Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2282-667X
G. Giappichelli Editore

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Oltre lo shareholder value. Verso nuove regole per la composizione degli interessi nella grande impresa azionaria (di Andrea Perrone, Professore ordinario di diritto commerciale, Università Cattolica del Sacro Cuore – Danilo Semeghini, Professore associato di diritto commerciale, Università degli Studi di Milano-Bicocca)


Nel contesto del dibattito internazionale sul corporate purpose, l’articolo identifica il potere economico delle grandi società per azioni come il principale fattore che sollecita a superare il paradigma dello shareholder value. In questa prospettiva, l’articolo discute le strategie normative adottate dalla recente legislazione europea in tema di capitalismo sostenibile, con specifico riguardo a regole di trasparenza e disciplina degli assetti organizzativi.

Beyond shareholder value. Towards new rules to balance interests in large corporations

Considering the international debate on corporate purpose, this paper identifies the economic power of large corporations as the main factor that requires overcoming the shareholder value paradigm. The article discusses the regulatory strategies adopted by recent European legislation on sustainable capitalism, focusing on disclosure and corporate arrangements.

Sommario/Summary:

1. Gestione dell’impresa e interessi rilevanti. - 2. La composizione degli interessi nel paradigma dello shareholder value. - 3. I limiti del paradigma nell’esperienza storica. - 4. Potere della grande impresa azionaria ed equilibrio tra gli interessi. - 5. Le iniziative dell’Unione europea in materia di capitalismo sostenibile. - 5.1. Le regole di trasparenza. - 5.2. La disciplina degli assetti organizzativi. - 6. Il potere della grande impresa azionaria nell’orizzonte del diritto societario. - NOTE


1. Gestione dell’impresa e interessi rilevanti.

L’insoddisfazione verso il paradigma dello shareholder value è oggi largamente condivisa. La critica all’impianto che, nei decenni a cavallo del nuovo millennio, ha fondato l’approccio economico e giuridico alle grandi imprese azionarie è oggi diventata mainstream e il dibattito sul corporate purpose ha assunto dimensioni globali [1]. Le ragioni per le quali «one of the oldest corporate law issues - For Whom is the Corporation Managed? - has become one of the hottest public policy issues» [2] si ritrovano nell’attuale contesto economico e sociale, significativamente diverso dal mondo nel quale il modello dello shareholder value è stato elaborato. Sul versante delle società, le grandi imprese azionarie sono diventate più grandi e potenti; in un mondo più popolato e interdipendente, la rilevanza delle esternalità generate dalla loro attività è aumentata; è cresciuta, infine, la consapevolezza che gli Stati non sempre riescono ad affrontare adeguatamente tali problemi [3]. Sul fronte degli investitori, sono, invece, cambiate le preferenze, specialmente nelle generazioni più giovani [4]; nel contempo, è cresciuta la percezione che esternalità non governate possono precludere rendimenti proporzionati ai rischi degli investimenti effettuati [5].

Così messo in questione il paradigma tradizionale, assai meno definiti sono, tuttavia, i contorni di un possibile modello alternativo. Se, da un lato, adducere inconveniens non est solvere argumentum, in punto di merito la discussione sul superamento del riferimento esclusivo allo shareholder value è resa più complessa dalla contemporanea valorizzazione, spesso per via autonoma, delle tematiche ambientali, sociali e di governance [6].

Un punto fermo può, nondimeno, essere individuato. Tanto le posizioni che propugnano una gestione dell’impresa disciplinata in modo da attribuire rilevanza a interessi ulteriori rispetto all’interesse economico dei soci [7], quanto le critiche che escludono l’effettiva praticabilità di tali soluzioni [8], concordano, infatti, sul­l’esistenza del problema: la gestione dell’impresa coinvolge una pluralità di interessi eterogenei e potenzialmente divergenti; non è possibile, pertanto, considerare unicamente l’interesse dei soci, essendo, invece, necessario individuare strumenti giuridici adeguati per comporre la pluralità di interessi coinvolti dalla gestione dell’impresa e, in particolare, della grande impresa azionaria. Le soluzioni prospettate differiscono, oscillando tra un radicale ripensamento delle regole di corporate governance e un approccio “dall’esterno” del diritto societario, che affida la tutela degli altri interessi ritenuti meritevoli di protezione alle singole discipline speciali (per esempio, il diritto del lavoro, il diritto dell’ambiente o il diritto della concorrenza). Entrambe le impostazioni condividono, però, l’identifi­cazione del problema: una moderna disciplina della grande impresa azionaria non può trascurare gli interessi eterogenei che la sua gestione coinvolge.


2. La composizione degli interessi nel paradigma dello shareholder value.

Se, dunque, la rilevanza di una pluralità di interessi nella gestione dell’impresa è fuori discussione, il problema di fondo da affrontare riguarda la modalità con cui tali interessi possono trovare composizione.

In questa prospettiva, il successo della shareholder value theory può essere spiegato per la sua capacità di semplificare un problema complesso, secondo un tratto che tipicamente caratterizza lo “stile giuridico neo-liberale” [9]. Come nel più generale paradigma della “mano invisibile”, nel modello dello shareholder value le dinamiche di mercato costringono ciascuno a considerare gli interessi degli altri, così che il libero perseguimento dell’interesse egoistico consente di realizzare il benessere collettivo. In particolare, poiché gli azionisti sono residual claimant e sono, quindi, soddisfatti solo dopo tutte le altre controparti dell’im­presa, una gestione che persegua il maggior rendimento possibile per gli azionisti valorizza, nel contempo, anche gli interessi degli altri stakeholder. Per tale ragione, la massimizzazione dello shareholder value risulta il criterio più semplice ed efficace per promuovere il benessere di tutti [10].

Una simile impostazione colloca la soddisfazione degli interessi diversi da quello dei soci al di fuori dei criteri per la gestione dell’impresa. A tal fine rilevano, come già accennato, le dinamiche di mercato o, qualora queste non funzionino, i vincoli posti all’azione imprenditoriale dalle diverse discipline specificamente dirette a proteggere i singoli interessi rilevanti.


3. I limiti del paradigma nell’esperienza storica.

Il modello dello shareholder value presuppone, tuttavia, che nessuna impresa sia titolare di una posizione rilevante nel mercato. Solo in tal modo, infatti, il perseguimento di un determinato interesse risulta bilanciato dalle “controspinte” del mercato o della legge [11]. Di contro, «today competition in markets dominated by a few great enterprises has come to be more often either cut-throat and destructive or so inactive as to make monopoly or duopoly conditions prevail» [12]. L’osser­vazione, già mossa da Berle e Means nel 1932 con riguardo alla dottrina di Adam Smith, vale anche per il paradigma dello shareholder value. Guardata in una prospettiva storica, l’enfasi sul valore per gli azionisti si è, infatti, accompagnata a un afflusso di capitali sempre maggiore verso le grandi imprese azionarie e, per conseguenza, a una crescita esponenziale del loro potere economico. Tale crescita costituisce un esito analogo a quello che, sul fronte antitrust, è conseguito all’affer­mazione del consumer welfare standard. Come, in quest’ultimo caso, l’enfasi sulla massimizzazione del benessere dei consumatori ha legittimato una riduzione nella struttura concorrenziale dei mercati e, quindi, una loro concentrazione; così, sul versante del diritto societario, la spinta alla massimizzazione dello shareholder value ha comportato l’emergere di imprese azionarie dotate di uno straordinario potere economico, ulteriormente favorito dall’affermarsi di una concezione del mercato che ha come proprietà fondamentale non più la tendenza verso un equilibrio ottimale, bensì il perseguimento di un benessere concepito come continua accumulazione [13].

In un simile contesto, imprese azionarie con un grande potere hanno potuto permettersi di non considerare gli interessi degli altri stakeholder senza subire “contraccolpi”. Con la conseguenza che la semplificazione insita nella visione dello shareholder value ha finito per tradursi in una spinta capace di aumentare squilibri di mercato e disuguaglianze sociali [14].


4. Potere della grande impresa azionaria ed equilibrio tra gli interessi.

Nella prospettiva così delineata, l’aspetto più critico del paradigma incentrato sullo shareholder value emerge con sufficiente chiarezza. Il problema non sta nel­l’attribuire ai soci una speciale considerazione tra tutti gli stakeholder dell’im­presa. Il problema sta, piuttosto, nell’imperativo alla massimizzazione dell’inte­resse dei soci che accompagna tale riconoscimento. Appaiono, infatti, unilaterali le stakeholderist theory che, per criticare gli eccessi della shareholder primacy, non riconoscono alcuna peculiarità alla posizione dei soci rispetto a quella degli altri stakeholder nell’impresa, disconoscendo del tutto la qualità di residual claimants dei primi [15]. Nel contempo, tuttavia, il riconoscimento dello speciale rilievo dei soci non ha come conseguenza necessaria l’imperativo alla massimizzazione dei loro interessi. Tale affermazione costituisce, di contro, un passo ulteriore, che implica l’assunzione dello shareholder value come criterio unico e totalizzante dell’azione imprenditoriale, eliminando la considerazione di ogni altra istanza.

Astrattamente, una simile spinta unidirezionale potrebbe trovare adeguata giustificazione nel presupposto che essa trovi un bilanciamento nell’ambiente “esterno”, nel contrasto con le spinte e i contenimenti delle forze di mercato o delle previsioni imperative della legge. Ma se, come poc’anzi ricordato, la realtà storica dimostra il progressivo indebolimento di tali “contrappesi”, la massimizzazione dell’interesse sociale appare in tutta la sua problematicità. Emerge, in tal modo, la questione cruciale sottesa a tutto il dibattito sul corporate purpose: come è possibile bilanciare il potere della grande impresa azionaria, così da ritrovare l’equilibrio tra gli interessi coinvolti dalla sua gestione?


5. Le iniziative dell’Unione europea in materia di capitalismo sostenibile.

Sul piano normativo, la soluzione più semplice è rappresentata dalla scelta operata in alcuni ordinamenti di integrare direttamente la considerazione di diversi interessi nei doveri di gestione degli amministratori [per esempio: sec. 172(1) Companies Act 2006; art. 1833(2) Code civil]. Alla luce della molteplicità dei fattori implicati e della complessità del loro componimento, tanto maggiori quanto più rilevanti sono le dimensioni e il potere dell’impresa, l’enforcement di un simile dovere può, tuttavia, oscillare troppo facilmente tra due estremi: un precetto generico, con la conseguenza di un aumento incontrollato della discrezionalità gestoria degli amministratori; o, all’opposto, una regola irrealisticamente esigente, con una conseguente impossibilità di applicazione [16].

Di contro, dall’idea di equilibrio sottesa al paradigma dello shareholder value si può trarre spunto per altri metodi di soluzione. Come già ricordato, in tale paradigma il mantenimento di un equilibrio ottimale è, infatti, il risultato della composizione di spinte contrastanti, in cui nessuna prevale sulle altre. Se, di contro, le dinamiche di mercato e i vincoli della legge si rivelano un argine insufficiente a contenere l’esercizio del potere privato dei manager delle grandi imprese, si tratta allora di ricercare altri e più efficaci “contrappesi”.

In questa prospettiva, le recenti iniziative legislative dell’Unione europea in materia di capitalismo sostenibile possono essere lette come espressione di due diverse strade per trovare tali “contrappesi”. Entrambe mirano a incrementare la considerazione dei fattori sociali e ambientali nella gestione delle imprese. A tal fine, tuttavia, cambiano gli strumenti: in un caso, si fa leva sulla comunicazione al pubblico delle condotte delle imprese attraverso regole di trasparenza; nel­l’altro, si sposta il focus sull’organizzazione dell’impresa, disciplinando i processi organizzativi che presiedono all’esercizio dell’azione imprenditoriale.


5.1. Le regole di trasparenza.

Introdotta con la direttiva 2014/95/UE (Non-Financial Reporting Directive) e successivamente consolidata con la direttiva (UE) 2022/2464 (Corporate Sustainability Reporting Directive: CSRD), la strategia di disclosure si affida alla trasparenza delle scelte organizzative e strategiche dell’impresa. Non prescrive, dunque, doveri di comportamento in tema di sostenibilità, ma richiede alle imprese di rendere noti i comportamenti adottati [17].

Nell’ottica di un graduale approccio al problema, tale impostazione risulta funzionale all’esigenza di lasciare spazio alla progressiva maturazione di orientamenti condivisi, in una fase di transizione come quella attuale [18]. Nel contempo, appare in grado di creare una “controspinta” all’azione imprenditoriale verso una maggiore considerazione delle istanze di sostenibilità, facendo direttamente appello alla “pressione” del mercato e, più estesamente, dell’opinione pubblica, secondo dinamiche comparabili con la responsabilità politica che inerisce all’eser­cizio del potere pubblico. Da quest’angolo visuale, una simile strategia normativa può essere considerata una naturale conseguenza proprio della crescita di potere delle grandi imprese azionarie. Nella misura in cui la loro attività giunga ad avere un impatto sociale o ambientale comparabile con quello delle istituzioni politiche, anche le modalità di controllo diventano analoghe. Volendo usare un’imma­gine e un buon grado di semplificazione, in questa logica, gli azionisti investitori operano come i cittadini elettori, i grandi gestori internazionali del risparmio come i partiti politici e i consigli di amministrazione come i governi.

Il ricorso a una strategia di trasparenza si espone alle criticità che tipicamente si accompagnano alla scelta di potenziare la diffusione delle informazioni e il ruolo dell’opinione pubblica. Sotto il primo profilo, la necessità di favorire la comparabilità delle scelte di gestione operate dalle singole imprese impone un certo grado di standardizzazione nelle comunicazioni al mercato, con la conseguente possibilità di una diminuzione nella loro capacità informativa [19]. Per altro verso, la rilevanza attribuita all’opinione pubblica espone a un duplice rischio: che l’infor­mazione sia manipolata, come accade, per esempio, nel fenomeno del greenwashing [20]; e, soprattutto, che i processi decisionali dell’impresa prendano il posto dei processi decisionali della politica, come dimostrato dal fenomeno del woke capitalism, nel quale le grandi imprese finiscono per porsi in concorrenza con i poteri pubblici nella tutela o nella promozione di determinati interessi [21]. Né mancano, di recente, legittimazioni esplicite di una simile possibilità: nelle parole dell’amministratore delegato del più importante asset manager globale, «unnerved by fundamental economic changes and the failure of government to provide lasting solutions, society is increasingly looking to companies, both public and private, to address pressing social and economic issues» [22].


5.2. La disciplina degli assetti organizzativi.

Andando oltre i presidi di trasparenza, il secondo approccio interviene direttamente sulla governance e sulla gestione dei rischi delle società. Questa strategia normativa, tuttavia, non si concentra anzitutto sulle finalità dell’azione imprenditoriale, bensì sulle sue modalità di formazione, introducendo principalmente regole di organizzazione.

Tale dimensione già si affaccia, a ben vedere, anche all’interno della disciplina di sustainability reporting: questa, infatti, presuppone che le imprese si organizzino per raccogliere le informazioni da pubblicare e, perciò, implicitamente impone l’adozione di procedure interne, idonee ad assolvere agli obblighi informativi previsti (come ora esplicita il secondo comma dell’art. 19-bis, par. 2, direttiva Accounting, secondo la modifica apportata dalla CSRD). Ma nel modello adottato dalla proposta di direttiva sulla corporate sustainability due diligence (CSDDD), tale prospettiva di intervento viene generalizzata. La proposta ambisce, infatti, a introdurre l’obbligo di integrare nei processi interni e nei sistemi di risk management misure idonee a individuare, prevenire e mitigare i potenziali impatti avversi sull’ambiente e sui diritti umani, generati non solo dalla singola impresa, ma anche dalle imprese del gruppo e delle imprese partner nella catena del valore [23]. In tal modo, il dovere per gli amministratori di prendere in considerazione le istanze di sostenibilità nelle loro decisioni – al di là di una sua esplicita formulazione, oggetto di contrasto nel percorso legislativo [24] – assume concretezza principalmente come regola di organizzazione, imponendo di dotare la società di strutture dedicate all’individuazione e alla gestione delle esternalità negative generate dall’attività dell’impresa, così da internalizzarne le conseguenze.

Una simile impostazione può presentare dei vantaggi innanzitutto sul piano dell’enforcement. Secondo un modello già collaudato in altri ambiti di disciplina [25], la “procedimentalizzazione” dei criteri di decisione consente di spostare la verifica sul loro rispetto dal merito delle scelte di gestione agli assetti organizzativi che le producono. In tal modo, da un lato la tutela degli stakeholder viene potenziata: come accade nella proposta di CSDDD, il controllo sugli assetti organizzativi può operare in via preventiva mediante forme di enforcement pubblico e privato ed è più semplice da realizzare rispetto a una verifica sull’adeguatezza delle scelte imprenditoriali nei confronti dei diversi stakeholder. Per altro verso, quanto più le decisioni dei manager sono fondate su adeguate procedure di due diligence, tanto più si riduce la possibilità di un sindacato giudiziale a posteriori sul rispetto delle istanze sociali e ambientali, così da rimanere salva la discrezionalità dei manager nel fissare l’equilibrio più adeguato tra i diversi interessi in gioco. Il giudizio sull’equilibrio così raggiunto e sulla qualità delle policy adottate così rimane affidato alle sole valutazioni del mercato. Se i processi interni funzionano in modo corretto e, quindi, le esternalità sono adeguatamente internalizzate, le dinamiche di mercato possono ritornare ad assolvere alla loro fondamentale funzione di “contrappeso” alle scelte dei manager [26]. Da questa prospettiva, il ricorso a regole di organizzazione e la strategia fondata sulla trasparenza risultano potenzialmente complementari.

Non mancano, naturalmente, alcuni possibili svantaggi [27]. Soprattutto se eccessivamente standardizzati, gli assetti organizzativi possono appesantire l’orga­nizza­zione dell’impresa, richiedendo strutture non sempre necessarie o che, in ogni caso, non comportano valore aggiunto. A tali “sunk cost” possono, poi, sommarsi costi opportunità: un’enfasi formalistica o sproporzionata sulla necessità di conformarsi a regole organizzative può comportare un irrigidimento dell’attività imprenditoriale, limitando l’innovazione e la capacità di adattamento delle imprese al mutare delle condizioni esterne. Né va trascurata la difficoltà di calibrare in modo proporzionato gli assetti organizzativi, in modo da considerare tutti gli interessi coinvolti dal­l’attività. Un tale esercizio presenta, tuttavia, un rilevante aspetto positivo: predisporre un assetto organizzativo che tenga conto di tutti gli stakeholder aiuta ad ancorare l’impresa all’attività economica reale, in tal modo contrastando il possibile portato di una concezione esasperata dello shareholder value che riduce l’attività di impresa a poco più di un pretesto per raggiungere il profitto [28].

La considerazione dei costi implicati da un approccio fondato su regole di organizzazione illumina, altresì, un’ulteriore caratteristica del modello. I costi derivanti dalla compliance con le regole di organizzazione sono tanto maggiori quanto più vari e diffusi sono gli interessi convolti dall’attività di impresa e quanto più è difficile trovare un adeguato equilibrio tra di loro. Così, per esempio, gli assetti organizzativi di una Big Tech o di una multinazionale petrolifera comportano costi molto più elevati di quelli che deve sostenere un’impresa di più piccole dimensioni operante nel medesimo settore merceologico. In questa prospettiva, qualora le esternalità (nel linguaggio della proposta di direttiva, gli impatti avversi) sul­l’ambiente e sui diritti umani di un’impresa siano troppo estese e complesse per riuscire a far fronte ai costi richiesti dalla compliance con le regole di organizzazione, la strategia normativa in esame si risolve in un vincolo strutturale che limita dall’interno la crescita di un’attività non attrezzata a internalizzare le esternalità prodotte [29].

Sotto questo profilo, le regole organizzative assumono i tratti di una sorta di tassa pigouviana per le imprese del XXI secolo: un meccanismo di internalizzazione delle esternalità che utilizza i costi di compliance come strumenti per prevenire comportamenti non efficienti delle imprese. Ferma la necessità di non svantaggiare le imprese soggette a tali regole nello scenario globale e favorire, così, le imprese meno sostenibili, la presenza di elevati costi di compliance non è, quindi, di per sé, un limite del provvedimento. Si tratta, piuttosto, di un’implica­zione con una possibile valenza strategica, che pone il problema di una corretta calibrazione, al fine di evitare effetti controproducenti.


6. Il potere della grande impresa azionaria nell’orizzonte del diritto societario.

Una più compiuta valutazione nel merito delle recenti iniziative dell’Unione europea eccede i limiti di questo intervento. Il quadro delineato lascia, tuttavia, emergere un’indicazione che è importante mettere in luce: il problema del potere delle grandi imprese azionarie e della correzione delle loro esternalità non può più essere affidato al solo diritto regolatorio (in particolare: al diritto antitrust, il diritto dell’ambiente e, per certi aspetti, il diritto del lavoro), investendo, di contro, anche il diritto societario [30]. La protezione degli interessi degli stakeholder, infatti, passa oggi non soltanto attraverso limiti esterni all’esercizio del potere, ma anche dalla conformazione della struttura interna della grande impresa azionaria [31]. In termini rovesciati, il diritto societario non può più essere pensato e applicato assumendo un modello di impresa “senza potere” e in cui le esternalità sono occasionali. La realtà delle grandi imprese azionarie è assai lontana da tale modello di impresa, con la conseguenza che anche il diritto societario è chiamato a prenderne atto.

Per spiegare un simile cambio di paradigma, può essere utile ricordare che, nel confronto con il diritto regolatorio, ricorrere al diritto societario e, quindi, conformare l’agire degli amministratori sulla base degli interessi degli stakeholder comporta un duplice vantaggio. Come dimostrato dalle teorie sulla funzione e­spressiva del diritto, la definizione di un obiettivo normativo incide significativamente sul comportamento effettivo degli amministratori [32]. Per altro verso, internalizzare le esternalità attraverso gli assetti organizzativi consente di contrastare i fenomeni di arbitraggio regolamentare, particolarmente praticabili in un contesto globalizzato, con i quali le imprese azionarie di maggiori dimensioni possono provare a sottrarsi alle norme di diritto regolatorio (per es., di diritto del lavoro o diritto dell’ambiente) che ne dovrebbero vincolare la condotta.

L’acceso dibattito che la proposta di CSDDD ha sollevato dimostra, con evidenza, che il tema si pone al crocevia delle grandi scelte economiche del nostro secolo. Il tempo aiuterà a comprendere quale tra le impostazioni oggi in discussione sia quella giusta.


NOTE

[1] Il dibattito è stato alimentato, in particolare, dall’iniziativa di Business Roundtable, Statement on the Purpose of a Corporation (August 19, 2019), in www.businessroundtable.org, preceduta, nel Regno Unito, dal progetto di British Academy, The Future of Corporation, i cui primi contributi sono pubblicati in 6 J. British Academy (2018), in www.thebritishacademy.ac.uk; nel­l’Unione europea, European Commission, Study on directors’ duties and sustainable corporate governance – Final report, 2020, reperibile al seguente indirizzo: https://data.europa.eu/doi/
10.2838/472901. L’impostazione teorica della questione in termini di corporate purpose si deve a C.P. Mayer, Prosperity, Better Business Makes the Greater Good, Oxford, OUP, 2018, ed è oggetto di una vastissima discussione accademica a livello internazionale: per tutti, negli Stati Uniti, L. Bebchuk, R. Tallarita, The Illusory Promise of Stakeholder Governance, in 106 Cornell Law Rev. (2020), 91 ss.; O. Hart, L. Zingales, The New Corporate Governance, in 1 U. Chi. Bus. Law Rev. (2022), 195 ss.; S.M. Bainbridge, The Profit Motive. Defending Shareholder Value Maximization, Cambridge-New York, CUP, 2023; in Europa, K.J. Hopt, Corporate Purpose and Stakeholder Value - Historical, Economic and Comparative Law Remarks on the Current Debate, Legislative Options and Enforcement Problems (March 15, 2023). ECGI - Law Working Paper No. 690/2023, reperibile in www.ssrn.com; B. Sjåfjell, J. Mähönen, Corporate purpose and the misleading shareholder vs. stakeholder dichotomy (February 21, 2022). University of Oslo Faculty of Law Research Paper No. 2022-43, 6-11, reperibile in www.ssrn.com; nella letteratura domestica, U. Tombari, “Potere” e “interessi” nella grande impresa azionaria, Milano, Giuffrè, 2019; C. Angelici, “Poteri” e “interessi” nella grande impresa azionaria: a proposito di un recente libro di Umberto Tombari, in Riv. soc., 2020, 4 ss.

[2] Così E.B. Rock, For Whom is the Corporation Managed in 2020?: The Debate over Corporate Purpose (May 1, 2020). ECGI - Law Working Paper No. 515/2020, 1, reperibile in www.ssrn.com.

[3] O. Hart, L. Zingales, (nt. 1), 197; per un recente quadro di queste tendenze su scala globale, Aa.Vv., Rising Corporate Market Power: Emerging Policy Issues (March 15, 2021). International Monetary Fund Staff Discussion Note, reperibile in www.imf.org.; L. Khan, S. Vaheesan, Market Power and Inequality: The Antitrust Counterrevolution and its Discontents, in 11 Harv. L.&Pol’y Rev. (2017), 235 ss.

[4] Per tutti, M. Barzuza, Q. Curtis, D.H. Webber, Shareholder Value(s): Index Fund ESG Activism and the New Millennial Corporate Governance, in 93 South. Calif. Law Rev. (2020), 1283 ss.

[5] Sulla rilevanza dei rischi ambientali e sociali come rischi sistemici, non diversificabili per gli investitori istituzionali, nella nostra letteratura M. Maugeri, Informazione non finanziaria e interesse sociale, in Riv. soc., 2019, 1022 ss.

[6] Per una sintesi dello sviluppo di questo percorso, nella nostra letteratura, M. Libertini, Gestione “sostenibile” delle imprese e limiti alla discrezionalità imprenditoriale, in Contr. impr., 2023, 54 ss.

[7] Per tutti, C.P. Mayer, (nt. 1), cui adde L.E. Strine jr, Toward Fair and Sustainable Capitalism (October 2019). Harvard John M. Olin Discussion Paper No. 1018, reperibile in www.ssrn.com; A. Edmans, Grow the Pie. How Great Companies Deliver Both Purpose and Profit, Cambridge, CUP, 2020.

[8] Per tutti, S.M. Bainbridge, (nt. 1); L. Bebchuk, R. Tallarita, (nt. 1); nella nostra dottrina, F. d’Alessandro, Il mantello di San Martino, la benevolenza del birraio e la Ford modello T, senza dimenticare Robin Hood (divagazioni semi-serie sulla c.d. responsabilità sociale dell’impresa e dintorni), in Riv. dir. civ., 2022, I, 409 ss.

[9] Secondo l’espressione utilizzata da F. Denozza, su cui v. Aa.Vv., Esiste uno «stile giuridico» neoliberale? Atti dei seminari per Francesco Denozza, a cura di R. Sacchi, A. Toffoletto, Milano, Giuffrè, 2019.

[10] F. Easterbrook, D. Fischel, The Economic Structure of Corporate Law, Cambridge Mass., HUP, 1991, 6 s., 38; per una critica a tale impostazione, in particolare contestando la qualifica di residual claimants dei soci, M.M. Blair, L.A. Stout, Specific Investment and Corporate Law, in 7 EBOR (2006), 473 ss., spec. 483 s. e 495.

[11] Questa condizione è specificata anche nell’affermazione assunta a manifesto della shareholder value theory, secondo cui «there is one and only one social responsibility of business - to use its resources and engage in activities designed to increase its profits, so long as it stays within the rules of the game, which is to say, engages in open and free competition without deception or fraud» [M. Friedman, A Friedman doctrine- The Social Responsibility Of Business Is to Increase Its Profits, in N.Y. Times, September 13, 1970, Section SM, 17 ss.]. Sul punto v. anche L. Zingales, Friedman’s Principle, 50 Years Later, in Aa.Vv., Milton Friedman 50 Years Later, a cura di L. Zingales, J. Kasperkevic, A. Schechter, Chicago, Stigler Center, 2020, 1, reperibile in www.promarket.org, ove il richiamo a un più esplicito passaggio (in Capitalism and Freedom, Chicago, UOP, 1962) in cui Friedman contrappone chi partecipa a un mercato concorrenziale al monopolista, per attribuire al secondo una responsabilità sociale nell’esercizio del proprio potere.

[12] A.A. Berle, G.C. Means, The Modern Corporation & Private Property, Piscataway NJ, Transaction, 1932, 308 (la citazione è dall’edizione rivista del 1968, pubblicata nel 2010).

[13] La traiettoria storica di questo parallelo è messa in luce e analizzata da F. Denozza, in Prima della tempesta. Equilibrio, mercato e potere privato in uno degli ultimi saggi di Tullio Ascarelli, in questa Rivista, 2022, 43 ss., e nella relazione di apertura del Convegno per i dieci anni di questa Rivista, Consumer welfare e shareholder value: due teorie “neoliberali” al tramonto?, Sapienza Università di Roma, 14-15 aprile 2023, con l’ulteriore rilievo per il quale il problema del potere delle corporation, già al centro del lavoro di Berle e Means, nel contesto statunitense è stato “normalizzato”, anziché affrontato, dai successivi sviluppi del diritto societario e del diritto antitrust.

[14] Sul fronte antitrust, v. L. Khan, S. Vaheesan, (nt. 3); sul fronte societario, per es., A. Kovvali, L.E. Strine jr, The Win-Win That Wasn’t: Managing to the Stock Market’s Negative Effects on American Workers and Other Corporate Stakeholders, in 1 U. Chi. Bus. Law Rev. (2022), 307 ss., e Z. Goshen, D. Levit, Agents of Inequality: Common Ownership and The Decline Of The American Worker, in 72 Duke Law J. (2022), 1 ss. Nell’ottica delineata, indicativo anche il caso analizzato da R. Shapira, L. Zingales, Is Pollution Value-Maximizing? The DuPont Case (September 1, 2017). ECGI - Law Working Paper No. 723/2023, reperibile in www.ssrn.com, in cui ripetutamente emerge che le gravi esternalità generate dall’attività di impresa non sono state arginate adeguatamente dai vincoli legali e reputazionali soprattutto a causa della posizione di potere di quell’impresa.

[15] Per alcune critiche in questo senso alla team production theory proposta da M.M. Blair, L.A. Stout, A Team Production Theory of Corporate Law, in 85 Va. L. Rev. 247 (1999), 247 ss., v. per es.: D.K. Millon, New Game Plan or Business as Usual? A Critique of the Team Production Model of Corporate Law, in 86 Va. L. Rev. (2000), 1001 ss.; A.J. Meese, The Team Production Theory of Corporate Law: A Critical Assessment, in 43 Wm. & Mary L. Rev. (2002), 1629 ss.; G.W. Dent, Academics in Wonderland: The Team Production and Director Primacy Models of Corporate Governance, in 44 Hous. L. Rev. (2008), 1213 ss.

[16] In questo senso, alla luce dell’interpretazione data al Companies Act in alcuni recenti casi giurisprudenziali, L.L. Lan, W. Wan, ESG and Director’s Duties: Defining and Advancing the Interests of the Company (October 2023). ECGI - Law Working Paper No. 737/2023, reperibile in www.ssrn.com.; similmente, in riferimento alle modifiche al Code Civil francese, H. Fleischer, Corporate Purpose: A Management Concept and its Implications for Company Law (January 2021). ECGI - Law Working Paper No. 561/2021, 10 ss., reperibile in www.ssrn.com; in una prospettiva più in generale, P. Conac, Le nouvel article 1833 du Code civil français et l’intégration de l’intérêt social et de la responsabilité sociale d’entreprise: constat ou revolution?, in questa Rivista, 2019, 497 ss. In merito alle difficoltà di conciliare anche soltanto tra loro le istanze ambientali e sociali, alla luce delle loro possibili incompatibilità, v. per es. C. Cabolis, M. Lavanchy, K. Schmedders, The Fundamental Problem with ESG? Conflicting Letters, in 57 Journal of Financial Transformation (2023), reperibile in www.ssrn.com.

[17] Per una complessiva disamina della disciplina, A. Genovese, L’armonizzazione del reporting di sostenibilità delle imprese azionarie europee dopo la CSRD, in Contr. impr., 2023, 109 ss.

[18] Fa ricorso allo stesso tipo di strategia l’iniziale proposta avanzata nel 2022 dalla Securities and Exchange Commission in materia di Enhancement and Standardization of Climate-Related Disclosures (reperibile al seguente indirizzo: https://www.sec.gov/news/press-release/2022-46), la quale è oggetto di un acceso dibattito tra gli studiosi statunitensi: cfr. J. Fisch et al., Comment Letter of Securities Law Scholars on the SEC’s Authority to Pursue Climate-Related Disclosure (June 2022), e L.A. Cunningham et al., The SEC’s Misguided Climate Disclosure Rule Proposal (October 2022), reperibili in www.ssrn.com.

[19] Si tratta di una dinamica messa in evidenza, per le metriche economiche e sociali, dalla c.d. “Goodhart’s Law”: «when a measure becomes a target, it ceases to be a good measure», secondo la versione più ripetuta in letteratura, e attribuita a M. Strathern, ‘Improving ratings’: audit in the British University system, in 5 European Review (1997), 308.

[20] Sul punto, per esempio, G. Helleringer, EU vs Greenwashing: The Birth Pangs of Transparency, Comparability, Cooperation and Leadership, Oxford Business Law Blog, 5 July 2021, e J. Armour, L. Enriques, T. Wetzer, Corporate Carbon Reduction Pledges: Beyond Greenwashing, Oxford Business Law Blog, 2 July 2021, reperibili in https://blogs.law.ox.ac.uk/oblb; a livello istituzionale, v. i report recentemente presentati dalle European Supervisory Authorities (EBA, ESMA ed EIOPA), reperibili all’indirizzo: https://www.esma.europa.eu/press-news/esma-news/esas-put-forward-common-understanding-greenwashing-and-warn-risks.

[21] N. Foss, P. Klein, Strategy Under Woke Capitalism (March 24, 2023), reperibile in www.
ssrn.com; per un’articolata critica del fenomeno, C. Rhodes, Woke Capitalism: How Corporate Morality is Sabotaging Democracy, Bristol, Bristol University Press, 2021. Il punto era già stato intuito da A.A. Berle, G.C. Means, (nt. 12), 313: «the rise of the modern corporation has brought a concentration of economic power which can compete on equal terms with the modern state. [T]he future may see the economic organism, now typified by the corporation, not only on an equal plane with the state, but possibly even superseding it as the dominant form of social organization».

[22] Così L. Fink, Purpose & Profit, 2019 Letter to CEOs, reperibile in www.blackrock.com. Sul punto, nella nostra letteratura, G. Strampelli, Gli investitori istituzionali salveranno il mondo? Note a margine dell’ultima lettera annuale di BlackRock, in Riv. soc., 2020, 51 ss.; M. Maugeri, F. Denozza, in Lo statement della Business Roundtable. Un dialogo a più voci, a cura di A. Perrone, in questa Rivista, 2019, 591, 593, 598.

[23] La proposta di direttiva è stata presentata dalla Commissione europea il 23 febbraio 2022 [European Commission, Proposal for a Directive on Corporate Sustainability Due Diligence and amending Directive (EU) 2019/1937, COM 2022 71 final, reperibile al seguente indirizzo: https://
eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX%3A52022PC0071]. Successivamente altre versioni sono state adottate, come “negotiating text”, dal Consiglio dell’Unione europea, il 30 novembre 2022 (reperibile al seguente indirizzo: https://data.consilium.europa.eu/doc/document/
ST-15024-2022-REV-1/en/pdf), e dal Parlamento europeo, il 1° giugno 2023 (reperibile al seguente indirizzo: https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2023-0209_EN.pdf). Il 14 dicembre 2023 il Parlamento e il Consiglio hanno raggiunto un provisional deal destinato a essere recepito da un atto formale di entrambe le istituzioni: sul punto, https://www.consilium.
europa.eu/en/press/press-releases/2023/12/14/corporate-sustainability-due-diligence-council-and-parliament-strike-deal-to-protect-environment-and-human-rights/. Sul processo che ha portato alla pubblicazione della proposta, e in particolare riferimento all’influsso della legislazione francese del 2017 sul dovere di vigilanza delle società, A. Pietrancosta, Codification in Company Law of General CSR Requirements: Pioneering Recent French Reforms and EU Perspectives (July 2022), ECGI - Law Working Paper No. 639/2022, 4-15, reperibile in www.ssrn.com; similmente, e in particolare riferimento alla legge tedesca sugli obblighi di due diligence nelle catene di fornitura (su cui A. Guercini, La legge tedesca sugli obblighi di due diligence nella supply chain (“Lieferkettensorgfaltspflichtengesetz - LkSG”), Riv. dir. soc., 2022, II, 400 ss.), K.J. Hopt, (nt. 1), 19 ss.

[24] Nella proposta originaria della Commissione, l’art. 25 prevede espressamente un «directors’ duty of care» che richiede di tenere conto delle conseguenze delle loro decisioni sulle questioni di sostenibilità (e che peraltro non è testualmente circoscritto al rispetto delle precedenti prescrizioni sulle procedure di due diligence). Nella versione adottata dal Consiglio, questa previsione è stata espunta («Due to the strong concerns expressed by Member States that considered Article 25 to be an inappropriate interference with national provisions regarding directors’ duty of care, and potentially undermining directors’ duty to act in the best interest of the company»). Nella versione approvata dal Parlamento europeo l’art. 25 risulta invece mantenuto. Il provisional agreement tra Parlamento e Consiglio ha, infine, eliminato la previsione: sul punto, https://www.dlapiper.com/en-co/insights/publications/2023/12/landmark-human-rights-due-diligence-legislation-agreed-in-eu

[25] Si pensi, in particolare, alla disciplina dettata per l’approvazione delle operazioni con parti correlate delle società quotate (art. 2391-bis c.c. e regolamento CONSOB del 12 marzo 2010) o alla consolidata procedimentalizzazione della verifica di adeguatezza nella prestazione dei servizi di investimento (v. ESMA, Guidelines on certain aspects of the MiFID II suitability requirements, 2023, reperibili al seguente indirizzo: https://www.esma.europa.eu). Sul punto, sia consentito rinviare a D. Semeghini, Valutazioni preventive e retrospettive sulle operazioni con parti correlate: spunti dalla comparazione con la giurisprudenza del Delaware, in ODCC, 2016, 139 ss., 176-181.

[26] Anche nel contesto statunitense si è posta l’attenzione sul ruolo che gli assetti organizzativi possono svolgere nell’ottica della responsabilità sociale di impresa: v. per es. L.E. Strine jr, K.M. Smith, R.S. Steel, Caremark and ESG, Perfect Together: A Practical Approach to Implementing an Integrated, Efficient, and Effective Caremark and EESG Strategy, in 106 Iowa L. Rev. (2021), 1885 ss., e R. Shapira, Mission Critical ESG and the Scope of Director Oversight Duties, in Colum. Bus. L. Rev. (2022), 732 ss. Nella dottrina italiana, P.M. Sanfilippo, Tutela dell’am­biente e “assetti adeguati” dell’impresa: compliance, autonomia ed enforcement, in Riv. dir. civ., 2022, I, 993 ss.

[27] Per un recente resoconto delle opinioni espresse sulla proposta di direttiva, prevalentemente in senso critico, v. M. Stella Richter jr, M.L. Passador, Corporate Sustainability Due Diligence: Supernatural Superserious (December 3, 2022). Bocconi Legal Studies Research Paper No. 4293912, reperibile in www.ssrn.com.

[28] Pur da prospettive diverse, sottolineano il problema dell’inversione del rapporto tra impresa e capitale finanziario, in particolare rispetto alla tutela degli stakeholder, R. Sacchi, in Lo statement della Business Roundtable. Un dialogo a più voci, (nt. 22), 592, e P. Koslowski, The Limits of Shareholder Value, in 27 Journal of Business Ethics (2000), 140 ss.

[29] Un punto di emersione esplicita di tale implicazione si ritrova nell’art. 7, par. 5, e nell’art. 8, par. 6, della proposta di CSDDD, là dove si prevede, come rimedio di ultima istanza, che l’impresa eviti di avviare un rapporto d’affari, oppure sospenda o ponga termine a un rapporto già in essere con un business partner, qualora non vi sia altro modo di prevenire o mitigare un impatto avverso sull’ambiente o sui diritti umani.

[30] Il punto è negato da G. Ferrarini, Corporate Sustainability Due Diligence and the Shifting Balance between Soft Law and Hard Law in the EU (Oxford Business Law Blog, 22 April 2022), reperibile in https://blogs.law.ox.ac.uk/oblb, per il quale la proposta di CSDDD «mainly belongs to the field of public regulation and aims to make companies internalize the negative externalities that they cause to the environment and society». L’intervento della proposta di CSDDD sugli assetti organizzativi dell’impresa e, quindi, in un ambito tradizionalmente affidato al diritto societario, pare suggerire, tuttavia, una conclusione contraria, ferma la presa d’atto dell’integrazione tra diritto societario e diritto regolatorio che caratterizza in modo crescente il diritto dell’economia (sul punto sia consentito il rinvio ad A. Perrone, Corporate Governance of Banks. Main Trends and Implications for Corporate Law, in European Company Case Law, 2023, 237 ss.

[31] Per una discussione su alcune possibili modalità di attuazione, F. Denozza, Due concetti di stakeholderism, in questa Rivista, 2022, 37 ss.

[32] J.H. Binder, Leading Wherever They Want? CSR, ESG and Directors’ Duties (June 26, 2023). LSE Legal Studies Working Paper No. 20/2023, 12, reperibile in www.ssrn.com; in generale, C.R. Sunstein, On the Expressive Function of Law, in 144 U. Pa. L. Rev. (1996), 2021 ss.; R. Cooter, Expressive Law and Economics, in 27 J. Leg. Stud. (1998), 585 ss.; R.H. McAdams, The Expressive Power of Adjudication, in U. Ill. L. Rev. (2005), 1043 ss.; più specificamente, J.C. Lipson, The Expressive Functions of Directors’ Duties to Creditors, in 12 Stan. J.L. Bus. & Fin. (2007), 224 ss.

Fascicolo 3 - 2023