Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeISSN 2282-667X
G. Giappichelli Editore

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Stakeholders Theory, obiettivi ESG e interesse sociale (di Monica Cossu, Professoressa ordinaria di diritto commerciale, Università di Sassari)


Si discute da tempo sulla effettiva possibilità che gli obiettivi di sostenibilità in ambito di fattori ESG rimettano in discussione lo scopo-fine lucrativo delle società, e in particolare delle grandi società di capitali, e autorizzino a fare spazio ad interessi altri.

Si ritiene, in proposito, che per orientare gli emittenti verso una transizione sostenibile è necessario concentrare l’attenzione sulle politiche di gestione del rischio «sistematico» dell’investimento da parte degli investitori istituzionali e dei gestori di attivi, e sugli obblighi di comportamento di questi investitori, in quanto sono gli unici azionisti effettivamente in grado di spingere la società partecipata verso una gestione e un controllo del rischio di sostenibilità ESG, specie nella sua dimensione environmental, o ecoambientale, inteso non nella sua dimensione di rischio individuale del singolo emittente bensì quale rischio di mercato che affetta il valore delle partecipazioni e che può essere controllato (solo) sistemicamente.

Stakeholders Theory, ESG targets and social interests

There has been a lot of discussions about the real possibility that ESG sustainability goals call into question the lucrative purpose of companies, and in particular of joint-stock companies, and authorize making room for other interests.

However, one might conclude that in order to guide issuers towards a sustainable transition, it is necessary to focus on the “systematic” investment risk management policies by institutional investors and asset managers, and on the behavioral obligations of these investors (as) the only ones able to push towards management and control of ESG risks (and particularly eco-environmental risk, understood not in its dimension of individual risk of the single issuer but as a market risk, that affects the value of equity investments and can only be controlled systemically.

Sommario/Summary:

1. Premessa. - 2. Sostenibilità interna e sostenibilità esterna dell’impresa. Gli obiettivi ESG. - 3. La CRSD e la proposta di CSDDD. - 4. La sostenibilità esterna nel diritto dell’impresa e nel diritto societario. - 5. Interesse sociale e obiettivi ESG? - 6. Il ruolo degli investitori istituzionali. - 7. Grande Crisi Globale (GFC), governo societario e transizione sostenibile delle PMI. - NOTE


1. Premessa.

Si discute da tempo sulla effettiva possibilità che gli obiettivi di sostenibilità in ambito di fattori ESG rimettano in discussione lo scopo-fine lucrativo delle società, e in particolare delle società di capitali, e autorizzino a fare spazio ad interessi altri. Diversi atti normativi europei, e in particolare la proposta di Corporate Sustainability Due Diligence Directive - CSDDD, da una parte rispolverano l’antico dibattito sulla responsabilità sociale d’impresa, che già da tempo è ritornato in auge insieme al dibattito sulla crescita sostenibile che ne rappresenta il punto di approdo, e dall’altra sembrano volere muovere verso l’introduzione dell’obbligo, per le imprese societarie, di redigere un piano aziendale che garantisca la compatibilità tra il modello organizzativo adottato e la transizione sostenibile dell’ente. Per affrontare – sebbene solo sinteticamente e semplicisticamente – il tema è necessario, quale primo passaggio, partire – in termini molto rapidi – dal concetto di sostenibilità.


2. Sostenibilità interna e sostenibilità esterna dell’impresa. Gli obiettivi ESG.

Nonostante l’uso sempre più ricorrente e promiscuo del termine, nel dibattito sulla «sostenibilità» può darsi per consolidata la distinzione tra una «sostenibilità interna», intesa come stabilità e quindi come continuità aziendale dell’impresa, e una «sostenibilità esterna» intesa principalmente come non lesività dell’impresa per l’ambiente circostante [1]. Benché spesso vengano rappresentate in reciproca opposizione, in realtà, se si mettono da parte il greenwashing e più in generale le condotte di adesione solo superficiale al processo di transizione sostenibile, l’unica ipotesi in cui la sostenibilità economico-finanziaria e la sostenibilità ambientale appaiono irreparabilmente disallineate è quella in cui la sfida concorrenziale nel mercato e per il mercato conduca l’impresa ad affrontare costi di transizione sostenibile particolarmente alti, e più precisamente costi superiori a quelli che le norme imperative le impongono. Gli studi di finanza aziendale confermano, infatti, l’esistenza di una relazione tra costo del capitale, performance dell’impresa e rating ESG, seppure naturalmente questo rapporto vari da settore a settore [2]; in particolare mostrano, con l’au­silio di dati empirici, che in determinati settori all’aumento del rating ESG con riferimento al pillar «environmental» corrisponde un aumento medio del ROA di 4 punti percentuali [3]; che in altri settori all’aumento del rating ESG con riferimento al pillar «social» corrisponde un miglioramento della performance d’impresa nel lungo periodo [4]; e che in altri settori ancora all’aumento del rating ESG con riferimento al pillar «governance» corrisponde una riduzione vistosa del costo del capitale [5]. Le indagini, peraltro, evidenziano anche che quella tra costo del capitale, performance dell’impresa e rating ESG non è una relazione lineare, e che quindi questi benefici si producono effettivamente (solo) se il coinvolgimento dell’im­presa in una tematica ESG è reale, e non frutto di un opportunistico ed estemporaneo greenwashing [6] o social washing, laddove un coinvolgimento solo superficiale sulle tematiche della sostenibilità si traduce al contrario in un [...]


3. La CRSD e la proposta di CSDDD.

Non è possibile qui, per ragioni di spazio e tempo, ripercorrere la monumentale normativa europea di primo e secondo livello in materia di sostenibilità. Mi limito a richiamare solo due atti normativi, il primo dei quali è la direttiva 2022/2464/UE, o Corporate Sustainability Reporting Directive, meglio nota con l’acronimo di CSRD, che ha introdotto obblighi di rendicontazione ambientale e sociale per alcune categorie di imprese integrando in maniera significativa la direttiva 2014/95/UE (c.d. NFRD), e in particolare introducendo obblighi di informativa sulla sostenibilità più puntuali e stringenti, sebbene graduati nel tempo, allo scopo di contrastare efficacemente greenwashing e social washing. Come è noto, la CSRD si applica alle grandi imprese e ai gruppi societari che sono enti di interesse pubblico, alle società quotate (escluse le micro-imprese quotate) e alle società estere che hanno una sede secondaria in territorio UE e realizzano nel territorio UE un fatturato superiore ai 150 milioni di euro . La platea dei destinatari della CSRD risulta, dunque, ben più estesa rispetto a quella della NFRD [11]: sono interessate dai nuovi obblighi informativi ai sensi della CSRD oltre 50.000 società, rispetto alle 11.700 società cui si applicava la NFRD [12]. Si deve però osservare, e criticare, il fatto che le PMI non quotate su mercati regolamentati sono facoltizzate e non obbligate a rispettare questi obblighi [13], sebbene rappresentino attori tutt’altro che secondari, come si vedrà più avanti, nella prospettiva della transizione sostenibile. È la stessa intitolazione della direttiva a rivelare il significativo cambio di passo, in quanto la CSRD è dedicata all’informazione «in materia di sostenibilità», e non più all’informazione «non finanziaria» come la NFRD, il che sta a sottolineare che questo tipo di informativa ha conseguito una sua autonomia e dignità concettuale [14]. Va anche evidenziato che la nuova nomenclatura è più esatta, perché se è vero che certe informazioni in materia di sostenibilità hanno carattere «non finanziario», è vero anche che altre informazioni in materia di sostenibilità hanno, invece, natura finanziaria, e sono integrate nelle relazioni finanziarie degli [...]


4. La sostenibilità esterna nel diritto dell’impresa e nel diritto societario.

Un terzo passaggio necessario dell’analisi è verificare se la sostenibilità esterna trovi spazio nel diritto positivo. Diverse costituzioni europee menzionano tra i loro principi lo «sviluppo sostenibile» oppure l’ambiente; quanto al diritto italiano, sappiamo che sebbene la sua funzionalizzazione a fini sociali sia estranea al nostro sistema costituzionale l’impresa, pubblica e privata, può essere destinataria di politiche di indirizzo e coordinamento a fini sociali e ambientali ex art. 41, terzo comma, Cost., e dunque in nome del principio di «utilità sociale» [31]. A ciò si è aggiunta, in tempi più recenti, la riscoperta del principio di solidarietà ex art. 2 Cost., che ha trovato nuova linfa sia nel novellato art. 9 [32], in virtù del quale la Repubblica «tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni», e sia nel novellato art. 41, secondo comma, Cost., che con riguardo all’esercizio della libertà di iniziativa economica ora prescrive che «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana» [33]. Sembra, quindi, che anche l’ordinamento costituzionale italiano, in linea con il diritto europeo, muova nella direzione di promuovere un modello cooperativo nella tutela di certi beni pubblici. Questo modello cooperativo è coerente con la constatazione, dal punto di vista macroeconomico, che qualunque obiettivo di sostenibilità è raggiungibile solo se è perseguito nel c.d. overall market, o mercato globale, laddove i comportamenti virtuosi dei singoli operatori sono assolutamente insufficienti a produrre un qualsivoglia effetto significativo [34]. In altre parole, la sfida della transizione sostenibile non può essere vinta incorporando best practices di mercato, ma solo trasformando il mercato [35] e quindi il modello produttivo imprenditoriale, essendo la sostenibilità una proprietà di sistema rispetto alla quale il comportamento virtuoso dei singoli è irrilevante, o comunque scarsamente efficace [36]. Quanto al diritto dell’impresa, la sostenibilità interna è consacrata tra gli obblighi [...]


5. Interesse sociale e obiettivi ESG?

Con riferimento alle linee di sviluppo del diritto europeo, e in particolare alle ricadute indirette della proposta di CSDDD sul diritto societario, è ricorrente la considerazione che la sostenibilità in ambito di fattori ESG rimetterebbe in discussione la sacralità (dell’esclusività) dello scopo-fine lucrativo, autorizzando a fare spazio nell’area dell’interesse comune (anche) ad interessi altri e diversi [38]. Questa considerazione si avvale anche di alcune significative evoluzioni del diritto positivo di alcuni ordinamenti nazionali, come quelli olandese e britannico prima, quelli belga e francese poi, che hanno, seppure in tempi diversi, accolto una concezione pluralista dell’interesse sociale [39], e conseguentemente sperimentano forme di cogestione . La conclusione si avvale anche dell’evoluzione visibile nelle regole di autodisciplina delle società quotate, dal momento che numerosi codici di corporate governance hanno introdotto la sostenibilità tra gli obiettivi generali dell’azione degli amministratori: così ad esempio il codice di corporate governance italiano, là dove nel Principio 1 afferma che «l’organo di amministrazione guida la società perseguendone il successo sostenibile», e così anche altri codici di autodisciplina, che in molti paesi europei hanno recentemente affiancato crescita di lungo periodo e sostenibilità quali obiettivi dell’agire degli amministratori [40]. Una prima riflessione di carattere generale è che certamente nella prospettiva del mercato e della concorrenza tra ordinamenti è opportuno che non ci siano ambiguità da parte dei legislatori nazionali circa il rapporto fra sostenibilità secondo i criteri ESG e scopo-fine del veicolo societario. Da questo punto di vista, è sicuramente apprezzabile la scelta degli ordinamenti che si sono pronunciati con molta nettezza piuttosto che attendere eventuali mosse del legislatore europeo [41], sebbene poi l’effettività di queste prescrizioni, cioè la reale presenza di un obbligo per gli amministratori di perseguire interessi non lucrativi, sia tutta da verificare, tanto più se poi le sanzioni per il mancato perseguimento non ci sono: tra i casi di maggior insuccesso in questo senso si registra proprio la citatissima section 172, par. 1, del Companies Act [...]


6. Il ruolo degli investitori istituzionali.

Resta da valutare se alcuni azionisti, in specie gli investitori istituzionali e i gestori di attivi, in quanto muniti della necessaria competenza ed esperienza, possano avere voce in capitolo nella predisposizione di assetti organizzativi adeguati [70], e possano dunque formulare suggerimenti – ferma la competenza esclusiva degli amministratori in materia di adeguatezza degli assetti organizzativi – circa la sostenibilità esterna dell’impresa, ad esempio suggerendo la nomina di un consulente, o in alternativa l’attribuzione di una delega interna al consiglio. Questa domanda, così come la risposta positiva, rappresentano un altro esercizio retorico, dato che non si può negare ai soci, specie ai soci più competenti ed autorevoli, il diritto di interloquire nelle decisioni organizzative, anche perché a rigore determinate scelte organizzative, come ad esempio la presenza di un’appo­sita funzione aziendale deputata alla stima dei fattori ESG, potrebbero anche essere previste (e quindi imposte dai soci) nello statuto. Si osserva comunque in proposito che per orientare gli emittenti verso una transizione sostenibile è necessario concentrare l’attenzione sulle politiche di gestione del rischio «sistematico» dell’investimento da parte degli investitori istituzionali e dei gestori di attivi, e sugli obblighi di comportamento di questi investitori (in quanto) gli unici in grado di spingere verso una gestione e un controllo del rischio ecoambientale [71], inteso non nella sua dimensione di rischio individuale del singolo emittente bensì quale rischio di mercato che affetta il valore delle partecipazioni e può essere controllato solo sistemicamente [72] (e sul quale non a caso si concentra l’attenzione delle autorità di vigilanza) [73]. In questa prospettiva è anche cruciale, quindi, imporre agli azionisti investitori istituzionali e ai gestori di attivi obblighi di trasparenza in ordine alle politiche di impegno nel monitoraggio delle partecipate [74] e fare leva sul loro dovere fiduciario di attivarsi per indurre gli amministratori delle stesse a gestire il rischio sistemico, al fine di assicurare un rendimento sostenibile del proprio portafogli [75]. L’obiettivo è, infatti, «(...) assicurare che le imprese, se sollecitano il risparmio sulla base di motivazioni di carattere non [...]


7. Grande Crisi Globale (GFC), governo societario e transizione sostenibile delle PMI.

La leva rappresentata dai condizionamenti che gli investitori istituzionali e i gestori di attivi sono in grado di esercitare sulle società diventa minore, sin quasi ad annullarsi, nelle PMI non quotate, che non figurano nei portafogli dei principali fondi e conseguentemente non sono incluse negli indici di riferimento, con la conseguenza che in queste società la pressione rappresentata dalle policy e dalle proxy voting guidelines diventa decisamente minore, sin quasi ad annullarsi, così come si annullano il timore di subire l’exit degli investitori istituzionali e il timore di subire l’esclusione dall’indice e un ribasso nel valore di mercato (e quindi nella liquidità) delle partecipazioni. Si arriva, così, al cuore del problema, perché sebbene l’insieme delle PMI sia responsabile di oltre il 60% delle emissioni [76], proprio a questi emittenti la CSRD si applica solo su base volontaria e solo a partire dal 2026, e così conseguentemente gli obblighi di informazione e comunicazione societaria in materia di sostenibilità. Nel contempo, in un momento nel quale il varo della CSDDD è ancora in stallo, vi è chi da un lato rileva che l’attività di tutte le PMI genera esternalità di tipo environmental e social, segnatamente in termini ecoambientali e di tutela dei diritti umani [77], e dall’altro (conseguentemente) sostiene che le regole di due diligence dovrebbero operare trasversalmente ai modelli organizzativi e al ristretto ambito delle grandi imprese societarie, poiché riguardano l’attività produttiva in quanto tale, e quindi la disciplina generale dell’impresa [78].


NOTE
Fascicolo 3 - 2023