Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeISSN 2282-667X
G. Giappichelli Editore

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Il patrimonio tra unità e segmentazioni nell'ottica del giuscommercialista (nel ventesimo compleanno dei patrimoni destinati ad uno specifico affare) (di Renato Santagata, Professore ordinario di diritto commerciale, Università di Napoli Parthenope)


Premessa una sintetica classificazione delle molteplici fattispecie di patrimoni separati contemplate dalla c.d. “legislazione commerciale” per il perseguimento di funzioni economiche eterogenee, l’occasione celebrativa del codice civile ha suggerito di concentrare l’ana­lisi sui patrimoni destinati ad uno specifico affare ivi regolati. L'indagine mira ad evidenziare l’influenza di taluni princìpi, ricavabili dalla disciplina del codice civile, su importanti figure di patrimoni destinati previste dalla legislazione speciale degli ultimi anni (c.d. “patrimoni destinati legali”): fattispecie che ne attestano l’attuale funzione, nelle società pubbliche, di assicurare una contestuale gestione di una pluralità di iniziative economiche, in regime di separazione patrimoniale c.d. reale, da parte di un veicolo “di appoggio” già noto e dotato di una certa credibilità e reputazione sul mercato, in guisa da favorire l’au­spicata e prescritta azionalizzazione delle partecipazioni pubbliche. Nel contempo, lo scritto mette in luce l’indubbia rilevanza sistematica dei patrimoni destinati ad uno specifico affare nel diritto dell'impresa al lume del confronto con alcune significative esperienze comparatistiche.

Asset partitioning in a business law perspective

Given a brief classification of the multiple cases of “assets partitioning” contemplated by the so-called “commercial legislation” for the pursuit of heterogeneous economic functions, the celebratory occasion of the civil code has suggested to focus the analysis on the “assets partitioning” for a specific business regulated therein. The investigation aims to highlight the influence of certain principles, obtainable from the civil code rules, on important figures of the recent years’ special legislation (so-called “legal assets partitioning”): cases that attest to the current function, in public companies, of ensuring a multiple business simultaneous management, so as to favour the desired and prescribed public shareholdings rationalization. At the same time, the paper highlights the systematic relevance of “assets partitioning” for a specific business law deal in light of the comparison with some significant foreign experiences.

Sommario/Summary:

1. Delimitazione del perimetro dell’indagine. - 2. Patrimoni destinati ad uno «specifico affare» e rilievo dell’attività d’impresa. - 3. La classificazione delle fattispecie di patrimoni destinati “legali” e le loro nuove funzioni nelle imprese pubbliche e nella gestione dei crediti deteriorati. - 4. Possibili ragioni dell’insuccesso dei patrimoni destinati di diritto comune alla luce del confronto con l’alternativa tecnica di limitazione del rischio d’impresa. - 5. L’attuale rilievo sistematico dei patrimoni destinati al lume delle e­sperienze comparatistiche. - 6. (segue). Conseguenze sulla qualificazione giuridica del passaggio da impresa individuale a società unipersonale nel nostro ordinamento. - 7. (segue). Patrimoni destinati e regole di imputazione dell’attività d’im­presa. - 8. Rilievo dell’attività nei patrimoni destinati societari e conseguente configurabilità di rapporti intergestori. - 9. Una (banale) metafora. - NOTE


1. Delimitazione del perimetro dell’indagine.

L’invito a rivisitare il “fenomeno” della destinazione patrimoniale in occasione delle celebrazioni per l’ottuagenario del codice civile richiede, nel­l’ottica del giuscommercialista, una preliminare delimitazione del perimetro della riflessione. La legislazione “commerciale” contempla una molteplicità di figure di «patrimoni autonomi», «separati» o «destinati», permeate da funzioni ed interessi eterogenei e, perciò, insuscettibili di inquadramento giuridico unitario. Riprendendo una loro condivisa classificazione può assumersi che, su un primo versante, si collocano fattispecie di separazione c.d. “statica”, la cui finalità risiede nell’esclusione della commistione tra diverse sfere giuridiche di appartenenza, al fine di preservare beni di altri soggetti affidati in gestione ad un terzo dalle potenziali azioni dei creditori di quest’ultimo; fattispecie, queste, nelle quali non viene a realizzarsi un vero e proprio superamento del principio della unicità ed universalità di un patrimonio di cui una società abbia la titolarità sia formale che sostanziale. Possono enuclearsi in questo gruppo, a mo’ di esempio e senza pretesa di completezza: a) il «patrimonio autonomo» costituito dai fondi comuni di investimento e dai loro «comparti» (art. 36, quarto comma, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, d’ora in poi citato t.u.f.), di cui la SGR non ha la proprietà sostanziale, assumendo soltanto la funzione di gestione e la veste di intestataria fiduciaria (art. 22 t.u.f.) [1]; b) la «separazione patrimoniale» prevista per i servizi di investimento, che trova ragione nell’e­sigenza di non confondere gli strumenti finanziari e le somme di danaro di pertinenza di terzi con quelli dell’intermediario e di altri risparmiatori [2]; c) il «patrimonio separato» costituito dai crediti (dai relativi incassi e dalle attività finanziarie acquistate con i medesimi) nel contesto di operazioni di cartolarizzazione “tradizionale” (art. 3, primo comma, l. 30 aprile 1999, n. 130), su cui è impresso un vincolo funzionale ad isolare il flusso di liquidità che il relativo incasso è in grado di generare per destinarlo in via esclusiva al rimborso dei titoli emessi, alla corresponsione degli interessi [...]


2. Patrimoni destinati ad uno «specifico affare» e rilievo dell’attività d’impresa.

Così indirizzato il discorso che segue, per entrare nel vivo è necessario qualche sintetico cenno alla funzione dei patrimoni destinati ad uno specifico affare concepita dal legislatore storico. È noto che le due figure di patrimonio destinato previste dall’art. 2447-bis c.c. costituiscono un fenomeno essenzialmente negoziale volto alla promozione del finanziamento della società per azioni [6]: ad onta della radicale diversità di disciplina, i due modelli di destinazione patrimoniale di diritto societario condividono la caratteristica della strumentalità del patrimonio al perseguimento di una operazione economica puntualmente identificata (esemplare il riferimento letterale allo «specifico affare» che compare nella definizione di entrambe le figure: artt. 2447-bis, lett. a e b, 2447-decies c.c.) [7], pur nella diversità di composizione del patrimonio separato, in un caso consistente nella parte dei beni vincolati ex ante dalla società per azioni al perseguimento di un dato fine produttivo (art. 2447-bis, primo comma, lett. a) e, nell’altro, nella somma dei valori conseguiti ex post nell’esercizio di quella specifica attività (art. 2447-bis, primo comma, lett. b). La particolare coesione e continuità generate dalla finalità qui impressa alla destinazione vale anche per il finanziamento ad uno specifico affare, caratterizzato dall’insistenza della garanzia non già su beni staticamente intesi, bensì sugli esiti economici di un’attività produttiva (i «proventi dell’affare»): con il corollario che la tutela del credito viene qui assicurata non tanto dai beni (presenti e futuri: art. 2740, primo comma) utilizzati dalla società nell’esercizio dell’impresa, quanto dalla loro redditività, così consacrandosi il passaggio ad un sistema di imputazione della responsabilità ad un patrimonio e non più ad un soggetto [8]. Ne consegue il rilievo centrale assunto dall’organizzazione deputata allo svolgimento dell’attività finanziata e dai suoi criteri di gestione, in quanto consentono il perseguimento di quel risultato economico (i «proventi dell’affare») che il legislatore ha elevato a tratto qualificante del contratto di finanziamento. In entrambe le fattispecie sussiste, in estrema sintesi, uno stretto legame fra [...]


3. La classificazione delle fattispecie di patrimoni destinati “legali” e le loro nuove funzioni nelle imprese pubbliche e nella gestione dei crediti deteriorati.

Ferma questa generale opzione di metodo, occorre registrare l’idoneità della disciplina recata dagli artt. 2447-bis ss. c.c. a porsi quale paradigma e modello ispiratore delle regole di altre fattispecie di separazione patrimoniale – peraltro non sempre dinamica – contemplate (nel codice civile e) nella legislazione speciale (ben più rilevanti nella prassi operativa) o, comunque, di taluni princìpi generali immanenti nella prima a colmare od a consentire la comprensione di importanti lacune delle seconde [9]. Il che potrebbe già costituire, di per sé, valido motivo per “celebrare” il ventesimo compleanno della disciplina comune dei patrimoni destinati ad uno specifico affare. Per tentare una dimostrazione anzitutto di quest’ultimo assunto, è da rilevare che, malgrado l’indiscutibile prevalenza delle regole speciali del patrimonio autonomo-OICR, il richiamo di alcuni «princìpi di sistema» esplicitati nella disciplina comune dei patrimoni destinati societari – quali, tra le altre, la menzione del vincolo (art. 2447-quinquies, quarto comma, c.c.), la pubblicità immobiliare (art. 2447-quinquies, secondo comma) [10] e talune regole contabili (art. 2447-septies, primo comma) – si riscontra, ad esempio, per regolare corrispondenti profili di imputazione degli effetti dell’attività del gestore e di contabilità di beni e di rapporti nelle Sicav e nelle Sicaf multicomparto: il «comparto» è del resto qualificato «patrimonio autonomo, distinto a tutti gli effetti da quello degli altri comparti» (art. 35-bis, sesto comma, t.u.f.) ed è funzionale ad offrire agli azionisti della Sicav e della Sicaf una più efficace diversificazione dei loro programmi e strategie di investimento. E questo richiamo pare vieppiù significativo stante l’esplicita esclusione dell’applicabi­lità agli organismi di investimento collettivo delle disposizioni in tema di patrimoni destinati di s.p.a. (per le Sicav: art. 35-quater, secondo comma; per le Sicaf, art. 35-quinquies, primo comma, t.u.f.) [11]: esonero che, ben lungi dal­l’impedire la trasponibilità ai «comparti» di princìpi immanenti al fenomeno destinatorio “dinamico”, sembra piuttosto trovare ragione nell’esclusività dell’oggetto sociale [...]


4. Possibili ragioni dell’insuccesso dei patrimoni destinati di diritto comune alla luce del confronto con l’alternativa tecnica di limitazione del rischio d’impresa.

Acquisito l’incontestabile valore paradigmatico della disciplina codicistica dei patrimoni destinati ad uno specifico affare per la definizione degli statuti speciali sopra citati, veniamo all’obiettivo palesato dal legislatore storico [21], consistente nella rimozione degli ostacoli di ordine formale alla titolarità, da parte di una medesima società, di più imprese o rami di un’azienda con distinta imputazione dei ricavi e delle perdite da ciascuna maturati (separazione patrimoniale con efficacia reale). È noto, infatti, che la fattispecie dei patrimoni destinati cc.dd. “operativi” o “industriali” contemplata dalla lett. a dell’art. 2447-bis c.c., almeno nei voti del riformatore, avrebbe dovuto costituire tecnica di ripartizione del rischio d’impresa alternativa e concorrente al gruppo. Sennonché, volendo tentare di ripercorrere le ragioni più appariscenti per cui, a vent’anni dalla riforma, tale rapporto di alternatività fra gruppi e patrimoni destinati a specifici affari [22] si sia arrestato a livello teorico, una prima può senz’altro additarsi nella contestuale previsione della legittimazione (in origine negata) delle persone giuridiche alla costituzione di s.p.a. ed s.r.l. unipersonali con il beneficio della responsabilità limitata. In virtù di tale innovazione gli operatori intenzionati ad esercitare più imprese sostanzialmente individuali, in regime di responsabilità limitata, articolate secondo la struttura del gruppo di società, hanno preferito optare per la ben più collaudata tecnica della costituzione della persona giuridica, pur a costo di rinunciare agli inconsistenti vantaggi economici promessi dalla strada alternativa [23]. E ciò a maggior ragione alla luce della nuova disciplina della società a responsabilità limitata, risultante dall’art. 9, comma 15-bis, d.l. 28 giugno 2013, n. 76, conv. con modificazioni in l. 9 agosto 2013, n. 99, che ha reso possibile un ulteriore risparmio di costi per la costituzione della società, anche con atto unilaterale di una persona giuridica, alla quale può destinarsi un capitale di ammontare inferiore a diecimila euro, pari almeno ad un euro, purché il conferimento sia in danaro e versato per intero alle persone cui è affidata l’amministrazione (arg. ex comb. disp. [...]


5. L’attuale rilievo sistematico dei patrimoni destinati al lume delle e­sperienze comparatistiche.

Eppure, se la riforma del 2003 ha riservato l’istituto dei patrimoni destinati alla sola società per azioni (oltreché alla s.a.p.a. ed alle cooperative), in quanto impresa dotata di complessa organizzazione che si presume quindi idonea ad assicurare un costante controllo delle risorse economiche ed un certo grado di trasparenza in ordine alla loro utilizzazione anche mediante la pubblicazione del bilancio [31]; altri ordinamenti dell’Unione europea sono stati persino più audaci, contemplando una figura più generale di impresa individuale a responsabilità limitata, ossia di patrimonio destinato esclusivamente a garanzia dell’attività imprenditoriale, e così raccogliendo gli auspici che esattamente un secolo fa avevano manifestato autorevoli esponenti della nostra dottrina [32]. Il riferimento è, anzitutto, all’esperienza portoghese dell’estabelecimento individual de responsabilidade limitada, già previsto dal decreto-ley n. 248/1986 del 25 agosto 1986 (modificato dal decreto ley n. 76-A/2006 del 29 marzo 2006), in considerazione della quale la XII direttiva comunitaria (89/667/CEE) disponeva (art. 7) che uno Stato membro avrebbe potuto evitare di prevedere la società unipersonale allorché la sua legislazione consentisse ad imprenditori unici la costituzione di «imprese a responsabilità limitata ad un patrimonio destinato ad una determinata attività» con «garanzie equivalenti» per i creditori a quelle offerte dalla società unipersonale. Ma la soluzione di rendere autonomo il patrimonio dell’imprenditore individuale avrebbe implicato la necessità di predisporre un’articolata disciplina di una nuova fattispecie (costituzione, amministrazione, controllo, contabilità, modificazioni) tutta da definire ex novo. L’esperienza portoghese è stata seguita, come è noto, dai legislatori spagnolo (con l’introduzione dell’Emprendendor a Responsabilitad Limitada: art. 7 ss., ley 27 settembre 2013, n. 14) ed, ancòr prima, francese, nel recente statut de l’entrepreneur individuel (art. L526-22 ss. code de commerce, novellati dalla loi 14 febbraio 2022, n. 2022-172) e già nella loi 15 giugno 2010, n. 2010-658: i quali, scardinando il dogma dell’unicità del patrimonio risalente proprio ai trattatisti francesi C.-A. Aubry e [...]


6. (segue). Conseguenze sulla qualificazione giuridica del passaggio da impresa individuale a società unipersonale nel nostro ordinamento.

Ebbene, raccogliendo il prezioso insegnamento del riconosciuto fondatore della prima “Scuola” giuscommercialistica napoletana, Alessandro Graziani [36], reputo importante anche per la comprensione degli istituti evocati la loro collocazione nel contesto storico-economico. In particolare, almeno l’ultimo intervento del legislatore francese è stato concepito nella fase postpandemica anteriore allo scoppio della guerra in Ucraina: frangente caratterizzato da incoraggianti segnali di significativa ripresa economica, forse paragonabili allo scenario in cui furono concepiti, dal riformatore italiano, i patrimoni destinati ad uno specifico affare. Se questa impressione è fondata, respingerei l’aprioristico scetticismo sulla reale utilità della disciplina dell’imprenditore individuale a responsabilità limitata [37] e, di riflesso, su una sua eventuale “importazione” nel nostro sistema: i cui esiti dipenderebbero allora, a mio giudizio, principalmente dal contesto economico nel quale l’istituto sarebbe poi chiamato ad operare. Ove il nostro legislatore seguisse questa strada – attribuendo rilievo reale ad una distinzione, allo stato meramente ideale e senza incidenza sull’unicità della garanzia (come si evince dall’art. 2217, primo comma, ult. inciso, c.c.), tra patrimonio destinato all’impresa e patrimonio estraneo ad essa –, sarebbe piuttosto inevitabile sul piano tecnico-giuridico – come lucidamente ammoniva già sessant’anni fa proprio Graziani [38] – l’estensione al patrimonio destinato dell’im­prenditore individuale di un «rigoroso sistema di pubblicità» del bilancio in guisa da garantire ai creditori la persistenza di un «capitale» riservato in via esclusiva al soddisfacimento delle loro ragioni. Ma, a prescindere da incerti sviluppi de iure condendo, vi è però almeno un profilo suscettibile di assumere oggi una certa rilevanza sistematica, che è possibile cogliere proprio dal confronto con le esperienze comparatistiche sopra evocate. Il nostro ordinamento non prevede tuttora – diversamente dai sistemi giuridici francese, spagnolo e portoghese – una generale «equivalenza fra atto di organizzazione dell’impresa individuale e atto di organizzazione dell’impresa societaria»: il primo non può essere [...]


7. (segue). Patrimoni destinati e regole di imputazione dell’attività d’im­presa.

Le esperienze comparatistiche sopra sinteticamente riferite convincono piuttosto che, nel nostro ordinamento, il principio di universalità della responsabilità patrimoniale dell’imprenditore, desumibile dall’art. 2740, primo comma, possa essere derogato soltanto attraverso la costituzione di una società (per azioni o a responsabilità limitata) unipersonale. Si coglie così l’indubbio rilievo sistematico delle regole contenute negli artt. 2447-bis ss.: almeno nel diritto societario, esse attestano che gli interessi dei creditori sono tuttora sacrificabili soltanto nei limiti ed alle condizioni analiticamente previsti, fra cui rientra anche la delimitazione dei tipi sociali (s.p.a., s.a.p.a. e cooperative) che possono avvalersi dei patrimoni destinati [49]. Del resto, uno spunto in tal senso potrebbe ricavarsi da una corretta interpretazione del principio di tipicità racchiuso dall’art. 2249, che costituisce una specifica deroga all’art. 1322, secondo comma: ciò nel senso che le esigenze di tutela della posizione dei terzi non consentono pattuizioni atipiche che alterino i regimi legali di responsabilità per le obbligazioni sociali, fra i quali va altresì ricompresa la disciplina della destinazione patrimoniale a «specifici affari» [50]. Posta l’illegittimità di convenzioni innominate volte ad alterare il regime di responsabilità (qui) della società nei confronti dei terzi, sembra pertanto doversi respingere la proposta di una dottrina civilistica di consentire, mediante il richiamo all’art. 2645-ter, la costituzione di patrimoni destinati «atipici» da parte di società a responsabilità limitata, quantunque nel rispetto delle regole organizzative previste dalla fattispecie legale (autonoma contabilità, diritto di opposizione dei creditori sociali, obbligo di “menzione” ecc.) [51]. L’impossibilità di applicare analogicamente – neppure per il tramite del­l’art. 2645-ter – la disciplina dei patrimoni destinati a «specifici affari» al di fuori dei tipi sociali per i quali essa è prevista (s.p.a.) o esplicitamente richiamata (s.a.p.a. e cooperative: rispettivamente artt. 2454 e 2520) necessariamente impone di respingere, de iure condito, la sua proposta utilizzazione come criterio alternativo di imputazione dei [...]


8. Rilievo dell’attività nei patrimoni destinati societari e conseguente configurabilità di rapporti intergestori.

Sebbene i patrimoni destinati non costituiscano soggetti di diritto distinti rispetto alla società per azioni cui afferiscono, sono senz’altro configurabili – mutuando la felice locuzione coniata da Giorgio Oppo [54] – «rapporti intergestori», intendendosi per tali le relazioni tra compendi separati ovvero tra uno di essi ed il patrimonio generale della società. Anche questo specifico tema – corollario del superamento del dogma della corrispondenza biunivoca tra soggetto e patrimonio – dimostra la notevole rilevanza sistematica dell’istituto il cui ventesimo anniversario ho inteso celebrare. Un cenno ad esso pare anzi davvero doveroso per attestare virtuose, reciproche “contaminazioni” tra giuscivilisti e giuscommercialisti: siffatte “relazioni tra patrimoni” sono pensabili, in effetti, anche tra compendi destinati ad una funzione “statica” appartenenti al medesimo soggetto (cfr., ad es., art. 490, secondo comma, c.c.). Ciò che ha decisivamente inciso, già a monte, sull’elaborazione dogmatica della stessa nozione di “rapporto giuridico”, allorché si è chiarita l’esistenza di situazioni in cui la coincidenza soggettiva dei due poli del rapporto non ne comportano l’estinzione per confusione, in virtù della sussistenza di un interesse giuridicamente meritevole alla sua permanenza in vita [55]. Nel nostro campo d’indagine vengono in considerazione, all’evidenza, le peculiarità del fenomeno associativo, che impongono di innestare i patrimoni destinati in un sostrato formale e materiale permeato, sul piano non soltanto teorico, dal connubio tra struttura organizzativa ed attività. Questa visione oggettivistica del fenomeno associativo [56] – senz’altro possibile anche in assenza di una formale désubjectivation del patrimonio (come nelle esperienze comparatistiche sopra riferite) – consente la configurazione di rapporti giuridici strutturati come relazioni tra due distinti centri di imputazione, restando il soggetto un «elemento esterno al rapporto» perché esterno ad una situazione caratterizzata in virtù del rilievo centrale dell’organizzazione e dell’attività. Se, invero, in vicende di scambio non sussiste di regola alcun interesse apprezzabile alla prosecuzione del rapporto oltre il [...]


9. Una (banale) metafora.

Nell’ottantesimo compleanno del codice civile e, soprattutto, nel ventesimo anniversario dei patrimoni destinati ad uno specifico affare la loro traiettoria evolutiva mi suggerisce una metafora, un po’ banale forse, ma non per questo meno efficace ed appropriata in una sede universitaria al giorno d’oggi. Paragonerei allora i patrimoni destinati ad un figlio concepito ormai ven­t’anni fa, nel quale i genitori avevano riposto loro speranze ed aspettative fin troppo ottimistiche di un certo percorso di successi. Vent’anni dopo, in uno scenario economico radicalmente diverso frutto di almeno un decennio di alternanze tra recessioni e stagnazioni, quei genitori si accorgono che il figlio è vissuto in contesti che non hanno favorito l’espressione delle proprie potenzialità, è ancora immaturo (malgrado i vent’anni!) o ha forse deciso di intraprendere, pur con timidezza, ostacoli e difficoltà, una strada apparentemente distante da quella da loro auspicata, disattendendo comunque le loro indicazioni ed attese. Ci si potrebbe quindi chiedere: è giusto che i genitori imputino a quel figlio un “fallimento” (ammesso che ad un giuscommercialista sia oggi ancora permesso pronunciare questa parola!) e rinuncino, sol per questo, a festeggiare il suo ventesimo compleanno? Credo proprio di no.


NOTE