Il contributo si propone di studiare i rapporti tra “sostenibilità” e diritto della crisi e dell'insolvenza dell’impresa societaria, cercando di verificare in quale misura i precetti collegati alla sostenibilità (ambientale e sociale) possano o debbano assumere un qualche spazio rispetto alla società in stato di crisi o di insolvenza e di comprendere come ciò si coordini con la finalità, tipica del diritto della crisi, di tutelare l'interesse dei creditori a recuperare il loro credito nella misura massima possibile. A questi fini, il lavoro si sofferma sulle possibili ricostruzioni, anche in chiave comparata, che potrebbero essere utilizzate per argomentare a favore o contro la tesi dell'inclusione dei precetti della sostenibilità fra gli interessi perseguibili attraverso il diritto della crisi. Si conclude, anche alla luce delle norme da ultimo introdotte con il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, nel senso che gli argomenti a favore della tesi per la quale il diritto della crisi non appare la sede idonea per la tutela (in via diretta) di interessi diversi da quello dei creditori appaiono maggiormente convincenti.
The paper aims to investigate the relationship between “sustainability” and corporate insolvency law, attempting to assess the extent to which environmental and social sustainability can or should have some space with respect to a distressed company, and to understand how this coordinates with the purpose, typical of insolvency law, of protecting the interest of creditors in recovering their credit to the maximum extent possible. To these ends, the paper dwells, also adopting a comparative perspective, on the possible theories that could be used to argue for or against the thesis of the inclusion of sustainability values among the interests that can be pursued through insolvency law. It is concluded, also in the light of the recent c.c.i.i., that the arguments in favour of the thesis that insolvency law does not appear to be the appropriate forum for the (direct) protection of interests other than that of creditors appear more convincing.
1. Introduzione - 2. Precisazione del campo dell’indagine. - 3. Il possibile argomento fondato sullo stakeholderism a favore di un diritto della crisi “sostenibile”: rigetto. - 4. Le incerte indicazioni ricavabili dal diritto positivo. - 4.1. Direttiva Restructuring e interessi perseguiti. - 4.2. C.c.i.i. e interessi perseguiti. - 5. Il dibattito dottrinale sugli interessi perseguiti nella regolazione della crisi dell’impresa societaria. - 5.1. Nel diritto statunitense. - 5.2. Nel diritto italiano. - 5.3. Profili del dibattito dottrinale più recente. - 6. Alcune preliminari considerazioni per una proposta di soluzione. - NOTE
Come noto, nel dibattito e nella legislazione contemporanei, sta emergendo con sempre maggior vigore una “nuova” parola d’ordine, «sostenibilità» [1]. Nei progetti dell’Unione Europea, in particolare, si colgono tra i molti obiettivi quelli relativi alla sostenibilità ambientale e alla protezione dei diritti umani, secondo Linee guida elaborate dall’ONU in anni recenti [2]. L’attenzione al tema della sostenibilità dell’attività economica ha così coinvolto anche il diritto della crisi, specialmente nella sua accezione del diritto societario della crisi [3].
Il contributo si propone di studiare i rapporti tra “sostenibilità” e diritto della crisi e dell’insolvenza dell’impresa societaria. Si tratta, in particolare, di verificare in quale misura i precetti collegati alla sostenibilità (ambientale e sociale) possano o debbano assumere un qualche spazio nell’ambito dello statuto della società in stato di crisi o di insolvenza, e di comprendere come ciò si coordini con la finalità, tipica del diritto della crisi, di tutelare l’interesse dei creditori alla soddisfazione del loro credito. Il quesito dal quale si prenderanno le mosse nel presente lavoro è, dunque, se, nel diritto societario della crisi, assumano rilevanza solo ed esclusivamente gli interessi dei creditori o se occorra tenere conto in via diretta anche degli interessi di quei soggetti che il principio di “sostenibilità” vorrebbe proteggere, e cioè gli interessi dei c.d. stakeholders (o interessi-altri); con la conseguenza, in questa seconda ipotesi, che, in alcuni casi, gli interessi dei creditori potrebbero o dovrebbero essere bilanciati con gli interessi-altri, ed eventualmente essere sacrificati di fronte ad essi.
E così, ci si potrebbe chiedere, ad esempio, se, alla luce del nuovo paradigma della sostenibilità [4], gli amministratori di una s.p.a. che, ai sensi dell’art. 120-bis c.c.i.i., decidono in via esclusiva sull’accesso ad uno strumento di regolazione della crisi, debbano scegliere quello che tutela «al meglio» (nella loro prospettazione) l’interesse dei creditori [5] o se possano/debbano optare per quello che tutela anche l’interesse-altro che viene in rilievo nel caso di specie, ad esempio quello dei lavoratori a mantenere il posto di lavoro o della comunità locale a continuare a beneficiare della presenza dell’impresa sul territorio. O, ancora, ci si potrebbe domandare se il curatore che, ai sensi dell’art. 172 c.c.i.i., deve decidere se subentrare o sciogliersi dal contratto pendente nella liquidazione giudiziale, debba basare la sua decisione sulla scelta che tutela «al meglio» l’interesse dei creditori o se possa/debba considerare anche quella che persegue interessi-altri connessi al principio di sostenibilità.
A questi fini, si è scelto di strutturare il lavoro come segue. Per impostare la questione nei termini (ritenuti) corretti, si procederà, dapprima, all’esame di alcuni profili problematici nell’ottica di definire e limitare il campo dell’indagine, anche alla luce della genericità ed astrattezza di alcune delle formule che verranno utilizzate nell’arco del lavoro, come “sostenibilità”, “stakeholders”, “interessi-altri”, e così via (§ 2); si passerà, poi, all’esame – in chiave critica – di un possibile argomento, che, se accolto, potrebbe risultare determinante per la soluzione al quesito posto (§ 3). Così definita la questione, si analizzerà il dato normativo ricavabile dal diritto positivo, per mostrare come esso si riveli ambiguo sotto il profilo che qui rileva (§§ 4-4.2). Nel tentativo di elaborare una possibile (preliminare) proposta di soluzione, si affronterà, quindi, il dibattito dottrinale rilevante in materia, anche in una chiave comparata con l’ordinamento statunitense (al quale, a detta di molti, il nostro diritto (societario) della crisi degli ultimi anni si sarebbe ispirato [6]) (§§ 5-5.3). Infine, si tenterà di illustrare le ragioni a favore di una (preliminare) ipotesi di soluzione al quesito oggetto del lavoro (§ 6). Volendo anticipare sin da ora i risultati dell’analisi condotta, sembra in particolare che gli argomenti a favore della tesi per la quale il diritto della crisi non appare la sede idonea per la tutela (in via diretta) di interessi diversi da quelli dei creditori siano maggiormente convincenti. In questa prospettiva, la tutela degli interessi degli stakeholders coinvolti nella crisi dell’impresa sembra da ricercarsi in altri strumenti, che pongono limiti esterni all’operare dell’impresa in crisi.
Come anticipato, al fine di impostare l’analisi nei termini (ritenuti) corretti, si impongono sin da subito alcune precisazioni.
(i) Si è detto del possibile conflitto, nell’ambito del diritto (societario) della crisi d’impresa, se esaminato nell’ottica del nuovo paradigma della sostenibilità, fra interesse dei creditori alla soddisfazione della loro pretesa e interesse degli stakeholders (che il principio di sostenibilità vorrebbe proteggere).
Nello specifico, per quanto riguarda la categoria dei creditori (in senso lato e atecnico) occorre precisare che al suo interno vanno oramai inclusi anche i soci della società debitrice quali titolari di una pretesa di ultima istanza. Questo perché il c.c.i.i. si caratterizza per una concezione della partecipazione sociale in chiave essenzialmente finanziaria, in coerenza con l’approccio che postula che l’unico interesse giuridicamente rilevante del socio di una società in stato di crisi o di insolvenza è la pretesa economica al recupero della quota di patrimonio residuo [7]. I soci, in altri termini, lungi dall’essere considerati come i “proprietari” della società (in crisi), sono oggi riguardati come l’ultima classe di creditori [8]. Questa concezione trova conferma in molteplici indici normativi, e segnatamente: (a) nella competenza esclusiva degli amministratori a decidere sull’accesso ad uno strumento di regolazione della crisi, e cioè a decidere sulla tipologia di strumento da utilizzare per affrontare la crisi, sulle condizioni della proposta e sul contenuto del piano (art. 120-bis c.c.i.i.) [9]; (b) nell’impossibilità per i soci di reagire ad una proposta di regolazione della crisi sgradita mediante la destituzione degli amministratori e la loro sostituzione, perché «dalla iscrizione della decisione [di accedere ad uno strumento di regolazione della crisi] nel registro delle imprese e fino alla omologazione, la revoca degli amministratori è inefficace se non ricorre una giusta causa» [10]; (c) nell’effetto del provvedimento di omologazione di uno strumento di regolazione della crisi, che – sulla scia di una teoria elaborata nel vigore della legge fallimentare da parte di una dottrina (allora) minoritaria [11] – è tale da determinare “automaticamente” la riduzione e l’aumento del capitale e le altre modificazioni statutarie nei termini previsti dal piano, senza che sia necessario che i soci si pronuncino al riguardo (nemmeno da un punto di vista soltanto formale) [12]; (d) nella possibilità che i soci siano riuniti in una o più classi le quali si esprimono sulla proposta di regolazione della crisi [13]. Insomma, quando la società entra in una fase di declino, i soci, lungi dall’essere (ancora) trattati come i “proprietari” della società, sono considerati alla stregua di meri investitori di ultima istanza nell’attività sociale [14].
Con riguardo alla categoria degli stakeholders, invece, essi vengono qui intesi come tutti quei soggetti diversi dai creditori e dai soci che sono in qualche modo impattati dalla crisi della società. Ad esempio, i lavoratori in quanto tali [15], la comunità locale che beneficia della presenza della società sul territorio, i consumatori, l’ambiente, e così via. Si tratta, evidentemente, di soggetti (in senso lato) dagli interessi eterogenei, che difficilmente possono essere ricondotti ad un unicum.
(ii) E proprio in ciò si profila uno dei maggiori problemi connessi all’utilizzo di formule ampie e generiche come “sostenibilità”, “stakeholders”, “interessi-altri” e così via. In effetti, il contenuto stesso della formula “sostenibilità” appare di incerta definizione [16]. Con riferimento al diritto della crisi esso può infatti essere inteso in almeno due accezioni: “sostenibilità” come “sostenibilità economica”, nel senso di sostenibilità della continuazione dell’attività d’impresa alla luce delle condizioni di dissesto in cui versa la società [17], e “sostenibilità” come “attenzione agli impatti negativi” dell’attività d’impresa all’esterno della stessa, ossia come attenzione alle esternalità negative di una certa attività sul piano (quantomeno) ambientale e sociale, e cioè sul piano dei fattori “E” e “S” del noto acronimo ESG [18].
Posto che è in questa seconda accezione che in questo lavoro ci si riferisce al concetto di sostenibilità (sostenibilità ambientale e sociale e non sostenibilità economica), sono fin troppo noti i problemi che l’utilizzo di questa formula, anche così intesa, pone nel campo del diritto commerciale (e non solo). Si pensi alla circostanza che ciò che appare sostenibile sotto un certo profilo, potrebbe non esserlo sotto un altro (chiusura di un’attività inquinante che però ha come effetto la perdita di posti di lavoro da parte di una larga fetta della popolazione) [19]. Per non menzionare i profili legati alla (in)sindacabilità delle scelte di coloro ai quali è richiesto di effettuare un bilanciamento fra svariati interessi rispetto ai quali non è stabilita una chiara gerarchia (ambiente, diritto al lavoro, diritto alla salute, e così via) [20]. Non può ignorarsi, dunque, che un conflitto di interessi si può porre non solo tra creditori (/soci ex latere creditoris [21]) e stakeholders, ma anche tra stakeholders e stakeholders. Tuttavia, le esigenze di semplificazione imposte dall’oggetto di questo scritto inducono ad affrontare la materia che ci interessa nell’ottica del (solo) conflitto (quando presente) fra gli interessi dei creditori (/soci ex latere creditoris) e gli interessi degli stakeholders complessivamente intesi.
Peraltro, non si ignora che, talvolta, gli interessi dei creditori (/soci ex latere creditoris) e gli interessi degli stakeholders possano andare di pari passo (si pensi ad una società in dissesto che si occupa di piantare alberi in Amazzonia rispetto alla quale viene proposto un piano di ristrutturazione tale da consentire alla società di proseguire nella sua attività e, inoltre, di generare un plusvalore per i creditori/soci ex latere creditoris). In questo caso, il perseguimento degli interessi-altri è l’effetto (indiretto) del perseguimento degli interessi dei creditori.
(iii) Infine, si impone una precisazione con riferimento alla formula stessa di “interesse dei creditori (/soci ex latere creditoris)”. Si tratta, in effetti, di uno dei temi maggiormente dibattuti in dottrina, e che recentemente si è arricchito di nuovi spunti di riflessione [22]. Varrà sottolineare, infatti, che oggi si tende a ricondurre l’interesse del creditore/socio ex latere creditoris di una società in crisi nell’ambito di tre alternative ricostruzioni [23].
La prima di queste concepisce l’interesse del creditore/socio ex latere creditoris di una società in crisi come l’interesse alla massima soddisfazione (possibile, alla luce delle circostanze concrete) della pretesa, secondo un principio di massimizzazione della soddisfazione della pretesa in senso assoluto [24]. La seconda ricostruzione, invece, interpreta tale interesse come interesse ad una soddisfazione della pretesa che sia migliore rispetto ad uno scenario alternativo, che generalmente è lo scenario liquidatorio nell’ambito di una procedura forzosa e collettiva (liquidazione giudiziale), secondo il principio del “miglior soddisfacimento dei creditori” che, prima della riforma attuata con il d.lgs. n. 83/2022, era da alcuni addirittura definito «stella polare» delle procedure concorsuali [25]. Infine, un ultimo e più recente orientamento intende l’interesse del creditore/socio ex latere creditoris di una società in crisi come l’interesse a non essere pregiudicato rispetto ad uno scenario alternativo (che anche qui è generalmente lo scenario liquidatorio [26]).
Non è questa la sede per prendere posizione su quale delle tre ricostruzioni proposte in punto di definizione dell’interesse dei creditori sia la preferibile, anche alla luce del sistema riformato. Infatti, il tema della corretta definizione dell’interesse dei creditori/soci ex latere creditoris di una società in crisi sembra porsi in termini neutrali rispetto al quesito, oggetto di queste pagine, se, nel diritto societario della crisi, assumano rilevanza solo ed esclusivamente gli interessi dei creditori o se occorra tenere conto in via diretta anche di interessi-altri (con la conseguenza, in questa seconda ipotesi, che, in alcuni casi, gli interessi dei creditori potrebbero o dovrebbero essere bilanciati con gli interessi-altri, ed eventualmente essere sacrificati di fronte ad essi). In effetti, il tema da ultimo richiamato si pone a prescindere da quale ricostruzione si intenda accogliere circa la definizione dell’interesse dei creditori. In altre parole, sia che si intenda l’interesse dei creditori/soci ex latere creditoris di una società in crisi come interesse alla massima soddisfazione possibile, sia che lo si intenda nel senso di interesse ad una soddisfazione migliore rispetto ad uno scenario alternativo, sia che lo si intenda nel senso di interesse a non essere pregiudicati rispetto alla liquidazione, i termini della questione qui in rilievo non cambiano.
Chiarito ciò, è ora possibile passare alla confutazione di un possibile argomento che, se accolto, potrebbe risultare determinate per la soluzione al quesito posto in apertura del presente scritto.
Come noto, il “nuovo” interesse per i temi legati alla sostenibilità dell’attività d’impresa ha (ri)portato l’attenzione degli studiosi su dibattiti antichi, e segnatamente quelli riconducibili all’“interesse sociale” [27] o, utilizzando concetti che per la verità non appaiono coincidere pienamente [28], allo “scopo della società” o al “corporate purpose” [29]. Il tema, cioè, se (semplificando) gli obiettivi delle società siano limitati alla soddisfazione degli interessi dei soli soci o si estendano anche ad altri portatori di interessi.
In effetti, se si accoglie la premessa che la società in bonis, ed in particolare la s.p.a. lucrativa “comune”, possa o debba perseguire anche interessi diversi da quello dei soci alla massimizzazione del valore delle partecipazioni, secondo il c.d. stakeholderism [30], si potrebbe essere indotti a pensare che, allora, anche la società in crisi (o insolvente) possa o debba perseguire anche interessi diversi da quelli dei creditori [31]. Ciò, sulla base della premessa teorica per la quale, nella società in crisi, i veri “soci” (investitori di capitale di rischio) sarebbero i creditori, in quanto soggetti oramai esposti al rischio d’impresa (residual claimants) [32]. Ebbene, se si accetta che la società in bonis possa o debba perseguire una molteplicità di interessi (non solo quelli dei soci ma anche quelli degli stakeholders) e che dunque l’interesse dei soci alla massimizzazione del loro investimento possa o debba essere legittimamente bilanciato con gli interessi-altri, si potrebbe ritenere che anche nella società in crisi il perseguimento dell’interesse dei creditori possa o debba concorrere con la tutela di interessi-altri e che addirittura possa (o debba) cedere il passo a questi ultimi [33]. D’altra parte, se la crisi è solo una fase dell’attività, il quadro degli interessi tutelati non dovrebbe mutare a seconda della fase (in bonis o in crisi) in cui la società si trova ad operare [34].
Questa ricostruzione, sebbene suggestiva, non pare cogliere nel segno. Il dibattito sullo scopo della s.p.a. (o sull’interesse sociale o sul corporate purpose) si sviluppa intorno alla domanda centrale se, al di fuori di una decisione in questo senso dei soci (clausola statutaria “di sostenibilità” [35], società benefit [36], e così via), i capitali da questi ultimi investiti nell’attività d’impresa debbano essere utilizzati per perseguire esclusivamente i loro interessi o debbano (o quantomeno possano) essere impiegati anche per promuovere interessi diversi, e ciò in quanto l’attività d’impresa è suscettibile di impattare sugli interessi di una molteplicità di soggetti (gli stakeholders, appunto). In altre parole, ci si chiede se sia accettabile che i capitali raccolti sotto forma di capitale di rischio e organizzati per il tramite della forma societaria vengano diretti verso la tutela di interessi anche diversi da quelli di coloro che tali capitali hanno fornito.
Il discorso sul rapporto fra gli interessi dei creditori e gli interessi-altri nella crisi d’impresa appare, invece, parzialmente diverso, e ciò per la semplice ragione che in quest’ultimo caso il punto di partenza è un elemento – e cioè la disfunzione del rapporto obbligatorio determinata dalla situazione di crisi o di insolvenza – dotato di una precisa rilevanza giuridica. La linea di continuità tra il discorso sul rapporto tra l’interesse dei soci e gli interessi-altri nelle società in bonis e quello sul rapporto tra l’interesse dei creditori e gli interessi-altri nelle società in crisi appare dunque interrotta. La circostanza che il presupposto di qualsiasi diritto che si proponga di regolare la crisi dell’impresa sia la disfunzione del rapporto obbligatorio sembra spostare il discorso dalla generica questione della misura in cui si debbano (o si possano) perseguire gli interessi-altri rispetto a quelli dei residual claimants a quella di come reagire (secondo quale assetto di interessi) alla disfunzione del rapporto obbligatorio. Le premesse, come si vede, sono diverse. In questa prospettiva, la conclusione che nella società in bonis l’interesse dei soci non necessariamente debba essere perseguito in via prioritaria, potendo o dovendo anche essere bilanciato con altri interessi, non appare avere ripercussioni sul medesimo discorso con riguardo alla società in crisi, perché qui il punto di partenza (per definire l’assetto di interessi) è una situazione diversa (ossia la disfunzione del rapporto obbligatorio), dotata di una precisa rilevanza giuridica. Il quadro è dunque arricchito di un ulteriore tassello, che mescola le carte in gioco e ridefinisce i termini stessi della questione.
Se si condivide quanto detto sin ora, è allora possibile rigettare tutte quelle ricostruzioni che, sulla base dell’accoglimento di un approccio pluralistico allo scopo della società (in bonis), magari sulla scia di quella tendenza dell’ordinamento ad affermare i precetti della sostenibilità, argomentano nel senso che anche nella società in crisi occorrerebbe prendere in considerazione, eventualmente anche in chiave prioritaria, interessi diversi da quelli dei creditori.
Liberato il campo da questo argomento, è ora possibile procedere ad un’analisi del dato ricavabile dal diritto positivo.
Se si esaminano gli elementi ricavabili dal diritto positivo in punto di interessi perseguiti dal diritto societario della crisi (almeno per quanto riguarda le procedure giudiziali [37]) emerge un quadro non del tutto univoco. In particolare, non si capisce (i) se, in generale, gli interessi legati ai precetti della sostenibilità rilevino in via diretta (con la conseguenza che gli interessi dei creditori potrebbero eventualmente retrocedere di fronte ad essi) o in via soltanto indiretta (nel senso che essi sarebbero perseguibili solo in quanto funzionali al perseguimento degli interessi dei creditori); (ii) se il modo in cui viene affrontato il tema dell’assetto di interessi perseguiti nelle procedure di regolazione della crisi muti a seconda del tipo di procedura, o, comunque, della tecnica utilizzata per reagire alla crisi e cioè a seconda che si proceda ad una liquidazione del patrimonio responsabile (procedure liquidatorie) o piuttosto ad una sua ristrutturazione (procedure di ristrutturazione); (iii) qualora si risponda positivamente al quesito sub (ii), quale sia la ratio alla base dell’ipotetico differente assetto di interessi fra procedure liquidatorie e procedure di ristrutturazione.
Al fine di illustrare tali ambiguità, sembra utile in questa sede esaminare i dati di diritto positivo ricavabili, da un lato, dall’esame della direttiva Restructuring [38], che rappresenta il primo tentativo a livello di Unione Europea di armonizzare il diritto della crisi (sostanziale) dei vari Stati Membri [39]; dall’altro lato, occorre fare riferimento al nuovo c.c.i.i., entrato in vigore in tutte le sue parti il 15 luglio 2022.
Quanto alla direttiva Restructuring, non c’è dubbio che essa assegni rilevanza ad una molteplicità di interessi eterogenei. Si pensi: (i) al considerando 2, per il quale «i quadri [di ristrutturazione] dovrebbero impedire la perdita di posti di lavoro nonché la perdita di conoscenze e competenze e massimizzare il valore totale per i creditori […] così come per i proprietari e per l’economia nel suo complesso»; (ii) al considerando 3, che prevede che nei quadri di ristrutturazione «i diritti di tutte le parti coinvolte, compresi i lavoratori, dovrebbero essere tutelati in modo equilibrato»; o, ancora, (iii) al considerando 10, per il quale «le operazioni di ristrutturazione, in particolare quelle di grandi dimensioni che generano un impatto significativo, dovrebbero basarsi su un dialogo con i portatori di interessi […] e dovrebbero garantire l’adeguata partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori»; si pensi, inoltre, (iv) al riferimento, nell’art. 4, alla finalità di «tutelare i posti di lavoro e preservare l’attività imprenditoriale», nonché (v) al contenuto dell’art. 19, che vuole che gli amministratori di una società in crisi «tengano debitamente conto», come minimo, degli «interessi dei creditori, e dei detentori di strumenti di capitale e degli altri portatori di interessi».
Dalla lettura di queste norme, come anticipato, emerge che la direttiva Restructuring assegna rilevanza ad una molteplicità di interessi. Tuttavia, non appare altrettanto chiaro se la direttiva imponga il perseguimento degli interessi diversi da quelli dei creditori soltanto in via mediata e indiretta o, piuttosto, in via immediata e diretta, con la conseguenza, in quest’ultimo caso, che gli interessi dei creditori potrebbero essere anche sacrificati [40]. Lampante in questo senso è il considerando 71, il quale, con riferimento ai doveri degli amministratori in caso di crisi [41], enuncia che «la presente direttiva non intende stabilire alcuna gerarchia tra le varie parti i cui interessi devono essere tenuti in debita considerazione» [42].
Peraltro, varrà sottolineare che la direttiva Restructuring non fa alcun riferimento al tema della tutela ambientale (fattore E dell’acronimo ESG), che sotto questo profilo risulta del tutto assente [43].
Passando, dunque, al quadro desumibile dal c.c.i.i., è possibile affermare che anch’esso lasci alcuni margini di incertezza. Infatti, quanto all’interesse dei creditori, è possibile rilevare che talvolta si parla di “interesse prevalente”, altre volte di “interesse prioritario”, e altre volte ancora di necessità che detto interesse non sia pregiudicato o che esso non sia pregiudicato “ingiustamente” [44]; quanto agli altri interessi, il c.c.i.i. prende in considerazione non solo gli interessi dei lavoratori, della continuità aziendale per se, ma anche dell’ambiente (anche se in quest’ultimo caso limitatamente ad un solo articolo) [45]. Tuttavia, non si capisce se l’interesse dei creditori e quello ad esempio dei lavoratori siano posti sullo stesso piano o se il secondo sia sempre subordinato al primo. In questo senso, si confrontino l’art. 84, secondo comma, c.c.i.i., in materia di concordato preventivo, che prevede che «la continuità aziendale tutela l’interesse dei creditori e preserva, nella misura possibile, i posti di lavoro», dal quale sembra desumersi la rilevanza soltanto indiretta degli interessi dei lavoratori rispetto a quelli dei creditori; e l’art. 53, quinto-bis comma, c.c.i.i., per il quale: «[i]n caso di accoglimento del reclamo proposto contro la sentenza di omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale, la corte d’appello, su richiesta delle parti, può confermare la sentenza di omologazione se l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante, riconoscendo a quest’ultimo il risarcimento del danno», che potrebbe fornire un elemento nel senso che i due interessi (quello dei creditori e quello dei lavoratori) siano posti sullo stesso piano. Si prenda in considerazione, inoltre, l’art. 212, primo e secondo comma, c.c.i.i., che prevede che, nella liquidazione giudiziale, può essere autorizzato l’affitto dell’azienda «quando appaia utile al fine della più proficua vendita dell’azienda o di parti della stessa» e che la scelta dell’affittuario «deve tenere conto, oltre che dell’ammontare del canone offerto, delle garanzie prestate e della attendibilità del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali, avuto riguardo alla conservazione dei livelli occupazionali». A proposito di questa norma ci si potrebbe chiedere se tra due offerte, una più alta ma tale da non permettere la conservazione dei posti di lavoro, e una inferiore (anche di poco) ma tale da consentire la conservazione dei livelli occupazionali, sia necessariamente da preferire la prima o se invece sia possibile optare per la seconda [46].
Come anticipato, lo studio dei rapporti fra diritto (societario) della crisi e nuovo paradigma della sostenibilità implica anzitutto interrogarsi sul tema dell’assetto di interessi realizzato attraverso tale branca del diritto. Tema, quest’ultimo, che, anche prima e a prescindere dall’emersione del principio di sostenibilità, ha da tempo suscitato interesse in letteratura [47]. Tuttavia, anche a causa della continua stratificazione del sistema del diritto della crisi e dei continui mutamenti di paradigma, una riflessione teorica, per così dire, “d’insieme” sull’argomento è apparsa (e appare tutt’ora) compito piuttosto arduo [48].
In effetti, il tema degli interessi perseguiti attraverso il diritto della crisi è emerso con particolare forza, ed è stato allora affrontato dalla dottrina con speciale attenzione (anche prima e a prescindere dall’emersione del paradigma della sostenibilità), in alcuni momenti specifici del percorso italiano del diritto della crisi (e non solo). Mi riferisco, ad esempio, al dibattito dottrinale sviluppatosi a seguito dell’introduzione nel nostro ordinamento giuridico della procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese (dibattito che si è concentrato più che altro sulla contrapposizione fra interessi dei creditori e interessi dei lavoratori) [49].
Peraltro, quando si parla di dibattito sull’assetto di interessi realizzato nel diritto della crisi nell’ordinamento italiano non è possibile non accennare al dibattito sul corporate bankruptcy purpose, caratteristico del diritto statunitense [50]. Ciò perché è proprio in questo sistema che il tema è stato sviluppato con maggiore enfasi, forse anche a causa di quell’approccio, tipico del sistema statunitense, più attento rispetto ad altri alla prospettiva de jure condendo. Peraltro, come si avrà modo di chiarire in seguito, la circostanza che in quel sistema il dibattito si sia sviluppato in una più accentuata prospettiva de jure condendo – prospettiva di studio invece meno diffusa (almeno apparentemente) in Italia – non rende meno utile un tentativo di accostamento dei due dibattiti. D’altra parte, anche a voler restare sul piano del diritto positivo, gli elementi di sistema ricavabili dal c.c.i.i. a favore dell’una o dell’altra soluzione (si intende: al problema dell’assetto di interessi) non sembrano, come già anticipato, univoci e, anzi, appaiono talvolta contraddittori [51]. Dopotutto, in occasione di una riforma, recentissima e complessiva, come quella che ha caratterizzato il sistema italiano, che ha visto l’introduzione di istituti del tutto nuovi e dagli effetti potenzialmente dirompenti, non appare di scarsa utilità il tentativo di esaminare e, se necessario, interpretare il nuovo sistema (anche) utilizzando un approccio che non trascura il profilo valutativo dello stesso [52].
La questione dell’assetto di interessi realizzato attraverso il sistema del diritto della crisi e dell’insolvenza statunitense, e quindi della giustificazione teorica dello stesso, ha occupato un posto centrale negli studi statunitensi in materia.
In estrema sintesi, è possibile tracciare una distinzione fondamentale nella dottrina statunitense sul diritto (societario) della crisi fra, da un lato, gli studiosi che guardano a tale branca del diritto in una prospettiva economica e, dall’altro lato, quelli che adottano un approccio che è stato definito «progressive» [53].
Secondo la prima ricostruzione, maggioritaria [54], il diritto della crisi esiste per risolvere un problema di coordinamento fra i vari creditori di uno stesso debitore, con il solo scopo di offrire a questi ultimi un sistema (collettivo) che, in presenza di un patrimonio insufficiente o comunque inadeguato (anche in via prospettica) a soddisfare regolarmente le obbligazioni assunte, massimizzi complessivamente la loro soddisfazione [55]. Secondo questa linea, dunque, il diritto della crisi dovrebbe occuparsi unicamente di perseguire l’interesse dei creditori di un debitore incapace (anche in via prospettica) di soddisfare regolarmente tutte le obbligazioni al recupero del credito (nella massima percentuale possibile e nel minor tempo possibile) [56]. In questa prospettiva, la sospensione dei diritti individuali dei singoli creditori di agire esecutivamente sul patrimonio del debitore per conseguire forzosamente quanto loro dovuto, e cioè la sospensione del sistema della tutela esecutiva individuale, si giustifica solo in presenza di un sistema alternativo a questa, che non solo condivida con essa la funzione satisfattiva, ma che consenta anche di massimizzare il valore complessivo a disposizione di tutti (utilizzando un’espressione tipica del dibattito statunitense, si suole parlare di «maximize the bankruptcy pie») [57].
Al contrario, i sostenitori del c.d. “progressive approach” ritengono, seppur secondo differenti percorsi argomentativi e con diverse sfumature, che, dal momento che il dissesto di un’impresa, specialmente se si tratta di grande impresa organizzata in forma societaria, coinvolge e si ripercuote su una molteplicità di interessi – fra i quali rientra non solo quello dei creditori al recupero del loro credito, ma anche, ad esempio, quello dei lavoratori a mantenere il posto di lavoro e quello della comunità a beneficiare dei vantaggi discendenti dalla presenza della società sul territorio – obiettivo del diritto della crisi dovrebbe essere quello di offrire un sistema collettivo alternativo alla tutela esecutiva individuale, che però dovrebbe contribuire a perseguire in via diretta e bilanciare tutti questi diversi interessi [58]. Conseguentemente, l’interesse dei creditori al recupero del loro credito (nella percentuale più alta e nel minor tempo possibile), configurandosi come soltanto uno fra i vari interessi astrattamente perseguibili, potrebbe trovarsi ad essere bilanciato con questi ultimi e, se del caso, cedere di fronte ad essi.
Come già anticipato, il c.d. “progressive approach” è rimasto minoritario nel contesto statunitense. In effetti, il discorso è stato per molto tempo (ed è tuttora) dominato da una teoria elaborata nell’ambito dell’approccio economico al diritto societario della crisi statunitense, e cioè la creditors’ bargain theory [59]. Questa fondamentale teoria è stata principalmente sviluppata dallo studioso statunitense Thomas H. Jackson nell’opera che, appunto, si intitola «The Logic and Limits of Bankruptcy Law» ad indicare quale debba essere la ragione giustificatrice, lo scopo, del diritto della crisi («the Logic») e quali invece i suoi limiti («the Limits», cioè le funzioni che il diritto della crisi non può e non deve perseguire per se) [60]. Secondo questa ricostruzione, il sistema del diritto della crisi può giustificarsi solo se e nella misura in cui è plausibile che i creditori (come gruppo) si sarebbero accordati su un tale sistema in una prospettiva “ex ante”, ossia senza sapere quale sarebbe stata la loro posizione specifica in un ipotetico caso concreto di dissesto del debitore comune [61]. Più in particolare, secondo questa linea, è ragionevole ritenere che i creditori avrebbero accettato di rinunciare al sistema della tutela esecutiva individuale in cambio di un sistema collettivo e alternativo ad essa, funzionale alla massimizzazione complessiva della loro soddisfazione.
Il punto di partenza è quello per il quale, quando più soggetti vantano delle pretese nei confronti di un unico bene (o meglio di un unico complesso di beni: il patrimonio del debitore) e, allo stesso tempo, nessuno è titolare del potere di impedirne l’utilizzo da parte degli altri, tali soggetti sarebbero automaticamente portati a sfruttare individualmente tale bene, e il più possibile, fino ad esaurirlo, benché ciò sia in palese contrasto con l’esigenza di massimizzarne il valore a vantaggio di tutti [62]. Nell’ambito della crisi dell’impresa questo sarebbe economicamente inefficiente per almeno due motivi. In primo luogo, il ricorso alla tutela esecutiva individuale da parte dei singoli creditori rischia di distruggere valore qualora il patrimonio del debitore valga di più se “tenuto insieme” piuttosto che se smembrato per effetto delle singole azioni esecutive. In secondo luogo, le azioni individuali dei singoli creditori sarebbero fonte di dispersione di risorse economiche; meglio sarebbe se, invece che tante singole transazioni, se ne effettuasse una sola, (co)ordinata e, quindi, efficiente. Il diritto della crisi, allora, interverrebbe proprio per evitare questa “gara verso il bene comune” [63], offrendo un sistema alternativo alla tutela esecutiva individuale in grado di massimizzare la soddisfazione collettiva [64].
Secondo la creditors’ bargain theory non è possibile prendere in considerazione in via diretta, nel contesto del diritto della crisi, interessi diversi da quelli dei creditori. Sono questi ultimi, infatti, a vedere sospesi i loro diritti individuali di esecuzione forzata sul patrimonio del debitore, in cambio di una procedura coordinata che consenta l’esecuzione collettiva dei loro diritti preesistenti. Il presupposto di ogni procedura di regolazione della crisi è la disfunzione del rapporto obbligatorio ed è per reagire a questa particolare situazione che il diritto della crisi interviene.
In termini più generali, secondo questa teoria, il diritto della crisi non dovrebbe essere direttamente impiegato dai vari ordinamenti giuridici per perseguire specifici scopi sostanziali di politica del diritto (ad esempio, la protezione dell’ambiente, dei lavoratori in quanto tali, del fisco; il salvataggio delle imprese per se) attraverso norme “speciali” di diritto della crisi, ma dovrebbe limitarsi ad attuare ex post ciò che è stato stabilito ex ante al di fuori dello stesso (non solo dalle parti attraverso gli strumenti contrattuali, ma anche dal legislatore nel perseguimento di determinate politiche legislative: c.d. Butner principle [65]); altrimenti, il diritto della crisi potrebbe essere utilizzato per ottenere benefici privati in maniera opportunistica [66]; in questa prospettiva, se il legislatore intende assicurare una particolare protezione ai dipendenti e agli altri collaboratori dell’imprenditore o alle esigenze di tutela ambientale, lo potrebbe fare al di fuori del diritto della crisi (ad esempio attribuendo un privilegio ai lavoratori e agli altri collaboratori dell’imprenditore, il quale, poi, troverà compiuta attuazione e riconoscimento nell’ambito del diritto della crisi) [67].
D’altra parte, si osserva che le possibili conseguenze negative dell’apertura di una procedura di soluzione della crisi o dell’insolvenza (ad esempio, la dislocazione dell’impresa, la perdita dei posti di lavoro, ecc.) – e cioè le possibili esternalità negative del diritto della crisi sui fattori ESG – non derivano tanto dal diritto della crisi in sé, quanto da scelte effettuate in altri rami dell’ordinamento che prescindono dalla crisi dell’impresa [68]. Le conseguenze tipiche ed indirette del dissesto (come, ad esempio, la perdita dei posti di lavoro) si verificano anche, e forse in misura ancora maggiore, se si consentisse alle parti di procedere con azioni esecutive individuali non coordinate, invece che attraverso un procedimento esecutivo collettivo [69].
Infine, si osserva come il sacrificio, in caso di crisi o insolvenza del debitore, degli interessi dei creditori motivato dell’esigenza di perseguire in via diretta interessi-altri avrebbe come effetto l’innalzamento del costo del credito per le imprese, con tutte le conseguenze (negative) sul mercato che questo fenomeno comporta [70].
In sintesi, secondo la teoria maggiormente diffusa negli Stati Uniti [71], gli argomenti principali contro il perseguimento in via diretta di interessi-altri nel diritto della crisi – e in particolare contro l’attribuzione di una protezione a interessi-altri nel diritto della crisi in misura superiore o comunque con modalità diverse rispetto al livello di protezione degli interessi-altri al di fuori del diritto della crisi – sono basati sulle seguenti considerazioni: (i) la sottrazione, con il diritto della crisi, dei diritti di esecuzione individuale dei singoli creditori si giustifica solo se il sistema è funzionale a realizzare (al meglio) gli interessi del gruppo (dei creditori); (ii) il riconoscimento della rilevanza di interessi-altri nel diritto della crisi potrebbe condurre ad un utilizzo opportunistico dello stesso, con effetti distorsivi degli incentivi degli operatori; (iii) in caso di incapacità (anche prospettica) del debitore di adempiere regolarmente alle sue obbligazioni, il sacrificio degli interessi dei creditori motivato dell’esigenza di perseguire in via diretta interessi-altri può avere l’effetto (negativo) di comportare l’innalzamento del costo del credito.
Come anticipato, nel contesto italiano il dibattito sull’assetto di interessi realizzato nel diritto (societario) della crisi è stato meno lineare e dai contorni più sfaccettati che negli Stati Uniti. In Italia, ancora oggi non sembra chiaro quali siano (o debbano essere) gli interessi perseguiti (o, fra i vari interessi astrattamente perseguibili, quale sia l’interesse prioritario). Ciò è probabilmente dovuto al fatto che il nostro diritto della crisi è stato oggetto di continue riforme nel corso del tempo, non caratterizzate da una visione unitaria e complessiva [72].
In estrema sintesi, è noto che inizialmente (e cioè nel periodo sia anteriore alla legge fallimentare del 1942, sia successivo) il diritto della crisi, il cui perno era costituito dalla procedura di fallimento, preordinata alla liquidazione del patrimonio del debitore, era contraddistinto da quella che è stata definita una doppia anima [73]: da un lato, la funzione punitiva, che mirava ad espellere l’imprenditore dal mercato, in un’ottica di tutela dell’economia e del commercio in generale, tanto che al fallito venivano comminate una serie di incapacità di natura personale e sanzionatoria [74]; dall’altro lato, la funzione satisfattiva, che aspirava a consentire al creditore di recuperare, compatibilmente con la funzione punitiva di espulsione dell’imprenditore dal mercato, il suo credito. Al centro si poneva l’imprenditore persona fisica, e non l’impresa come realtà produttiva che esprime un insieme di valori utilizzabili per la soddisfazione dei creditori [75]. Per via di questa particolare concezione, incentrata sul soggetto, le sorti dell’impresa finivano peraltro con l’essere legate a quelle dell’imprenditore e la tendenza ad espellere dal sistema l’imprenditore in dissesto si risolveva nella tendenza ad espellere dal mercato l’impresa, attraverso la liquidazione (tendenzialmente atomistica) del patrimonio [76].
Non è necessario indugiare in questa sede sui caratteri di questa doppia anima del diritto fallimentare italiano del tempo. Basti qui osservare che la circostanza che il diritto fallimentare fosse funzionale anche e soprattutto a “punire” l’imprenditore poneva in ombra non tanto la funzione satisfattiva in sé (che comunque era presente), ma più che altro il profilo della massimizzazione della soddisfazione dei creditori (sul quale, tuttavia, come anticipato, non è possibile né utile soffermarsi in questa sede) [77].
Ad ogni modo, nei circa sessanta anni intercorsi dalla legge fallimentare del 1942 alla prima riforma “organica” del diritto fallimentare, ossia quella degli anni 2005-2007 [78], il nostro diritto della crisi sembra essersi evoluto secondo due diverse (ma interconnesse) direzioni: da un lato, è progressivamente emersa l’idea che la crisi o l’insolvenza sono condizioni fisiologiche, non frutto della “colpa” dell’imprenditore, ma facenti parte del ciclo della vita dell’impresa [79]: delle due anime del fallimento, quella satisfattiva ha quindi cominciato ad acquisire uno spazio sempre maggiore [80]; dall’altro lato, si è spostata la prospettiva dal soggetto-imprenditore all’oggetto-impresa [81]; questo, a sua volta, ha contribuito alla presa di coscienza delle potenzialità connesse al valore di continuità [82].
Peraltro, il mutamento di prospettiva dall’imprenditore (soggetto) all’impresa (oggettivata) come realtà produttiva che esprime un insieme di entità suscettibili di essere valorizzate in un’ottica satisfattiva ha contribuito a fare luce su, e a prendere coscienza di, un aspetto particolare, e cioè che, se si “conserva” l’impresa in crisi e le si consente di continuare nella sua attività, si ha l’effetto (in ipotesi, virtuoso) di combinare la tutela creditoria con la protezione di interessi anche ulteriori, ad esempio quello dei lavoratori a mantenere il posto di lavoro, delle comunità locali a continuare a beneficiare della presenza dell’impresa sul territorio, e così via. Ed è così che gli interessi “altri” (dei lavoratori in quanto tali, delle comunità locali, ecc.) sono progressivamente entrati nel diritto della crisi.
Anche a causa delle specifiche caratteristiche del contesto italiano dell’epoca [83], il riconoscimento della rilevanza giuridica di interessi diversi da quelli dei creditori si è, poi, “evoluto” nella tendenza – nella prassi e nel discorso intorno alle procedure (concorsuali) minori (e non solo) – a prediligere la conservazione dell’impresa in un’ottica di tutela, in via diretta, di questi altri interessi (c.d. “uso alternativo delle procedure concorsuali” [84]), suscitando forti critiche in dottrina, anche sul piano del rispetto dei principi costituzionali [85]. Questa prospettiva ha poi condotto all’introduzione, alla fine degli anni Settanta, della procedura dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese [86], «con finalità conservative del patrimonio produttivo» [87], ove la modificazione del paradigma rispetto alla finalità satisfattiva assume dimensioni importanti sul piano del Sollen e a maggior ragione su quello del Sein [88]. Le critiche da parte della dottrina a questa procedura sono note [89]. Qui basti ricordarne due.
In primo luogo, appare rilevante l’argomento fondato sull’art. 42 Cost. [90] (il quale si fonda sulla – condivisibile – premessa per la quale il concetto di “proprietà privata” di cui a tale norma è riferibile in via di principio a tutti i diritti a contenuto patrimoniale [91]). Secondo questa linea, la subordinazione, nella crisi d’impresa, dell’interesse dei creditori ad interessi-altri, come quello dei lavoratori in quanto tali, costituisce un’ipotesi di espropriazione del diritto di credito in violazione dell’art. 42 Cost. Né potrebbe trovare applicazione il terzo comma della disposizione in discorso. Infatti, a ben vedere, il meccanismo di cui a tale comma non solo presuppone che tra l’ablazione del diritto privato (in questo caso, il diritto di credito) e l’antitetico interesse pubblico (in questo caso, ad esempio, l’interesse alla conservazione dei posti di lavoro) sussista un rapporto di strumentalità, ma anche che l’oggetto della espropriazione si presenti come mezzo infungibile per il soddisfacimento di quell’interesse [92]: ciò che non può dirsi né per il denaro né per i crediti di denaro [93]. In questa prospettiva, l’esigenza dello Stato di procurarsi i mezzi per la realizzazione di interessi generali – come, ad esempio, l’interesse dei lavoratori in quanto tali a mantenere il posto di lavoro – non potrebbe essere soddisfatta facendo ricorso allo “strumento” dell’espropriazione per pubblica utilità dei crediti in genere, ma attraverso altri strumenti, come l’imposizione fiscale ex art. 53 Cost. [94].
In secondo luogo, si è ritenuto che il sacrificio dei diritti dei creditori di un debitore in dissesto in nome del perseguimento di interessi pubblici e generali (come quello dei lavoratori a conservare il posto di lavoro) si ponga in contrasto proprio con l’art. 53 Cost. e con il principio di uguaglianza (sostanziale) che anima questa disposizione, ai sensi della quale, appunto, al soddisfacimento dei “bisogni pubblici” [95] devono concorrere “tutti” sulla base di un criterio di parità sostanziale. In questa prospettiva, la subordinazione, nella crisi d’impresa, dei diritti dei creditori ad interessi-altri è stata assimilata ad un «prelievo tributario in forma indiretta» che «sfugge per definizione alle garanzie costituzionali dell’universalità e proporzionalità del dovere fiscale» [96].
Come anticipato in apertura, il crescente interesse (in ogni campo del sapere) per i temi legati alla sostenibilità, e nello specifico (e per quello che qui più interessa) al tema della sostenibilità dell’attività d’impresa, ha recentemente investito anche la dottrina di diritto della crisi, riaprendo il dibattito, per vero mai esaurito, sugli interessi perseguiti da tale branca del diritto. Volendo limitarsi in questa sede ad illustrare sinteticamente i tratti principali del recente dibattito sul punto, è possibile rilevare una molteplicità di ricostruzioni, talvolta anche di segno opposto. In particolare [97]: (i) vi è una corrente di pensiero che argomenta a favore di un principio generale inespresso di responsabilità sociale dell’impresa insolvente, ossia di un «principio di possibile bilanciamento tra interesse dei creditori e altri interessi, con il vincolo di limitare il pregiudizio dei creditori nella misura strettamente necessaria al soddisfacimento degli altri interessi e sempre nel rispetto di un contenuto minimo non tangibile» [98], la cui operatività viene però limitata alla sola procedura di liquidazione giudiziale (e non ad esempio al concordato preventivo [99]); (ii) vi è un diverso orientamento che sostiene che gli interessi degli stakeholders rileverebbero solo nelle procedure alternative alle procedure di liquidazione, ossia (sostanzialmente) nelle procedure di ristrutturazione [100]; (iii) vi è poi un ulteriore orientamento che, al pari dell’orientamento sub (i), assegna rilevanza diretta al principio di sostenibilità, ma solo negli strumenti di “continuità” o “di risanamento” e non in strumenti diversi da questi (a prescindere, sembrerebbe, dalla tipologia di procedura) [101]; (iv) infine, vi è chi continua a sostenere la rilevanza soltanto indiretta degli interessi degli stakeholders nel diritto della crisi [102] (a parte il caso della procedura di amministrazione straordinaria) [103].
Varrà a questo punto sottolineare che le tesi che assegnano rilevanza diretta al principio di sostenibilità sembrano fondarsi su due principali argomenti, e cioè l’art. 41 Cost. e gli elementi ricavabili dalla direttiva Restructuring [104].
Tuttavia, il richiamo a quest’ultima non appare condivisibile, in quanto, come visto (§ 4.1), non è chiaro se la direttiva assegni rilevanza diretta o soltanto indiretta agli interessi degli stakeholders [105].
Anche il richiamo all’art. 41 Cost. (specialmente nel suo secondo comma, per il quale l’iniziativa economica privata «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» [106]) presenta profili problematici. Infatti, la lettura maggioritaria di questa norma è nel senso che l’art. 41, secondo comma, Cost. avrebbe natura di norma programmatica e non precettiva [107]; si tratterebbe, cioè, di una norma rivolta al legislatore e non direttamente ai privati, con conseguente potere del giudice di intervenire oltre i limiti segnati dalla legge. In questa prospettiva, l’art. 41 Cost. non potrebbe legittimare letture favorevoli al bilanciamento degli interessi dei creditori/soci ex latere creditoris con quelli degli stakeholders anche oltre quanto fosse eventualmente imposto dalla legge [108]. D’altra parte, sembra possibile osservare che l’art. 41, secondo comma, Cost. considera gli interessi degli stakeholders soltanto come limiti e non come fini dell’iniziativa economica privata.
Con riguardo, poi, alle tesi che ipotizzano un diverso assetto di interessi fra procedure liquidatorie e procedure di “risanamento” o di “ristrutturazione”, non è chiaro perché il principio di sostenibilità (e, quindi, gli interessi degli stakeholders) rileverebbe solo in alcune procedure e non in altre e, soprattutto, sulla base di quale presupposto.
Sembra opportuno inoltre segnalare che un possibile argomento a favore della tesi della rilevanza diretta di interessi-altri rispetto a quelli dei creditori nel diritto (societario) della crisi potrebbe rinvenirsi nel riformato art. 2086 c.c. e nel riferimento ivi contenuto al dovere degli amministratori di «istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale». Secondo questa tesi, in particolare, dalla norma da ultimo richiamata (e dall’art. 3 c.c.i.i.) sarebbe possibile ricavare una indicazione di sistema nel senso che con il c.c.i.i. la continuità aziendale sarebbe passata da “valore mezzo” (per la soddisfazione dei creditori) a “valore fine”, e ciò a conferma della rilevanza diretta di interessi-altri (e quindi anche del principio di sostenibilità) nella disciplina della crisi d’impresa [109].
La tesi, tuttavia, non sembra cogliere nel segno. Al di là del fatto che la continuità aziendale non parrebbe automaticamente funzionale rispetto alla sostenibilità (quantomeno, ambientale) e, anzi, in alcuni casi potrebbe anche essere tale da pregiudicarla (si pensi ad una società in crisi che, sebbene entro i limiti di legge, svolga un’attività che di fatto è inquinante, rispetto alla quale si debba decidere se continuare oppure interrompere), sembra possibile ritenere che l’art. 2086 c.c. imponga agli amministratori il dovere di istituire assetti adeguati anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale perché la continuità aziendale può essere un mezzo per meglio realizzare l’interesse dei creditori (e dei soci ex latere creditoris) a fronte della crisi del debitore [110]. La norma, più che rilevare sotto il profilo del conflitto di interessi fra creditori (/soci ex latere creditoris) e interessi degli stakeholders (come ad esempio quelli dei lavoratori), potrebbe, se mai, rilevare dal punto di vista della anticipazione (rispetto alla crisi) del momento in cui si verifica l’incremento della protezione degli interessi dei creditori, profilo, questo, che attiene non al conflitto di interessi appena menzionato ma a quello fra soci (ex latere debitoris, cioè in quanto “proprietari” della società, e non quindi ex latere creditoris) e creditori [111].
Anche a prescindere dalle critiche ai singoli argomenti utilizzati dai sostenitori delle tesi che – secondo diversi percorsi e con varie sfumature – argomentano a favore della rilevanza diretta degli interessi degli stakeholders nel diritto societario della crisi, gli argomenti a favore della rilevanza solo mediata e indiretta degli interessi di questi ultimi appaiono ad ogni modo maggiormente convincenti.
Persuadono, in particolare, quelli fondati sugli artt. 42 e 53 Cost. [112].
Convincono, inoltre, le obiezioni alla rilevanza diretta degli interessi degli stakeholders nel diritto della crisi fondate sui possibili effetti negativi sul mercato dell’accoglimento di una tale ricostruzione, ossia il rischio di aumento del costo del credito [113] e di uso opportunistico delle procedure di regolazione della crisi [114].
A questi argomenti se ne può aggiungere, poi, uno ulteriore.
In effetti, sembra opportuno sottolineare che il presupposto di qualsiasi procedura di regolazione della crisi o dell’insolvenza è la disfunzione del rapporto obbligatorio. Per il verificarsi di una particolare situazione, che nel nostro ordinamento prende il nome di stato di crisi o di insolvenza [115], il rapporto obbligatorio e, in generale, la garanzia patrimoniale offerta dal patrimonio responsabile, subisce quella che una parte della dottrina ha definito una «disfunzione» [116]: l’obbligazione non sarà più soddisfatta nei modi e nei termini stabiliti ex ante, ma in modo diverso. Può essere così necessario, ad esempio, procedere ad una riduzione del debito (falcidia o haircut), oppure ad una modifica dei termini di rimborso (riscadenziamento del debito) o, ancora, a una modifica qualitativa del mezzo di pagamento (ad esempio, soddisfazione attraverso l’attribuzione ai creditori di strumenti partecipativi nella società debitrice stessa o in altra società [117]).
Ebbene, nell’ipotesi di disfunzione del rapporto obbligatorio, il nostro ordinamento reagisce con l’attivazione di un meccanismo ben preciso, e cioè con il sistema della responsabilità patrimoniale del debitore, regolato dal Titolo III del Libro VI del Codice civile, dedicato alla tutela dei diritti [118]. Ora, rispetto a questo meccanismo è affermazione condivisa quella per la quale non assumono rilevanza gli interessi-altri, ma solo quelli dei creditori [119]. Si tratta, infatti, di reagire alla disfunzione del rapporto obbligatorio tramite l’attuazione della responsabilità patrimoniale del debitore, la quale è posta a tutela degli interessi dei creditori, non dei lavoratori in quanto tali (a mantenere il posto di lavoro), delle comunità locali (a continuare a beneficiare della presenza dell’impresa sul territorio), dell’ambiente e, in generale, dei valori della sostenibilità.
E così, la circostanza (i) che il presupposto di qualsiasi procedura di regolazione della crisi sia la disfunzione del rapporto obbligatorio, e (ii) che l’ordinamento reagisca a questa situazione con l’attivazione di un meccanismo (quello di cui agli artt. 2740 ss. c.c.) rispetto al quale sembrano rilevare solo gli interessi dei creditori, potrebbe costituire un ulteriore elemento di sistema nel senso della irrilevanza (se non in via soltanto mediata e indiretta) degli interessi-altri nel diritto della crisi.
Al riguardo, non si ignorano quelle letture che, con varie sfumature, circoscrivono l’operatività del sistema della responsabilità patrimoniale (e quindi dell’assetto di interessi ivi realizzato) negli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza ad una parte soltanto del valore generabile attraverso questi ultimi (e cioè, semplificando, al valore ricavabile in una liquidazione, eventualmente anche in bonis) [120]. Al di là della condivisibilità o non di queste ricostruzioni [121], occorre ad ogni modo rilevare che queste teorie sono state per lo più elaborate nel contesto di un problema differente rispetto a quello qui in esame (quello, cioè, dell’assetto di interessi), ossia il problema distributivo, il quale sembra attenere alla sola questione relativa a come (cioè, secondo quali regole) distribuire il valore (o la porzione di valore) generabile attraverso lo strumento di regolazione della crisi/insolvenza tra i vari titolari di pretese nei confronti del patrimonio del debitore (nei quali, come visto, non rientrano gli stakeholders, qui, come nell’intero lavoro, da intendersi come soggetti diversi da creditori e soci, che comunque vengono impattati dalla crisi della società). Ebbene, le ricostruzioni che limitano la rilevanza del sistema della responsabilità patrimoniale del debitore (e quindi dell’assetto di interessi ivi realizzato) ad una porzione soltanto del valore generabile attraverso lo strumento di regolazione della crisi/insolvenza sono state sviluppate e argomentate per risolvere nel senso del non necessario rispetto dell’ordine di distribuzione ricavabile dagli artt. 2740 ss. c.c. il problema di come allocare il valore tra i vari titolari di pretese sul patrimonio del debitore, ossia fra creditori (di diverso rango) e debitore/soci in caso di debitore-società [122]: in un’ottica, cioè, di problema distributivo e non di problema dell’assetto di interessi perseguito. D’altra parte, che le conclusioni raggiunte nell’ambito di queste tesi (non assoggettabilità di una parte del valore creato attraverso lo strumento di regolazione della crisi al sistema di cui agli artt. 2740 ss. c.c. e quindi al relativo assetto di interessi) possano assumere rilevanza (e quindi estendersi) anche rispetto al tema dei limiti entro cui è possibile perseguire in via diretta gli interessi degli stakeholders (ambiente, comunità locale, ecc.) nel diritto della crisi – nel senso di ritenere che gli interessi-altri potrebbero trovare tutela in via diretta nella porzione di valore ulteriore rispetto a quello di liquidazione, assoggettato alle regole di cui agli artt. 2740 ss. – appare da dimostrare. Al riguardo, potrebbe segnalarsi che la scelta del nostro legislatore di introdurre, nel concordato preventivo in continuità, una regola distributiva (la RPR) che, con riferimento al valore che eccede quello di liquidazione, opera, per disposizione normativa, tra creditori – o al massimo tra creditori e debitore/soci della società debitrice – può costituire un argomento nel senso che anche per la porzione di valore che eccede quello di liquidazione (e che, seguendo le tesi qui in discorso, sarebbe sottratta al sistema della responsabilità patrimoniale del debitore e quindi al relativo assetto di interessi) non sembra esservi spazio per la tutela in via diretta degli interessi degli stakeholders.
Alla luce di queste preliminari considerazioni, pare potersi affermare che il tema del rapporto fra sostenibilità e diritto della crisi dell’impresa societaria non possa essere affrontato a prescindere dal rilievo che il sistema della responsabilità patrimoniale del debitore (artt. 2740 ss. c.c.) – e l’assetto di interessi ivi realizzato – assume nell’ipotesi di disfunzione del rapporto obbligatorio, presupposto di qualsiasi procedura di regolazione della crisi.
La chiave di lettura da ultimo suggerita consente, dunque, di procedere ad un primo tentativo di fare luce su alcuni aspetti del nuovo assetto normativo (che, come visto, presenta elementi non univoci), pur nella consapevolezza delle numerose incertezze interpretative e dell’impossibilità di esaurire ogni dubbio al riguardo. In particolare, nel coacervo di norme ove emergono possibili indizi circa gli interessi perseguiti dal sistema [123], sembra possibile tracciare una distinzione fra: (i) norme che attengono al piano dell’assetto di interessi, e dalle quali emerge l’interesse prevalente rispetto agli eventuali altri interessi in conflitto con il primo; (ii) norme che riempiono di contenuto questo interesse “prevalente”; (iii) norme che non riguardano l’assetto di interessi, ma che individuano una «“soglia minima”, che condiziona verso il basso la legittimità dell’operato del debitore, ma non esaurisce in ciò la sfera di rilevanza dell’interesse del ceto creditorio» [124]; (iv) norme che agiscono sul piano dell’individuazione di un limite al potere della maggioranza nell’ambito dell’autonomia privata (in quelle procedure ove si fa ricorso al paradigma dell’autonomia, declinata secondo il principio maggioritario, almeno all’interno della classe).
Nelle prime sembrano poter rientrare, ad esempio, gli artt. 4, secondo comma, lett. c, 64-bis, quinto comma e 84, secondo comma, c.c.i.i., le quali paiono assumere valenza sistematica. Queste norme fanno espresso o implicito riferimento al fatto che l’interesse dei creditori sia prevalente, in coerenza con quanto si è cercato di argomentare nel presente lavoro. Esse danno indicazioni su come gestire l’ipotesi di conflitto, segnalando che la tutela del credito risulta prioritaria e che gli eventuali interessi-altri vanno perseguiti «nella misura possibile» (così l’art. 84, secondo comma, c.c.i.i.), ossia in quanto ciò non determini un sacrificio per gli interessi dei creditori. Con specifico riferimento all’art. 4, secondo comma, lett. c, c.c.i.i. è vero che esso fa salvi gli artt. 16, quarto comma e 21 c.c.i.i. (in materia di composizione negoziata della crisi) e che l’art. 21, primo comma, c.c.i.i. – per il quale l’imprenditore in stato di crisi gestisce l’impresa in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività, mentre, in caso di insolvenza (reversibile [125]), nel prevalente interesse dei creditori – sembrerebbe suggerire all’interprete una distinzione fra assetto di interessi in caso di crisi e assetto di interessi in caso di insolvenza, nel senso che nel primo caso (stato di crisi) l’interesse creditorio non sarebbe (quantomeno) prevalente (in quanto tra l’altro rileverebbe anche l’esigenza di non pregiudicare la «sostenibilità economico-finanziaria»), mentre nel secondo caso (stato di insolvenza) esso sarebbe senz’altro prevalente. In realtà, sembra al riguardo da condividere quell’opinione dottrinale per la quale il riferimento, nell’art. 21, primo comma, c.c.i.i., all’esigenza – in caso di crisi – di «evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria» non attenga al profilo dell’interesse da tutelare (piano dello scopo), ma costituisca «un mero criterio per la selezione delle condotte gestionali» [126]; in altri termini, la «sostenibilità economico-finanziaria» cui fa riferimento l’art. 21, primo comma, c.c.i.i. non costituirebbe «un interesse autonomo da tutelare, potenzialmente divergente da quello dei creditori […], bensì un mero strumento per allineare il comportamento dei gestori al conseguimento dei fini legislativi, che comunque non possono prescindere dalla tutela “prevalente” dell’interesse creditorio» [127].
Fra le disposizioni della seconda categoria potrebbero rientrare le (ancora molte) norme che fanno riferimento al «miglior soddisfacimento dei creditori», come ad esempio gli artt. 94, terzo e sesto comma, 99, primo e secondo comma, 100, primo comma, c.c.i.i. Queste norme, indicando a quali condizioni è possibile compiere determinati atti che potrebbero risultare dannosi per l’interesse (“prevalente”) dei creditori, sembrano agire sul piano dell’individuazione del contenuto di quest’ultimo concetto. Senza soffermarsi in questa sede sul significato del principio del miglior soddisfacimento dei creditori [128], la (perdurante) presenza di queste norme nel c.c.i.i. potrebbe essere letta nel senso di fornire un’indicazione di sistema a favore della tesi per la quale l’interesse dei creditori è (non solo prevalente, ma anche) un interesse «al miglior soddisfacimento» (così, l’art. 94, sesto comma, c.c.i.i.), qualsiasi significato si intenda attribuire a questa espressione. Non è forse un caso che il legislatore si preoccupi di menzionare espressamente questo principio proprio in quelle situazioni in cui è più forte il rischio per l’interesse creditorio (compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, finanziamenti prededucibili, pagamento di crediti pregressi), restando comunque sottointeso che, anche quando non espressamente menzionato nel testo normativo, esso rilevi come criterio generale per qualificare l’interesse dei creditori nella crisi.
Alle norme della terza categoria potrebbero invece essere ricondotti, ad esempio, gli artt. 7, secondo comma, lett. c, 84, primo comma, 87, terzo comma, c.c.i.i. Nello specifico, l’art. 84 c.c.i.i., rubricato «finalità del concordato preventivo e tipologie di piano» prevede, al primo comma, che il concordato realizza il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale. Da qui il possibile argomento per il quale, una volta assicurato ai creditori un risultato almeno pari a quello ricavabile nella liquidazione giudiziale, il resto potrebbe essere utilizzato per perseguire (in via diretta) gli interessi degli stakeholders. Senonché, e seguendo la proposta interpretativa sviluppata nel lavoro, pare ragionevole ritenere che questo comma non agisca (come, invece, il secondo comma dell’art. 84 c.c.i.i., che sembra da ricondurre fra le norme della prima categoria) sul piano dello scopo (cioè, dell’assetto di interessi), ma sul piano dell’ammissibilità in sé dello strumento concordatario, individuando la soglia di soddisfazione minima che la procedura deve assicurare perché la relativa domanda di apertura possa essere accolta. Questo comma, in altri termini, individua, in negativo, quando non è possibile procedere attraverso un concordato preventivo (perché la soddisfazione proposta risulta inferiore rispetto a quella conseguibile nella liquidazione giudiziale); il che, peraltro, nulla dice sulla questione – l’unica rilevante ai fini del presente contributo – se chi in concreto deve scegliere deve avere riguardo solo all’interesse dei creditori o possa/debba optare per lo strumento che contempera tutti gli interessi in gioco (eventualmente sacrificando l’interesse dei creditori). Quanto all’art. 7, secondo comma, lett. c, c.c.i.i., esso, come noto, prevede che, in caso di proposizione di più domande, va trattata prima quella diretta a regolare la crisi o l’insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale o controllata, purché «nella proposta siano espressamente indicate la convenienza per i creditori o, in caso di concordato in continuità aziendale, le ragioni della assenza di pregiudizio per i creditori». Anche in questo caso, pare ragionevole ritenere che non si sia in presenza di una norma sullo scopo-assetto di interessi, ma piuttosto, di una norma che esprime una preferenza per gli strumenti di regolazione della crisi diversi dalla liquidazione giudiziale/controllata, fissando, al contempo, un limite minimo oltre al quale non è possibile procedere con una determinata procedura. Da essa non sembra desumersi il principio per il quale, oltre la convenienza/assenza di pregiudizio, possono trovare tutela in via diretta gli interessi degli stakeholders, ma, piuttosto, il principio per il quale, a parità di risultato per i creditori, occorre scegliere la procedura che è funzionale anche a tutelare altri interessi (allora soltanto in via mediata e indiretta).
Infine, benché non manchino gli spazi di interferenza, dalle norme riconducibili alla terza categoria potrebbero distinguersi quelle descritte sub iv), le quali si limitano ad individuare un limite al potere della maggioranza – in quelle procedure che sfruttano questo principio (accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa, PRO, concordato preventivo, ecc.) – nell’assunzione di determinate decisioni (per lo più sul piano distributivo). Si pensi agli artt. 61, secondo comma, lett. d, 62, secondo comma, lett. c, 64, ottavo comma, 112, terzo e quinto comma, 245, quinto comma, c.c.i.i., e così via. Anche queste norme non paiono porsi sul piano dello scopo-assetto di interessi. Esse, infatti, sembrano inserirsi all’interno del quadro valoriale indicato da altre norme (nella specie, quelle di prima categoria), specificando che – ove la regolazione di alcuni aspetti della crisi è lasciata all’autonomia privata – la maggioranza non può spingersi sino ad imporre alla minoranza un sacrificio che va oltre una certa soglia; il che, ancora una volta, si pone su un piano diverso rispetto al tema indagato in questo lavoro.
[1] F. Mucciarelli, Perseguire un diritto societario «sostenibile»: un obiettivo sincero?, in Riv. giur. lav., 2021, 520. Sull’evoluzione di questo concetto, cfr. G. Alpa, Responsabilità degli amministratori di società e principio di «sostenibilità», in Contr. impr., 2021, 721 ss.; C. Amatucci, Responsabilità sociale dell’impresa e nuovi obblighi degli amministratori. La giusta via di alcuni legislatori, in Giur. comm., 2022, I, 613 ss.; sul tema cfr. anche B. Sjåfjell, C.M. Bruner, Corporations and Sustainability, in The Cambridge Handbook of Corporate Law, Corporate Governance and Sustainability, ed. by B. Sjåfjell, C.M. Bruner, Cambridge, CUP, 2020, 4 ss.
[2] F. Mucciarelli, (nt. 1), 520. Si pensi, per menzionare due fra gli interventi chiave adottati negli ultimi anni, all’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, elaborata dalle Nazioni Unite nel 2015, la quale include 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile e, sempre nel 2015, l’Accordo di Parigi sul clima, con il quale si è tentato, tra l’altro, di dare una risposta globale alla minaccia rappresentata dai cambiamenti climatici. Cfr., inoltre, i Principi guida ONU su imprese e diritti umani, reperibili al seguente indirizzo: https://www.ohchr.org/sites/default/files/Documents/Publications/GuidingPrinciples
BusinessHR_EN.pdf.
[3] Si pensi ai recenti lavori di G. D’Attorre, La responsabilità sociale dell’impresa insolvente, in Riv. dir. civ., 2021, 60 ss.; Id., Sostenibilità e responsabilità sociale nella crisi d’impresa, reperibile al seguente indirizzo: www.dirittodellacrisi.it, 13 aprile 2021, 1 ss.; D. Stanzione, Liquidazione dell’attivo e interessi degli stakeholders, Napoli, E.S.I., 2023; S. Pacchi, La gestione sostenibile della crisi d’impresa, reperibile al seguente indirizzo: www.ristrutturazioniaziendali.it, 3 settembre 2022, 1 ss.; E. Ricciardiello, Sustainability and going concern, in Riv. soc., 2022, 53 ss.; G. Capobianco, Costi ambientali e procedura fallimentare, tra interessi collettivi e tutela creditoria, in Dir. fall., 2021, 1060 ss.; nella letteratura internazionale, T. Linna, Business Sustainability and Insolvency Proceedings – The EU Perspective, in 2 J. of Sustainability Research, 2020, 1 ss.; Ead., Insolvency Proceedings from a Sustainability Perspective, in 28 International Insolvency Rev., 2019, 210 ss.; K. Bauer, J. Krasodomska, The Premises for Corporate Social Responsibility in Insolvency Proceedings, in Social Responsibility of Organizations Directions of Changes, ed. by M. Rojek-Nowosielska, Publishing House of Wrocław University of Economics, 2015, 20 ss. Sulla circostanza che «la sostenibilità ha prodotto e sta producendo una “rivoluzione scientifica” della corporate law globale […] sì che il paradigma della sostenibilità sta sia impattando su altri paradigmi del diritto societario, sia imponendone una revision, se non anche una compromissione», cfr. V. Cariello, Per un diritto costituzionale della sostenibilità (oltre la “sostenibilità ambientale”), in questa Rivista, 2022, 424 s.
[4] Sulla riconduzione della sostenibilità ad un vero e proprio paradigma, cfr. Cariello, (nt. 3), 414 ss., spec. 424.
[5] Sulla circostanza che l’interesse dei creditori possa includere anche l’interesse dei soci della società debitrice ex latere creditoris, in un quadro in cui questi ultimi sono visti – al pari dei creditori – come una tipologia di investitori nell’impresa societaria, benché muniti di una pretesa di ultima istanza, cfr. infra, § 2. Al riguardo, occorre segnalare la posizione di una parte della dottrina (G. Ferri jr, Poteri e responsabilità degli amministratori nel concordato preventivo delle società, in Riv. dir. comm., 2023, I, 19 s.), per la quale (i) la circostanza che la legittimazione all’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza in generale, e al concordato preventivo in particolare, sia riservata al solo debitore comporterebbe che tale accesso, «deve ritenersi normativamente volto a realizzare soltanto l’interesse del medesimo debitore, non quello dei creditori, e nemmeno l’interesse, più generale, a risanare l’impresa: il che significa, nel caso in cui il debitore sia un’impresa societaria, che i suoi amministratori devono operare tale scelta esclusivamente sulla base dell’interesse della società, cioè più concretamente dei suoi soci, senza dunque tenere in alcun conto quello dei creditori» (enfasi dell’Autore) e (ii) il fatto che, ai sensi dell’art. 4, secondo comma, lett. c, c.c.i.i., il generale dovere di gestire il patrimonio o l’impresa «nell’interesse prioritario dei creditori» operi, per espressa disposizione di legge, solo «durante i procedimenti» «conferma che la scelta se accedervi o meno non deve essere effettuata nell’interesse dei creditori». In senso contrario, si potrebbe tuttavia osservare che la circostanza che l’accesso sia riservato sì al debitore ma, in caso di società, (a) agli amministratori in via esclusiva (con solo obbligo informativo a posteriori nei confronti dei soci), (b) con la possibilità di compiere qualunque operazione prescindendo dalla volontà dei soci ex latere debitoris e (c) con un regime di revoca assimilabile a quello dei sindaci e volto ad assicurare la stabilità della carica, pare un argomento nel senso che gli amministratori, nel decidere sull’accesso, devono avere riguardo (non all’interesse dei soci ex latere debitoris ma) all’interesse dei creditori (ed eventualmente dei soci quali titolari di una pretesa di ultima istanza, ossia ex latere creditoris). Vero che l’art. 120-bis, quarto comma, prima frase, c.c.i.i. fa decorrere la modifica della disciplina della revoca solo dall’iscrizione della decisione nel registro delle imprese; tuttavia, la circostanza che, ai sensi dell’art. 120-bis, quarto comma, seconda frase, c.c.i.i., la presentazione di una domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza in presenza delle condizioni di legge non è giusta causa di revoca sembra denotare che già prima dell’inizio della procedura e già prima dell’iscrizione della decisione nel registro delle imprese opera la modifica delle regole di diritto societario comune. D’altra parte, e venendo all’affermazione sub (ii), la portata applicativa dell’art. 4, secondo comma, lett. c, c.c.i.i. è discussa in dottrina. Infatti, una parte degli Autori interpreta questa norma in senso estensivo, ritenendo che il dovere di agire nell’interesse prioritario dei creditori si applichi anche prima dell’avvio di una procedura, sul semplice presupposto della rilevazione della crisi (per questa tesi e la relativa argomentazione cfr. ad es. L. Benedetti, L’organo gestorio della società in crisi fra interesse dei soci e interessi altri: i principi della direttiva sui preventive restructuring frameworks e il loro recepimento negli ordinamenti nazionali, in Riv. dir. comm., 2023, I, 113 ss.). Questo a prescindere dalle eventuali ricadute di sistema che si intendano attribuire anche per la società in bonis alla previsione di cui all’art. 2086 c.c. in tema di assetti (in argomento, cfr. V. Pinto, Diritto delle società e procedure concorsuali nel codice della crisi, in Riv. dir. comm., 2021, I, 261 ss.).
[6] Cfr. ad es. G. Nuzzo, Il conflitto di interessi dei creditori nei concordati, Milano, Giuffrè, 2019, 70.
[7] M. Campobasso, La posizione dei soci nel concordato preventivo della società, in Banca borsa tit. cred., 2023, 168 ss. Sul tema della posizione dei soci nella regolazione della crisi alla luce delle riforme (italiane e dell’UE) più recenti, cfr. ad es. L. Stanghellini, Verso uno statuto dei diritti dei soci di società in crisi, in RDS, 2020, 295 ss.; Ant. Rossi, I soci nella regolazione della crisi della società debitrice, in Società, 2022, 945 ss.; G. Scognamiglio, F. Viola, I soci nella ristrutturazione dell’impresa. Prime riflessioni, in NDS, 2022, 1163 ss.; L. Panzani, E. La Marca, Impresa vs. soci nella regolazione della crisi. Osservazioni preliminari su alcune principali novità introdotte con l’attuazione della Direttiva Insolvency, in NDS, 2022, 1469 ss.; R. Brogi, I soci e gli strumenti di regolazione della crisi, in Fallimento, 2022, 1290 ss. M. Perrino, “Relative priority rule” e diritti dei soci nel concordato preventivo in continuità, reperibile al seguente indirizzo: www.dirittodellacrisi.it, 12 dicembre 2022, 1 ss.; F. Briolini, I conflitti tra amministratori e soci in sede di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza. Prime riflessioni, in NDS, 2023, 5 ss.; N. Michieli, Il ruolo dell’assemblea dei soci nei processi ristrutturativi dell’impresa in crisi alla luce del d.lgs. n. 83/2022, in Riv. soc., 2022, 843 ss.; Ead., Il ruolo dei soci nelle procedure di composizione della crisi e dell’insolvenza, in Riv. soc., 2021, 830 ss.; F. Viola, Il ruolo dell’assemblea dei soci nelle società in concordato preventivo, in questa Rivista, 2022, 255 ss.; sul tema mi permetto di richiamare anche G. Ballerini, La distribuzione del (plus)valore ricavabile dal piano di ristrutturazione nella Direttiva (UE) 2019/1023 e l’alternativa fra absolute priority rule e relative priority rule, in Riv. dir. comm., 2021, I, 367 ss.
[8] Nel senso però che «ai soci non si può negare una tutela proprietaria, anche e proprio nelle situazioni di crisi della società; o, se si preferisce, che ai soci di una società in crisi vanno riconosciuti, in principio, i diritti e le tutele spettanti al debitore», cfr. A. Nigro, Le ristrutturazioni societarie nel diritto italiano delle crisi: notazioni generali, in Riv. dir. comm., 2019, I, 383.
[9] Può essere utile ricordare che la versione originaria della legge fallimentare del 1942 stabiliva che «la proposta e le condizioni del concordato» dovessero essere approvate, nelle società di persone, dai soci rappresentanti la «maggioranza assoluta del capitale», e, in quelle di capitali e cooperative, dall’assemblea straordinaria, salva la possibilità di «delega[re]» la decisione su tali punti agli amministratori (art. 152, secondo comma, l. fall. prev.). La disciplina era stata peraltro modificata dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, che aveva per le società di capitali e cooperative disposto che la proposta e le condizioni del concordato fossero «deliberate dagli amministratori», ferma sempre la possibilità di una diversa previsione statutaria (che avrebbe potuto dunque riassegnare ai soci la competenza decisionale in punto di accesso al concordato). Il d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 è poi intervenuto senza alterare le linee portanti della disciplina del 2006. In specie, l’art. 44, quinto comma, c.c.i.i. si limitava a far rinvio – con riguardo alla domanda di concordato preventivo e a quella di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti – alla norma dell’art. 265 c.c.i.i. (in tema di concordato nella liquidazione giudiziale), che, ferma la regola di default della competenza degli amministratori, lasciava (e lascia tutt’ora) aperta la possibilità di una «diversa disposizione dell’atto costitutivo o dello statuto». Infine, il quadro è stato rovesciato, per alcuni «inaspettatamente» (F. Briolini, (nt. 7), 8), con il d.lgs. n. 83/2022, che ha appunto attribuito in via esclusiva agli amministratori la competenza a decidere sull’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società.
[10] Con la precisazione che «non costituisce giusta causa la presentazione di una domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza in presenza delle condizioni di legge» (art. 120-bis, quarto comma, c.c.i.i.).
[11] Si fa riferimento alla tesi di G. Ferri jr, ad es. in La struttura finanziaria della società in crisi, in RDS, 2012, 482 ss. (e in Crisi finanziaria e risposte normative: verso un nuovo diritto dell’economia?, a cura di A. Guaccero, Marco Maugeri, Milano, Giuffrè, 2014, 25 ss.).
[12] Cfr. l’art. 120-quinquies c.c.i.i. In realtà, occorre considerare che il principio affermato nel testo potrebbe apparire ridimensionato alla luce del disposto dell’art. 118, sesto comma, c.c.i.i., che prevede (ancora), in relazione alla procedura di concordato preventivo, il meccanismo sostitutivo del voto dei soci. Per una proposta di coordinamento fra l’art. 120-quinquies e l’art. 118, sesto comma, c.c.i.i. cfr. R. Brogi, (nt. 7), 1299 s.
[13] Art. 120-ter c.c.i.i.
[14] E così, la relativa disciplina appare ispirata ad un duplice obiettivo: da un lato, si mira ad evitare che il “potere” riconosciuto ai soci ecceda il “nuovo” rischio assunto alla luce delle condizioni di dissesto della società, nell’ottica di neutralizzare i loro eventuali comportamenti opportunistici; dall’altro lato, si vuole evitare, attraverso il riconoscimento del diritto di opposizione all’omologazione dello strumento di regolazione della crisi, che i soci siano privati del valore economico della loro pretesa sul patrimonio sociale (sul fatto che la disciplina in discorso sia ispirata dalla duplice esigenza di «reprimere l’opportunismo ed evitare il mal-trattamento (di alcuni) dei soci», cfr. Ant. Rossi, (nt. 7), 945 s.).
[15] E cioè non in quanto titolari di una pretesa (in relazione ad esempio al salario) sul patrimonio della società debitrice ma in quanto interessati a conservare il posto/le condizioni di lavoro. Sul tema del rapporto tra tutela dei creditori e tutela dei lavoratori nel Codice della crisi (nella versione antecedente al d.lgs. n. 83/2022), cfr. L. Imberti, Profili lavoristici del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Il bilanciamento partecipato tra tutela dei creditori e tutela dei lavoratori, Torino, Giappichelli, 2020.
[16] Sul punto, S.A. Cerrato, Appunti per una “via italiana” all’ESG: l’impresa “costituzionalmente solidale” (anche alla luce dei “nuovi” artt. 9 e 41, comma 3, Cost.), in Aa.Vv., Governance e mercati. Studi in onore di Paolo Montalenti, a cura di M. Callegrari, S.A. Cerrato, E.R. Desana, I, Torino, Giappichelli, 2022, 231 s.
[17] A questa forma di sostenibilità si fa riferimento ad es. nell’art. 87, terzo comma, c.c.i.i. («il debitore deposita, con la domanda, la relazione di un professionista indipendente, che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano e, in caso di continuità aziendale, che il piano è atto a impedire o superare l’insolvenza del debitore, a garantire la sostenibilità economica dell’impresa e a riconoscere a ciascun creditore un trattamento non deteriore rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale. Analoga relazione deve essere presentata nel caso di modifiche sostanziali della proposta o del piano»).
[18] Acronimo che sviluppa, come noto, quello della CSR (Corporate Social Responsibility). Sul fatto che l’acronimo ESG sia un mero aggiornamento lessicale di quello “CSR”, v. G.B. Portale, La Corporate Social Responsibility alla ricerca di effettività, in Banca borsa tit. cred., 2022, 947. Sul fatto che i «tre factors o standards dell’ESG sono tutti investiti dalla sostenibilità», cfr. V. Cariello, (nt. 3), 414, nota 5. Si riferisce alla sostenibilità nell’area dei diritti umani, dei cambiamenti climatici e dell’ambiente la Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità e che modifica la direttiva (UE) 2019/1937, del 23 febbraio 2022.
[19] M. Stella Richter jr, Long-Termism, in Riv. soc., 2021, 32, per il quale «vi saranno molti casi di sustainability v. sustainability e in tali casi si dovrà necessariamente decidere a quale sostenibilità – ambientale, sociale o economica, per limitarci alle tre grandi suddistinzioni – “dare ragione” e in quale misura». Occorre inoltre considerare che anche nell’ambito dello stesso interesse ESG (ad esempio, tutela dell’ambiente) è possibile che si pongano dei conflitti: si pensi alla scelta se convertire un’attività di agricoltura “tradizionale” in un’attività di agricoltura biologica (quindi, in teoria, più “sostenibile”), la quale, però, richiede – al fine di mantenere la stessa capacità produttiva – che venga utilizzata una superficie di maggiori dimensioni, la quale viene sottratta alle aree boschive, così impattando sull’ecosistema di queste ultime (su questi temi cfr. L. Ciccarese, V. Silli, Agricoltura biologica, una scelta giusta per l’ambiente, la sicurezza alimentare e la salute?, in Energia, ambiente e innovazione, 2015, 57 ss.).
[20] Marco Maugeri, «Pluralismo» e «monismo» nello scopo della s.p.a. (glosse a margine del dialogo a più voci sullo Statement della Business Roundtable), in questa Rivista, 2019, 642, per il quale «[l]o svantaggio rilevante di questa impostazione risiede negli elevati costi transattivi e di agenzia indotti dalla mancanza di qualsiasi criterio affidabile per ordinare gerarchicamente le preferenze dei soci e quelle degli stakeholders, nonché le preferenze dei diversi gruppi di stakeholders. La verità è che la teoria che assegna agli amministratori il compito di ricercare una “concordanza pratica” tra i vari interessi dà luogo a incertezza giuridica, con aumento dei costi transattivi, e alla possibilità di giustificare qualunque scelta richiamandosi al vantaggio ora dell’uno, ora dell’altro gruppo di stakeholders con il conseguente pericolo di condotte opportunistiche e aumento dei costi di agenzia» (enfasi nel testo); cfr. anche M. Stella Richter jr, (nt. 19), 48 s.; M. Cian, Principi dell’ordinamento giuridico-economico e sviluppo sostenibile in Italia e Austria, in Nuove leggi civ. comm., 2022, 109; Id., Crisi dell’impresa e doveri degli amministratori: i principi riformati e il loro possibile impatto, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 1169 ss.; R. Sacchi, La capacità propulsiva della s.p.a. quotata è andata esaurendosi?, in questa Rivista, 2021, 591 s.
[21] In un quadro in cui quest’ultimo è visto – al pari del creditore – come una tipologia di investitore nell’impresa societaria, benché munito di una pretesa di ultima istanza.
[22] Sul tema si veda il contributo di I. Donati, Crisi d’impresa e diritto di proprietà. Dalla responsabilità patrimoniale all’assenza di pregiudizio, in Riv. soc., 2020, 164 ss.
[23] Fa riferimento a queste tre possibili accezioni G. D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, Giappichelli, 2022, 94.
[24] Per alcune riflessioni su questo principio e sull’evoluzione del suo ambito applicativo cfr. ad es. G. Nuzzo, (nt. 6), 57 ss.
[25] Sul principio del miglior soddisfacimento dei creditori cfr. Ant. Rossi, Il migliore soddisfacimento dei creditori (quattro tesi), in Fallimento, 2017, 637 ss.; A. Patti, Il miglior soddisfacimento dei creditori: una clausola generale per il concordato preventivo?, in Fallimento, 2013, 1099 ss.
[26] Nell’ambito di una procedura di regolazione della crisi oppure al di fuori della stessa, a seconda della tesi accolta [sul punto, cfr. I. Donati, (nt. 22), 187 s.; G. D’Attorre, La responsabilità sociale, (nt. 3), 80 s.].
[27] Su questo tema si veda P.G. Jaeger, L’interesse sociale, Milano, Giuffrè, 1964; più recentemente si veda anche Aa.Vv., L’interesse sociale tra valorizzazione del capitale e protezione degli stakeholders. In ricordo di Pier Giusto Jaeger, Milano, Giuffrè, 2010.
[28] M. Cian, Clausole statutarie per la sostenibilità dell’impresa: spazi, limiti e implicazioni, in Riv. soc., 2021, 479 ss.; M.S. Spolidoro, Interesse, funzione e finalità. Per lo scioglimento dell’abbraccio tra interesse sociale e Business Purpose, in Riv. soc., 2022, 322 ss.
[29] Su questi temi cfr., tra gli altri, F. Denozza, Lo scopo della società tra short-termism e stakeholder empowerment, in questa Rivista, 2021, 29 ss.; F. Mucciarelli, (nt. 1), 525 ss.; U. Tombari, Corporate purpose e diritto societario: dalla “supremazia degli interessi dei soci” alla libertà di scelta dello “scopo sociale”?, in Riv. soc., 2021, 1 ss.; P. Montalenti, L’interesse sociale: una sintesi, in Riv. soc., 2018, 303 ss.; C. Angelici, Note minime sull’«interesse sociale», in Banca, borsa, tit. cred., 2014, I, 255 ss.; H. Fleischer, La definizione normativa dello scopo dell’impresa azionaria: un inventario comparato, in Riv. soc., 2018, 803 ss.; L.A. Bebchuk, R. Tallarita, The Illusory Promise of Stakeholder Governance, in 106 Cornell L. Rev., 2020, 91 ss.; M. Gatti, C.D. Ondersma, Can A Broader Corporate Purpose Redress Inequality? The Stakeholder Approach Chimera, in 46 J. of Corp. L., 2020, 1 ss.; G. Ferrarini, An Alternative View of Corporate Purpose: Colin Mayer on Prosperity, in Riv. soc., 2020, 27 ss.; Id., Redefining Corporate Purpose: Sustainability as a Game Changer, in Aa.Vv., Sustainable Finance in Europe. Corporate Governance, Financial Stability and Financial Markets, ed. by D. Busch, G. Ferrarini, S. Grünewald, Cham, Palgrave Macmillan, 2021, 85 ss.; M. Ventoruzzo, Brief Remarks on “Prosperity” by Colin Mayer and the often Misunderstood Notion of Corporate Purpose, in Riv. soc., 2020, 43 ss.; B. Sjåfjell, J. Mähönen, Corporate Purpose and the Misleading Shareholder vs Stakeholder Dichotomy, 2022, reperibile al seguente indirizzo: https://ssrn.com/abstract=4039565.
[30] Sul punto, occorre specificare che nel dibattito dottrinale la c.d. stakeholder theory ha assunto una duplice connotazione, potendo essere concepita secondo una accezione “debole” o, piuttosto, secondo una “forte”. Secondo la prima ricostruzione, il sacrificio di profitto per i soci in nome del perseguimento di interessi generali e di beneficio comune (in una misura ulteriore rispetto a quella già richiesta ex lege, ovviamente) è consentito ma non imposto (c.d. stakeholderism debole). Ai sensi della seconda ricostruzione, invece, il sacrificio di profitto per i soci in nome del perseguimento di interessi generali e di beneficio comune è invece imposto, con la connessa possibilità degli stakeholders (almeno sul piano astratto) di azionare la pretesa al perseguimento del loro interesse nei confronti degli amministratori di società (c.d. stakeholdersim forte). A queste teorie si oppone, come anticipato, la c.d. shareholder theory, sulla base della quale il sacrificio di profitto per i soci in nome del perseguimento di interessi generali e di beneficio comune (come l’occupazione, l’ambiente, ecc.) è di regola vietato e, se posto in essere, è suscettibile di tradursi in una azione di responsabilità nei confronti degli amministratori. Nell’ambito di questa teoria, gli interessi di beneficio comune possono o devono essere perseguiti solo se il loro perseguimento è funzionale alla massimizzazione del valore delle partecipazioni sociali, secondo il modello che una parte della dottrina ha definito «sostenibilità opportunistica» (M. Cian, Sulla gestione sostenibile e i poteri degli amministratori: uno spunto di riflessione, in questa Rivista, 2021, ad es. 1134). In generale, su queste categorie concettuali v. E. Barcellona, La sustainable corporate governance nelle proposte di riforma del diritto europeo: a proposito dei limiti strutturali del c.d. stakeholderism, in Riv. soc., 2022, 1 ss.).
[31] /soci ex latere creditoris. Per evitare confusioni, nel testo di questo paragrafo si fa riferimento al solo interesse dei creditori, pur nella consapevolezza, alla luce di quanto esposto nel § 2, che esso può comprendere anche quello dei soci ex latere creditoris.
[32] L. Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza, Bologna, Il Mulino, 2007; Id., Proprietà e controllo dell’impresa in crisi, in Riv. soc., 2004, 1041 ss. e, più di recente, Id., La struttura finanziaria della società per azioni al tempo della grande crisi, in Regole del mercato e mercato delle regole – Il diritto societario e il ruolo del legislatore, a cura di G. Carcano, C. Mosca, M. Ventoruzzo, Milano, Giuffrè, 2016, 257 ss. Cfr. anche, tra i molti, A.M. Luciano, La gestione della s.p.a. nella crisi pre-concorsuale, Milano, Giuffrè, 2016, 3 s. Nella letteratura straniera cfr. ad es. S.C. Gilson, M.R. Vetsuypens, Creditor Control in Financially Distressed Firms: Empirical Evidence, in 72 Washington U. L. Q., 1994, 1006. Per una discussione generale sull’allocazione ottimale dei poteri di decisione e di controllo nell’impresa, cfr. F.H. Easterbrook, D.R. Fischel, Voting in Corporate Law, in 26 J. L. and Econ., 1983, 395 ss.
[33] Mi sembra che questo sia il ragionamento seguito da S. Pacchi, (nt. 3), 5 ss.
[34] G. D’Attorre, La responsabilità sociale, (nt. 3), 76.
[35] Sul tema si veda, ad es., M. Cian, (nt. 28), 475 ss.
[36] Sul tema delle società benefit, si vedano, tra gli altri, i contributi presenti nel forum virtuale di questa Rivista, n. 2/2017, tra i quali, C. Angelici, Società benefit, 1 ss.; F. Denozza, A. Stabilini, La società benefit nell’era dell’investor capitalism, 1 ss.; G. Marasà, Scopo di lucro e scopo di beneficio comune nella società benefit, 1 ss.; S. Rossi, L’impegno multistakeholder della società benefit, 1 ss.; M. Stella Richter jr, Società benefit e società non benefit, 1 ss.; A. Zoppini, Un raffronto tra società benefit ed enti non profit: implicazioni sistematiche e profili critici, 1 ss. Si vedano, inoltre, C. Angelici, Divagazioni sulla “responsabilità sociale” d’impresa, in Riv. soc., 2018, 3 ss.; G.B. Portale, Diritto societario tedesco e diritto societario italiano in dialogo, in Banca borsa tit. cred., 2018, I, 597 ss.; M. Stella Richter jr, Corporate social responsibility, social enterprise, benefit corporation: magia delle parole?, in Vita not., 2017, 953 ss.; U. Tombari, L’organo amministrativo di S.p.A. tra “interessi dei soci” ed “altri interessi”, in Riv. soc., 2018, 20 ss.; Id., “Potere” e “interessi” nella grande impresa azionaria, Milano, Giuffrè, 2019, 64 ss.; S. Prataviera, Società benefit e responsabilità degli amministratori, in Riv. soc., 2018, 919 ss.
[37] Salvo per quanto si dirà infra nel testo, il discorso non si estende alle procedure di amministrazione straordinaria e liquidazione coatta amministrativa. Per la tesi che le «procedure “amministrative”», e in particolare l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese, costituiscono un «sottosistema normativo in cui il paradigma valoriale di riferimento è senz’altro da tempo differente [rispetto a quello vigente nell’«ordinamento concorsuale “generale”»], e non risulta imperniato sulla tutela del credito», cfr. D. Galletti, La considerazione “graduale” dell’interesse dei creditori nell’amministrazione straordinaria, reperibile al seguente indirizzo: www.ilfallimentarista.it, 27 maggio 2022.
[38] Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, e che modifica la direttiva (UE) 2017/1132.
[39] Sul punto, P. Vella, L’impatto della Direttiva UE 2019/1023 sull’ordinamento concorsuale interno, in Fallimento, 2020, 748. Diversa è stata la funzione del regolamento (UE) 2015/848 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 maggio 2015 relativo alle procedure di insolvenza, che disciplina le procedure transfrontaliere quanto a conflitti di competenza, riconoscimento delle sentenze, esecuzione, legge applicabile, cooperazione fra gli organi delle procedure, interconnessione dei registri fallimentari, rapporti fra procedure principali e secondarie, insolvenza dei gruppi. Si tenga presente che recentemente la Commissione ha emanato una «Proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che armonizza taluni aspetti del diritto in materia di insolvenza» del 7 dicembre 2022 (COM(2022) 702 final), reperibile al seguente indirizzo: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX:52022PC0702.
[40] Al riguardo, sembra utile sottolineare che, ad esempio, la StaRUG (Gesetz über den Stabilisierungs- und Restrukturierungsrahmen für Unternehmen), con la quale è stata attuata in Germania la direttiva Restructuring, ha previsto che il debitore deve condurre la procedura di ristrutturazione «mit der Sorgfalt eines ordentlichen und gewissenhaften Sanierungsgeschäftsführers» e deve salvaguardare gli interessi dei creditori nel loro complesso (cfr. §§ 32, Abs. 1 e 43, Abs. 1, StaRUG).
[41] La versione italiana della direttiva parla in realtà di «Obblighi dei dirigenti», dovendosi tuttavia più precisamente intendere, in caso di società, “obblighi degli amministratori”, e ciò in coerenza tra l’altro con la versione inglese della direttiva stessa (che parla di «Duties of directors»).
[42] Sul punto cfr. quanto osservato da L. Benedetti, L’organo gestorio fra interesse dei soci e interessi “altri”: prime considerazioni sui principi della Direttiva riguardante i preventive restructuring frameworks, in Governance e mercati, (nt. 16), III, 1885: «[d]a questo passo è possibile evincere che la volontà del legislatore comunitario non è quella di imporre in modo cogente, per il tramite dell’art. 19, lett. a), né una gerarchia dei diversi interessi coinvolti nella crisi della società […] né il dovere degli amministratori di procedere, in un’ottica pluralistica, a mediare fra le diverse istanze dei creditori e dei soci».
[43] Sul punto, S. Pacchi, Sostenibilità, fattori ESG e crisi d’impresa, reperibile al seguente indirizzo: www.ristrutturazioniaziendali.it, 26 maggio 2023, 14.
[44] Si vedano: art. 4, secondo comma, lett. b: il debitore ha il dovere di «assumere tempestivamente le iniziative idonee […] alla rapida definizione dello strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza prescelto, anche al fine di non pregiudicare i diritti dei creditori»; art. 4, secondo comma, lett. c: il debitore ha il dovere di «gestire il patrimonio o l’impresa durante i procedimenti nell’interesse prioritario dei creditori», fermo restando quanto previsto dagli artt. 16, quarto comma e 21 c.c.i.i.; art. 16, quarto comma: nella composizione negoziata, l’imprenditore ha il dovere «di gestire il patrimonio e l’impresa senza pregiudicare ingiustamente gli interessi dei creditori»; art. 21: nella composizione negoziata, quando «risulta che l’imprenditore è insolvente ma esistono concrete prospettive di risanamento, lo stesso gestisce l’impresa nel prevalente interesse dei creditori»; art. 64-bis, quinto comma: nel piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione l’imprenditore «gestisce l’impresa nel prevalente interesse dei creditori». Si vedano inoltre gli artt. 99-100 che contengono (ancora) un riferimento alla «migliore soddisfazione dei creditori».
[45] Art. 87, primo comma, lett. f: il piano di concordato preventivo deve contenere la descrizione della posizione dei lavoratori e, in caso di continuità diretta, l’analitica individuazione dei costi e dei ricavi attesi e deve tenere conto «anche dei costi necessari per assicurare il rispetto della normativa in materia di sicurezza sul lavoro e di tutela dell’ambiente». Sul tema dei rapporti fra tutela dell’ambiente e diritto concorsuale, v. di recente G. Capobianco, La (mancata) tutela ambientale nel diritto concorsuale, tra discrezionalità legislativa e dubbi di legittimità costituzionale, reperibile al seguente indirizzo: www.ristrutturazioniaziendali.it., 8 giugno 2022, 1 ss.
[46] Sembrerebbe a favore di quest’ultima ipotesi S. Leuzzi, L’evoluzione del valore della continuità aziendale nelle procedure concorsuali, in Nuove leggi civ. comm., 2022, 484.
[47] In argomento, cfr. quanto osservato, con specifico riferimento al rapporto fra la tutela degli interessi dei creditori e quella dei lavoratori, da F. d’Alessandro, Rapporti di lavoro e crisi di impresa, in Dir. fall., 2004, I, 1210 s., per il quale «non si deve commettere l’errore di considerare il tema […] come uno dei tanti del diritto della crisi di impresa. Il tema è assolutamente centrale del diritto fallimentare di oggi. È forse il tema centrale. Ed è un tema assai trascurato, anzi quasi del tutto ignorato, dalla letteratura corrente» (enfasi nel testo).
[48] In argomento si veda già A. Maisano, La tutela concorsuale dei creditori tra liquidazione e riassetto delle imprese in crisi. Evoluzione e prospettive di riforma del diritto fallimentare, Milano, Giuffrè, 1989, 1 ss.; più di recente, F. Santangeli, Introduzione. Le prospettive incerte, in La nuova legge fallimentare dopo la l. n. 132/2015, a cura di F. Santangeli, Milano, Giuffrè, 2016, XIII s., il quale ritiene che con l’intervento del 2015 si sia raggiunto il punto più basso di una parabola discendente e che si sia «pers[a] la lettura globale del fenomeno della crisi d’impresa».
[49] Cfr. le note 88, 89.
[50] Si vedano gli Autori citati alle note 55, 58.
[51] Come già (in parte) rilevato nel testo, basta leggere i seguenti articoli del c.c.i.i. (così come risultante a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 17 giugno 2022, n. 83) per rendersi conto dell’assenza di una visione unitaria e coerente sul tema dello “scopo” del diritto della crisi e dell’insolvenza: art. 4, secondo comma, lett. b (il debitore ha il dovere di «assumere tempestivamente le iniziative idonee […] alla rapida definizione dello strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza prescelto, anche al fine di non pregiudicare i diritti dei creditori») e c (il debitore ha il dovere di «gestire il patrimonio o l’impresa durante i procedimenti nell’interesse prioritario dei creditori», fermo restando quanto previsto dagli artt. 16, quarto comma e 21 c.c.i.i.); art. 16, quarto comma (nella composizione negoziata, l’imprenditore ha il dovere «di gestire il patrimonio e l’impresa senza pregiudicare ingiustamente gli interessi dei creditori»); art. 21, primo comma (nella composizione negoziata, quando «risulta che l’imprenditore è insolvente ma esistono concrete prospettive di risanamento, lo stesso gestisce l’impresa nel prevalente interesse dei creditori»); art. 22 (nell’ambito della composizione negoziata, il tribunale può autorizzare una serie di atti «verificata la funzionalità degli atti rispetto alla continuità aziendale e alla migliore soddisfazione dei creditori»); art. 53, quinto-bis comma («[i]n caso di accoglimento del reclamo proposto contro la sentenza di omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale, la corte d’appello, su richiesta delle parti, può confermare la sentenza di omologazione se l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante, riconoscendo a quest’ultimo il risarcimento del danno»); art. 64-bis, quinto comma (nel piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione l’imprenditore «gestisce l’impresa nel prevalente interesse dei creditori»); art. 84, secondo comma (in materia di concordato preventivo «la continuità aziendale tutela l’interesse dei creditori e preserva, nella misura possibile, i posti di lavoro»); art. 87, secondo comma («nella domanda di concordato il debitore indica le ragioni per cui la proposta concordataria è preferibile [per chi?] rispetto alla liquidazione giudiziale»); art. 94, terzo e sesto comma (nella procedura di concordato può essere autorizzata una serie di atti se funzionali al «miglior soddisfacimento dei creditori»; addirittura, l’autorizzazione può essere concessa senza far luogo a pubblicità e alle procedure competitive «quando può essere compromesso irreparabilmente l’interesse dei creditori al miglior soddisfacimento»); art. 99, primo e secondo comma (il debitore può chiedere di essere autorizzato a contrarre finanziamenti prededucibili prima dell’omologazione del concordato o degli accordi di ristrutturazione, purché «funzionali alla miglior soddisfazione dei creditori»); art. 100, primo comma (il debitore nel concordato può essere autorizzato a pagare crediti anteriori per prestazioni di beni o servizi se tali prestazioni sono funzionali alla «migliore soddisfazione dei creditori»); art. 112, primo comma, lett. f (il tribunale omologa il concordato in continuità aziendale se «eventuali nuovi finanziamenti» «non pregiudic[a]no ingiustamente gli interessi dei creditori»; art. 123, primo comma, lett. f (nella liquidazione giudiziale, il giudice delegato può autorizzare il curatore a stare in giudizio «quando è utile per il miglior soddisfacimento dei creditori»; art. 212, primo e secondo comma (nella liquidazione giudiziale, può essere autorizzato l’affitto dell’azienda «quando appaia utile al fine della più proficua vendita dell’azienda o di parti della stessa»; la scelta dell’affittuario «deve tenere conto, oltre che dell’ammontare del canone offerto, delle garanzie prestate e della attendibilità del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali, avuto riguardo alla conservazione dei livelli occupazionali»); art. 213, sesto comma («prima della approvazione del programma di liquidazione, il curatore può procedere alla liquidazione di beni […] solo quando dal ritardo può derivare pregiudizio all’interesse dei creditori»); art. 274, ove si richiama, in tema di azioni del liquidatore, il principio del miglior soddisfacimento dei creditori; art. 284, ove, in materia di regolazione della crisi o insolvenza del gruppo e di piani unitari e/o reciprocamente collegati e interferenti, si parla di «ragioni di maggiore convenienza, in funzione del migliore soddisfacimento dei creditori delle singole imprese»; artt. 285, secondo comma, ove si parla di «obiettivo del miglior soddisfacimento dei creditori di tutte le imprese del gruppo», e 287, primo comma, ove si parla di «obiettivo del migliore soddisfacimento dei creditori delle diverse impese del gruppo».
[52] D’altra parte, «nelle fasi mature dei movimenti riformatori» può apparire utile accostare l’analisi tecnico-giuridica propria della scienza del diritto a quella valutativa, «per l’ovvia ragione che le riforme attengono, ad un tempo, alla politica del diritto ed alla tecnica giuridica e non possono essere concepite, né tantomeno strutturate, senza raccordare i due piani» (A. Maisano, (nt. 48), 19).
[53] Faccio riferimento alla sistematica utilizzata da S. Paterson, Corporate Reorganization Law and Forces of Change, Oxford, OUP, 2020, 2 ss.
[54] Per questa valutazione si veda N. Tollenaar, Pre-Insolvency Proceedings. A Normative Foundation and Framework, Oxford, OUP, 2019, 9. Sul punto, nella letteratura italiana, anche D. Vattermoli, La posizione dei soci nelle ristrutturazioni. Dal principio di neutralità organizzativa alla residual owner doctrine?, in Riv. soc., 2018, 872, nota 46.
[55] Il riferimento è agli studi di T.H. Jackson, The Logic and Limits of Bankruptcy Law, Cambridge (MA)-London, HUP, 1986, 7 ss.; D.G. Baird, The Uneasy Case for Corporate Reorganizations, in 15 J. of Legal Studies, 1986, 127 ss.; D.G. Baird, T.H. Jackson, Corporate Reorganizations and the Treatment of Diverse Ownership Interests: A Comment on Adequate Protection of Secured Creditors in Bankruptcy, in 51 U. Chicago L. Rev., 1984, 97 ss.; T.H. Jackson, R.E. Scott, On the Nature of Bankruptcy: An Essay on Bankruptcy Sharing and the Creditors’ Bargain, in 75 Virginia L. Rev., 1989, 155 ss.; A. Schwartz, A Contract Theory Approach to Business Bankruptcy, in 107 Yale L. J., 1998, 1807 ss.
[56] T.H. Jackson, (nt. 55), ad es., 22 (bankruptcy «should act to ensure that the rights that exist are vindicated to the extent possible»), 212 s.
[57] T.H. Jackson, (nt. 55), 10 ss.
[58] E. Warren, Bankruptcy Policy, in 54 U. Chicago L. Rev., 1987, 775 ss.; K. Gross, Taking Community Interests into Account in Bankruptcy: An Essay, in 72 Washington U. L. Q., 1994, 1031 ss.; W.J. Blum, The Goals and Process of Reorganizing Small Businesses in Bankruptcy, in 4 J. Small & Emerging Bus. L., 2000, 181 ss. In senso nettamente contrario all’approccio economico al diritto della crisi si veda anche la ricostruzione suggerita da D.R. Korobkin, Rehabilitating Values: A Jurisprudence of Bankruptcy, in 91 Columbia L. Rev., 1991, 717 ss. Secondo questa teoria (chiamata “the value-based account”), sulla base della duplice premessa per la quale «financial distress implicates a complex array of human values» (764) e «[t]he corporation is a moral, political, and social agent» (768), l’Autore argomenta nel senso che «bankruptcy law is not merely a form of collection law» (766), né «a maximizer of economic outcomes» (787), ma una «response to the many aspects of financial distress – moral, political, personal, social, and economic – and, in particular, to the grievances of those who are affected by financial distress. Because the participants’varied grievances typically reflect conflicting and fundamentally incommensurable values, bankruptcy law provides a forum for an ongoing debate in which these diverse values can be expressed and sometimes recognized» (721). In questo senso, il diritto della crisi viene descritto come un sistema «rich, complex, and evolutionary, allowing expression and recognition of diverse human values» (761).
[59] Per questa valutazione cfr. N. Tollenaar, (nt. 54), 9; R. de Weijs et al., The Imminent Distortion of European Insolvency Law: How the European Union Erodes the Basic Fabric of Private Law by Allowing ‘Relative Priority’ (RPR), 2019, reperibile al seguente indirizzo: https://ssrn.com/
abstract=3350375 (poi pubblicato su 125 Tijdschrift voor Belgisch Handelsrecht, 2019, 477 ss.), 4; C. Cavallini, in C. Cavallini, M. Gaboardi, New Creditors’ Bargain Theory e la crisi d’impresa tra diritto interno e direttive europee. Verso un modello globale di Insolvency Law, in Riv. soc., 2021, 995.
[60] T.H. Jackson, (nt. 55), 22 «in its role as a collective debt-collection device, bankruptcy law should not create rights. Instead, it should act to ensure that the rights that exist are vindicated to the extent possible»; «[b]ankruptcy law cannot both give new groups rights and continue effectively to solve a common pool problem. Treating both as bankruptcy questions interferes with bankruptcy’s historic function as a superior debt-collection system against insolvent debtors» (26).
[61] T.H. Jackson, Bankruptcy, Non-Bankruptcy Entitlements, and the Creditors’ Bargain, in 91 Yale L. J., 1982, 860.
[62] L’esempio classico al quale si ricorre per spiegare questo concetto è quello dello “stagno” (fishing lake): si immagini uno stagno con una limitata quantità di pesci (ad es., cento), rispetto al quale hanno diritto di pescare una certa quantità di pescatori. La condotta più razionale per ciascuno sarebbe quella di non pescare subito tutti i pesci, perché altrimenti i pesci del lago non si riprodurranno più e lo stagno rimarrà vuoto. La condotta più razionale per ciascuno sarebbe dunque quella di limitare il proprio diritto di pesca. Tuttavia, il fatto di non poter controllare che anche gli altri pescatori limitino il proprio diritto di pesca induce ciascuno ad assumere il comportamento contrario a razionalità, e quindi a “correre” per accaparrarsi quanti più pesci possibile prima che si esauriscano (si tratta di un problema di distorsione delle scelte nell’azione collettiva non dissimile da quello considerato nel noto “dilemma del prigioniero”, non a caso richiamato da Jackson, ad esempio in Bankruptcy, (nt. 61), 862 ss.). Quello che occorre, dunque, è una regola che coordini l’azione di tutti i pescatori (i creditori) così da evitare che il comportamento di ciascuno abbia l’effetto di distruggere l’ecosistema presente nello stagno (il patrimonio del debitore). Questa “regola” è l’essenza e la ragione giustificatrice del diritto della crisi (nelle parole di T.H. Jackson, (nt. 55), 12: «that is where bankruptcy law enters the picture in a world not of fish but of credit»). Sul tema, nella letteratura italiana, si veda ad es. D. Galletti, La ripartizione del rischio di insolvenza, Bologna, Il Mulino, 2006, 17, il quale, tra l’altro, osserva che «[n]on occorre una particolare conoscenza della games theory per comprendere che si tratta di un’intuizione vincente».
[63] T.H. Jackson, (nt. 61), 861 ss. E si veda in proposito, nella giurisprudenza italiana, Trib. Bari, 22 luglio 1975, in Giur. comm., 1976, II, 864 ss., spec. 868, che rammenta come i procedimenti concorsuali siano funzionali alla «eliminazione della gara» verso il bene comune e alla attuazione della par condicio.
[64] T.H. Jackson, (nt. 61), 864 ss.
[65] Inteso come quel principio, ispirato alla pronuncia Butner v. United States, 440 U.S. 48, 55 (1979), per il quale «bankruptcy law should give special deference to – and avoid interfering with – entitlements and rights that are created by nonbankruptcy law» (questa definizione si trova in A. Casey, Chapter 11’s Renegotiation Framework and the Purpose of Corporate Bankruptcy, in 120 Columbia L. Rev., 2020, 1722); cfr. anche T.H. Jackson, A Retrospective Look at Bankruptcy’s New Frontiers, in 166 U. of Pennsylvania L. Rev., 2018, 1872, per il quale «Butner […] put forth a principle that said (or so we said) bankruptcy shouldn’t change nonbankruptcy values without a reason».
[66] T.H. Jackson, (nt. 55), 26: «[f]ashioning a distinct bankruptcy rule – such as one that gives workers rights they do not hold under nonbankruptcy law – creates incentives for the group advantaged by the distinct bankruptcy rule to use the bankruptcy process even though it is not in the interest of the owners as a group».
[67] E, si noti, qui non si sta argomentando nel senso che i lavoratori (o i creditori involontari) e, ad esempio, le grandi banche dovrebbero essere trattati nello stesso modo; si sta affermando che decidere se i lavoratori e le grandi banche debbano essere trattate nello stesso modo non è una questione attinente al diritto della crisi per se, ma è una questione che dovrebbe essere affrontata dal legislatore al di fuori del (e a prescindere dal) diritto della crisi. Sul punto, T.H. Jackson, (nt. 55), 33 («[c]hanges in nonbankruptcy rights should be made only if they benefit all those with interests in the firm as a group. A rule change unrelated to the goals of bankruptcy creates incentives for particular holders of rights in assets to resort to bankruptcy in order to gain for themselves the advantages of that rule change, even though a bankruptcy proceeding would not be in the collective interest of the investor group»).
[68] E segnatamente nel diritto civile e processuale civile, i quali attribuiscono, rispettivamente, agli accordi effetti vincolanti (si veda ad es. l’art. 1372 c.c. e, in generale, il Capo II del Titolo I del Libro IV del Codice civile) e alle parti diritti individuali di esecuzione forzata per far valere i loro diritti (cfr. il Capo II del Titolo IV del Libro VI del Codice civile e il Titolo II del Libro III del Codice di procedura civile).
[69] In argomento cfr. N. Tollenaar, (nt. 54), 19.
[70] Sul punto, cfr. ad es. A. Schwartz, A Normative Theory of Business Bankruptcy, in 91 Virginia L. Rev., 2005, 1207 ss.; Id., (nt. 55), 1807 ss.
[71] Ossia la creditors’ bargain theory illustrata supra in questo paragrafo.
[72] In argomento, cfr. G. Scognamiglio, Le trasformazioni del diritto fallimentare, in L’impresa italiana. Il contesto, a cura di F. Amatori, M. D’Alberti, Roma, Istituto della enciclopedia italiana, 2020, 565 ss.
[73] L’espressione si trova in I. Donati, (nt. 22), 165, nota 1. Sul tema cfr. G. Bonelli, Del fallimento3, I, Milano, Vallardi, 1938, 2 e 121 ss.; G.B. Portale, Dalla «pietra del vituperio» alle nuove concezioni del fallimento e delle altre procedure concorsuali, in Banca borsa tit. cred., 2010, I, 389 ss.; G. Nuzzo, Il debito e la storia: dalla colpa alla fisiologia dell’insolvenza, in Riv. dir. comm., 2017, II, 89 ss.
[74] Cfr. già C. D’Avack, La natura giuridica del fallimento, Padova, Cedam, 1940, 23, per il quale «con il fallimento non si liquida il patrimonio del debitore per soddisfare le pretese dei suoi creditori, ma si opera invece la divisione fra i creditori delle attività del comune debitore allorché ed in quanto, per il superiore interesse del credito e della economia generale, è necessario liquidare l’azienda del commerciante che cade in stato di cessazione» e «lo scopo, il fine ultimo del fallimento» consiste «nel togliere dal mondo commerciale gli organismi dissestati, quegli organismi che si trovino cioè in condizioni tali che la prosecuzione della loro attività possa essere di grave pregiudizio per tutti gli altri che vengono in contatto con loro» (20, enfasi dell’Autore). Al riguardo, parla di «arcaica impostazione sanzionatoria» A. Bonsignori, Il fallimento sempre più inattuale, in Dir. fall., 1996, I, 697. Per una ricostruzione, anche in chiave storica, dell’istituto del fallimento (e delle sue origini) si veda A. Rocco, Il fallimento. Teoria generale ed origine storica, Torino, Fratelli Bocca Editori, 1917; sul tema si veda anche U. Santarelli, Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell’età intermedia, Padova, Cedam, 1964; nella letteratura più recente, si veda G.B. Portale, (nt. 73), 396.
[75] G. Scognamiglio, (nt. 72), 570.
[76] A. Maisano, (nt. 48), 30.
[77] Sul punto si veda, ad es., A. Maisano, (nt. 48), 26 s.; in generale sul tema si veda L. Stanghellini, La genesi e la logica della legge fallimentare del 1942, in La cultura negli anni ‘30, a cura di G. Morbidelli, Firenze, Passigli, 2014, 161 ss.
[78] Si vedano il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni, nella l. 14 maggio 2005, n. 80; d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5; d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169.
[79] Sul punto, cfr. ad es. F. d’Alessandro, La crisi dell’impresa tra diagnosi precoci e accanimenti terapeutici, in Giur. comm., 2001, I, 411 s.
[80] E si veda quanto affermato negli anni Novanta del secolo scorso da A. Jorio, Le procedure concorsuali tra tutela del credito e salvaguardia dei complessi produttivi, in Giur. comm., 1994, I, 492 ss., il quale, con riguardo al fallimento constatava che esso «ha come obiettivo essenziale e primario la tutela dei creditori» (498), intesa come soddisfacimento degli stessi «nella più alta percentuale e nei tempi più rapidi consentiti dalla condizione giuridica ed economica del patrimonio da liquidare» (496); con riguardo al concordato preventivo, parlava di divieto per il giudice di «omologare accordi che non siano i migliori possibili per i creditori» (505, enfasi aggiunta).
[81] G. Scognamiglio, (nt. 72), 573.
[82] Sul tema cfr., ad es., V. Greco, Il fallimento da esecuzione collettiva ad espropriazione dell’impresa, Milano, Giuffrè, 1984, 27 ss.
[83] Sul tema cfr. A. Jorio, (nt. 80), 512 ss.
[84] Ne prende atto, ad es., A. Maisano, (nt. 48), 39 ss. Per la tesi che «col concordato preventivo si tutela una pluralità di interessi, ma che quello di fondo è relativo alla conservazione dell’impresa», cfr. R. Provinciali, G. Ragusa Maggiore, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, Cedam, 1988, 792 ss.; per la tesi che funzione del fallimento sia quella di «tutelare l’ordine economico» e che il curatore «ha il dovere di conservare gli aggregati produttivi» anche eventualmente a spese della «maggiore soddisfazione dei creditori», purché entro il limite del possibile (e cioè l’«esistenza della struttura organizzativa al momento della dichiarazione di fallimento») e dell’economico (che è dato dal «divieto di de-economicizzare la produzione […] per mantenere in vita una struttura organizzata priva di valore sociale»), cfr. V. Greco, (nt. 82), 43 ss. Varrà inoltre sottolineare che sul tema dell’«uso alternativo delle procedure concorsuali» si è svolto un convegno a Verona nei giorni 28-29 ottobre 1977, i cui atti sono stati pubblicati in Giur. comm., 1979, I, 222 ss.
[85] Si veda, ad es., F. d’Alessandro, Interesse pubblico alla conservazione dell’impresa e diritti privati sul patrimonio dell’imprenditore, in Giur. comm., 1984, I, 63 s. («il modello di governo della crisi d’impresa che si va affermando è costituzionalmente illegittimo e va respinto»). Fortemente critici in merito all’uso delle procedure concorsuali con finalità-altre rispetto a quella satisfattiva, cfr. V. Colesanti, in L’uso alternativo delle procedure concorsuali, in Giur. comm., 1979, I, 276 ss., il quale parla di «obbiettivo obbligato del miglior realizzo» e afferma che «non giustificato sarebbe ogni intento di far dei creditori una categoria di personaggi di “serie B”, costretti ad assistere impotenti alla “non” tutela giurisdizionale dei loro diritti» (280, enfasi nel testo); A. Maffei Alberti, ivi, 294, che evidenzia l’ingiustizia di «richiedere [ai creditori] di essere gli unici a sacrificarsi per interessi collettivi». Per un quadro degli interrogativi che ci si poneva all’epoca del dibattito sull’“uso alternativo delle procedure concorsuali”, cfr. la relazione di U. Belviso, in replica agli interventi tenutisi al Convegno di Verona sul tema, appunto, dell’uso alternativo delle procedure concorsuali, ivi, 325 ss.; per una sintesi dei termini del dibattito, cfr. A. Jorio, (nt. 80), 522 ss.
[86] L’amministrazione straordinaria fu dapprima introdotta con la l. 3 aprile 1979, n. 95, detta “Legge Prodi” (la quale era stata preceduta dal d.l. 5 ottobre 1978, n. 602 «Misure dirette ad agevolare la ripresa delle imprese in difficoltà», mai convertito, sul quale si vedano gli interventi, in linea di massima fortemente critici, pubblicati in Riv. soc., 1978, 1185 ss. di Galgano, Casella, Colesanti, Colombo, Cottino, Schlesinger, Landi, G. Minervini, P. Marchetti, Vitale, G. Rossi, Visentini). A seguito della duplice condanna dell’Italia da parte della Corte di giustizia europea, che qualificò la procedura di amministrazione straordinaria come aiuto di Stato illegittimo (Corte giust. CE, 17 giugno 1999, n. 295/97/1999, in Foro it., 2000, IV, con nota di M. Fabiani; Corte giust. CE, 1 dicembre 1998, n. 200/97/1998, in Giur. it., 1999, 545), l’Italia riformò tale procedura con il d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, normativa conosciuta come “Prodi-bis”, che ha eliminato le storture più gravi, ma ha comunque mantenuto l’alterazione del rapporto fra gli interessi dei creditori e l’obiettivo del mantenimento dei posti di lavoro; a seguito del dissesto Parmalat, il d.l. 23 dicembre 2003, n. 347, convertito con modificazioni dalla l. 18 febbraio 2004, n. 39 (c.d. “legge Marzano”, poi integrata e modificata da una lunga serie di successivi interventi normativi), ha poi introdotto una variante dell’amministrazione straordinaria, alla quale potevano essere ammesse solo imprese di grandissime dimensioni.
[87] Art. 1 d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270.
[88] In argomento cfr. L. Stanghellini, La genesi, (nt. 77), 183 ss. Sul tema degli interessi perseguiti attraverso la procedura di amministrazione straordinaria, cfr. anche A. Gambino, Profili dell’esercizio dell’impresa nelle procedure concorsuali alla luce della disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese, in Problemi attuali dell’impresa in crisi. Studi in onore di Giuseppe Ferri, Padova, Cedam, 1983, 155 ss.
[89] Seppur con diverse sfumature, e seguendo percorsi argomentativi spesso non coincidenti, esprimono preoccupazione per l’assetto di interessi realizzato attraverso l’amministrazione straordinaria, G. Minervini, Alcune riflessioni in tema di composizione della crisi dell’impresa industriale, in Problemi attuali dell’impresa in crisi, (nt. 88), 40, il quale afferma che: «[l]a verità è che, finché l’impresa resta capitalistica, non è possibile discriminare il capitale [di credito]. Gli si può, e gli si deve, chiedere di sopportare le perdite derivate dagli squilibri economici dell’impresa: non gli si può chiedere di gravarsi altresì degli oneri inerenti alla conservazione-riorganizzazione dell’impresa stessa»; G. Oppo, Profilo sistematico dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, ivi, 334, il quale ritiene che «[n]on sembra che occorra spendere parole» sulla circostanza che «sottrarre, in tutto o in parte, il patrimonio imprenditoriale – risanato o meno – alla garanzia dei creditori, e devolverlo ad altro fine, significa espropriare i creditori della garanzia medesima, il che è costituzionalmente altrettanto illegittimo quanto espropriarli (senza indennizzo) dello stesso diritto di credito»; in senso conforme, cfr. R. Cavallo Borgia, Profili funzionali della continuazione dell’esercizio dell’impresa nell’amministrazione straordinaria e nelle procedure concorsuali, ivi, 205 ss.; Giov. B. Ferri, Il c.d. uso alternativo delle procedure concorsuali, ivi, 128 ss., il quale afferma che «non sembra corretto e produttivo voler agganciare questi problemi [quelli connessi alla stabilità del posto di lavoro e al salvataggio delle imprese in crisi], e far carico della loro soluzione, a procedure, quali quelle concorsuali, nate per risolvere altri problemi»; sembra favorevole a che, nell’ambito del bilanciamento con gli interessi dei lavoratori a conservare il posto di lavoro, i creditori subiscano «perdite ridotte, in un equilibrio che vede di maggior peso sociale le istanze di chi sull’impresa deve vivere», B. Libonati, Crisi dell’imprenditore e riorganizzazione dell’impresa, ivi, 96 s.
[90] F. d’Alessandro, (nt. 85), 58.
[91] Su questo tema cfr. I. Donati, Le ricapitalizzazioni forzose, Milano, Giuffrè, 2020, 182 ss., spec. nota 163, ove ulteriori indicazioni bibliografiche. Per la ricostruzione del diritto di credito come forma di appartenenza «debole» (rispetto alla proprietà) e «promiscua» («per l’originaria dipendenza del credito da talune vicende del patrimonio del debitore, i.e. dalla co-esistenza di altre proiezioni appropriative sul medesimo patrimonio»), cfr. V. Confortini, Primato del credito, Napoli, Jovene, 2020, 73 ss., spec. 78 s.
[92] F. d’Alessandro, (nt. 85), 58 ss.
[93] A. Maisano, (nt. 48), 13.
[94] F. d’Alessandro, (nt. 85), 59 ss., il quale conclude nel senso che «[n]on sono costituzionalmente legittimi provvedimenti ablatori dei diritti dei creditori, in quanto essi sostanzialmente mirano a devolvere a fini di interesse pubblico non già beni specificamente individuati come indispensabili per il perseguimento di quell’interesse, ma semplicemente e genericamente denaro privato. Ai bisogni pubblici soddisfacibili con denaro si deve però provvedere – s’è detto – attraverso il prelievo tributario, non attraverso l’esproprio per pubblica utilità».
[95] F. d’Alessandro, (nt. 85), 61.
[96] F. d’Alessandro, (nt. 85), 64.
[97] Oltre all’opinione di M. Fabiani, Il valore della solidarietà nell’approccio e nella gestione delle crisi d’impresa, in Fallimento, 2022, 5 ss., che sottolinea l’emersione, nell’attuale diritto della crisi (in generale), di un principio di solidarietà sociale, con un possibile impatto anche sul tema della responsabilità sociale dell’impresa in crisi (si vedano in particolare 12 s.).
[98] G. D’Attorre, Sostenibilità, (nt. 3), 8. Riconducibile a questo primo filone interpretativo è inoltre la ricostruzione proposta da D. Stanzione, (nt. 3), passim, il quale conclude (215) nel senso che nell’impresa insolvente «parrebbe ammissibile un potenziale sacrificio dell’interesse dei creditori, se e nella (stretta) misura in cui esso possa risultare realmente utile e funzionale ad evitare la produzione di un pregiudizio rilevante rispetto ad interessi-altri, costituzionalmente tutelati». A tale conclusione l’Autore in questione giunge, tra l’altro, attraverso la ricostruzione della nozione di profitto “giusto”, «non solo perché realizzato nel rispetto del quadro di valori e regole in cui l’impresa insolvente opera ma anche in quanto tale da non determinare, di contro, un’indebita menomazione dell’aspettativa di soddisfacimento dei creditori medesimi, alla quale, in definitiva, la stessa procedura concorsuale è preordinata a garantire appagamento, pena la possibile frustrazione della sua funzione».
[99] Infatti, l’Autore cui si deve l’elaborazione della tesi esposta nel testo non estende al concordato preventivo il principio generale inespresso di responsabilità sociale dell’impresa insolvente, e ciò sulla base del «dato centrale» costituito dalla «regola che sottopone l’omologazione della proposta al previo consenso (a maggioranza) espresso dai creditori mediante il voto», per cui «[è], quindi, difficile sostenere in via interpretativa che sia giuridicamente possibile imporre una soddisfazione sub-ottimale dei creditori per ridurre l’impatto sociale e ambientale dell’attività d’impresa in concordato, perché la scelta è rimessa comunque al voto dei creditori» (G. D’Attorre, Sostenibilità, (nt. 3), 10 s.). Peraltro, si deve segnalare che l’Autore ha esposto la tesi ora illustrata prima dell’ultima modifica dell’art. 112, secondo comma, lett. d, c.c.i.i., attuata con il d.lgs. 83/2022. In base ad essa, attualmente, in caso di concordato in continuità aziendale non approvato da tutte le classi, il tribunale omologa ugualmente il concordato se verifica, tra l’altro, che «la proposta è approvata dalla maggioranza delle classi, purché almeno una sia formata da creditori titolari di diritti di prelazione, oppure, in mancanza, la proposta è approvata da almeno una classe di creditori che sarebbero almeno parzialmente soddisfatti rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione» (enfasi aggiunte).
[100] I. Donati, (nt. 22), 203 ss.
[101] G. Nuzzo, (nt. 6), 117 ss.; S. Pacchi, (nt. 3), 5; V. Minervini, La nuova “composizione negoziata” alla luce della Direttiva “Insolvency”. Linee evolutive (extracodicistiche) dell’ordinamento concorsuale italiano, in Dir. fall., 2022, 275 s.
[102] D. Galletti, Sulla gerarchia fra gli interessi tutelati dal diritto concorsuale: soddisfacimento dei creditori, ristrutturazioni aziendali e conservazione dell’occupazione, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2020, 251 ss.; Id., Le politiche di gestione del rischio, Napoli, E.S.I., 2021, 131 ss.; Id., Una postilla sugli interessi tutelati nel moderno diritto societario “in crisi”, in RDS, 2023, 243 ss. (anche con riferimento all’ordinamento post. d.lgs. 83/2022). In punto di rapporto tra tutela dei creditori e tutela dei lavoratori, L. Imberti, (nt. 15), 141.
[103] D. Galletti, Sulla gerarchia, (nt. 102), 261 ss.
[104] E. Ricciardiello, (nt. 3), 62.
[105] E si vedano le diverse opinioni di D. Galletti, Sulla gerarchia, (nt. 102), 257 («La direttiva in realtà spinge l’acceleratore sulla ristrutturazione perché assume che normalmente ciò corrisponda all’interesse dei creditori ad un maggior soddisfo, nella consapevolezza della realtà del tessuto economico predominante nel territorio europeo, innervato da piccole e medie imprese, ove spesso la estrazione del soggetto economico dall’impresa, in condizioni ove l’avviamento è quasi interamente “soggettivo” (o se si preferisce self made generated), rischierebbe di annichilire il valore dell’attivo disponibile per i creditori») e di S. Leuzzi, (nt. 46), 498.
[106] L’art. 41 Cost. è stato di recente modificato dalla legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, recante «Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente», pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. 44 del 22 febbraio 2022. In particolare, la riforma ha introdotto, sotto il profilo che qui rileva, due nuovi limiti alla libertà di iniziativa economica, e cioè la salvaguardia della salute e quella dell’ambiente (art. 41, secondo comma, Cost.). Inoltre, ai sensi del nuovo terzo comma dell’art. 41 Cost., la destinazione e il coordinamento dell’attività economica pubblica e privata avvengono non solo avendo riguardo ai fini sociali ma anche a quelli ambientali. Sul tema, G. Santini, Costituzione e ambiente: la riforma degli artt. 9 e 41 Cost., in Forum di Quaderni costituzionali, 2021, 460 ss.; M. Cecchetti, La revisione degli articoli 9 e 41 della Costituzione e il valore costituzionale dell’ambiente: tra rischi scongiurati, qualche virtuosità (anche) innovativa e molte lacune, ivi, 285 ss.; sul tema mi permetto anche di richiamare G. Ballerini, Spunti problematici su sostenibilità, modifiche alla Costituzione italiana e Proposta di Direttiva europea sulla dovuta diligenza, in Studium Iuris, 2022, 999 ss.
[107] In effetti, varrà sottolineare che, secondo una parte della dottrina, il comma in questione non si porrebbe in termini unitari, in quanto i limiti rappresentati dalla «sicurezza», «libertà» e «dignità umana» (e, ora, «salute» e «ambiente») di cui alla seconda parte dello stesso potrebbero considerarsi, a differenza del limite dell’«utilità sociale», di immediata precettività (in questo senso cfr. A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali. Parte speciale, Padova, Cedam, 1992, 483 ss.). Con specifico riferimento al limite dell’«utilità sociale», riteneva che la norma avesse efficacia programmatica «che di per sé non produce effetto rispetto ai privati operatori economici» già G. Minervini, Contro la «funzionalizzazione» dell’impresa privata, in Riv. dir. civ., 1958, I, 621; conforme, P. Marchetti, Boicottaggio e rifiuto di contrattare, Padova, Cedam, 1969, 91 ss. Nel senso che l’art. 41, secondo comma, Cost. «non è e non può essere, in alcun modo, ritenuta programmatica, perché essa ha contenuto precettivo nel più rigoroso significato del termine», U. Natoli, Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro, I, Introduzione, Milano, Giuffrè, 1955, 97. Nel senso del riconoscimento dell’esistenza di una riserva di legge implicita con riferimento all’intero secondo comma dell’art. 41 Cost. sembra comunque orientata la maggioranza della dottrina (in argomento, cfr. R. Niro, sub art. 41, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Torino, Utet, 2006, 853 s.). Ma si veda, di recente, M. Libertini, Gestione “sostenibile” delle imprese e limiti alla discrezionalità imprenditoriale, in Contr. impr., 2023, 72 s., il quale osserva che «la riserva di legge è espressamente prevista nel terzo comma dell’art. 41, che si riferisce alle regolazioni e programmazioni pubbliche dei mercati, ma non è sancita espressamente nel secondo comma, che pone limiti di principio alla libertà d’impresa»; più avanti nel testo (77), l’Autore rileva anche, tuttavia, che «[l’]efficacia immediata dei limiti di cui all’art. 41, comma 2, Cost., per quanto già riconoscibile de iure condito, presenta dunque limiti operativi notevoli» (enfasi aggiunta).
[108] Al riguardo, si veda però la lettura di S.A. Cerrato, (nt. 16), 255 ss., spec. 261, il quale argomenta che dall’art. 2 Cost., «filtrato attraverso il disposto dell’art. 41 Cost. e i doveri generali di buona fede e correttezza», è possibile desumere un dovere di solidarietà suscettibile di incidere «direttamente sulle scelte imprenditoriali», e cioè un dovere «di orientare il proprio agire secondo logiche di proporzionalità, ragionevolezza e bilanciamento fra il proprio interesse individuale ed egoistico e quello di coloro che, anche in prospettiva futura […], possano subire gli effetti delle iniziative intraprese. E questo anche a prescindere dall’esistenza di norme puntuali come quelle in materia di ambiente e acqua, tenuto conto dell’ampiamente condivisa affermazione della diretta applicabilità dei precetti costituzionali (artt. 2 e 41 Cost.) nei rapporti fra privati di cui si diceva» (enfasi nel testo).
[109] In argomento cfr. E. Ricciardiello, (nt. 3), 64. Sulle implicazioni di sistema del nuovo art. 2086 c.c. cfr. anche la ricostruzione di E. Ginevra, C. Presciani, Il dovere di istituire assetti adeguati ex art. 2086 c.c., in Nuove leggi civ. comm., 2019, 1210 ss. In particolare, secondo E. Ginevra, ivi, 1224 ss., spec. 1225 s. e nota 45: «il fine ultimo dell’obbligo di istituzione di assetti adeguati deve essere ricercato, non nell’efficiente esecuzione da parte dei gestori dell’incarico di conseguimento di un lucro, bensì nella protezione dell’affidamento del mercato nell’organizzazione d’impresa, affinché questa non assuma rischi superiori a quelli giustificati dall’attività svolta. In una parola, potrebbe dirsi che il valore protetto è la sostenibilità dell’impresa».
[110] D. Galletti, Sulla gerarchia, (nt. 102), 265 s.
[111] E ciò proprio in virtù del fatto che, alla luce di questa norma, gli assetti devono essere funzionali (non solo al perseguimento degli interessi dei soci ex latere debitoris in base alla natura e alle dimensioni dell’impresa, ma) «anche» alla «rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale» in un’ottica, evidentemente, di tutela degli interessi dei creditori. Mi pare che questa sia l’impostazione seguita da V. Pinto, (nt. 5), 264 ss. («l’aspetto di più immediato rilievo sistematico risiede nell’inserimento del “fattore crisi” – inteso non come situazione in atto, ma come mera eventualità futura – fra i valori ordinanti la conformazione della disciplina dei tipi sociali: un ulteriore punto di emersione sul piano organizzativo degli interessi indisponibili dei creditori sociali», 267, enfasi nel testo).
[112] Illustrati al § 5.2 di questo lavoro.
[113] Sul punto cfr. anche D. Galletti, Sulla gerarchia, (nt. 102), 262.
[114] Cfr. il § 5.1 di questo lavoro.
[115] Su questi due concetti si veda, tra i molti, G. Terranova, Le procedure concorsuali, Torino, Giappichelli, 2019, 349 ss. In realtà, al fine del discorso che si sta svolgendo, la distinzione fra crisi e insolvenza non appare rilevante. Ciò che rileva, infatti, è che, in presenza di uno stato di crisi o di insolvenza, si verifica una disfunzione del rapporto obbligatorio, il cui effetto è la “modifica” dei diritti dei creditori (o di parte di essi). In questa prospettiva, se viene richiesta e imposta ai creditori, senza il loro consenso, una falcidia o una modificazione dei loro diritti, sembra che le garanzie tipiche del nostro ordinamento giuridico ed in particolare quelle connesse al sistema della responsabilità patrimoniale del debitore debbano entrare in gioco (a prescindere dal fatto che il debitore si trovi in stato di crisi o di insolvenza). In altre parole, l’applicazione di certe regole e di certe garanzie non sembra poter dipendere e variare a seconda che il debitore si trovi in stato di crisi o di insolvenza, ma a seconda delle conseguenze di una certa procedura per i creditori. Questa è anche la ragione per la quale sembra ragionevole concordare con quella parte della dottrina che ha sottolineato, con riguardo alla direttiva Restructuring, che, ancorché quest’ultima faccia riferimento ai quadri di ristrutturazione “preventiva” (cioè quadri che dovrebbero “prevenire” l’insolvenza), essa non si ponga per ciò solo al di fuori del diritto della crisi. Per l’opinione che la direttiva propone essenzialmente una procedura di insolvenza simile al Chapter 11, ma “troncata”, e non un quadro di ristrutturazione preventiva, si veda H. Eidenmüller, Contracting for a European Insolvency Regime, in 18 EBOR, 2017, 273, 286; N. Tollenaar, The European Commission’s Proposal for a Directive on Preventive Restructuring Proceedings, in 30 Insolvency Intelligence, 2017, 65 s. sottolinea il carattere schizofrenico della direttiva.
[116] G. Ferri jr, Impresa in crisi e garanzia patrimoniale, in Diritto fallimentare, Milano, Giuffrè, 2013, 33.
[117] Su questa operazione si vedano, ad esempio, C.F. Giampaolino, Conservazione dell’azienda nelle procedure e valori apicali (con applicazioni su debt equity swap e scioglimento dei contratti nel concordato), in Le crisi d’impresa e del consumatore dopo il d.l. 118/2021, a cura di S. Ambrosini, Bologna, Zanichelli, 2021, 235 ss., spec. 241 ss.; P. de Gioia Carabellese, Bail-in, diritti dei creditori e costituzione italiana, in Giur. comm., 2020, I, 944 ss.; G. Di Cecco, La conversione concordataria dei debiti in capitale di rischio: tre riflessioni (ed altrettante proposte) sulle peculiarità della disciplina applicabile alle operazioni di debt to equity swap, in Aa.Vv., Crisi e insolvenza. Scritti in ricordo di Michele Sandulli, Torino, Giappichelli, 2019, 259 ss.; L. M. del Majno, Brevi note sulla datio in solutum nel concordato preventivo, anche alla luce del nuovo codice della crisi di impresa, in Fallimento, 2019, 579 ss.; M. Sagliocca, La conversione dei crediti delle banche in strumenti di quasi capitale quale strategia societaria per le ristrutturazioni del debito, in Riv. soc., 2018, 360 ss.; G. Trimarchi, La ricapitalizzazione delle società (di capitali) in crisi e disciplina del concordato preventivo, in NDS, 2018, 1663 ss.; G. D’Attorre, Gli strumenti finanziari partecipativi nella crisi d’impresa, in Dir. fall., 2017, 329 ss.; Id., L’attribuzione ai creditori di partecipazioni sociali tra par condicio creditorum e principio di eguaglianza tra soci, in Riv. soc., 2011, 852 ss.; T. Ariani, La risoluzione del concordato preventivo con attribuzione di azioni, in RDS, 2016, 882 ss.; G.L. Carriero, Crisi bancarie, tutela del risparmio, rischio sistemico, in AGE, 2016, II, 369 ss., spec. 395; L. Salvato, Questioni in tema di conversione del credito in capitale di rischio nel concordato preventivo, in Fallimento, 2015, 62 ss.; G. Guizzi, Riorganizzazione della società in crisi, trasferimento del controllo e disciplina del mercato societario, in Riv. dir. comm., 2012, II, 263 ss.; F. Fimmanò, L’allocazione efficiente dell’impresa in crisi mediante la trasformazione dei creditori in soci, in Riv. soc., 2010, 57 ss.; anche in una prospettiva comparata, cfr. F. Bruno, P. Castagna, La conversione dei crediti bancari in capitale di rischio (debt for equity swap) nell’ambito del restructuring in Italia, Germania e UK, in Società, 2015, 279 ss.; E. Gandia, Aumento di capitale mediante compensazione di crediti nel diritto spagnolo, in Giur. comm., 2014, I, 552 ss.
[118] R. Provinciali, G. Ragusa Maggiore, (nt. 84), 21; G. Rojas Elgueta, Autonomia privata e responsabilità patrimoniale del debitore, Milano, Giuffrè, 2012, 5.
[119] In argomento cfr. G. Sicchiero, La responsabilità patrimoniale, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, Utet, 2011, 1 ss., spec. 23 ss.; V. Roppo, voce Responsabilità patrimoniale, in Enc. dir., XXXIX, Milano, Giuffrè, 1988, 1041 ss.
[120] Cfr., ad es., G. D’Attorre, La distribuzione del patrimonio del debitore tra absolute priority rule e relative priority rule, in Fallimento., 2020, 1077 ss.; I. Donati, (nt. 91), 263 ss.; in particolare, quest’ultima dottrina (cfr. I. Donati, (nt. 22), 164 ss.) suddivide le «procedure di insolvenza» in (i) «procedure concorsuali liquidatorie», che si pongono «come un adattamento delle procedure esecutive individuali rispetto al fenomeno dell’inadempimento dell’imprenditore commerciale» (166) in chiave di attuazione della responsabilità patrimoniale del debitore; (ii) «meccanismi alternativi di regolazione della crisi d’impresa», rispetto ai quali si assiste ad un’«eclissi della responsabilità patrimoniale» (167), a loro volta suddivisi in (ii.1) «meccanismi alternativi “puramente consensuali” (piano di risanamento attestato e accordo di ristrutturazione)», caratterizzati dall’abbandono «pressoché completo» della prospettiva dell’attuazione della responsabilità patrimoniale, e (ii.2) «meccanismi [alternativi] “ad efficacia estesa” […] (principalmente, accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa e concordato preventivo)», rispetto ai quali «i principi posti dagli artt. 2740 e 2741 riaffiorano al fine di definire la cornice entro la quale deve collocarsi il trattamento imposto ai creditori non aderenti» (167, nota 7). A parte le questioni classificatorie, non sembra emergere il motivo per il quale, a fronte della disfunzione del rapporto obbligatorio, alcune procedure (quelle che vengono denominate «procedure concorsuali liquidatorie») avrebbero la funzione di attuare la responsabilità patrimoniale del debitore, mentre altre («meccanismi alternativi di regolazione della crisi d’impresa») si porrebbero come “alternative” all’attuazione della responsabilità patrimoniale stessa. A me pare, invece, che, dal momento che il presupposto comune a tutte queste procedure è e rimane la disfunzione del rapporto obbligatorio, si tratti sempre di attuare la responsabilità patrimoniale del debitore e, così, realizzare il diritto (e l’interesse) del creditore al soddisfacimento della sua pretesa. Ciò che davvero cambia fra tutte queste procedure non sembra essere la funzione di sistema (attuazione della responsabilità patrimoniale del debitore), che è sempre la stessa, ma la tecnica utilizzata per realizzare detta funzione. In alcune procedure (ad esempio, il concordato preventivo, il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, gli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa, ecc.), infatti, si è scelto di affidare la realizzazione della funzione di attuazione della responsabilità patrimoniale del debitore alla tecnica dell’autonomia, e nello specifico a quella delle decisioni maggioritarie (almeno all’interno delle singole classi), con tutte le conseguenze che l’utilizzo di tale paradigma ha sul piano della disciplina. Ciò, però, non sembra significare che, al mutare della tecnica utilizzata per realizzare la funzione di sistema di attuazione della responsabilità patrimoniale del debitore, mutino anche i principi e l’assetto di interessi di riferimento. In materia, si consideri poi l’orientamento di G. Ferri jr, Autonomia delle masse e trasferimenti di risorse nel concordato preventivo di gruppo, in Corr. giur., 2020, 294 s., il quale, per quanto riguarda l’ordinamento italiano ed in particolare la collocazione sistematica del concordato preventivo, ritiene che esso non rientri fra le procedure esecutive attuative della responsabilità patrimoniale del debitore, ma, piuttosto, che sia una «forma di ristrutturazione del passivo concordata con la maggioranza dei creditori». Parla di «insufficienza di una “lettura” del concordato in continuità nella sola prospettiva dell’attuazione della responsabilità patrimoniale», ritenendo che «l’attuazione della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c. non è il tratto esclusivamente qualificante il concordato in continuità», G. Lener, Crisi d’impresa e regole di distribuzione del patrimonio, in Aa.Vv., Per i cento anni dalla nascita di Renato Scognamiglio, I, Napoli, Jovene, 2022, 567 s.
[121] Per alcuni spunti nel senso della non condivisibilità delle conclusioni cui pervengono queste teorie mi permetto di richiamare G. Ballerini, Art. 160, comma 2°, l. fall. (art. 85 c.c.i.i.), surplus concordatario e soddisfazione dei creditori privilegiati nel concordato preventivo, in Nuove leggi civ. comm., 2021, 421 ss.
[122] G. D’Attorre, (nt. 120), 1079, che conclude nel senso che, nei concordati con continuità diretta, «il c.d. “plusvalore” da concordato deve considerarsi sottratto all’osservanza dell’ordine delle cause di prelazione, potendo essere ripartito liberamente tra i creditori (ed anche in favore del debitore)» (enfasi aggiunta).
[123] Cfr. ad esempio le norme citate alla nota 51.
[124] D. Galletti, Una postilla, (nt. 102), 261.
[125] La norma, infatti, prevede che «quando, nel corso della composizione negoziata, risulta che l’imprenditore è insolvente ma esistono concrete prospettive di risanamento, lo stesso gestisce l’impresa nel prevalente interesse dei creditori» (enfasi aggiunta).
[126] D. Galletti, Una postilla, (nt. 102), 269.
[127] D. Galletti, Una postilla, (nt. 102), 269. Sulla circostanza che all’art. 16, quarto comma, c.c.i.i. – e, sembrerebbe, in generale ad ogni norma che fa riferimento al fatto che gli interessi dei creditori non debbano essere pregiudicati ingiustamente – non sembra potersi attribuire un significato tale da modificare la ricostruzione sistematica della gerarchia fra gli interessi tutelati cfr., sempre, D. Galletti, Una postilla, (nt. 102), 269 s.
[128] Sul tema cfr. ad es. Ant. Rossi, (nt. 25), 637 ss.