Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeISSN 2282-667X
G. Giappichelli Editore

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Consumer welfare e shareholder value: le comuni radici, i limiti e i difetti di due teorie neoliberali (di Francesco Denozza, Professore emerito di diritto commerciale, Università degli Studi di Milano)


Le teorie costruite intorno alle nozioni di shareholder value (nel diritto societario) e di consumer welfare (nel diritto antitrust) hanno comuni radici teoriche. Entrambe si appoggiano sulla teoria dei prezzi applicata al diritto e sull’apparato concettuale generale elaborato dalla analisi economica del diritto. Entrambe si configurano come neoliberali in vari sensi: promuovono la generalizzazione di logiche di mercato e, là dove possibile, la diffusione di pratiche mercantili; privilegiano una concezione puramente quantitativa dello sviluppo; sostengono la prevalenza delle esigenze allocative su quelle distributive.

Anche la critica si appunta su difetti comuni ad entrambe: la nozione di massimizzazione del benessere riferita a gruppi (i soci da una parte e i consumatori dall’altra) che comprendono soggetti con preferenze diverse e spesso configgenti non ha senso (tanto più in assenza di ogni tentativo di costruire una funzione di benessere sociale in grado di pesare gli interessi dei vari membri di ciascun gruppo e di realizzare gli appropriati compromessi); la focalizzazione sulle singole transazioni isolate dal contesto generale, ignora rilevanti esternalità ed effetti sistemici; la disattenzione nei confronti degli aspetti dinamici, specie quelli connessi all’evoluzione del potere economico, ingenera short-termism e miopia.

Il superamento dei problemi creati dall’egemonia esercitata nell’ultimo mezzo secolo, o quasi, da queste due teorie, richiede una più realistica e comprensiva analisi degli interessi rilevanti e il recupero di un’idea banale, ma fondamentale. Le norme non hanno solo effetti misurabili in termini economici, ma hanno soprattutto effetti sociali. La scelta tra l’uno o l’altro modo di regolare un rapporto sociale in definitiva condensa un giudizio che riguarda il tipo di società in cui ciascuno preferirebbe vivere. Una questione non di prezzi, ma di giudizi di valore.

Consumer welfare and shareholder value: common roots, limits and flaws of two neoliberal theories

The theories built around the concepts of shareholder value (in corporation law) and consumer welfare (in antitrust law) share common theoretical roots. Both rely on the application of price theory to legal problems and on the general conceptual apparatus developed by the economic analysis of law. Both qualify as neoliberal in many senses: they support a generalization of market logics and, where possible, the diffusion of market practices; they privilege a purely quantitative conception of development; they prioritize allocative goals over distributional ones.

Criticism also points to flaws common to both: the notion of welfare maximization referred to groups (shareholders on the one hand and consumers on the other) including individuals with different, and often conflicting, preferences does not make sense (even more so in the absence of any social welfare analysis able of weighing and trading-off the interests of the various members of each group); the focus on single transactions isolated from the general setting ignores significant externalities and systemic effects; inattention to dynamic processes, especially to the evolution of economic power relations, generates short-termism and myopia.

Overcoming the problems created by the hegemony of these two theories in the last half century or so, requires a more realistic and comprehensive analysis of the relevant interests and the recovery of a simple but fundamental idea. Legal rules not only have measurable effects in economic terms, but above all they have social effects. The choice between one or another way of regulating a social relationship ultimately condenses a judgment regarding the kind of society one would prefer to live in. Not a matter of prices, but a matter of value judgments.

Sommario/Summary:

1. Le “culture” dello shareholder value e del consumer welfare. - 2. Le comuni radici neoliberali delle due teorie. - 3. Il diritto, la “mano invisibile” e l’equilibrio economico generale. - 4. Gli strumenti concettuali: la massimizzazione quantitativa e la centralità della transazione. - 5. Il potere economico, il ruolo delle istituzioni e i canoni per l’elabo­razione e l’interpretazione delle norme. - 6. Lo shareholder value. - 7. Il consumer welfare. - 8. Poteri economici privati e ruolo dei consumatori e dei soci. - 9. Le “esternalità sociali”: massimizzazione dell’output e valorizzazione delle azioni non garantiscono l’aumento del benessere complessivo. - 10. Le prospettive. - NOTE


1. Le “culture” dello shareholder value e del consumer welfare.

I concetti di “shareholder value” e di “consumer welfare” evocano due teorie (o due gruppi di teorie) che, per quasi mezzo secolo [1], hanno dominato il dibattito internazionale (sia pure con fasi alterne, e con differenti resistenze a seconda dei diversi sotto-settori e dei diversi ordinamenti [2]) nei rispettivi ambiti. Il concetto di shareholder value evoca la concezione della società per azioni come una serie (un “nexus” si usa dire) di contratti, in cui il ruolo fondamentale è svolto da quello con cui gli investitori/soci vincolano i manager/amministratori a perseguire l’obiettivo di soddisfare al meglio il loro interesse alla massima valorizzazione dei loro investimenti [3]. Sul concetto di consumer welfare è costruita invece la teoria che in ambito antitrust pretende di valutare la liceità delle pratiche delle imprese non in base alla loro idoneità a restringere la concorrenza, nel senso in cui tradizionalmente è intesa, ma in base alla loro capacità di aumentare, o diminuire, il benessere dei consumatori (o, secondo molti, non il benessere dei consumatori, ma il benessere totale [4]). L’influenza, e la significatività, delle due teorie in questione va molto al di là di eventuali conteggi delle esplicite integrali accettazioni di cui sono riuscite a godere. Entrambe hanno contribuito a spostare il baricentro della problematica considerata, nelle rispettive materie, rilevante. La teoria del consumer welfare ha spostato il baricentro della problematica antitrust dalla difesa generale della struttura concorrenziale dei mercati, verso l’esame degli effetti immediati che singole pratiche possono avere sui consumatori in esse coinvolti, e, quindi, da una esaltazione e valorizzazione del diritto antitrust come una sorta di costituzione economica [5], verso una specificazione, e un netto ridimensionamento, della sua funzione e degli ambiti del suo possibile intervento [6]. Fenomeno analogo si è verificato con riferimento alla società per azioni. Guardando, ad esempio, a ciò che è successo nel nostro sistema, si potrà forse constatare che i sostenitori della teoria dello shareholder value disposti ad applicarne coerentemente i rigidi schemi di ragionamento non sono moltissimi, ma credo che, nonostante ciò, nessuno possa negare che l’orientamento complessivo nei [...]


2. Le comuni radici neoliberali delle due teorie.

Le due teorie condividono comuni radici culturali e si servono di apparati concettuali strettamente simili [10]. Si tratta della cultura che ispira, e delle categorie teoriche elaborate da, due precisi correnti di pensiero: l’analisi economica del diritto (EAL) e la nuova economia istituzionale (NIE). Almeno quattro elementi giocano qui un ruolo centrale: 1) la generalizzazione di logiche e, là dove possibile, la diffusione di pratiche, di tipo mercantile; 2) una concezione puramente quantitativa dello sviluppo; 3) la prevalenza delle esigenze allocative su quelle distributive; 4) la tendenza a leggere problemi sistemici come problemi del soggetto. 1) La centralità del riferimento alla libertà mercantile è già stata sottolineata pocanzi. Qui vale la pena ricordare ancora che la centralità del mercato giustifica non solo azioni volte a favorire il funzionamento ottimale e indisturbato di meccanismi effettivi di mercato (con correlativa presentazione delle disfunzioni del mercato come fenomeno occasionale e circoscritto, c.d. market failure), ma opera anche, e forse soprattutto, nel senso dell’espansione e della generalizzazione, in ogni ambito possibile, di una logica tipicamente mercantile (sul punto v. anche infra, nt. 14 e relativo testo). 2) Quanto alla concezione dello sviluppo, il problema sembra essere solo quello di favorire il successo dei tentativi dei privati di massimizzare ciascuno il proprio personale benessere. L’idea è che da una somma di massimizzazioni non possa derivare altro che una continua crescita del benessere complessivo. Lo sviluppo è visto come un fatto puramente quantitativo. 3) I problemi distributivi vengono esorcizzati mediante una arbitraria aggregazione dei benesseri dei vari soggetti coinvolti. Viene costruito sia nelle spa, che nell’antitrust, una sorta di “agente rappresentativo” che diventa l’unico portatore di interessi considerati rilevanti e l’unico destinatario della finalità di protezione della disciplina. In un caso si tratta del socio interessato a massimizzare in qualsiasi modo il valore del proprio investimento, nell’altro si tratta del consumatore interessato a massimizzare il consumo reso possibile dal suo reddito. I problemi distributivi sembrano allora secondari: se tutti vogliono soldi, il problema principale, se non esclusivo, sembra quello di produrre più ricchezza. 4) [...]


3. Il diritto, la “mano invisibile” e l’equilibrio economico generale.

A me sembra che il modo in cui questi problemi (mercato e sue disfunzioni; sviluppo; problemi distributivi; soggetto) sono impostati e trattati, sia frutto di una evoluzione che ha operato in profondità. La mia tesi è che entrambe le teorie in questione cercano di porre rimedio allo stesso problema, e cioè alla oramai conclamata impossibilità di conciliare la realtà dei mercati con il modello ideale di mercato cui fanno riferimento tanti discorsi che ne esaltano pregi e virtù, e cioè il modello di mercato in cui operano tante piccole imprese in forte concorrenza tra loro, nessuna in grado di imporre prezzi o altre condizioni, e dove tutto è quindi affidato a meccanismi impersonali che dirigono, autoritativamente, ma imparzialmente, la vita di tutti [12]. Al di là della discussione sulla apprezzabilità di questo modello, in cui si è comandati non da persone, ma da meccanismi anonimi e apparentemente impersonali, il fatto è che la realtà appare da tempo molto diversa dal modello. Il mercato è da tempo popolato da grandi imprese che non hanno più nulla in comune con l’immagine romantica dell’imprenditore che rischia solo i suoi capitali, che risponde pienamente per tutte le scelte che compie, che è pienamente legittimato dai suoi diritti proprietari sulle risorse che utilizza. Da una parte la diffusione della società per azioni, e la separazione tra proprietà e controllo, ha distrutto, lo notavano Berle e Means, “l’atomo proprietario”, e cioè lo stretto legame tra proprietà, esercizio dell’impresa, rischio e profitto, che caratterizzava, ancora nel secolo precedente il loro, la maggior parte delle imprese appartenenti a singoli proprietari o a piccole società. Berle e Means non si limitano però a questa constatazione e sottolineano ulteriormente che «This dissolution of the atom of property destroys the very foundation on which the economic order of the past three centuries has rested» [13]. Alla “dissolution” provocata a livello proprietario dallo sviluppo della spa, fa riscontro, in ambito antitrust, la riconosciuta impossibilità (e, forse, inopportunità) di costringere le imprese a riprodurre nella realtà il tipo di concorrenza descritto nel modello ideale. Il riconoscimento di questa impossibilità apre [...]


4. Gli strumenti concettuali: la massimizzazione quantitativa e la centralità della transazione.

La teoria dei prezzi fornisce gli strumenti teorici per questa analisi della realtà [16] e le teorie del consumer welfare e dello shareholder value forniscono, a loro volta, gli strumenti per rendere giuridicamente operativa la prospettiva suggerita dalla teoria dei prezzi negli ambiti del diritto antitrust e del diritto delle società. La teoria dei prezzi esalta l’importanza della massimizzazione [17]. La legge della domanda consente di stabilire le quantità massime che sarebbero comprate ai diversi prezzi [18]; l’esame delle curve di domanda individuali presuppone che l’individuo nel fare le sue scelte «…acts as if he were pursuing and attempting to maximize a single end…» [19]; i prezzi servono «… as guideposts to where resources are wanted most…» [20] con il risultato che se nulla ostacola la naturale funzione dei prezzi stessi, le risorse «…tend to gravitate toward their most valuable uses…» [21]. L’applicazione della teoria dei prezzi al diritto richiede però un riferimento a grandezze univoche e misurabili, suscettibili di giudizi simili a quelli che possono essere formulati quando si confrontano due prezzi, e la cui massimizzazione possa essere presentata come un criterio di valutazione e di interpretazione delle norme praticabile e apprezzabile. Le nozioni di shareholder value e di consumer welfare rispondono a questi requisiti. Esse rinviano infatti a parametri in teoria facilmente misurabili (l’output del prodotto considerato nell’antitrust, il valore delle azioni nelle s.p.a.) e ad obiettivi sicuramente apprezzabili (il benessere, rispettivamente, dei consumatori e dei soci). Le esigenze di misurazione e massimizzazione spingono poi ad attribuire un ruolo centrale alla transazione (intesa, come è noto, nel senso di una interazione, non necessariamente contrattuale, che comporti il trasferimento di una risorsa [22]). Nella transazione situazioni diverse vengono confrontate e, in un certo senso, misurate [23] (misurazione che è il passo preliminare allo spostamento delle risorse verso impieghi a più alto rendimento). Tutta la realtà sociale viene allora presentata come scomponibile in serie di interazioni interindividuali, tutte trattate come transazioni di tipo economico, volte alla massimizzazione del benessere. Il diritto [...]


5. Il potere economico, il ruolo delle istituzioni e i canoni per l’elabo­razione e l’interpretazione delle norme.

Dal punto di vista della elaborazione ed interpretazione delle norme, questa impostazione induce ad accantonare la prospettiva, prima dominante sia nel­l’antitrust, sia nel diritto delle società, in cui il punto di partenza era la constatazione dell’esistenza di posizioni di potere economico (le grandi imprese nel diritto antitrust, i loro manager nel diritto delle società per azioni). Punto di partenza che poi veniva sviluppato lungo le linee segnate dalla esigenza di limitare questi poteri a protezione non solo di potenziali specifiche vittime dei poteri stessi, ma della società intera [26]. Nelle costruzioni elaborate dalle teorie che stiamo ora esaminando, l’impo­stazione del problema principale viene modificata nel senso che la soluzione non viene più cercata nell’analisi dei diversi modi in cui i poteri possono essere limitati, ma nella ricerca dei modi con cui i poteri stessi possono essere posti al servizio immediato di alcuni interessi (quelli dei soci e dei consumatori), nella convinzione che in tal modo anche gli interessi generali saranno indirettamente soddisfatti. Il tema delle implicazioni generali dell’esistenza di enormi poteri economici sparisce. Ciò che conta sono solo alcuni possibili, specifici, effetti e i meccanismi in grado di piegare questi effetti all’obiettivo della massimizzazione dei benesseri dei soci e dei consumatori. Questa impostazione implica due assunti e cioè, da una parte, che l’azione dei detentori del potere economico possa essere effettivamente imbrigliata dal semplice vincolo alla massimizzazione dei benesseri delle due categorie e, dall’altra, che il vincolo, così imposto, sia di natura tale da indirizzare l’esercizio del potere in una direzione conforme all’interesse generale. A me sembra che nessuno dei due assunti regge alla critica. Osservando più da vicino le caratteristiche comuni alle costruzioni elaborate dalla due teorie possiamo notare che entrambe partono da un problema economico immediato (il coordinamento tra efficienza produttiva e allocativa nell’antitrust/lo sviluppo della capitalizzazione delle imprese nelle spa [27]) e procedono indicando una soluzione che passa attraverso la massimizzazione di una certa grandezza (l’output e il benessere dei consumatori nell’antitrust, il rendimento dell’investimento azionario e il benessere dei soci [...]


6. Lo shareholder value.

a) Indeterminatezza e incongruenza. Il riferimento allo shareholder value è parte di un progetto teorico la cui principale preoccupazione è quella di costruire una realtà in cui ci si possa liberare dal “concern with political values” [28] ereditato dall’elaborazione di Berle e Means, e il mercato possa perciò presentarsi come lo strumento in grado di raggiungere risultati in linea di massima ottimali. Il primo passo in questa direzione è una ridefinizione in termini assolutamente riduttivi del problema principale, identificato, come è visto, con quello di assicurare che le grandi imprese possano ricevere tutto il capitale di rischio di cui ritengono di avere bisogno. In una problematica così ridefinita, il tema dei rendimenti offerti dall’azione, e quello della esatta definizione del suo prezzo, diventano centrali. La teoria dei prezzi può assumere il controllo del ragionamento. In questa visione, l’esigenza di attrarre i risparmiatori massimizzando il rendimento dei loro investimenti, può eliminare il fattore principale che nella costruzione di Berle e Means determina la politicizzazione dei problemi della società per azioni, e cioè l’eccessivo potere discrezionale dei manager [29]. L’idea è che i meccanismi di mercato possono costringere i manager ad assumere l’interesse degli investitori come bussola dei loro comportamenti (sia nel momento in cui compilano il contratto che offriranno al pubblico, sia nel momento in cui lo eseguiranno) e, in particolare, possono costringerli ad adottare sempre e solo i comportamenti che appaiono in grado di soddisfare la principale preferenza degli investitori stessi, che è quella di vedere massimizzato il valore dei loro investimenti. L’organizzazione della società per azioni, e l’eventuale intervento dell’istituzione al riguardo, servono solo a rinforzare i meccanismi di mercato e ad impedirne l’eventuale, occasionale, malfunzionamento. Una delle ragioni per cui questo quadro non è accettabile è che, anche se si concentra l’attenzione solo sui soci, e si prescinde dagli interessi degli altri stakeholder, non si tarda a rendersi conto che i soci-investitori possono avere interessi e preferenze molto diverse, e anche confliggenti, posto che la valorizzazione dei loro investimenti si inquadra in un contesto che non ha [...]


7. Il consumer welfare.

a) Indeterminatezza e incongruenza. Anche la teoria del consumer welfare, come quella dello shareholder value, pretende di indicare un obiettivo univoco, perseguibile al di fuori di ogni valutazione politica, e con interventi pubblici ridotti al minimo. Anche qui esistono un criterio immediato di riferimento che (al posto del valore delle azioni) è l’an­damento dell’output (e dei prezzi) di un certo mercato, e un obiettivo di massimizzazione, che qui riguarda il benessere dei consumatori (o quello totale). In realtà il criterio ha gravissimi difetti e nessuno dei pregi che i suoi sostenitori gli attribuiscono. Ciò non perché l’obiettivo di difendere il benessere dei consumatori, prevenendo aumenti dei prezzi e diminuzioni dell’output, non sia un obiettivo meritevole di adeguata considerazione, ma perché la teoria costruita intorno a questo dichiarato obiettivo fornisce spesso indicazioni non univoche, non coerenti con l’obiettivo di difendere gli interessi dei consumatori, e non in grado di tenere conto dei costi e degli effetti negativi che possono essere prodotti da un ottuso perseguimento dell’obiettivo indicato. Il primo punto da chiarire è che ben raramente è possibile procedere ad una misurazione diretta e sicura di tutti gli effetti che pratiche come le concentrazioni e gli abusi escludenti potranno produrre nell’immediato (e ovviamente, ancor meno, nel più o meno remoto) futuro. La presentazione della teoria del consumer welfare come caratterizzata dall’applicazione di un criterio semplice ed univoco, è smentita anzitutto dal fatto che ciò che viene qui effettivamente in rilievo è in realtà un gioco di illazioni, presunzioni e articolazione di regole probatorie. In questo gioco si cerca di accreditare una serie di ragionamenti di tipo presuntivo, la maggior parte dei quali sono impostati in questo modo: si afferma [48] che i divieti antitrust si riferiscono solo a quei comportamenti che risultano profittevoli per l’impresa che li pratica esclusivamente in forza dei loro effetti escludenti; poi si nega che i comportamenti, anche quelli più anomali, delle imprese possano essere in via di principio ritenuti funzionali alla restrizione della concorrenza [49]; si tenta allora di dimostrare che la prassi considerata può essere in astratto spiegata come funzionale a normali esigenze di [...]


8. Poteri economici privati e ruolo dei consumatori e dei soci.

Entrambe le teorie in esame propongono una visione in cui i meccanismi di mercato – opportunamente sostenuti, se del caso, da interventi istituzionali – impongono al potere economico, quale che ne sia la natura o la dimensione, il vincolo della massimizzazione dei benesseri di soci e consumatori. Il potere, così imbrigliato, sembra non porre più alcun problema generale, di alcun tipo. Come è largamente prevedibile, e come si è visto nei paragrafi precedenti, questa impostazione finisce in realtà per favorire (ben più che consumatori e soci) la crescita e l’esercizio discrezionale del potere delle imprese, liberate da ogni dovere di tipo sociale, e ampiamente protette contro ogni tentativo di regolazione pubblica dei loro comportamenti. Vorrei sottolineare qui un altro punto (cui in parte ho anche già accennato) e cioè che l’enfatico riferimento a soci e consumatori in nessun modo annuncia un qualche programma di ampliamento della democrazia economica e di potenziamento dell’influenza che costoro possono esercitare sulle decisioni delle imprese. Va ricordato, anzitutto, che i soci e i consumatori cui queste teorie fanno riferimento poco hanno a che fare con i reali soci e i reali consumatori. Con riferimento ad entrambe le categorie viene infatti messo in atto un processo di artificiosa omogeneizzazione e per ciascuna viene costruito una sorta di agente rappresentativo, le cui presunte preferenze definiscono in sostanza le curve di domanda dei prodotti (consumatori) e di offerta del capitale di rischio (soci) che le imprese fronteggiano. Questo, e cioè il fatto di rappresentare per le imprese due curve importanti, con cui le imprese stesse non possono non fare i conti, rimane (come è sempre stato in un’economia mercantile) la fonte del contropotere di consumatori e soci. Per il resto, né il diritto antitrust ispirato dal consumer welfare, né il diritto societario ispirato dallo shareholder value, si preoccupano di aumentare il potere di queste due categorie e le loro capacità di controllo sulle imprese. L’aumento del controllo collettivo (di soci e consumatori) sulle scelte delle imprese e l’effettivo potenziamento della libertà di scelta dei consumatori, o dei diritti dei soci di definire le politiche dell’impresa in cui hanno investito, sono obiettivi che non rientrano nell’orizzonte di queste [...]


9. Le “esternalità sociali”: massimizzazione dell’output e valorizzazione delle azioni non garantiscono l’aumento del benessere complessivo.

Una completa valutazione delle effettive conseguenze economico-sociali prodotte dal dominio delle due teorie in esame, richiederebbe una indagine storico-economica e storico-sociologica che non può essere compiuta qui. Autorevoli studiosi che tale indagine hanno direttamente compiuto sono giunti a conclusioni che ampiamente smentiscono l’idea che l’applicazione delle due teorie in questione abbia comportato un aumento generalizzato del benessere sociale [91]. Sul piano teorico questo risultato non sorprende. Volendo sintetizzare i molti difetti di queste teorie in un’unica considerazione, si può affermare che gli effetti delle scelte delle imprese, così come, a maggior ragione, quelli delle norme che tali scelte indirizzano, o omettono di indirizzare, sono effetti di carattere non solo economico, ma sociale [92]. Gli aspetti rilevanti dei fenomeni regolati vanno molto al di là del fatto che alcuni consumatori possano, o non possano, acquistare beni a prezzi più bassi, o che i soci vedano i propri investimenti remunerati in misura maggiore o minore. Il sistema giuridico regola fenomeni che non sono riducibili ad una dimensione puramente economica. Le norme giuridiche hanno effetti sociali complessivi, che spesso i prezzi, anche intesi nella più “unconventional” [93] delle maniere, non sono in grado di registrare, e men che meno di misurare [94]. A ciò si aggiunga che, come si è visto, le interrelazioni sociali esistenti fanno sì che la formazione dei prezzi non avvenga in maniera decentrata, in singole contrattazioni indipendenti l’una dall’altra (che solo la mano invisibile coordina a posteriori). L’assunto (più o meno esplicito, ma comunque fondamentale, ai fini della sostenibilità delle due teorie) che i patti con cui gli interessati massimizzano le loro utilità, non incidono su legittimi interessi di terzi, e non ne diminuiscono il benessere, non tiene. L’esistenza di un ampio raggio di esternalità sociali impedisce qualsiasi tentativo di presumere che il benessere generale possa crescere, o decrescere, in rapporto a quello che succede al benessere di singoli gruppi di soci, o di consumatori. L’idea che le norme possano essere trattate come prezzi (nel senso che definiscono i costi che conseguono alla tenuta di certe condotte), e che ci si possa limitare a prendere in [...]


10. Le prospettive.

Una valutazione complessiva delle critiche che si possono muovere all’impo­stazione dell’analisi economica suggerisce qualche riflessione finale. La prima è che l’eventuale rifiuto degli elementi portanti su cui la teoria si fonda, non può comunque cancellare gli effetti che essa ha avuto sull’evoluzione della realtà e del pensiero giuridico degli ultimi decenni. Un semplice ritorno alle impostazioni che dominavano la scena mezzo secolo fa non è ovviamente pensabile. Ciò per diverse ragioni, che evocano sia difficoltà di carattere pratico, sia temi di teoria del diritto. Le ragioni pratiche attengono ai profondi mutamenti nel frattempo intervenuti e alla conseguente necessità di fare i conti con l’attuale realtà sociale ed economica, e, in particolare, con la regressione del prestigio e del potere degli stati, con la onnipresenza di mercati reali, e di situazioni comunque governate da logiche mercantili, con l’ideologia che ha sostenuto e sostiene questa espansione e con i vari aspetti, non sempre progressivi, delle spinte verso l’adozione di modelli diversi. Ferme restando tutte le critiche sviluppate nel corso del presente lavoro, non si può poi ignorare che la prospettiva dell’analisi economica, e della teoria dei prezzi in particolare, colgono caratteristiche che sono effettivamente presenti nel reale funzionamento dei mercati e con le quali, nell’attuale contesto, non si può evitare di fare i conti. Il diritto, almeno fino a quando dovrà regolare una economia simile all’attuale, non può ignorare i meccanismi mercantili, e i problemi connessi al loro funzionamento. Può (a mio avviso, deve) affrontare tutto ciò con prospettive diverse da quelle suggerite dall’analisi economica, ma è ovviamente necessaria l’elaborazione di adeguate alternative. Quanto alla teoria del diritto, le difficoltà nascono soprattutto dal fatto che l’a­nalisi economica si occupa di problemi effettivamente rilevanti, soprattutto quelli che ha ereditato dall’elaborazione dei gius-realisti americani, e per i quali ha trovato le “soluzioni” a lei più convenienti. Penso prima di tutto ai giganteschi problemi suscitati dal riconoscimento della discrezionalità interpretativa [96] connessa al fenomeno della incompletezza delle regole (legali e anche [...]


NOTE
Fascicolo 3 - 2023