Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2282-667X
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La nuova stagione delle concentrazioni verticali e conglomerali (di Andrea Pezzoli, Vice Segretario Generale, Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato)


Stiamo assistendo a una rinnovata attenzione per i rapporti tra antitrust e potere, per gli aspetti strutturali del processo competitivo e, di conseguenza, per la valutazione delle concentrazioni.

Non si danno più per scontate alcune letture “a-problematiche” delle acquisizioni verticali e conglomerali. Piuttosto sembra emergere sempre più la necessità di nuove teorie del danno che privilegino un’analisi dinamica, con un orizzonte temporale più lungo, più attente alla concorrenza potenziale e che si confrontino anche con le implicazioni della concentrazione su variabili non di prezzo, quali l’innovazione, la qualità e la privacy.

È una sfida che, ovviamente, richiede un attento bilanciamento tra l’esigenza di un’analisi economica più sofisticata e l’esigenza di certezza giuridica.

In questa prospettiva, ancor più che i parametri tradizionali (quali le quote di mercato, gli indici di concentrazioni…) possono risultare particolarmente rilevanti le evidenze che emergono dalla documentazione interna alle imprese e, eventualmente, l’inversione dell’o­nere della prova.

The new season of vertical and conglomerate mergers

We’re observing a growing attention for the relationship between antitrust and power, the structural aspects of the competitive process and, hence, for merger review.

Some indulgent narratives of vertical or conglomerate mergers are no more taken for granted. The need for “new theories of harm” (or for significant adjustments of the traditional theories of harm) that can better address dynamic competition, a longer time horizon or the new characteristics of potential competition, and that can be more sensitive to non-price factors, as innovation, quality or privacy, is increasingly stronger.

It is a challenge that requires a complex balance between a more sophisticated economic analysis and the need for legal certainty.

In this perspective, even more than traditional evidence concerning market shares or concentration indexes, may be particularly helpful the evidence emerging from internal documentation or the possibility of the reversal of the burden of proof.

 

Sommario/Summary:

1. Perché le concentrazioni non orizzontali tornano di moda. - 2. Il crescente ruolo delle concentrazioni non orizzontali. - 3. La concorrenza potenziale, l’orizzonte temporale e il controfattuale. - 4. La “benevolenza” per le concentrazioni non orizzontali e la tentazione del per sé. - 5. E quindi? - 6. Ricapitolando… - NOTE


1. Perché le concentrazioni non orizzontali tornano di moda.

Per lungo tempo le concentrazioni verticali e, ancor di più, le concentrazioni conglomerali non sono state considerate fonte di preoccupazione anche in ragione di una lettura, fortemente influenzata dalla Scuola di Chicago (e non solo) e dal totem del Consumer Welfare Standard, nella sua versione schiacciata su un concetto di efficienza di breve periodo.

Negli anni più recenti, invece, il prepotente sviluppo delle grandi piattaforme digitali e la crescente centralità dei dati nell’alimentazione del processo competitivo hanno riacceso l’interesse per le concentrazioni, in genere, e per le concentrazioni verticali e conglomerali in particolare. In questo contesto hanno ritrovato vigore anche le analisi empiriche – spesso svolte a livello macro – volte a esaminare la relazione tra aumento della concentrazione, aumento dei profitti, distribuzione del prodotto interno lordo tra capitale e lavoro, e le crescenti disuguaglianze [1]. Quasi un nostalgico (per molti aspetti, benvenuto) ritorno all’approccio struttura/condotta/performance.

Al ritorno di sensibilità per gli aspetti strutturali dei mercati ha evidentemente contribuito anche il rischio di under-enforcement che nel corso dell’ultimo ventennio, soprattutto negli Stati Uniti, ha caratterizzato le valutazioni delle condotte abusive e il controllo delle concentrazioni.

Under-enforcement in buona misura alimentato dal timore – entro certi limiti legittimo – di incorrere in errori del primo tipo (i.e. il divieto di operazioni non restrittive della concorrenza ovvero i così detti “falsi positivi”), di scoraggiare gli investimenti, l’innovazione e la nascita di un “nuovo Google”.

Con la digitalizzazione dell’economia, inoltre, hanno avuto maggiore presa le critiche rivolte alla Scuola di Chicago dai contributi della moderna economia industriale post-Chicago e hanno iniziato a trovare spazio anche le critiche, apparentemente più radicali e non sempre con solide basi economiche, del così detto approccio neo-Brandeisiano, altrimenti noto come “l’antitrust delle origini” o, per i suoi denigratori, hipster antitrust. In quest’ultima prospettiva tornano centrali le preoccupazioni per la dimensione in sé dell’impresa ancor più che per il potere di mercato [2].

Un po’ per questo nuovo clima culturale, un po’ per la crescente e oggettiva difficoltà a definire i confini dell’ambito entro i quali si sviluppa il confronto competitivo, in un contesto in cui la disponibilità dei dati sembra consentire flessibilità sino all’altro ieri sconosciute, il ruolo del mercato rilevante sembra perdere centralità. Soprattutto quando le acquisizioni interessano i così detti “ecosistemi”, il confine tra effetti orizzontali, verticali e conglomerali scolora e diventa sempre più difficile da tracciare.

D’altro canto, già prima delle sfide poste dall’economia digitale, i metodi per valutare e “quantificare” gli effetti unilaterali delle concentrazioni, sono stati affinati grazie all’ausilio di test come l’UPP (Upward Pricing Pressure), il GUPPI (Gross Upward Pricing Pressure), l’IPR (Illustrative Price Rise), la Diversion Ratio, buona parte dei quali, in larga misura, prescindono dalla definizione dei mercati rilevanti o, quanto meno, ridimensionano l’impatto dell’operazione in termini di quote di mercato. La letteratura economica si inizia a interrogare non più solo sugli effetti “orizzontali” statici ma sempre più sugli effetti dinamici, in termini di innovazione e di “foreclosure”.

In altri termini, cresce l’attenzione per la concorrenza dinamica, la concorrenza e l’efficienza del futuro, per il crescente ruolo che, soprattutto nei mercati digitali, giocano le economie di scala, di scopo e gli effetti di rete. Ciò che fino a ieri poteva leggersi come una mera strategia di diversificazione o come una “mera” integrazione verticale volta a ridurre i costi di transazione, e per questo poteva legittimamente non suscitare preoccupazioni di natura concorrenziale, oggi diventa una strategia che può aumentare il potere di mercato e la concentrazione di domani, se non sul singolo mercato, almeno a livello di ecosistema. In una parola, l’attenzione dell’analisi economica si focalizza sempre più sulla concorrenza potenziale e su una diversa lettura delle economie di scopo.

A tal fine c’è chi propone di tener conto del crescente ruolo delle economie di scopo negli indici che misurano la concentrazione come l’indice di Herfindal [3].

In questo contesto il Consumer Welfare Standard (soprattutto nella sua versione “statica”, appiattita su prezzi e quantità di oggi) inizia ad essere criticato anche da chi è consapevole dell’importanza di un benchmark “oggettivo” e dell’esigen­za di certezza giuridica per il mondo delle imprese, riflettendo in quest’ottica sull’opportunità di uno standard altrettanto “certo” ma più ricco e dinamico, che tenga conto degli effetti sulla qualità, l’innovazione e la privacy.

Gli assunti propri della Scuola di Chicago relativi all’assenza di incentivi a escludere, all’efficienza “intrinseca” delle concentrazioni verticali, all’elimina­zione della doppia marginalità si mostrano non così indiscutibili come per lungo tempo poteva sembrare.

Analogamente, si inizia a mettere in discussione la logica sottostante l’as efficient competitor test e i vari price-cost test, i loro limiti nel cogliere i vincoli concorrenziali futuri e, soprattutto, si inizia a ridimensionare il loro ruolo nella valutazione degli abusi escludenti (sicuramente per le condotte non di prezzo ma anche per gli abusi di prezzo).

Più in generale, si potrebbe dire che è sempre più diffuso il disagio per un’a­nalisi economica apparentemente “oggettiva”, basata sui dati e evidenze empiriche che, però, tende ad ignorare tutto ciò che è complesso quantificare e difficile da prevedere.

E, relativamente alla valutazione delle concentrazioni, ci si chiede sempre più spesso se gli sforzi che le autorità antitrust (o almeno alcune di esse) hanno prodotto per adattare le tradizionali “teorie del danno” alle nuove sfide proposte dalle concentrazioni digitali siano sufficienti ovvero se siano necessarie nuove “teorie del danno” per cogliere a pieno i mutamenti in atto [4].


2. Il crescente ruolo delle concentrazioni non orizzontali.

La letteratura empirica dà conto di centinaia di acquisizioni operate dalle grandi piattaforme digitali, in particolare dai così detti GAFAM [5], prevalentemente di carattere non-orizzontale, spesso “sottosoglia” (dunque senza obblighi di notifica) [6] e, altrettanto spesso, con target “giovani” (imprese da non più di 4 anni sul mercato) [7].

Di qui, l’interesse per le così dette killer acquisition e le modifiche regolamentari e legislative intervenute sia a livello europeo che nazionale per provare a intercettarle [8].

Di qui, anche il dibattito sulle acquisizioni delle start-up da parte delle grandi piattaforme tecnologiche e delle Big Pharma e sul controfattuale più appropriato [9]. Molto schematicamente, ci si interroga se, in assenza dell’acquisizione, la start-up avrebbe comunque sviluppato l’innovazione, l’avrebbe portata sul mercato e sarebbe diventata un vincolo competitivo per l’impresa acquirente; oppure sarebbe uscita dal mercato; oppure, ancora, avrebbe potuto essere acquisita da un potenziale rivale dell’incumbent. E l’impresa acquirente, una volta acquisita la start-up, avrebbe sviluppato l’innovazione ovvero avrebbe avuto interesse a rallentare il processo innovativo?

Superando la tentazione di rispondere a questi interrogativi con un salomonico “a saperlo…”, intanto non si può non sottolineare che il problema esiste, che la soluzione non è affatto agevole ma anche che l’analisi economica (soprattutto quella empirica) qualche aiuto concreto inizia a fornirlo. Ad esempio, non appare irrilevante che, secondo una recente indagine, i progetti dei farmaci oggetto di acquisizione risultino avere una probabilità significativamente maggiore di essere interrotti [10].

Di contro, alcuni autori sottolineano come nei mercati digitali gli incumbent – in ragione della più ampia base di clienti, delle maggiori economie di scala, delle sinergie dal lato della domanda – più dei nuovi entranti, avrebbero incentivi a promuovere l’innovazione [11].

Più in generale, una ricerca, circoscritta al triennio 2015-2017 e a un campione di 175 acquisizioni che hanno interessato i mercati digitali, metterebbe in luce che le killer acquisition non sarebbero poi così diffuse. Se è vero, infatti, che i progetti di ricerca avviati sui prodotti dell’impresa target sono stati generalmente abbandonati, risulterebbe tuttavia che le conoscenze acquisite grazie a quei progetti siano state ampiamente utilizzate per promuovere i progetti di ricerca dell’impresa acquirente [12].

Sarebbero, invece, più diffuse le così dette “reverse killer acquisition”, quelle operazioni, cioè, grazie alle quali la piattaforma digitale interessata a entrare in un nuovo mercato, privilegerebbe la scorciatoia del buy vs build, acquisendo un’im­presa che ha già sviluppato la capacità innovativa necessaria [13].

Anche abbandonando la questione delle killer acquisition e approdando sulla sponda, appena un po’ più confortevole, delle acquisizioni “sopra-soglia” di imprese che solo in un secondo tempo si riveleranno concorrenti potenziali, si può assistere a una varietà di posizioni in merito alle concentrazioni di maggior rilevo.

Qui può essere sufficiente ricordare le operazioni più controverse – Google/DoubleClick, Facebook/Instagram, Facebook/Whatsapp, Google/Waze, Google/FitBit autorizzate dalla Commissione [14] – e, più di recente, i divieti che hanno sollevato maggior scalpore, Facebook/Giphy, vietata dalla Competition and Market Authority, Illumina/Grail, vietata dalla Commissione e, da ultimo, Microsof/Activision Blizard, valutata negativamente dalla Competition and Market Authority, autorizzata con impegni dalla Commissione e sotto attento esame della Federal and Trade Commission [15]. Il dibatto sul merito delle diverse decisioni, come noto, è stato a dir poco vivace, anche quando, come nel caso della concentrazione Microsoft/Activision Blizzard, le teorie del danno utilizzate dalle diverse autorità antitrust sono state sostanzialmente le stesse.


3. La concorrenza potenziale, l’orizzonte temporale e il controfattuale.

Al di là dell’esito delle valutazioni, quel che preme sottolineare in queste brevi note è innanzitutto come in tutti i casi si tratti di acquisizioni, caratterizzate da poca o nessuna sovrapposizione orizzontale al momento della concentrazione o, comunque, come nel caso Google/Waze, di operazioni dove l’impresa target sembrava avere pochissima capacità disciplinante nei confronti dell’acquirente al momento della fusione. Una capacità disciplinante che, tuttavia, in assenza della concentrazione, avrebbe potuto raggiungere livelli significativi.

Va osservato, inoltre, che in tutte le operazioni menzionate, la crescente attenzione alla concorrenza potenziale e all’efficienza dinamica ha richiesto (o avrebbe richiesto) un ampliamento dell’orizzonte temporale tale da rendere la valutazione inevitabilmente più incerta e complessa (il che, si badi bene, non significa più discrezionale) [16]. Ma, in fondo, non è sempre così quando si esaminano gli effetti delle concentrazioni? Il controfattuale solo raramente coincide con lo status quo. E se la necessità di una valutazione dinamica e con un orizzonte temporale più lungo appare ineludibile in mercati innovativi (non solo i mercati digitali ma anche il farmaceutico), questo può essere vero anche per mercati “tradizionali” e maturi.

Si pensi, ad esempio, alla valutazione della concorrenza potenziale effettuata dalla Commissione in occasione della concentrazione “orizzontale” Siemens/
Alshtom
 [17]. Il presunto ingresso nel mercato di imprese extra-europee che avrebbero potuto beneficiare di sussidi pubblici e che, secondo alcuni, avrebbe giustificato la formazione di un soggetto con elevato potere di mercato è stato l’aspetto di maggior rilievo della valutazione della Commissione. La “minaccia cinese”, tuttavia, non risultava in possesso dei requisiti necessari per essere accreditata come concorrenza potenziale credibile e, pertanto, tra le note (e per chi scrive, ingiustificate) polemiche, l’operazione è stata vietata.

L’esigenza di guardare con molta attenzione alla concorrenza potenziale si rintraccia anche in importanti concentrazioni “verticali” che hanno interessato la produzione della birra e la distribuzione nei pub [18], o i mercati della carne suina, dove la tradizionale analisi dell’effetto di foreclosure (input o customer forreclosure) si sviluppa assieme a quella relativa alla riduzione degli spazi che potrebbero consentire ai potenziali entranti di cogliere i benefici derivanti da economie di scala o da possibili integrazioni verticali.

Infine, anche quando alle autorità antitrust viene richiesto di esaminare una Failing Firm Defense l’orizzonte temporale per la valutazione dell’operazione si amplia non poco e le congetture sul futuro diventano necessarie e centrali, basandosi per definizione su un controfattuale diverso dallo status quo che, ovviamente, va adeguatamente sostanziato [19].


4. La “benevolenza” per le concentrazioni non orizzontali e la tentazione del per sé.

La valutazione della concorrenza potenziale è senz’altro un argomento controverso e affascinante, “zavorrato” dai più agevolmente fruibili concetti statici di efficienza, dal totem del consumer welfare standard, dalla pretesa di misurazioni “oggettive” (parafrasando Francesco Denozza, “… ciò che non è misurabile, o lo è difficilmente, continua ad esistere!!” [20]) e dal timore di scoraggiare l’incumbent che investe. L’accresciuta centralità della concorrenza potenziale e l’applicazione dinamica della disciplina antitrust sono inoltre questioni inevitabilmente condizionate - e entro certi limiti è bene che lo siano - anche e soprattutto dall’esigenza di offrire un quadro di certezze alle imprese.

Meno giustificata appare invece la reticenza a confrontarsi con le “nuove teorie del danno” che cercano di cogliere l’impatto delle operazioni a livello di ecosistema. Fin qui, con la sola parziale eccezione della recente decisione della Competition and Market Authority relativa all’operazione Microsoft/Activision Blizzard, le implicazioni a livello di ecosistema non sembrano potersi rintracciare nelle valutazioni delle autorità antitrust [21].

Per tutte queste ragioni, non volendo scoraggiare il “nuovo Google” e gli indubbi benefici legati al modello di business dei “vecchi Google”, le autorità antitrust non sono intervenute sempre con la necessaria severità (chi più, chi meno…) e quando si è iniziato a pensare che forse era “troppo tardi”, la riflessione critica si è accompagnata con il processo di seduzione degli interventi ex ante, delle scorciatoie regolatorie, con la “tentazione del per sé” (se c’è una tentazione da qualche parte c’è un peccato…) e con il ritorno di una politica industriale dal sapore non di rado protezionistico. Si è tornati a guardare al potere di mercato come un problema legato soprattutto alla dimensione e al potere economico. E non è detto che sia necessariamente un passo in avanti (the curse of bigness!! [22]). Se è vero, infatti, che l’antitrust è principalmente una disciplina volta a limitare il potere e a ampliare gli spazi di libertà [23], non va dimenticato che nel nostro Paese la bassa produttività (e la limitata concorrenzialità dei mercati) non di rado è legata alla insufficiente dimensione delle nostre imprese e all’eccessiva frammentazione.


5. E quindi?

Per affrontare adeguatamente le sfide poste dalla nuova stagione delle concentrazioni verticali e conglomerali il nodo principale appare quello legato alla prevedibilità delle caratteristiche della concorrenza futura. In particolare, occorre fare i conti con la difficoltà di individuare gli spazi necessari affinché la concorrenza potenziale possa effettivamente esercitare le sue capacità disciplinanti. Occorre, in altri termini, bilanciare l’esigenza di un approccio dinamico e di un orizzonte temporale più ampio, con l’ineludibile necessità di certezza giuridica nell’applica­zione della disciplina antitrust.

In questa prospettiva appaiono più che comprensibili le richieste di linee guida e di safe harbour provenienti dal mondo delle imprese ma meritano altresì un’at­tenta riflessione anche gli inviti provenienti dall’accademia, relativi a un sempre più esteso ricorso all’inversione dell’onere della prova in tema di efficienze [24].

Sarebbe opportuno, ad esempio, che l’onere della prova fosse a carico delle parti quando queste invocano le efficienze intrinseche di una concentrazione verticale, l’assenza di incentivi a escludere i concorrenti e l’idoneità della concentrazione a risolvere i problemi di hold up e i rischi di doppia marginalizzazione.

La teoria economica e la letteratura empirica mostrano come il trasferimento di input risulti assai limitato all’interno di imprese verticalmente integrate.

L’integrazione completa alla base della eliminazione della doppia marginalità potrebbe non avvenire.

L’eliminazione della doppia marginalizzazione, peraltro, potrebbe aver luogo anche senza la integrazione, se i contratti prevedono tariffe in due parti. E se anche i contratti con tariffe a due parti, in presenza di informazione incompleta, non sono necessariamente idonei a risolvere la questione della doppia marginalizzazione, la concentrazione può essere altrettanto inadeguata. Anzi può rischiare di rendere inefficiente una relazione contrattuale efficiente [25].

Analogamente, anche laddove l’integrazione verticale riesca ad attenuare il rischio di hold up tra le parti, può comunque esporre i concorrenti nei mercati a valle al rischio di hold up da parte dei fornitori non integrati e, pertanto, ridurre l’incentivo a investire [26].

Più in generale, diversamente da quanto sostenuto dalla Scuola di Chicago con la teoria del profitto unico monopolistico, una concentrazione verticale può ben coniugarsi con l’incentivo a escludere i concorrenti parzialmente o totalmente. E ciò può verificarsi attraverso una strategia di raising rivals’ cost ovvero, nei mercati più dinamici, attraverso un effetto di completa foreclosure (in particolare nei mercati digitali, dove l’estrazione dei profitti trova un limite importante nell’e­sistenza di modelli di business a prezzi “nulli”).

In ogni caso, la risposta non può essere quella di congelare le attuali condizioni di concorrenza e ignorare i potenziali benefici della concorrenza futura (solo perché non agevolmente prevedibili). Soprattutto vanno attentamente valutati i vincoli competitivi e i benefici derivanti dai concorrenti potenziali che oggi appaiono “less efficient” o persino largamente estranei rispetto al mercato in cui opera l’impresa acquirente.

In quest’ottica, la lettura delle concentrazioni conglomerali in particolare va profondamente rivisitata. In ragione della centralità dei dati come fattore competitivo (al tempo stesso elemento qualitativo, potenziale barriera all’entrata o, di contro, passe-partout per l’ingresso in mercati apparentemente distanti) e del crescente ruolo delle economie di scopo di cui possono godere le piattaforme a più versanti, quelle che in passato apparivano semplicemente come strategie di diversificazione e, per questo, non problematiche sotto il profilo concorrenziale, oggi possono avere un impatto significativo sulla concorrenza potenziale. Per questa tipologia di concentrazioni, ancor più dei parametri tradizionali, diventa cruciale l’acquisizione della documentazione interna dalla quale può emergere se l’im­presa target, al di là delle sue dimensioni o della sua attuale attività prevalente, possa essere considerata o meno una “minaccia” competitiva per l’impresa acquirente.

Soprattutto per le concentrazioni digitali, le tradizionali teorie del danno vanno messe in discussione. La letteratura ne propone di nuove (o, quantomeno, propone significativi aggiustamenti delle teorie esistenti) che potrebbero consentire alle autorità antitrust di andare oltre la valutazione degli effetti di breve periodo sui mercati direttamente interessati, effetti in genere pro-efficienza, per cogliere a pieno l’impatto dell’operazione sull’intero ecosistema in un orizzonte temporale più ampio [27].

In questa più ampia prospettiva, la specificità delle concentrazioni digitali richiede una maggiore attenzione ai parametri non di prezzo, quali l’innovazione, la qualità e la privacy, con le quali le teorie del danno più tradizionali faticano a confrontarsi [28].

Da ultimo, una considerazione di carattere ancora più generale: le sfide sollevate dalle concentrazioni verticali e conglomerali, la loro nuova stagione, sono questioni indubbiamente più comprensibili se si adotta un concetto di concorrenza consapevole dell’intimo legame tra libertà e efficienza; un concetto di concorrenza che riconosca come la libertà economica sia un ingrediente imprescindibile per l’efficienza “sociale”; un concetto di concorrenza che ribadisca come l’obiettivo naturale della disciplina antitrust non possa che essere la protezione del processo competitivo [29].

Se l’antitrust non può essere confinato alla protezione dei frutti della concorrenza del passato (anche quando i frutti sono efficienti), dovremmo guardare alle concentrazioni verticali e conglomerali con lenti differenti. E sempre più tenere a mente che l’efficienza di oggi, per quanto più agevolmente misurabile, non è necessariamente il miglior indicatore dell’efficienza di domani [30].


6. Ricapitolando…

Per il controllo delle concentrazioni non orizzontali “i tempi stanno cambiando”, come direbbe un premio Nobel [31].

Stiamo assistendo a una rinnovata attenzione per i rapporti tra antitrust e potere, per gli aspetti strutturali del processo competitivo e, di conseguenza, per la valutazione delle concentrazioni.

Non si danno più per scontate alcune letture “a-problematiche” delle acquisizioni verticali e conglomerali. Piuttosto dalla letteratura economica e da qualche decisione delle autorità antitrust sembra emergere sempre più la necessità di nuove teorie del danno (ovvero di significativi aggiustamenti di quelle esistenti) che privilegino un’analisi dinamica, con un orizzonte temporale più lungo e che si confrontino anche con le implicazioni della concentrazione su variabili non di prezzo, quali l’innovazione, la qualità e la privacy.

È una sfida che, ovviamente, richiede un attento bilanciamento tra l’esigenza di un’analisi economica più sofisticata, attenta a fenomeni più difficilmente quantificabili o prevedibili (ma non per questo più discrezionale) e l’esigenza di certezza giuridica.

In questa prospettiva, ancor più che i parametri tradizionali (quali le quote di mercato, gli indici di concentrazioni, comunque calcolati…) possono risultare particolarmente rilevanti le evidenze che emergono dalla documentazione interna alle imprese e, eventualmente, l’inversione dell’onere della prova, a supporto degli effetti della concentrazione sull’efficienza.

Michele Grillo nella sua relazione richiamava l’aneddoto di colui che cerca le chiavi sotto al lampione pur sapendo di averle perso altrove, in una zona buia e non illuminata. Nella “nuova stagione delle concentrazione non orizzontali”, forse, per le autorità di concorrenza, pur nella consapevolezza del monito di Frederic Jenny di fronte alle sfide digitali (Learn to Walk Before we Run…) [32], è giunto il momento di iniziare a sveltire il passo ovvero, muovendosi con un’acrobazia da Frederic Jenny a Bruce Springsteen, a imparare a “danzare nel buio” [33].


NOTE

[1] Si vedano, tra gli altri J. De Loecker, J. Eeckhout, G. Hunger, The Rise of Market Power and the Macroeconomic Implications, in 135 Quarterly J. of Econ., 2020, 561; J. De Loecker, J. Eeckhout, Global Market Power (2018) NBER Working Paper No. w24768, reperibile in https://
ssrn.com/abstract=3206443; J. De Loecker, J. Eeckhout, S. Mongey, Quantifying Market Power and Business Dynamism in the Macroeconomy (2021), NBER Working Paper No. 28761, reperibile in https://www.nber.org./papers/w28761; D. Autor, D. Dorn, L.F. Katz, C. Patterson, J. Van Reenen, The Fall of the Labour Share and the Superstar Firms, in 135 Quarterly J. of Econ., 2020, 645.

[2] Per tutti, si veda T. Wu, The Curse of Bigness. Antitrust in the New Gilded Age, Columbia Global Reports, 2018, traduzione italiana per i tipi de Il Mulino, La Maledizione dei Giganti, Bologna, 2021.

[3] Cfr. G. Hoberg, G.M. Philips, Scope, Scale and Concentration. The 21st Century Firm (2022), NBER Working Paper No. w30672, reperibile in https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract
_id=4282522.

[4] Si veda, al riguardo, OECD, Theories of Harm for Digital Mergers, 2023, OECD Competition Policy Roundtable Background Note, Parigi.

[5] Dal 1987 al 2020 I GAFAM avrebbero portato a termine 825 acquisizioni. Cfr. G. Parker, G. Petropoulos, M. Van Alstyne, Platform Mergers and Antitrust, in 30(5) Industrial and Corp. Change, 2021. Sul punto si rinvia anche a G. Zhe Jin, M. Leccese, L. Wagman, How Do Top Acquirers Compare in Technology Mergers? New Evidence from a S&P Taxonomy (2022), NBER Working Paper No. 29642, reperibile in https://www.nber.org/papers/w29642, che evidenziano come il numero di merger per impresa nel caso dei GAFAM risulti maggiore rispetto agli altri così detti “acquirenti Top”; le acquisizioni dei GAFAM sarebbero inoltre decisamente più disperse sotto il profilo settoriale.

[6] Circa il 97% delle acquisizioni delle acquisizioni non sarebbero state valutate da nessuna autorità antitrust secondo J.E. Kwoka jr., T.M. Valletti, Scrambled Eggs and Paralised Policy: Breaching Up Consummated Mergers and Dominat Firms (2020), reperibile in https://papers.
ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3736613.

[7] Cfr. LEAR, Rapporto per la Competition and Market Authority su Ex-post Assessment of Merger Control Decisions in Digital Markets, 2019.

[8] In estrema sintesi, vale la pena ricordare, tra l’altro, i) il tentativo della Germania e dell’Au­stria di cogliere il fenomeno integrando i paramenti tradizionali legati alle soglie di fatturato con il valore della transazione, così da poter valutare anche quelle operazione dove l’impresa o le imprese acquisite, sebbene prive di un volume d’affari significativo, sono oggetto di una valutazione elevata in ragione delle loro potenzialità; ii) il dibattito relativo a un’interpretazione estensiva dell’art. 22 del regolamento…che ha trovato il suo apice in occasione della concentrazione Illumina/Grail e per il quale si rinvia al contributo di Mario Siragusa; iii) la recente modifica della normativa nazionale volta a consentire all’Autorità, entro 6 mesi dalla loro realizzazione, la valutazione delle operazioni di concentrazione sottosoglia, e dunque senza obbligo di notifica, che potrebbero sollevare problemi di natura concorrenziale.

[9] Cfr., tra gli altri, A.C. Madi, Killing Innovation?: Antitrust Implications of Killer Acquisitions, in 38 Yale J. of Regulation, 2020, e C.M. Cunningham, F. Ederer, S. Ma, Killer Acquisitions, in 129 J. of Political Econ., 2021.

[10] Cfr. C.M. Cunningham, F. Ederer, S. Ma, (nt. 9).

[11] Cfr. M. Bourreau, A. de Streel, Big Tech Acquisitions. Competition and Innovation Effects and EU Merger Control, 2020, Centre of Regulation in Europe Issue Paper, https//cerre.eu/
wp-content/uploads/2020/03/cerre-big tech_acquisitions_2020-pdf.

[12] Cfr. A. Gautier, J. Lamesh, Mergers in the Digital Economy (2020), Cesifo Working Papers, No. 8056, reperibile in https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3529012.

[13] Cfr. C. Caffarra, G. Crawford e T. Valletti, How Tech Rolls: Potential Competition and Reverse Killer Acquisitions, 2020, https://oecdontheleve_com/2020/11/27/how-tech-rolls-potential
-competitio-and-reverse-killer-acquisitions/. Il link non è funzionante.

[14] Commissione (11/03/2008) Caso COMP/M4731, Google/DoubleClick; Commissione (03/10/2014) Caso COMP/M.7217, Facebook/Whatsapp; UK OFT (14/8/2012), ME/5525/12, Anticipated acquisition by Facebook Inc of Instagram Inc; UK OFT (11/11/2013), ME/6167/13, Completed acquisition by Motorola Mobility Holding (Google, Inc.) of Waze Mobile Limited; Commissione (13/02/2012) Case COMP/M.6381, Google/Motorola Mobility.

[15] CMA (18/10/2022), Facebook, Inc (now Meta Platforms, Inc) / Giphy, Inc Merger Inquiry, Final Report; Commissione (06/09/2022) Caso COMP/M.10188, Illumina/Grail(prohibition); Commissione (19/07/2022) Caso COMP/M.10483 Illumina/Grail (Gun Jumping, Statement of Objections); Commissione (29/10/2021) Caso COMP/M.10493 Illumina/Grail(Interim Measures under Art. 8(5)a); Commissione (28/10/2022) Case COMP/M.10938 Illumina/Grail (Interim Measures under Art. 8(5)c); Commissione (05/12/2022) Case COMP/M10939 Illumina/Grail(restorative measures under Art. 8(4)a); CMA (19/05/2023) Microsoft/Activision Blizzard, Notice of Intention to Make a Final Order e Commissione (15/05/2023), Caso COMP/ M10646, Microsof/Activision Blizzard.

[16] Si rinvia, ancora, a LEAR, (nt. 7).

[17] Cfr. Commissione (6/02/2019) Caso M. 8677, Siemens/Alshtom.

[18] Cfr. CMA (23/08/2017), Heineken/Punch Taverns; CMA (14/12/2017), Tulip/Easey.

[19] Cfr. tra l’altro OECD (2009), Roundtable on The Failing Firm Defense, 10 agosto; Commissione (09/10/2013), Caso M6796 Aegean/Olimpic II, operazione prima vietata dalla Commissione nel 2011 e poi autorizzata due anni dopo a seguito del peggioramento delle condizioni di Olimpic.

[20] Cfr. F. Denozza, Consumer welfare e shareholder value: le comuni radici, i limiti e i difetti di due teorie neoliberali, su questo numero della Rivista.

[21] Sul punto, si rinvia a V. Robertson, Merger Review in Digital and Technology Markets: Insights from National Case Law, Final Report, 2022, https://competition-policy.ec.europa.eu/
system/files/2022-12/kd0422317enn_merger_review_in_digital_and_tech_markets_1.pdf e a N. Zingales, B. Renzetti, Digital Platforms Ecosystems and Conglomerate Mergers: a Review of the Brazilian Experience, in 45(4) World Competition, 2022, oltre che a OECD, (nt. 4).

[22] Cfr. T. Wu, (nt. 2).

[23] Si veda G. Amato, Afterword, in Antitrust and the Bounds of Power, 25 Years On, ed. by O. Andriychuk, Bloomsbury Collection, 2023.

[24] Per tutti, si veda C. Fumagalli, M. Motta, Dynamic Vertical Foreclosure (2018), CSEF Working Paper No. 522, https://www.csef.it/WP/wp522.pdf.

[25] Cfr. S. Loertscher, L.M. Marx, Double Markups, Information and Vertical Mergers, in 67(3) The Antitrust Bullettin, 2022; P. Chonè, L. Limauer, T. Vergè, Double Marginalization and Vertical Integration (2021), CESifo Working Paper Series 8971, reperibile in https://www.
cesifo.org/en/publications/2021/working-paper/double-marginalization-and-vertical-integration.

[26] Cfr. M.L. Allain, C. Chambolle, P. Rey, Vertical Integration as a Source of Hold-up, in 83(1) The Rev. of Econ. Studies, 2016.

[27] Cfr. OECD, (nt. 4); V. Robertson, (nt. 21) e N. Zingales, B. Renzetti, (nt. 21). Sul punto, ovviamente, c’è anche chi mostra scetticismo, in ragione della scarsa prevedibilità dell’andamento dei mercati caratterizzati da continua innovazione per i quali alcuni autori, paradossalmente, piuttosto che un diverso approccio nella valutazione delle concentrazioni, preferirebbero un maggior ricorso alla regolazione ex antefuture proof” (obiettivo ambizioso!) e, semmai, interventi ex post volti a limitare lo sfruttamento abusivo delle posizioni dominanti. Si veda, ad esempio, L. Cabral, Merger Policy in Digital Industries, in 54 Information, Economics and Policy, 2021.

[28] Si veda, in particolare, l’acceso dibattito sviluppatosi dopo la decisione della Commissione sulla concentrazione Dow Chemical/Dupount in merito a come valutare gli effetti unilaterali sul processo innovativo. Tra i contributi più critici si segnalano, tra gli altri, N. Petit, Innovation, Competition, Unilateral Effects and Merger Policy: New? Not Sure. Robust? Not Quite!, in Concurrences, 2/2018 e M. Bourreau, A. de Streel, Digital Conglomerate and EU Competition Policy (2019), https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3350512.

[29] Si rinvia, per tutti, a E.M. Fox, The Modernization of Antitrust: A New Equilibrium, in 66 Cornell L. Rev., 1981.

[30] M. Grillo, Competition, Efficiency and Liberty (2018), Working Paper.

[31] Cfr. B. Dylan, Times They Are a’Changin’ (1964).

[32] Cfr. F. Jenny, Competition Law and Digital Ecosystems: Learning to Walk before We Run, in 30(5) Industrial and Corporate Change, 2021.

[33] Cfr. B. Springsteen, Dancing in the Dark, (1982).

Fascicolo 3 - 2023