L’esistenza del diritto dell’imprenditore commerciale insolvente di fallire è sempre stata una questione molto dibattuta. Si è parlato, per lo più, dell’obbligo dell’imprenditore di richiedere l’apertura della procedura e poco, e male, dell’esistenza del diritto.
In realtà, attraverso l’esame critico degli argomenti contrari ed alcuni dati significativi emergeva già in passato come l’imprenditore commerciale, in caso d’insolvenza, avesse un vero e proprio diritto di far cessare l’iniziativa e fallire.
Questa soluzione risulta confermata anche sotto il vigore del recente codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Qui sono stati accentuati gli obblighi dell’imprenditore di attivazione in presenza della crisi, al fine di evitare la nascita dell’insolvenza. Qualora, però, egli non vi riesca, ragioni di equilibrio del sistema inducono a ritenere che gli vada riconosciuto il diritto di imporre la liquidazione giudiziale a tutti e, così, porre termine all’iniziativa e liberarsi dai debiti.
Il lavoro termina con un’analisi delle conseguenze pratiche del riconoscimento di questo diritto di ottenere la liquidazione giudiziale.
The existence of a commercial entrepreneur's right to go bankrupt has always been a debated issue. Whereas the entrepreneur's obligation to apply for the proceeding is a largely investigated topic, literature on the existence of such a right is limited and relatively poor. But in actual fact, already in the past, a true and proper right to cease operations and to go bankrupt in the event of insolvency emerged from the critical analysis of the counter-arguments, and some meaningful data.
The recent “Business Crisis and Insolvency Code” confirmed such an approach, while heightening the entrepreneur’s obligations to take action, when in crisis, in order to avoid insolvency. In the case he fails, however, his right to enforce the judicial liquidation, as to cease operations and get out of debt, should be recognised against everyone, for the sake of the balance of the system.
This paper concludes with the analysis of the concrete implications of recognising the entrepreneur’s right to obtain the judicial liquidation.
1. Su taluni aspetti preliminari. - 2. Sulle teorie che negavano l’esistenza del diritto dell’imprenditore di fallire e sull’insufficienza delle argomentazioni. - 3. Sulle ragioni del riconoscimento del diritto dell’imprenditore all’apertura della procedura: gli obiettivi di liberazione dai debiti e di cessazione dell’attività. - 4. Sulle esperienze straniere. - 5. Sulle ragioni del riconoscimento del diritto di essere liquidato dell’imprenditore: l’esigenza di equilibrio del sistema, tra obbligo di salvataggio e diritto di cessare. - 6. Su alcune conseguenze del riconoscimento del diritto di essere liquidato: il reclamo contro la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale e quello contro il provvedimento che nega la liquidazione giudiziale. - NOTE
L’esistenza del diritto di fallire è sempre stata una questione molto dibattuta [1]. Si è detto, per lo più, che il debitore non avrebbe alcun diritto di fallire [2]. Le motivazioni di quest’affermazione, tuttavia, appaiono spesso tralatizie. Il dibattito, pur presente in molte trattazioni, non è mai decollato e, sinceramente, non ha trovato una soluzione definitiva e soddisfacente. L’evoluzione che ha subito il sistema concorsuale, e gli odierni equilibri che lo regolano, spingono verso una rivisitazione del punto, anche in relazione all’attuale operatività del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14). Da oggi, peraltro, non si dovrà parlare più di diritto di fallire, ma di diritto alla liquidazione giudiziale, oppure di diritto di essere liquidato [3]. Per quanto possa apparire a prima vista démodé, il tema è, invece, di forte impatto. Si tratta di una questione non meramente terminologica o astratta, ma che coinvolge alcuni aspetti di vertice del diritto concorsuale che toccano l’imprenditore, quali, ad esempio, il potere di disporre dell’impresa, la facoltà di regolare l’insolvenza, la liberazione dalle obbligazioni, la responsabilità penale [4]. Ed è ipotizzabile che alcuni snodi ordinari della procedura di liquidazione giudiziale possano essere messi in discussione. Nel senso che vi potrebbe essere qualche cambiamento, qualora tutto nasca in virtù dell’esercizio di un diritto del debitore e la liquidazione giudiziale perda il carattere coattivo e diventi una procedura volontaria [5]. Il punto da cui partire, naturalmente, non può che essere il dato giuridico. Nel recente passato, com’è noto, l’apertura del fallimento poteva avvenire su iniziativa di vari soggetti: il debitore, uno o più creditori, oppure il pubblico ministero (art. 6, primo comma, l. fall. ed oggi art. 37, secondo comma, c.c.i.i.). Non vi era più l’eventualità che il fallimento si aprisse d’ufficio [6]. E questo è un fatto che si vedrà tra poco assume un certo rilievo nel discorso. Va osservato, sempre in via preliminare, come la presenza dell’iniziativa plurima rappresentasse un chiaro segnale dell’obiettivo di agevolare l’apertura della [...]
Per fare chiarezza sull’argomento, naturalmente, è necessario partire dall’esame delle teorie che in passato negavano l’esistenza del diritto dell’imprenditore di fallire e degli argomenti che le sostenevano. Secondo alcuni non sarebbe mai esistito un diritto sostanziale del debitore, ma solo la sua legittimazione finalizzata ad ottenere la dichiarazione di fallimento [34]. Si sarebbe trattato di una posizione, un po’ evanescente, non condizionante per il tribunale, che in qualche modo sarebbe stato libero di accogliere la richiesta o respingerla. L’opinione, che è priva di reali supporti, avrebbe potuto avere un minimo di logica in presenza della dichiarazione d’ufficio, ma, da quando quest’ultima è stata soppressa, è rimasta senza fondamento [35]. Si aggiunga che essa appare mal posta. È evidente che o il diritto esiste, com’è dimostrato dalla legittimazione conferita al debitore, oppure il diritto non esiste, ed allora occorre dimostrare perché a lui è attribuita la legittimazione. Ed è chiaro che, se i presupposti di legge erano presenti, risultava alquanto difficile sostenere che il tribunale fosse libero di non dichiarare il fallimento. Di rincalzo, vi era chi affermava che non sarebbe esistito alcun diritto sostanziale del debitore perché sarebbe mancato il soggetto tenuto a soddisfarlo [36]. In realtà, sembra che la questione, così impostata, venga inquadrata erroneamente sul piano dei diritti relativi. E cioè di quelle situazioni che vedono contrapposti il titolare ed un soggetto passivo che è tenuto ad adempiere a qualcosa. La qualificazione a cui bisogna far riferimento quando si parla di diritto di fallire (o di essere liquidato), invece, non è questa. Appare evidente che nel nostro caso ci si muove nell’ambito dei diritti assoluti. Di quelle situazioni soggettive, cioè, in cui vi è una comunità indistinta di soggetti che è tenuta a subire le conseguenze derivanti dall’esercizio del diritto del titolare. Ed è quanto accade, appunto, allorché l’imprenditore sia in grado di imporre a tutti, creditori e terzi, l’apertura della procedura. Sempre nell’ambito delle teorie negazioniste vi era chi sosteneva che l’imprenditore fosse privo del diritto di fallire, e la legittimazione [...]
Con grande autorevolezza in passato, parlando appunto dell’apertura del fallimento su iniziativa dell’imprenditore, si è avuto cura di precisare che l’utilizzo della procedura, prima ancora di essere un obbligo, è un diritto dell’imprenditore [58]. Attraverso la propria dichiarazione quest’ultimo assume volontariamente (adde: senza essere necessariamente spinto a farlo) una posizione ben netta e decisa di fronte ai suoi creditori, «e mette in sostanza i suoi beni in liquidazione giudiziaria per soddisfarli» [59]. Proprio partendo da questo avvertimento è bene indagare su cosa significhi in concreto tutto ciò, e quali siano i punti principali sui quali è oggi possibile ribadire tale posizione. Per mantenere un certo ordine logico è utile dire che l’esistenza del diritto la si coglie, soprattutto, su due piani: quello delle obbligazioni e quello dell’impresa. Quanto al piano delle obbligazioni si sosteneva in epoca non recente, con dovizia di argomenti, che il diritto dell’imprenditore insolvente di fallire si sarebbe basato sul diritto di adempiere alle proprie obbligazioni. Si sarebbe trattato di un diritto, quello di adempiere (art. 1206 c.c.), di pari dignità rispetto a quello dei creditori ad essere pagati (art. 1218 c.c.). Esso si sarebbe fondato sul fatto che al debitore andasse riconosciuta sempre la libertà di sgravarsi dal peso dei propri debiti. Lo strumento in mano al debitore per porre in essere concretamente questa liberazione, senza la cooperazione dei creditori, sarebbe stato, appunto, quello di realizzare la liquidazione dei beni e la ripartizione del ricavato tra questi ultimi, così eliminando i debiti almeno per la parte pagata [60]. Il che corrispondeva, in buona sostanza, alla finalità satisfattiva del fallimento, ed oggi della liquidazione giudiziale [61]. Si comprende, così, perché, come già accennato, questa modalità di apertura del fallimento venisse collegata storicamente alla cessione dei beni ai creditori (art. 1977 ss., c.c.) [62]. Anch’essa conduce, attraverso la liquidazione dei beni, al soddisfacimento dei creditori ed alla liberazione del debitore (art. 1984 c.c.), pur se necessita, in verità, dell’accordo coi creditori. E l’importanza del fatto che tutto partisse dall’iniziativa del debitore è [...]
Uno sguardo oltre frontiera può essere utile a comprendere come vanno le cose negli altri paesi. In Francia, ad esempio, l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento è riconosciuta all’imprenditore, oltre che ai creditori, al pubblico ministero (o un terzo interessato) [103]. Quando ad agire è l’imprenditore, però, la procedura è velocizzata e dal 1 maggio 2018 parte attraverso una denuncia effettuata attraverso il sito web REGSOL. Il che pone quest’ultimo su di un piano diverso rispetto agli altri legittimati. L’iniziativa del debitore viene legata all’interesse di quest’ultimo ad ottenere l’esdebitazione («effacement de la dette») che è presente nell’ordinamento sin dal 1985 (art. 169 loi du 25 janvier 1985 di ispirazione nordamericana) [104]. E che ha avuto un’evoluzione nel 2004 con la procédure de rétablissement professionnel (per quanto l’ambito di applicazione fosse limitato ed il suo impiego sia risultato marginale). L’assetto è simile in Belgio, dov’è riconosciuto al debitore questo diritto da esercitarsi entro un mese dallo stato di cessazione dei pagamenti (art. XX.102, Code de droit économique) [105]. Ed anzi, egli è tenuto ad attivarsi se non vuole incorrere in un reato (art. 489 bis, n. 4°, Code penal) [106]. Lo stesso regime si riscontra in Lussemburgo, dov’è previsto che una società possa essere dichiarata insolvente su iniziativa dei suoi amministratori (art. 442 Code de commerce) [107]. In Germania l’apertura del procedimento concorsuale avviene solo su istanza del debitore o dei creditori (§ 13, primo comma, Insolvenzordnung) [108]. Al contempo vi è un obbligo dei componenti degli organi amministrativi e di controllo delle società di richiedere l’apertura della procedura in caso di sbilancio patrimoniale [109]. Si osservi che in Germania l’iniziativa del debitore può essere anticipata ad un momento antecedente l’emersione dell’insolvenza, in un’ottica di prevenzione. Quest’ultimo, infatti, potrà chiedere l’apertura della procedura anche in presenza del rischio d’insolvenza, che è identificato come quella situazione per cui è prevedibile che non ci sia più la possibilità, alla scadenza, [...]
Al di là di quanto finora posto in luce, vi è un ulteriore argomento che porta a ritenere che la posizione del debitore rispetto alla propria procedura concorsuale vada configurata in termini di diritto. Il punto da cui partire è il mutato clima che negli ultimi anni si è venuto a creare nel nostro paese, che fa emergere l’esigenza che via siano dei contrappesi affinché si giunga ad uno stabile equilibrio del sistema concorsuale tale da permettere che tutto possa funzionare. Cosa significa equilibrio del sistema? È bene procedere con ordine. Da tempo, ormai, è radicata intorno all’impresa l’idea della prevenzione dell’insolvenza. Nel senso che quando questa si trova in situazione di crisi bisogna intervenire con tempestività per prevenire l’insolvenza ed evitare la dispersione di ricchezza [124]. Ne è dimostrazione il crescente utilizzo del termine crisi (o di suoi equipollenti), e la sua configurazione quale probabilità d’insolvenza [125]. Significativa di quanto la prevenzione sia divenuta il punto focale della vita dell’impresa è l’imposizione all’imprenditore societario dell’istituzione di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato, finalizzato (anche) alla rilevazione tempestiva della crisi (art. 2086, secondo comma, c.c.); imposizione realizzata anche per l’imprenditore individuale, seppur nella forma meno strutturata dell’adozione di misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi (art. 3, primo comma, c.c.i.i.) [126]. Si tratta, in effetti, di due distinti obblighi, che potremmo definire di primo livello: l’uno è quello di istituire un assetto adeguato (obbligo-mezzo); l’altro è quello di rilevare tempestivamente la crisi (obbligo-fine). In sintesi l’obiettivo è quello di far emergere subito la crisi, individuando così il quando dell’intervento. Entrambe le previsioni, poi, sono volte a rendere maggiormente concreti altri due specifici obblighi posti a carico dell’imprenditore, questa volta di secondo livello. Essi sono quello di attivarsi senza indugio usando uno degli strumenti di regolazione della crisi (obbligo-mezzo) [127]; e quello di superare la crisi e tentare di salvare l’impresa (obbligo-fine) (art. 2086, secondo comma, c.c.; in termini sostanzialmente [...]
Qualche breve riflessione va fatta, infine, anche con riguardo ad alcune delle conseguenze derivanti dal riconoscimento di questo diritto di essere liquidato dell’imprenditore. Per prima cosa, va osservato che, trattandosi di un normale diritto, può essere riconosciuta all’imprenditore la facoltà di ritirare il ricorso quando vuole a suo insindacabile giudizio [143]. Ed inoltre, sembra da ritenere valido il patto con cui egli si impegni preventivamente a non presentare mai un ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale. Questo patto potrebbe apparire in contrasto con la fattispecie che il reato di bancarotta semplice (art. 323, primo comma, lett. d), c.c.i.i. ed in precedenza art. 271, primo comma, n. 4, l. fall.) tende ad evitare quando l’imprenditore si è astenuto dal richiedere l’apertura della procedura. Va osservato, tuttavia, che i due profili si pongono su piani diversi. Non esiste, come già visto (par. 2), uno specifico dovere di sottoporsi alla liquidazione giudiziaria. Esiste un dovere di non aggravare il dissesto. Ne deriva, quindi, che la rinuncia preventiva al diritto di richiedere l’apertura della procedura non tocca l’aggravamento del dissesto e, quindi, non rende illecito l’accordo. Sul piano strutturale, poi, va detto che, come già visto, non vi è alcuna alterazione della fase istruttoria che precede la dichiarazione di apertura della procedura [144]. L’imprenditore sarà tenuto a dimostrare l’esistenza di entrambi i presupposti di legge. Qualcosa cambia, invece, dopo la pronuncia, essendosi al cospetto di una procedura volontaria. Da quel momento in poi è possibile, com’è noto, il reclamo contro la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale (art. 51, primo comma, c.c.i.i. e prima art. 18, primo comma, l. fall.). Tale facoltà era concessa nella vecchia disciplina al debitore ed a qualunque interessato [145]. La nuova disposizione, invece, parla espressamente di «parti» e tra queste è da ricomprendere ovviamente il debitore che rappresenta il naturale contraddittore nell’ipotesi più frequente, che è quella in cui l’iniziativa parta dal creditore. Egli cerca di evitare, attraverso il reclamo, la propria liquidazione giudiziale. È evidente, tuttavia, che il debitore non è più contraddittore quando la [...]