Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeISSN 2282-667X
G. Giappichelli Editore

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La nuova stagione delle concentrazioni verticali e conglomerali (di Andrea Pezzoli, Vice Segretario Generale, Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato)


Stiamo assistendo a una rinnovata attenzione per i rapporti tra antitrust e potere, per gli aspetti strutturali del processo competitivo e, di conseguenza, per la valutazione delle concentrazioni.

Non si danno più per scontate alcune letture “a-problematiche” delle acquisizioni verticali e conglomerali. Piuttosto sembra emergere sempre più la necessità di nuove teorie del danno che privilegino un’analisi dinamica, con un orizzonte temporale più lungo, più attente alla concorrenza potenziale e che si confrontino anche con le implicazioni della concentrazione su variabili non di prezzo, quali l’innovazione, la qualità e la privacy.

È una sfida che, ovviamente, richiede un attento bilanciamento tra l’esigenza di un’analisi economica più sofisticata e l’esigenza di certezza giuridica.

In questa prospettiva, ancor più che i parametri tradizionali (quali le quote di mercato, gli indici di concentrazioni…) possono risultare particolarmente rilevanti le evidenze che emergono dalla documentazione interna alle imprese e, eventualmente, l’inversione dell’o­nere della prova.

The new season of vertical and conglomerate mergers

We’re observing a growing attention for the relationship between antitrust and power, the structural aspects of the competitive process and, hence, for merger review.

Some indulgent narratives of vertical or conglomerate mergers are no more taken for granted. The need for “new theories of harm” (or for significant adjustments of the traditional theories of harm) that can better address dynamic competition, a longer time horizon or the new characteristics of potential competition, and that can be more sensitive to non-price factors, as innovation, quality or privacy, is increasingly stronger.

It is a challenge that requires a complex balance between a more sophisticated economic analysis and the need for legal certainty.

In this perspective, even more than traditional evidence concerning market shares or concentration indexes, may be particularly helpful the evidence emerging from internal documentation or the possibility of the reversal of the burden of proof.

 

Sommario/Summary:

1. Perché le concentrazioni non orizzontali tornano di moda. - 2. Il crescente ruolo delle concentrazioni non orizzontali. - 3. La concorrenza potenziale, l’orizzonte temporale e il controfattuale. - 4. La “benevolenza” per le concentrazioni non orizzontali e la tentazione del per sé. - 5. E quindi? - 6. Ricapitolando… - NOTE


1. Perché le concentrazioni non orizzontali tornano di moda.

Per lungo tempo le concentrazioni verticali e, ancor di più, le concentrazioni conglomerali non sono state considerate fonte di preoccupazione anche in ragione di una lettura, fortemente influenzata dalla Scuola di Chicago (e non solo) e dal totem del Consumer Welfare Standard, nella sua versione schiacciata su un concetto di efficienza di breve periodo. Negli anni più recenti, invece, il prepotente sviluppo delle grandi piattaforme digitali e la crescente centralità dei dati nell’alimentazione del processo competitivo hanno riacceso l’interesse per le concentrazioni, in genere, e per le concentrazioni verticali e conglomerali in particolare. In questo contesto hanno ritrovato vigore anche le analisi empiriche – spesso svolte a livello macro – volte a esaminare la relazione tra aumento della concentrazione, aumento dei profitti, distribuzione del prodotto interno lordo tra capitale e lavoro, e le crescenti disuguaglianze [1]. Quasi un nostalgico (per molti aspetti, benvenuto) ritorno all’approccio struttura/condotta/performance. Al ritorno di sensibilità per gli aspetti strutturali dei mercati ha evidentemente contribuito anche il rischio di under-enforcement che nel corso dell’ultimo ventennio, soprattutto negli Stati Uniti, ha caratterizzato le valutazioni delle condotte abusive e il controllo delle concentrazioni. Under-enforcement in buona misura alimentato dal timore – entro certi limiti legittimo – di incorrere in errori del primo tipo (i.e. il divieto di operazioni non restrittive della concorrenza ovvero i così detti “falsi positivi”), di scoraggiare gli investimenti, l’innovazione e la nascita di un “nuovo Google”. Con la digitalizzazione dell’economia, inoltre, hanno avuto maggiore presa le critiche rivolte alla Scuola di Chicago dai contributi della moderna economia industriale post-Chicago e hanno iniziato a trovare spazio anche le critiche, apparentemente più radicali e non sempre con solide basi economiche, del così detto approccio neo-Brandeisiano, altrimenti noto come “l’antitrust delle origini” o, per i suoi denigratori, hipster antitrust. In quest’ultima prospettiva tornano centrali le preoccupazioni per la dimensione in sé dell’impresa ancor più che per il potere di mercato [2]. Un po’ per questo nuovo clima culturale, un po’ per la [...]


2. Il crescente ruolo delle concentrazioni non orizzontali.

La letteratura empirica dà conto di centinaia di acquisizioni operate dalle grandi piattaforme digitali, in particolare dai così detti GAFAM [5], prevalentemente di carattere non-orizzontale, spesso “sottosoglia” (dunque senza obblighi di notifica) [6] e, altrettanto spesso, con target “giovani” (imprese da non più di 4 anni sul mercato) [7]. Di qui, l’interesse per le così dette killer acquisition e le modifiche regolamentari e legislative intervenute sia a livello europeo che nazionale per provare a intercettarle [8]. Di qui, anche il dibattito sulle acquisizioni delle start-up da parte delle grandi piattaforme tecnologiche e delle Big Pharma e sul controfattuale più appropriato [9]. Molto schematicamente, ci si interroga se, in assenza dell’acquisizione, la start-up avrebbe comunque sviluppato l’innovazione, l’avrebbe portata sul mercato e sarebbe diventata un vincolo competitivo per l’impresa acquirente; oppure sarebbe uscita dal mercato; oppure, ancora, avrebbe potuto essere acquisita da un potenziale rivale dell’incumbent. E l’impresa acquirente, una volta acquisita la start-up, avrebbe sviluppato l’innovazione ovvero avrebbe avuto interesse a rallentare il processo innovativo? Superando la tentazione di rispondere a questi interrogativi con un salomonico “a saperlo…”, intanto non si può non sottolineare che il problema esiste, che la soluzione non è affatto agevole ma anche che l’analisi economica (soprattutto quella empirica) qualche aiuto concreto inizia a fornirlo. Ad esempio, non appare irrilevante che, secondo una recente indagine, i progetti dei farmaci oggetto di acquisizione risultino avere una probabilità significativamente maggiore di essere interrotti [10]. Di contro, alcuni autori sottolineano come nei mercati digitali gli incumbent – in ragione della più ampia base di clienti, delle maggiori economie di scala, delle sinergie dal lato della domanda – più dei nuovi entranti, avrebbero incentivi a promuovere l’innovazione [11]. Più in generale, una ricerca, circoscritta al triennio 2015-2017 e a un campione di 175 acquisizioni che hanno interessato i mercati digitali, metterebbe in luce che le killer acquisition non sarebbero poi così diffuse. Se è vero, infatti, che i progetti di ricerca avviati [...]


3. La concorrenza potenziale, l’orizzonte temporale e il controfattuale.

Al di là dell’esito delle valutazioni, quel che preme sottolineare in queste brevi note è innanzitutto come in tutti i casi si tratti di acquisizioni, caratterizzate da poca o nessuna sovrapposizione orizzontale al momento della concentrazione o, comunque, come nel caso Google/Waze, di operazioni dove l’impresa target sembrava avere pochissima capacità disciplinante nei confronti dell’acquirente al momento della fusione. Una capacità disciplinante che, tuttavia, in assenza della concentrazione, avrebbe potuto raggiungere livelli significativi. Va osservato, inoltre, che in tutte le operazioni menzionate, la crescente attenzione alla concorrenza potenziale e all’efficienza dinamica ha richiesto (o avrebbe richiesto) un ampliamento dell’orizzonte temporale tale da rendere la valutazione inevitabilmente più incerta e complessa (il che, si badi bene, non significa più discrezionale) [16]. Ma, in fondo, non è sempre così quando si esaminano gli effetti delle concentrazioni? Il controfattuale solo raramente coincide con lo status quo. E se la necessità di una valutazione dinamica e con un orizzonte temporale più lungo appare ineludibile in mercati innovativi (non solo i mercati digitali ma anche il farmaceutico), questo può essere vero anche per mercati “tradizionali” e maturi. Si pensi, ad esempio, alla valutazione della concorrenza potenziale effettuata dalla Commissione in occasione della concentrazione “orizzontale” Siemens/Alshtom [17]. Il presunto ingresso nel mercato di imprese extra-europee che avrebbero potuto beneficiare di sussidi pubblici e che, secondo alcuni, avrebbe giustificato la formazione di un soggetto con elevato potere di mercato è stato l’aspetto di maggior rilievo della valutazione della Commissione. La “minaccia cinese”, tuttavia, non risultava in possesso dei requisiti necessari per essere accreditata come concorrenza potenziale credibile e, pertanto, tra le note (e per chi scrive, ingiustificate) polemiche, l’operazione è stata vietata. L’esigenza di guardare con molta attenzione alla concorrenza potenziale si rintraccia anche in importanti concentrazioni “verticali” che hanno interessato la produzione della birra e la distribuzione nei pub [18], o i mercati della carne suina, dove la tradizionale analisi dell’effetto di [...]


4. La “benevolenza” per le concentrazioni non orizzontali e la tentazione del per sé.

La valutazione della concorrenza potenziale è senz’altro un argomento controverso e affascinante, “zavorrato” dai più agevolmente fruibili concetti statici di efficienza, dal totem del consumer welfare standard, dalla pretesa di misurazioni “oggettive” (parafrasando Francesco Denozza, “… ciò che non è misurabile, o lo è difficilmente, continua ad esistere!!” [20]) e dal timore di scoraggiare l’incumbent che investe. L’accresciuta centralità della concorrenza potenziale e l’applicazione dinamica della disciplina antitrust sono inoltre questioni inevitabilmente condizionate - e entro certi limiti è bene che lo siano - anche e soprattutto dall’esigenza di offrire un quadro di certezze alle imprese. Meno giustificata appare invece la reticenza a confrontarsi con le “nuove teorie del danno” che cercano di cogliere l’impatto delle operazioni a livello di ecosistema. Fin qui, con la sola parziale eccezione della recente decisione della Competition and Market Authority relativa all’operazione Microsoft/Activision Blizzard, le implicazioni a livello di ecosistema non sembrano potersi rintracciare nelle valutazioni delle autorità antitrust [21]. Per tutte queste ragioni, non volendo scoraggiare il “nuovo Google” e gli indubbi benefici legati al modello di business dei “vecchi Google”, le autorità antitrust non sono intervenute sempre con la necessaria severità (chi più, chi meno…) e quando si è iniziato a pensare che forse era “troppo tardi”, la riflessione critica si è accompagnata con il processo di seduzione degli interventi ex ante, delle scorciatoie regolatorie, con la “tentazione del per sé” (se c’è una tentazione da qualche parte c’è un peccato…) e con il ritorno di una politica industriale dal sapore non di rado protezionistico. Si è tornati a guardare al potere di mercato come un problema legato soprattutto alla dimensione e al potere economico. E non è detto che sia necessariamente un passo in avanti (the curse of bigness!! [22]). Se è vero, infatti, che l’antitrust è principalmente una disciplina volta a limitare il potere e a ampliare gli spazi di libertà [23], non va dimenticato che nel nostro Paese la bassa [...]


5. E quindi?

Per affrontare adeguatamente le sfide poste dalla nuova stagione delle concentrazioni verticali e conglomerali il nodo principale appare quello legato alla prevedibilità delle caratteristiche della concorrenza futura. In particolare, occorre fare i conti con la difficoltà di individuare gli spazi necessari affinché la concorrenza potenziale possa effettivamente esercitare le sue capacità disciplinanti. Occorre, in altri termini, bilanciare l’esigenza di un approccio dinamico e di un orizzonte temporale più ampio, con l’ineludibile necessità di certezza giuridica nell’applica­zione della disciplina antitrust. In questa prospettiva appaiono più che comprensibili le richieste di linee guida e di safe harbour provenienti dal mondo delle imprese ma meritano altresì un’at­tenta riflessione anche gli inviti provenienti dall’accademia, relativi a un sempre più esteso ricorso all’inversione dell’onere della prova in tema di efficienze [24]. Sarebbe opportuno, ad esempio, che l’onere della prova fosse a carico delle parti quando queste invocano le efficienze intrinseche di una concentrazione verticale, l’assenza di incentivi a escludere i concorrenti e l’idoneità della concentrazione a risolvere i problemi di hold up e i rischi di doppia marginalizzazione. La teoria economica e la letteratura empirica mostrano come il trasferimento di input risulti assai limitato all’interno di imprese verticalmente integrate. L’integrazione completa alla base della eliminazione della doppia marginalità potrebbe non avvenire. L’eliminazione della doppia marginalizzazione, peraltro, potrebbe aver luogo anche senza la integrazione, se i contratti prevedono tariffe in due parti. E se anche i contratti con tariffe a due parti, in presenza di informazione incompleta, non sono necessariamente idonei a risolvere la questione della doppia marginalizzazione, la concentrazione può essere altrettanto inadeguata. Anzi può rischiare di rendere inefficiente una relazione contrattuale efficiente [25]. Analogamente, anche laddove l’integrazione verticale riesca ad attenuare il rischio di hold up tra le parti, può comunque esporre i concorrenti nei mercati a valle al rischio di hold up da parte dei fornitori non integrati e, pertanto, ridurre l’incentivo a investire [26]. Più [...]


6. Ricapitolando…

Per il controllo delle concentrazioni non orizzontali “i tempi stanno cambiando”, come direbbe un premio Nobel [31]. Stiamo assistendo a una rinnovata attenzione per i rapporti tra antitrust e potere, per gli aspetti strutturali del processo competitivo e, di conseguenza, per la valutazione delle concentrazioni. Non si danno più per scontate alcune letture “a-problematiche” delle acquisizioni verticali e conglomerali. Piuttosto dalla letteratura economica e da qualche decisione delle autorità antitrust sembra emergere sempre più la necessità di nuove teorie del danno (ovvero di significativi aggiustamenti di quelle esistenti) che privilegino un’analisi dinamica, con un orizzonte temporale più lungo e che si confrontino anche con le implicazioni della concentrazione su variabili non di prezzo, quali l’innovazione, la qualità e la privacy. È una sfida che, ovviamente, richiede un attento bilanciamento tra l’esigenza di un’analisi economica più sofisticata, attenta a fenomeni più difficilmente quantificabili o prevedibili (ma non per questo più discrezionale) e l’esigenza di certezza giuridica. In questa prospettiva, ancor più che i parametri tradizionali (quali le quote di mercato, gli indici di concentrazioni, comunque calcolati…) possono risultare particolarmente rilevanti le evidenze che emergono dalla documentazione interna alle imprese e, eventualmente, l’inversione dell’onere della prova, a supporto degli effetti della concentrazione sull’efficienza. Michele Grillo nella sua relazione richiamava l’aneddoto di colui che cerca le chiavi sotto al lampione pur sapendo di averle perso altrove, in una zona buia e non illuminata. Nella “nuova stagione delle concentrazione non orizzontali”, forse, per le autorità di concorrenza, pur nella consapevolezza del monito di Frederic Jenny di fronte alle sfide digitali (Learn to Walk Before we Run…) [32], è giunto il momento di iniziare a sveltire il passo ovvero, muovendosi con un’acrobazia da Frederic Jenny a Bruce Springsteen, a imparare a “danzare nel buio” [33].


NOTE
Fascicolo 3 - 2023