Le indagini demoscopiche dimostrano come una percentuale significativa di consumatori sia oggi disponibile a pagare un prezzo più elevato rispetto a quello medio di mercato per l’acquisto di prodotti ecosostenibili. Si comprende dunque per quale ragione molte imprese abbiano preso a segnalare ai propri stakeholders la loro (vera o presunta) sensibilità ambientale con tutti gli strumenti di comunicazione a disposizione, e in primo luogo mediante il ricorso a marchi cc.dd. verdi. Le norme che informano lo statuto di non decettività del marchio sembrerebbero sufficienti a garantire che i marchi verdi non vengano impiegati come strumento di greenwashing. Esse, tuttavia, sono state fino ad oggi oggetto di applicazione molto limitata. Il paper esamina le ragioni di tale limitata applicazione, e suggerisce come questa possa essere ampliata interpretando le norme in materia di non decettività del marchio alla luce della disciplina delle pratiche commerciali sleali, peraltro recentemente modificata dalla Direttiva (UE) 2024/825 sulla responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde.
Demoscopic surveys show that a significant percentage of consumers are willing to pay more than the average market price for environmentally sustainable products. It is therefore understandable that many companies have taken to signalling their (real or perceived) environmental sensitivity to their stakeholders using all the communication tools at their disposal, and in particular using green trademarks. The provisions prohibiting the registration and use of deceptive trademarks would seem to be sufficient to ensure that green trademarks are not used as a tool for greenwashing. However, their enforcement has been very limited to date. The paper examines the reasons for this limited application and suggests how it can be extended by interpreting the provisions on deceptive trademarks in the light of the legislation on unfair commercial practices, recently amended by Directive (EU) 2024/825 as regards empowering consumers for the green transition.
1. «Inferno climatico», comunicazione d'impresa e psicologia del consumatore. - 2. Il contrasto al greenwashing d'impresa negli Orientamenti della Commissione europea sull'interpretazione e sull'applicazione della direttiva 2005/29/CE, come modificata dalla direttiva 2024/825/UE. - 3. Sui rapporti tra la disciplina in materia di pratiche commerciali sleali e la disciplina in materia di marchi d'impresa. - 4. Principi fondamentali in materia di environmental claims e divieto di registrazione dei segni privi di carattere distintivo. - 5. Principi fondamentali in materia di environmental claims e statuto di non decettività del marchio. - NOTE
Al termine del 2019, nel presentare il pacchetto di iniziative noto come “Green deal europeo”, la Commissione dell’UE ha definito l’individuazione di adeguate soluzioni ai problemi legati al clima e all’ambiente «il compito che definisce la nostra generazione» [1]. Dinanzi a quella che appare come la sfida più impegnativa con cui si sia mai confrontata la nostra specie, la misurata gravitas che connota la dichiarazione della Commissione appare quasi come un esercizio di understatement. Ben più enfaticamente, in occasione della Conferenza sui cambiamenti climatici tenuta a Sharm el-Sheikh a novembre 2022, il Segretario Generale dell’ONU António Guterres ha segnalato come l’umanità stia viaggiando «su un’autostrada per l’inferno climatico» [2]. Soverchiati dalla necessità di confrontarsi con problemi di natura economica e sociale che assorbono attenzione e risorse nel breve periodo, molti governi hanno fin qui rinviato al lungo (e talora lunghissimo) periodo l’adozione delle misure necessarie a contenere gli effetti rovinosi del cambiamento climatico e del degrado ambientale. L’urgenza delle azioni di contrasto alla crisi ecologica spinge allora a domandarsi se non sia opportuno concentrare l’attenzione sui comportamenti delle imprese, e delle grandi imprese in particolare, spesso indicate come le principali responsabili [3] dell’immissione di gas climalteranti nell’atmosfera e, in termini più generali, del sovrasfruttamento delle risorse naturali [4], talora anche a causa di un incerto quadro normativo e di meccanismi sanzionatori inadeguati, con ciò giustificando la sensazione di un eminente economista secondo cui il cambiamento climatico costituirebbe «the greatest and widest-ranging market failure ever seen» [5]. Peraltro, in una fase storica caratterizzata da un’accentuata sensibilità dei consumatori rispetto alle caratteristiche di ecosostenibilità dei prodotti acquistati, quella stessa tendenza allo short-termism spesso accusata di essere alla radice di molti atteggiamenti irresponsabili sul piano ambientale [6] sembrerebbe poter paradossalmente costituire uno stimolo per le imprese ad agire tempestivamente al fine di intercettare questo nuovo tipo di domanda. Pur con le cautele che è necessario adottare nella [...]
Ricostruire nel dettaglio storia ed evoluzione di un fenomeno poliedrico come quello del greenwashing è esercizio che va ben oltre gli obiettivi di queste note [22]. Né manca, d’altra parte, chi abbia osservato come, proprio a causa della sua natura poliedrica, il tentativo di racchiudere all’interno di una definizione unitaria le diverse modalità in cui tale fenomeno è suscettibile di articolarsi rischi di risultare vano [23]. La notevole varietà fenomenica del greenwashing restituita dall’analisi della letteratura di riferimento [24] appare in ogni caso adeguatamente colta dai regolatori che hanno iniziato – a cominciare (oltre tre decenni fa) dalla Federal Trade Commission statunitense [25] – a confrontarsi con questo tema. Per quanto ci concerne più da vicino, nel ricondurre giuridicamente il greenwashing all’ambito di applicazione della disciplina sulle pratiche commerciali sleali, la Commissione europea ha ribadito nell’ultima Comunicazione recante gli Orientamenti relativi all’interpretazione e all’applicazione della direttiva 2005/29/CE (in seguito anche solo “Orientamenti”) [26], pubblicata alla fine del 2021, come quest’ultimo possa riguardare «tutte le forme di pratiche commerciali delle imprese nei confronti dei consumatori concernenti gli attributi ambientali dei prodotti» e possa comprendere «tutti i tipi di affermazioni, informazioni, simboli, loghi, elementi grafici e marchi, nonché la loro interazione con i colori, impiegati sull’imballaggio, sull’etichetta, nella pubblicità, su tutti i media (compresi i siti internet)» [27]. In quello stesso contesto, la Commissione ha peraltro chiarito come gli artt. 6 e 7 della direttiva 2005/29/CE (in seguito anche “direttiva UCP” o “UCPD”) [28] impongano che le asserzioni ambientali relative ai prodotti immessi in commercio siano non solo «veritiere», ma anche «presentate in modo chiaro, specifico, accurato e inequivocabile» [29], nonché, ai sensi dell’art. 12 della medesima direttiva, supportate da evidenze adeguate. Sebbene gli Orientamenti siano contenuti in un documento privo di carattere vincolante [30], vale la pena – anche alla luce della (seppur parziale) positivizzazione delle indicazioni ivi contenute [...]
Come osservato in precedenza, gli Orientamenti della Commissione sull’interpretazione e applicazione della direttiva 2005/29/CE chiariscono che il greenwashing può essere realizzato mediante «tutte le forme di pratiche commerciali delle imprese nei confronti dei consumatori concernenti gli attributi ambientali dei prodotti». Soggiungono inoltre che esso – anche in virtù della rilevante ampiezza della definizione di «pratica commerciale» fornita dall’art. 2 UCPD [59] – può servirsi di «tutti i tipi di affermazioni, informazioni, simboli, loghi, elementi grafici e marchi». In una prospettiva del tutto coerente, la direttiva 2024/825/UE introduce ora nel citato art. 2 UCPD la definizione di «asserzione ambientale», precisando che quest’ultima, nel contesto di una comunicazione commerciale, può essere integrata da qualsiasi «messaggio o rappresentazione avente carattere non obbligatorio […] compresi testi e rappresentazioni figurative, grafiche o simboliche, quali marchi, nomi di marche, nomi di società o nomi di prodotti […]». Che un marchio costituisca uno strumento di comunicazione commerciale dell’impresa e che, al ricorrere di determinate condizioni, esso rientri pienamente nel perimetro di applicazione della direttiva 2005/29/CE sembra, dunque, circostanza della quale non è lecito dubitare, e di cui in generale non dubita la dottrina [60]. È pertanto necessario chiarire quali siano i rapporti tra la disciplina in materia di pratiche commerciali sleali e quella in materia di marchi d’impresa, costituita nel contesto del diritto dell’Unione – che è quello sul quale più specificamente ci si sofferma in questa sede – dalla direttiva (UE) 2015/2436 sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa (in seguito “DM”) [61] e dal regolamento (UE) 2017/1001 sul marchio dell’Unione europea (in seguito “RMUE”) [62]. Ora, il considerando n. 9 della direttiva UCP chiarisce che quest’ultima «non pregiudica […] l’applicazione delle disposizioni comunitarie e nazionali relative […] ai diritti di proprietà intellettuale», tra le quali sono da certamente annoverare quelle in materia di marchi d’impresa. Il successivo [...]
Non può sfuggire all’interprete come il rispetto delle indicazioni fornite dagli Orientamenti della Commissione in relazione all’interpretazione degli artt. 6 e 7 UCPD presenti rilevanti criticità nella sua applicazione ai marchi d’impresa, e ciò fin dal momento di valutarne il carattere distintivo. Gli Orientamenti prevedono infatti che le asserzioni ambientali siano caratterizzate da qualità tali (veridicità, chiarezza, completezza, rilevanza, specificità, accuratezza, inequivocabilità) da apparire difficilmente compatibili con il divieto di registrare segni privi di carattere distintivo, categoria generale al cui interno – al di là della sistematica adottata dal legislatore sovranazionale – ricadono anche i segni e le indicazioni descrittivi o di uso comune [72] e che, per quanto più strettamente rileva in questa sede, comprende i segni e le indicazioni che descrivono o sono comunemente utilizzati nel commercio per riferirsi a qualità ambientali dei prodotti contrassegnati. In questo senso si potrebbe osservare che quanto più un marchio comunichi al consumatore in modo corretto, chiaro, completo, specifico, accurato e inequivocabile informazioni relative alle qualità ambientali di un prodotto, tanto più esso tenderà a soddisfare i requisiti previsti dagli artt. 6 e 7 UCPD (e a non integrare la condotta ora sanzionata dal punto 4-bis dell’Allegato I alla direttiva UCP), ma tanto meno riuscirà a superare gli ostacoli alla registrazione posti dagli artt. 4, par. 1, lett. c) e d), DM e 7, par. 1, lett. c) e d), RMUE. Viceversa, quanto più un marchio c.d. verde risulti sintetico, suggestivo, fantasioso, originale, tanto più esso sarà provvisto di carattere distintivo, e sarà dunque validamente registrabile, ma tanto meno agevolmente sarà in grado di sottrarsi ai rilievi che potrebbero essere mossi in base alla disciplina sulle pratiche commerciali sleali. Che la positiva verifica del carattere distintivo del marchio sia un problema serio e concreto rispetto ai green trademarks è circostanza che parrebbe trovare conferma anche nella prassi dell’EUIPO e nella giurisprudenza sovranazionale da essa derivata. Da una loro prima analisi emerge infatti una tendenza a respingere le domande di registrazione di marchi cc.dd verdi proprio in conseguenza di un difetto di [...]
Se l’ordinamento può tollerare una limitata distintività del marchio, è del tutto opportuno che esso adotti invece maggiore rigore rispetto ai marchi che comportino un rischio sufficientemente serio [87] di inganno per il consumatore in relazione alla natura o alle qualità commercialmente rilevanti del prodotto cui il marchio è associato – e, per quanto più strettamente qui rileva, circa le qualità ambientali di quest’ultimo [88]. L’applicazione ai segni green delle norme che informano lo statuto di non decettività del marchio appare cionondimeno del tutto infrequente, sia in sede di registrazione che in sede di giudizio di nullità o decadenza, il che può rappresentare un limite non banale ai fini di un’efficace azione di contrasto al greenwashing d’impresa [89]. Per quanto concerne la fase di registrazione, è certo che l’impedimento assoluto rappresentato dalla decettività del marchio sia ben più difficile da valutare rispetto al difetto di carattere distintivo. Non sempre, infatti, la natura ingannevole del marchio è riscontrabile in astratto sulla base di un mero confronto tra quest’ultimo e i prodotti indicati nella domanda di registrazione. Le Direttive dell’EUIPO suggeriscono inoltre che un’obiezione relativa al carattere decettivo del marchio possa essere sollevata solo quando il marchio veicoli di per sé «un messaggio specifico, chiaro e inequivocabile» che non trova corrispondenza nella (ed è dunque contradditorio rispetto alla) natura o qualità dei prodotti o dei servizi indicati nella domanda [90]. Così, per esempio, appare contraddittoria rispetto alla natura o alle qualità di un biocida l’aspettativa creata dalla presenza all’interno del marchio «BIO-INSECT Shocker» dell’elemento denominativo «bio», il quale «ha acquisito oggigiorno una portata altamente evocativa […] che, in linea generale, rinvia all’idea di rispetto dell’ambiente, di impiego di materie naturali o anche di applicazione di procedimenti di fabbricazione ecologici» [91]. Analogamente chiara, d’altra parte, parrebbe la contraddizione rispetto alla natura o alle qualità di un carburante per motori diesel, prodotto di per sé altamente inquinante, di un [...]