Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2282-667X
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Systematic stewardship, common ownership: i grandi gestori di patrimoni e “l'internalizzazione delle esternalità” (di Paolo Giudici, Professore ordinario di diritto commerciale)


Il tema della partecipazione nelle imprese da parte di fondi passivi amministrati da un ridotto gruppo di gestori di dimensione mondiale solleva interessantissime questioni che si pongono all’incrocio di tematiche apparentemente tanto diverse come la regolazione pubblica, la negoziazione coasiana, il governo societario, la gestione dei fondi di investimento, la concorrenza tra le imprese partecipate da quei fondi, il diritto antitrust. Il tema, in ultima analisi, investe il ruolo che i grandi investitori istituzionali stanno assumendo nella nostra società. Tuttavia, è ancora presto per comprendere se il tema possa condurre a indicazioni precise sul piano della politica del diritto. Quanto alla teoria della “systematic stewardship”, vi sono alcuni punti deboli nell’analisi che pongono in dubbio che effettivamente i grandi gestori di fondi possano diventare i nuovi regolatori (privati) del pianeta. Allo stesso modo, non è ancora sufficientemente chiaro se la presenza dei grandi gestori nel capitale di imprese tra loro concorrenti su un mercato (“common ownership”) possa avere effetti negativi sul piano antitrust e se debba quindi essere sottoposto a controlli. Il problema della “common ownership”, comunque, pare ancora lontano rispetto alla struttura dei mercati dell’Europa continentale e di quello italiano in particolare, dominati dalla presenza di imprese a proprietà concentrata.

Systematic stewardship, common ownership: large asset managers and the 'internalisation of externalities'

Participation in the ownership of firms by passive funds managed by a small group of global asset managers raises very interesting issues at the crossroads of such seemingly disparate issues such as public regulation, Coasian bargaining, corporate governance, management of investment funds, competition between the companies in which those funds hold an interest, and antitrust law. The topic ultimately concerns the role that large institutional investors are assuming in our society. However, it is still too early to understand its policy implications. As for the theory of ‘systematic stewardship’, there are some weaknesses in the analysis that cast doubt on whether large fund managers can really become the new (private) regulators of planet Earth. Similarly, it is not yet sufficiently clear whether ‘common ownership’ can have negative antitrust effects and should therefore be subject to control. The problem of common ownership, however, still seems distant from the structure of the markets in continental Europe and the Italian market in particular, which are still dominated by the presence of companies with concentrated ownership.

Sommario/Summary:

1. Premessa. - 2. Le esternalità negative. - 3. La concorrenza di prezzo vista come esternalità negativa. - 4. Diversificazione contro concentrazione negli investimenti. - 5. L’internalizzazione delle esternalità e la “systematic stewardship”. - 6. I limiti della teoria della “systematic stewardship”. - 7. Il riflesso antitrust: la teoria della “common ownership” come fattore di riduzione della concorrenza. - 8. Le ragioni dell’immediata fortuna della teoria. - 9. Le critiche alla teoria. - 10. La prospettiva italiana. - 11. Osservazioni conclusive. - NOTE


1. Premessa.

Il successo dei fondi passivi e indicizzati e di alcuni dei loro gestori, quali Vanguard, BlackRock, State Street (“The Big 3”) ma anche Fidelity e altri, ha fatto sì che tali gestori si trovino ad essere, tramite i fondi da essi gestiti, i principali azionisti di molte società quotate del pianeta. Questa compresenza ha suscitato l’interesse di due linee parallele di ricerca. La prima cerca di spiegare il recente crescente interesse degli investitori istituzionali (BlackRock per primo) per i temi ESG (“Environmental, Social, and Governance”). Essa ipotizza che quei gestori, incentivati a perseguire il massimo valore del proprio portafoglio diversificato, abbiano ormai forti incentivi a preoccuparsi dei rischi ambientali, ecologici e più in generale al tema della sostenibilità, in quanto si tratta di rischi non diversificabili su cui possono incidere attraverso politiche di intervento attivo nella gestione delle società che compongono il portafoglio dei fondi partecipati (c.d. “systematic stewardship”). La seconda linea di ricerca, diventata di gran moda negli ultimi anni, cerca di individuare effetti negativi a livello concorrenziale sui mercati in cui operano le imprese partecipate dai grandi gestori, ipotizzando che la loro compresenza nel capitale sociale di imprese concorrenti (chiamata, in questo contesto scientifico, “common ownership”) possa indurre un’attenuazione della concorrenza tra queste ultime.

Nel presente lavoro espongo la relazione tra i due temi e li discuto, presentando la principale letteratura che li ha studiati e le aree critiche che rendono ancora deboli le indicazioni di politica del diritto che ne costituiscono corollario. Il mio approccio è giuseconomico e interdisciplinare, in quanto mette insieme teoria della regolazione, teoria del portafoglio, finanza, governo societario e antitrust. La mia conclusione è che sia la teoria della “systematic stewardship” sia quella della “common ownership” hanno dei significativi punti deboli. Criticare, però, è più facile che costruire: le idee da cui esse nascono sono certamente brillanti e meritano approfondimenti. Passo dunque, qui di seguito, alla mia analisi.


2. Le esternalità negative.

La teoria economica insegna che esistono delle situazioni di c.d. “fallimento del mercato”, cioè delle situazioni in cui la negoziazione tra le parti operanti in un libero mercato non riesce a conseguire un’allocazione ottimale delle risorse. Le esternalità negative possono determinare una di tali situazioni. Vi sono circostanze in cui l’impatto delle esternalità negative può essere ridotto o eliminato tramite la negoziazione. Se un’impresa inquina l’acqua di un laghetto in riva al quale si trova un campeggio, l’impresa che gestisce il campeggio può negoziare con l’im­presa inquinante per ottenere una riduzione dell’attività inquinante, oppure può acquistarne il controllo per decidere, come “proprietaria” delle due attività, qual è per lei l’ottimale quantità di attività inquinante e turistica. Siamo nello scenario reso celebre da Ronald Coase in The Problem of Social Cost [1].

Vi sono però situazioni in cui i costi di transazione sono insuperabili. L’impresa che con la propria attività industriale inquina l’atmosfera ne costituisce un esempio. Non esiste la possibilità pratica di una negoziazione tra tutte le persone che subiscono il danno prodotto dall’inquinamento dell’aria (potenzialmente, l’intero pianeta) e l’impresa in questione, per un evidente problema di azione collettiva: tutti gli abitanti di una determinata area, o nazione, o del pianeta, dovrebbero negoziare con l’impresa per raggiungere un accordo che ottimizzi i benefici della produzione e minimizzi i costi dell’inquinamento [2]. In presenza di una situazione simile, deve intervenire l’ordinamento giuridico, sostituendosi alla negoziazione privata. L’inquinamento deve essere ridotto tramite una regolazione che tenti di trovare il punto di equilibrio tra benefici della produzione e costi dell’inquinamento, oppure tramite una tassa di Pigou, che imponga un costo sulla produzione e così la riduca, o ancora attribuendo un diritto al risarcimento dei danni ai soggetti danneggiati, mettendoli in condizione di agire collettivamente (tramite azioni di classe e simili).


3. La concorrenza di prezzo vista come esternalità negativa.

La teoria economica naturalmente non tratta le riduzioni di prezzo effettuate da un produttore come esternalità negative che impattano sull’attività di una molteplicità di operatori esterni, danneggiandola. La concorrenza di prezzo, infatti, è la prima forma attraverso cui gli effetti di un mercato competitivo si manifestano, conducendo a un’allocazione efficiente delle risorse. Le esternalità negative quali l’inquinamento conducono invece a un’allocazione inefficiente delle risorse (eccessiva produzione di inquinamento).

Chiedo qui però uno sforzo di astrazione al lettore. Vi sono infatti molte situazioni in cui la concorrenza di prezzo viene implicitamente trattata come se fosse un’esternalità negativa. Ciò perché, da un punto di vista astratto, sganciato da valutazioni di efficienza allocativa, può avere un impatto simile: il produttore che abbatte i prezzi “inquina” il mercato perché la sua decisione ha effetti rilevanti su tutti gli altri soggetti, riducendo i loro guadagni. Di conseguenza, anche nel campo della concorrenza si assiste a fenomeni che ricordano (in negativo ovviamente) i meccanismi di controllo delle esternalità negative: regolamentazione pubblica che nasconde interventi di riduzione della concorrenza [3]; tassazione statale mirata su produttori che abbattono i prezzi (si pensi ai produttori stranieri); tentativi di trasformare i danni subiti in conseguenza della riduzione dei prezzi in un danno giuridicamente risarcibile (uso distorto delle teorie sull’illiceità della vendita sottocosto e sui prezzi predatori) [4].

Naturalmente anche nel campo della concorrenza di prezzo è possibile risolvere i problemi con accordi negoziali: cartelli tra produttori od operazioni di concentrazione. Gli ordinamenti giuridici, tuttavia, generalmente vietano questi accordi e tutte le intese anticoncorrenziali (art. 101 T.F.U.E.; art. 2 l. n. 287/1990).

Poste queste premesse relative alla teoria economica delle esternalità negative e alle politiche anticoncorrenziali che trattano i ribassi di prezzi come se fossero anch’essi una forma di esternalità negativa, veniamo alla relazione tra questo tema e la teoria economico-finanziaria.


4. Diversificazione contro concentrazione negli investimenti.

Uno dei grandi insegnamenti della moderna teoria finanziaria riguarda i benefici della diversificazione degli investimenti. Per comprenderne le basi occorre focalizzare l’attenzione sulla relazione tra rischio e rendimento che sta alla base della teoria finanziaria. Maggiore è il rischio, maggiore è il rendimento atteso. In ogni investimento, tuttavia, esistono due componenti di rischio: il rischio specifico, direttamente connesso alle caratteristiche della società emittente; il rischio sistematico, ossia il rischio del mercato nel suo insieme, con tutte le sue oscillazioni. Quest’ultimo riflette i problemi che investono tutte o quasi tutte le imprese: l’impatto della pandemia, quello della guerra tra Federazione Russa e Ucraina, il cambiamento climatico. Mentre il primo rischio è annullabile tramite la diversificazione del portafoglio e quindi non è remunerato dal mercato in quanto eliminabile, il rischio sistematico non è eliminabile e quindi viene remunerato [5].

La ricerca di adeguati strumenti di diversificazione del rischio ha portato alla nascita della moderna industria finanziaria degli organismi d’investimento collettivo e dell’asset management, in cui enormi patrimoni (siano essi fondi comuni d’investimento, fondi pensione o altro) sono gestiti da operatori specializzati che seguono la teoria del portafoglio. Gestori che perseguono la diversificazione sono tendenzialmente passivi rispetto alle vicende del singolo emittente i cui titoli compongono il paniere dei propri investimenti. Il fenomeno trova evidentemente la massima espressione nei casi in cui il gestore semplicemente replica, con i propri investimenti, l’intero mercato e i suoi indici (c.d. “index funds”).

Naturalmente vi sono investitori che non sono perfettamente diversificati, perché in realtà confidano di guadagnare attuando politiche attive nell’ambito delle società nei cui titoli abbiano investito. Si pensi, per esempio, alle società di partecipazione attraverso in cui in Europa continentale e in Asia le famiglie o comunque singoli azionisti o piccole coalizioni controllano la maggioranza delle imprese. Questa differenza tra investitori riflette la differenza tra mercati in cui le principali imprese hanno proprietà diffusa e mercati in cui invece anche le principali imprese hanno proprietà concentrata [6].


5. L’internalizzazione delle esternalità e la “systematic stewardship”.

La teoria economica assume gli investitori non perfettamente diversificati siano generalmente unanimemente interessati alla massimizzazione del valore della loro partecipazione (“unanimity theorem”) [7]. Gli investitori diversificati, per parte loro, sono invece massimamente interessati all’andamento del loro portafoglio di strumenti finanziari. Nel momento in cui il portafoglio fosse talmente ampio da replicare (o “possedere”) l’intero mercato, o una porzione di esso sufficientemente grande, essi finirebbero per “internalizzare” tutte le esternalità [8]. Questo vuol dire, per esempio, che gli effetti dell’inquinamento si rifletterebbero sull’anda­mento delle imprese che compongono il portafoglio, con alcune imprese inquinanti e altre imprese danneggiate dall’inquinamento. In questa situazione, i costi e i benefici delle produzioni industriali inquinanti impatterebbero su tali investitori come se essi rappresentassero l’intera società civile. Essi avrebbero dunque interesse a intervenire per trovare un punto di equilibrio tale per cui a un certo livello di inquinamento il portafoglio abbia una crescita maggiore rispetto agli altri possibili livelli (siano essi maggiori o minori). Tale intervento si attuerebbe attraverso la partecipazione alle assemblee delle società partecipate e l’indirizzamento della gestione di queste verso il livello di inquinamento considerato ottimale. Tuttavia, la situazione non sarebbe proprio equivalente a quella dell’unico proprietario delle attività inquinanti e turistiche di cui all’esempio del paragrafo 0. In questo caso rimarrebbe infatti un problema di azione collettiva: questi investitori dovrebbero coordinarsi per concordare un’azione comune nei confronti delle imprese partecipate.

Oggi l’industria dell’asset management è caratterizzata dalla presenza di gestori (tra cui spiccano le c.d. “Big 3”: BlackRock, Vanguard, State Street) così grandi e diversificati da essere ormai in posizione di “possedere l’intero mercato” e di risolvere i problemi di azione collettiva. Alla luce di questa osservazione, in letteratura si è avanzata la tesi che i più grandi gestori di fondi passivi (indicizzati o meno) siano ormai in una situazione prossima all’internalizzazione delle esternalità. Il movimento ESG sarebbe espressione di questa situazione. Le sfide globali lanciate dal cambiamento climatico, la perdita di biodiversità e in genere la sostenibilità delle attività umane sul pianeta avrebbero un impatto sistemico tale da non poter essere ignorate dai grandi gestori, influenzando il rischio sistematico dei loro portafogli diversificati. In altre parole, i grandi gestori sarebbero in grado oggi di influire su un fattore che precedentemente si pensava essere al di fuori del controllo di qualsiasi investitore, cioè proprio il rischio sistematico. L’influenza evidentemente non è totale, ma può diventare significativa sui temi ESG: di qui la spinta verso quella che è stata definita “systematic stewardship” [9].

Una volta che i grandi gestori internalizzano le esternalità negative e si comportano come se rappresentassero l’intera società, le loro scelte rifletterebbero quelle di un “common owner”, ossia di un soggetto divenuto proprietario sia delle attività inquinanti sia delle risorse danneggiate dall’inquinamento [10]. Un proprietario unico si comporta esattamente come dovrebbe comportarsi, almeno in teoria, un regolatore pubblico. I suoi incentivi sono allineati a quelli della società nel suo complesso. Se la produzione sul pianeta non è sostenibile, il proprietario del pianeta ha interesse a renderla tale.

La “systematic stewardship” non è l’unica teoria fornita in letteratura per spiegare l’esplosione dell’attenzione per i temi ESG. I grandi gestori devono catturare i patrimoni delle nuove generazioni, più interessate ai temi dell’ambiente rispetto ai loro padri e nonni [11]. Comunque gli investitori privati con patrimoni maggiori mostrano una sempre maggiore attitudine a effettuare investimenti sostenibili, per cui vi sarebbe un cambiamento della società, più sensibile di un tempo verso i temi dell’ambiente e della sostenibilità, cui i gestori di patrimoni devono saper rispondere. Resta il fatto che la teoria è particolarmente suggestiva, perché sembra offrire una spiegazione economico-finanziaria forte a un fenomeno, la discesa in campo dei grandi gestori sui temi ESG, che non si riesce a spiegare bene soltanto focalizzandosi sugli investitori più giovani e i mutamenti della sensibilità sociale.


6. I limiti della teoria della “systematic stewardship”.

Un’analisi più dettagliata della teoria ne mostra, tuttavia, alcuni limiti, che la letteratura non ha mancato di evidenziare. Il primo è che le società quotate o con titoli comunque attivamente scambiati su mercati secondari, che sono quelle partecipate dagli investitori istituzionali, costituiscono solo una porzione delle società operanti in un ordinamento e, comunque, sul pianeta. La maggior parte delle imprese del pianeta non sono quotate e hanno proprietà concentrata; e i loro soci – come abbiamo osservato – sono generalmente propensi a massimizzare lo “shareholder value”. Del resto, vi sono anche molti investitori professionali che sono attivisti e quindi concentrati, con il loro investimento, in società che non rappresentano affatto una porzione significativa del mondo produttivo [12].

Il secondo limite della teoria è che i grandi gestori amministrano, in realtà, il patrimonio di organismi di investimento collettivo anche molto diversi tra loro, con diversi profili di rischio, caratteristiche, settori produttivi di riferimento, tecniche d’investimento (passive, indicizzate, attive) [13]. Il gestore sarebbe obbligato a esercitare il diritto di voto nella società cui il fondo da lui amministrato partecipa in modo coerente con gli interessi del fondo e del suo partecipante. La teoria della “systematic stewardship” assume dunque comportamenti uniformi da parte dei gestori che, invece, andrebbero empiricamente dimostrati, anche perché potrebbero essere contrari ai loro obblighi di diligenza nei confronti dei singoli fondi da essi gestiti. Se questi comportamenti esistessero effettivamente, la circostanza imporrebbe un più attento esercizio dei poteri di controllo ed eventualmente di revoca da parte dei consigli di amministrazione delle società di investimento americane, siano esse costituite nella forma di business trust o di corporation [14]. Secondo un’autorevole linea di pensiero, anzi, l’attivismo dei grandi gestori sui temi ESG svela un nuovo e grave problema di agency (nascosto dietro un fenomeno di “cheap talk”) [15], rappresentato dal rapporto tra il gestore e il fondo, non sufficientemente controllato dai consigli delle “investment companies” e dai loro amministratori indipendenti [16]. In particolare, i trustee dei grandi fondi pensione americani non effettuerebbero in modo adeguato il controllo a causa delle interferenze politiche cui sono soggetti, che li spingerebbero ad assecondare la tutela di valori generici ma politicamente attraenti (la protezione dei valori ESG) a scapito della migliore gestione finanziaria del fondo [17].

Esistono di conseguenza forti dubbi che in effetti la teoria della “systematic stewardship” sia valida e che i gestori di fondi comuni d’investimento e di fondi pensione possano esercitare (ed esercitino nei fatti) una funzione assimilabile a quella del regolatore pubblico [18].


7. Il riflesso antitrust: la teoria della “common ownership” come fattore di riduzione della concorrenza.

I temi sin qui discussi hanno trovato un inaspettato riflesso in materia antitrust. Per impostare il tema basta tornare a quanto detto in precedenza circa la possibilità di considerare il ribasso di prezzi come un’esternalità negativa (non lo è, ma l’analogia serve a comprendere il tema oggetto di discussione). Se i grandi gestori “posseggono il mercato”, possono avere interesse a internalizzare anche questa “esternalità”. Come l’inquinamento danneggia una parte significativa delle attività sul pianeta, incentivando i grandi gestori a intervenire per proteggere il complesso degli investimenti effettuati per conto dei clienti, così la concorrenza di prezzo danneggerebbe interi settori industriali, incentivando gli investitori istituzionali a limitarla, ovviamente attraverso strumenti non facilmente osservabili, per evitare i divieti e le sanzioni del diritto antitrust. Un grande gestore massicciamente presente in tutte le principali compagnie aeree, per esempio, avrebbe da un lato interesse a che esse limitassero l’inquinamento atmosferico e dall’altro che esse limitassero la concorrenza di prezzo tra loro. Detto in altri termini, i gestori avrebbero forti incentivi, pur non essendo soci di controllo, a promuovere accordi di cartello tra le società cui partecipano; ma siccome non possono farlo apertamente lo farebbero di nascosto.


8. Le ragioni dell’immediata fortuna della teoria.

Prima di analizzare i punti deboli di questa tesi, che possono già apparire evidenti da questa prima descrizione (in cui i gestori non agiscono come proprietari unici del mercato, ma come proprietari unici di un segmento del mercato, ossia di un mercato del prodotto e geografico molto delimitato), consideriamo le ragioni della sua fortuna. In una serie di articoli pubblicati su importantissime riviste economiche un gruppo di ricercatori ha evidenziato la presenza di una più ridotta concorrenza dei prezzi in alcuni mercati (mercato aereo, mercato bancario) in cui i grandi gestori avevano significati investimenti nelle relative imprese che li portavano ad essere i principali azionisti e ad esercitare una sorta di “common ownership” [19]. Questa osservazione sembrava offrire supporto teorico a precedenti studi in materia antitrust che avevano sostenuto la necessità di un più aggressivo controllo antitrust sugli acquisti di partecipazioni rilevanti (seppure non di controllo) [20] e, appunto, gettava nuova luce sul tema della “systematic stewardship”, mostrandone criticità prima non identificate. Di qui il fiorire, nel giro di pochi anni, da un lato di un innumerevole numero di studi sul tema, tesi a confortare o smentire la teoria secondo cui la “common ownership” potrebbe avere effetti negativi sul piano del benessere sociale; dall’altro, di autorevoli ma forse troppo frettolose proposte di modifica della disciplina antitrust statunitense, tese a limitare la possibilità per i grandi investitori istituzionali di avere partecipazioni oltre soglie molto limitate (per es., 1%) e ad imporre, in caso di soglie più alte, una passività assoluta sui temi del governo societario e della nomina degli amministratori [21].

In Europa il dibattito ha riguardato l’opportunità di modificare il regolamento Concentrazioni in modo da portare nel suo perimetro anche gli acquisti di partecipazioni non di controllo [22]. La proprietà comune, infatti, modificherebbe – secondo un’opinione – lo scenario controfattuale rispetto al quale deve essere valutata una proposta di concentrazione, in quanto cambierebbe la potenziale portata del danno concorrenziale rispetto alla tesi tradizionale secondo cui le partecipazioni non di controllo non interferiscono in modo significativo sul piano concorrenziale. Quel danno andrebbe messo di fronte ai vantaggi di efficienza rivendicati dall’operazione di concentrazione. La proprietà comune influirebbe pertanto sul­l’analisi e sulla quantificazione degli effetti unilaterali derivanti da operazioni di concentrazione tra società operanti in settori oligopolistici, prive di un socio di controllo ma partecipate in comune da grandi gestori [23].


9. Le critiche alla teoria.

Le prime critiche alla teoria si sono subito rivolte alla mancanza di un chiaro modello teorico attraverso cui si potesse spiegare come i gestori dei fondi potessero influenzare il livello di concorrenza delle società partecipate [24]. Sul punto la replica è stata che basterebbe, in un mercato oligopolistico, offrire agli amministratori e ai dirigenti una vita tranquilla, non sottoposta allo stress di dover competere con la concorrenza ma orientata, possibilmente, al margine operativo del­l’impresa e, quindi, all’incentivo a non avviare guerre di prezzo [25]. Alcuni autori hanno di recente seguito tale percorso per argomentare che questo tipo di incentivi si ottiene attraverso un’adeguata struttura dei compensi [26]. Ma i critici non ritengono credibile che ciò possa veramente avvenire, in mercati competitivi in cui gli amministratori e i dirigenti competono per mostrare le proprie capacità.

Peraltro, se il meccanismo fosse veramente quello descritto bisognerebbe mettere in discussione le modalità con cui i grandi gestori esercitano il voto in assemblea. È un tema che si riallaccia a quello, già visto in precedenza, relativo al possibile problema di allineamento degli incentivi tra gli amministratori delle grandi società di gestione e i fondi da essi gestiti. Lo stesso gestore di portafogli che ha dato il là al movimento ESG, BlackRock, ha inaugurato un programma che attribuisce agli investitori istituzionali clienti la possibilità di indicare le scelte di voto da effettuare alle assemblee degli emittenti che più loro interessano. Si tratta di un tema apertissimo, su cui vi sono già stati numerosi interventi in letteratura [27]. Naturalmente, un simile percorso modificherebbe in maniera piuttosto radicale l’idea della “systematic stewardship”, perché si evidenzierebbe quanto i critici di tale teoria già sottolineano, ossia che se esiste un fenomeno di voto unificato da parte dei gestori per conto delle decine o centinaia di fondi di cui essi amministrano il portafoglio titoli, quel fenomeno è di per sé contrario ai doveri fiduciari degli stessi gestori, perché non riflette i diversi interessi che l’amministrazione di ciascun fondo può avere rispetto ai temi oggetto di voto.

In ogni caso, le implicazioni della teoria della “common ownership” sono tutt’altro che indiscusse. In letteratura si trovano autorevoli studi che non riscontrano gli effetti anticoncorrenziali indicati dagli autori che hanno avviato la discussione della materia, come pure autorevoli studi che mettono in dubbio la stessa metodologia seguita da quegli autori [28]. Ma la critica che pare forse più persuasiva attacca il tema a un livello ancora più generale. Come abbiamo visto, la teoria della “systematic ownership” e la teoria della “common ownership” si possono comprendere come corollari di uno stesso concetto fondamentale, ossia quello della internalizzazione delle esternalità. Questo concetto unificatore assume che i grandi gestori “posseggano il mercato” e quindi si discostino completamente dal perseguimento dello “shareholder value” e seguano, piuttosto, un “portfolio value” che richiede, vista la dimensione, interventi su temi di natura sistemica quali l’ambiente e la sostenibilità. Tuttavia, è facile osservare che la teoria della “common ownership” non assume che i grandi gestori abbiano partecipazioni in tutto il mercato, ma assume che essi abbiano partecipazioni in un particolare mercato del prodotto e geografico e quindi che essi abbiano incentivi a ridurre la concorrenza in quello specifico mercato per far generare alle imprese cui partecipano profitti sovra-competitivi. Il problema è che i grandi gestori possono anche avere partecipazioni a monte o a valle del mercato considerato. Con riferimento al mercato aereo oggetto del più celebre studio sulla “common ownership”, i grandi gestori potrebbero avere investimenti in società del turismo danneggiate dagli aumenti dei prezzi nel mercato dei trasporti aerei, in società di produzione di cherosene, in società aeroportuali interessate alla massimizzazione dei transiti, ecc. In altre parole, «intra-industry diversified mutual funds tend also to be inter-industry diversified» [29].

Questa osservazione non sembra rendere credibile il modello economico su cui è stata costruita la teoria. Essa va pertanto misurata in una prospettiva di equilibrio generale e, infatti, i suoi iniziatori hanno di recente allargato lo sguardo, adottando una prospettiva di equilibrio generale che li porta a smussare l’indirizzo interventista in campo antitrust che nei loro primi articoli la teoria aveva preso [30].


10. La prospettiva italiana.

Dalla prospettiva italiana il tema della “common ownership” appare in qualche misura un problema lontano. Infatti, la stragrande maggioranza delle imprese italiane e dell’Europa continentale ha proprietà concentrata, quindi ha soci o coalizioni di controllo che tendono a perseguire lo “shareholder value” e che comunque certamente non hanno investimenti ampiamente diversificati. Questo sostanzialmente esclude alla radice la possibile applicazione della teoria anche qualora queste imprese avessero partecipazioni di minoranza da parte di investitori istituzionali i cui portafogli fossero gestiti dai grandi asset manager del pianeta. Naturalmente anche i soci di controllo di un’impresa possono avere un interesse a creare meccanismi di riduzione del gioco della concorrenza per attuare intese con le imprese rivali, ma tali meccanismi non troverebbero il proprio innesco nella presenza nel capitale delle diverse imprese concorrenti di fondi amministrati dai grandi gestori del pianeta.

Soprattutto, è difficile immaginare mercati in cui tutte le imprese concorrenti o anche la maggioranza delle imprese concorrenti sia quotata o abbia comunque le azioni negoziate su mercati secondari. Questo elimina alla radice la presenza di “common owners” incentivati a guardare al mercato del prodotto e geografico nel suo complesso per incentivare pratiche di riduzione della concorrenza e innalzare i profitti aggregati delle imprese concorrenti che in quei mercati operano.


11. Osservazioni conclusive.

Il tema della partecipazione alle imprese da parte di fondi passivi amministrati da un ridotto gruppo di gestori di portafogli di dimensione mondiale solleva interessantissime questioni che si pongono all’incrocio di tematiche apparentemente tanto diverse come la regolazione pubblica, le tecniche private di riduzione delle esternalità negative, il governo societario, le modalità di amministrazione e l’e­sercizio dei diritti sociali da parte dei gestori di organismi di investimento collettivo, i loro conflitti d’interesse, il perseguimento da parte dei gestori delle preferenze sociali degli investitori che partecipano ai fondi, la concorrenza tra le imprese partecipate, l’estensione del possibile intervento antitrust. Il tema, in ultima analisi, investe il ruolo che i grandi investitori istituzionali stanno assumendo nella nostra società.

Tuttavia, è ancora presto per comprendere se il tema possa condurre a indicazioni precise sul piano della politica del diritto. Quanto alla teoria della “systematic stewardship”, vi sono alcuni punti deboli nell’analisi che pongono in dubbio che effettivamente i grandi gestori di fondi possano diventare i nuovi regolatori (privati) del pianeta. Allo stesso modo, non è ancora sufficientemente chiaro se la presenza dei grandi gestori nel capitale delle imprese concorrenti su un mercato possa avere effetti negativi sul piano antitrust e se debba quindi essere sottoposto a controlli. Il problema della “common ownership”, comunque, pare ancora lontano rispetto alla struttura dei mercati dell’Europa continentale e di quello italiano in particolare, dominati dalla presenza di imprese a proprietà concentrata.


NOTE

[1] R.H. Coase, The Problem of Social Cost, in 3 J. L. & Econ., 1960, 1.

[2] Se la negoziazione fosse simultanea, si dovrebbero portare a uno stesso tavolo tutti i soggetti interessati, confrontandosi con le preferenze individuali di ciascuno di essi e quindi con il prezzo che ciascuno di essi può essere interessato a pagare. Se la negoziazione fosse sequenziale, l’ultimo potrebbe ricattare i precedenti soggetti interessati, rifiutandosi di chiudere la trattativa se non riceve un compenso (c.d. “hold up problem”): B. Klein, The hold-up problem, in The New Palgrave Dictionary Of Economics And The Law, dir. by P. Newman, London, Macmillan Reference Limited, 1998.

[3] G.J. Stigler, The Theory of Economic Regulation, in 2 Bell J. Econ. Management Science, 1971, 3.

[4] P. Giudici, I prezzi predatori, Milano, Giuffrè, 2000.

[5] Si tratta di nozioni di base di finanza, sulle quali uno dei testi classici è Z. Bodie, A. Kane, A.J. Marcus, Investments12, New York, McGraw Hill, 2021, 193 ss.

[6] L. Enriques, P. Volpin, Corporate Governance Reforms in Continental Europe, in 21 J. Econ. Perspectives, 2007, 117; R.J. Gilson, Controlling Shareholders and Corporate Governance: Complicating The Comparative Taxonomy, in 116 Harvard L. Rev., 2006, 1641; L. Courteau, R. di Pietra, P. Giudici, A. Melis, The role and effect of controlling shareholders in corporate governance, in J. Management and Governance, 2017, 21.

[7] O. Hart, L. Zingales, The new corporate governance, in 1 U. Chicago Bus. L. Rev., 2022, 1.

[8] R.G. Hansen, J.R. Lott, Externalities and corporate objectives in a world with diversified shareholder/consumers, in 31 J. Fin. Quantitative Analysis, 1996.

[9] J.N. Gordon, Systematic stewardship, in 47 J. Corp. L., 2021; J. C. Coffee jr, The future of disclosure: ESG, common ownership, and systematic risk, in Columbia Bus. L. Rev., 2021, 602; L. Enriques, A. Romano, Rewiring corporate law for an interconnected world, in 64 Arizona L. Rev., 2022, 51.

[10] M. Condon, Externalities and the common owner, in 95 Washington L. Rev., 2020, 1. In un importante e recentissimo contributo, V. Battocletti, L. Enriques, A. Romano, Dual-Class Shares in the Age of Common Ownership, in J. Corp. L., 2023, 542, collegano in modo originale e interessante il tema della “systematic stewardship” con il crescente uso delle azioni a voto plurimo da parte delle società tecnologiche; secondo gli autori, questo crescente uso potrebbe essere spiegato proprio con l’esigenza, da parte dei founders, di limitare la possibilità per gli investitori istituzionali di influenzare la gestione dell’impresa in un’ottica di massimizzazione del proprio portafoglio anziché di massimizzazione del valore dell’impresa stessa.

[11] M. Barzuza, Q. Curtis, D.H. Webber, Shareholder value (s): Index fund ESG activism and the new millennial corporate governance, in 93 Southern California L. Rev., 2019.

[12] R. Tallarita, The Limits of Portfolio Primacy, 76 Vanderbilt L. Rev., 2023, 511.

[13] A. Robertson, D.S. Lund, Giant Asset Managers, the Big Three, and Index Investing, disponibile su SSRN (2023); A.Z. Robertson, Passive in name only: Delegated management and index investing, in Yale J. on Regulation, 2019, 36; R. Tallarita, (nt. 12), 2023.

[14] A.M. Lipton, Family loyalty: Mutual fund voting and fiduciary obligation, in 19 Transactions: Tennessee J. Bus. L., 2017, 175.

[15] M.J.R. Macey, ESG Investing: Why Here? Why Now?, in 19 Berkeley Bus. L. J., 2022, 258.

[16] P.G. Mahoney, J.D. Mahoney, The new separation of ownership and control: Institutional investors and ESG, in Columbia Bus. L. Rev., 2021, 840.

[17] P.G. Mahoney, J.D. Mahoney, (nt. 16), 860 ss.

[18] G. Balp, G. Strampelli, Institutional Investor ESG Engagement: The European Experience, in 23 EBOR, 2022, 869.

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Fascicolo 3 - 2023