribuire tra i soci secondo i meriti o i bisogni (come, nella versione di Fedro della storia, sostiene il leone, che ne fa appunto una questione di giustizia distributiva) [5], ma di valore dell’apporto. Se l’apporto d’opera di un socio vale più dell’apporto in denaro, allora la remunerazione del socio d’opera può essere più che proporzionale rispetto al valore del capitale apportato (D 17, 2, 29 pr., Ulpianus libro trigensimo ad Sabinum.): «Si non fuerint partes societati adiectae, aequas eas esse constat. si vero placuerit, ut quis duas partes vel tres habeat, alius unam, an valeat? placet valere, si modo aliquid plus contulit societati vel pecuniae vel operae vel cuiuscumque alterius rei causa» («Se non siano state determinate le quote nella società, consta che esse siano uguali. Ma, se sia stato pattuito che uno abbia due terzi o tre quarti e l’altro un terzo o un quarto, forse che una tale società vale? Pare bene che valga, purché <il primo> abbia conferito qualcosa in più alla [...]
Il secondo pilastro su cui si erge l’attuale edificio italiano della societas leonina – il divieto di esclusione dalle perdite – ha tutt’altra origine e tutt’altro significato. Il problema della partecipazione alle perdite non riguarda l’interesse del socio a ritrarre dall’investimento un vantaggio, ma la garanzia del rimborso del capitale investito in un’attività che, di per sé, è rischiosa. Questa garanzia non è mai tale da annullare il rischio, che corre chiunque investa moneta di oggi in vista del rimborso di una maggiore quantità di moneta di domani. Anche il creditore rischia, quando fa credito: e quando fa credito a un’impresa, partecipa al rischio di impresa, anche se in modo diverso dall’imprenditore e dai soci dell’imprenditore, che, per questo, sono i residual claimants rispetto al patrimonio dell’impresa. Ora, in tal caso il problema non è quello del socio che dona il suo conferimento o lavoro a un altro socio. Invece, il problema concerne il socio che promette all’altro socio che i rischi di quest’ultimo saranno garantiti (non annullati) dall’obbligo del socio promittente di versare al socio promissario quanto egli avrà perduto, magari con gli interessi. Tipicamente, si tratta di un promittente, imprenditore o lavoratore, che ha bisogno di capitali e che associa alla sua impresa un finanziatore, incentivandolo a partecipare con una duplice promessa: quella di farlo socio e quella di farlo restare finanziatore. L’equazione è soddisfatta promettendo al finanziatore di optare per la posizione di socio, se vi saranno utili in misura maggiore di quanto necessario per pagare un interesse virtuale rispetto al finanziamento; e di optare invece per la posizione di creditore, se vi saranno utili insufficienti o perdite. È ovvia la vicinanza della fattispecie al prestito con interesse, e al tema dell’usura. La formula pecunia non parit pecuniam (il denaro non partorisce denaro) esprime in modo drammatico e para-logico un principio ben diverso: quello per cui il rischio del capitale non può essere a carico della persona del debitore, ma solo dei suoi beni. Il debitore non garantisce il creditore con il suo corpo (il creditore non lo può schiavizzare, o uccidere, come al tempo delle Dodici Tavole), ma solo «con tutti i suoi beni presenti e futuri» (art. [...]
Appurato che nell’art. 2265 c.c. convivono due norme diversissime, va detto che esistono ordinamenti attualmente vigenti in cui non esiste alcuna delle versioni del divieto del patto leonino che incontriamo nella nostra disposizione; esistono altri ordinamenti in cui vige il divieto di esclusione dagli utili, ma non quello dell’esclusione dalle perdite, e viceversa; altri ancora in cui il divieto è duplice, come da noi. Dire che la nostra versione del divieto è imposta dalla causa delle società, cioè dalla natura stessa della fattispecie, è sostenere che tutti gli ordinamenti diversi dal nostro ammettono l’esistenza di società contro natura. Per essere onesti, si tratta di una grave mistificazione, considerato che non è contro natura tutto ciò che la natura consente, come dimostra la contemporanea cultura LGBT+. Inoltre, la tesi secondo cui il nostro legislatore, in compagnia dei pochi che adottano il modello dell’art. 2265 c.c., sarebbe lungimirante, perché si preoccupa di mantenere una proporzionalità tra rischio e potere, crolla di fronte alla consolidatissima opinione per cui l’esclusione dalle perdite deve essere assoluta, perpetua e costante: quindi, basta rischiare pochissimo, diciamo un euro, per sfuggire al divieto e alla nullità. Inoltre, il principio della corrispondenza tra rischio e potere è ormai smentito da una serie impressionante di norme, che ammettono che il potere non sia distribuito in modo proporzionale al rischio (si pensi alle maggiorazioni dei diritti di voto, alle categorie di azioni senza voto, a voto limitato, ridotto o condizionato, ai diritti speciali dei soci di s.r.l.) e viceversa. Anche questa è una storia nota, espressa in modo assai efficace, tra gli altri, perfino dal leone della favola di Fedro. Anche un ragionamento intuitivo ci assicura che non sempre chi rischia di più è il più assennato. Spesso il socio di maggioranza è meno saggio e avveduto del socio di minoranza, e la saggezza non si misura quantitativamente (nella Settima lettera platonica, citata all’inizio, si dice del resto che la saggezza non può essere «detta» nello stesso modo in cui lo sono le dottrine scientifiche, o mathēmata). Il Presidente Mambriani della sezione specializzata del Tribunale di Milano, nel suo intervento al seminario romano al quale ho partecipato con la [...]
Esaminando la disposizione dell’art. 2265 c.c. nel suo contesto, il dato di fondo è che la disposizione non è posta sotto la rubrica «Disposizioni generali» del Capi I del Titolo V, del libro del Lavoro del codice civile, bensì sotto la rubrica «Della società semplice». Essa è richiamata dalle disposizioni sulle società in nome collettivo e in accomandita semplice, ma non per le società di capitali. Anche se fosse compresa tra le norme dichiarate come «Disposizioni generali», la norma dell’art. 2265 c.c. non varrebbe automaticamente per le società di capitali. Si consideri che le società di capitali (salvo le accomandite per azioni) possono essere costituite per atto unilaterale; che non si possono conferire nelle società per azioni e in accomandita per azioni le opere o i servizi; che la disposizione sulle s.r.l. non è sostanzialmente applicabile e, nel caso del conferimento d’opera del socio lavoratore, duplica l’onere del conferimento, con la polizza fideiussoria; che l’art. 2249 c.c. ha perso una gran parte del suo significato da quando si possono costituire società non lucrative o parzialmente non lucrative. Stando alla lettera della legge, nulla obbliga a estendere la disposizione dell’art. 2265 c.c. alle società di capitali (salvo, forse, il caso delle società in accomandita per azioni, di cui non mi occupo qui). La norma che viene postulata dalla giurisprudenza, quando sostiene che il divieto del patto leonino è transtipico e d’ordine pubblico, è insomma una metanorma, di quelle che sono create extra legem, superiori in credito ed onore alle norme della stessa legge. Una domanda retorica: il nostro non è forse un ordinamento in cui il diritto è scritto nelle leggi? La creazione della metanorma è però frutto di un’illusione ottica. Prima del codice del 1942, la disposizione sulla società leonina era dettata nel codice civile del 1865, all’art. 1719, e riguardava il contratto di società che, al pari del contratto di societas romana, non aveva effetti al di fuori di quelli obbligatori. La disposizione non era ripetuta per le società commerciali. Tuttavia, se ne discuteva l’applicazione anche alle società commerciali, e la ricerca sagace della Dott.ssa Petrini ha mostrato che gli [...]
Un ultimo pensiero riguarda la tesi secondo cui il patto leonino sarebbe nullo solo se contenuto nello statuto (atto costitutivo) della società, ma non se fosse contenuto in un patto parasociale. La tesi è infondata anzitutto perché, storicamente, nella «variante» dell’esclusione da ogni partecipazione alle perdite, il patto leonino è sempre stato un patto esterno alla società. È infondata, in secondo luogo, perché la lettera della legge ha cura di fulminare «il patto» tra i soci, non già la clausola del contratto associativo. È anche infondata, perché la diversità del piano parasociale rispetto al piano organizzativo è una realtà che non può che trovare un limite nel divieto della frode alla legge. Pertanto, se il divieto dell’art. 2265 c.c. fosse posto da una norma inderogabile, imperativa e addirittura di ordine pubblico economico, la sua circonvenzione tramite un patto parasociale sarebbe viziata da un disturbo della funzione, per cui la causa sarebbe da reputare illecita. Cedo la parola a Giorgio Oppo: «il problema non è eludibile parlando di “confusione di piani logici” (Jaeger): la distinzione di piani logici è reale ma il piano della meritevolezza non è solo logico, è giuridico, ed è su questo piano che va apprezzato l’incontro o scontro del parasociale con il sociale. L’art. 1344 c.c. dimostra che il legislatore non si è lasciato … confondere dalla diversità dei piani logici. Allo stesso modo non basta qualificare l’accordo parasociale alla stregua della “irrilevanza sul piano organizzativo” societario o della estraneità agli “schemi formali dell’agire societario” (Santoni)» [12]. Lascia molto perplessi la tesi, sostenuta dalla Corte di Cassazione nel 2018, per cui il patto parasociale potrebbe proteggere interessi meritevoli di tutela che non potrebbero trovare albergo nel contratto di società per preservare la «purezza» della causa società. La causa della società è impura per definizione; non può inoltre far piacere l’eco di teorie screditatissime come quelle relativa alla purezza della razza; come ha detto la Consigliera Angelina Maria Perrino nel suo brillantissimo intervento, l’art. 1322 c.c. fa della [...]