L'articolo svolge un'esegesi dell’art. 33 della legge sulla concorrenza (l. 5 agosto 2022, n. 118), che introduce una presunzione di dipendenza economica nei confronti delle piattaforme digitali con un ruolo determinante per raggiungere clienti finali o fornitori. L'a. nota che, nei confronti delle più importanti piattaforme digitali, l'applicazione della disciplina nazionale sul divieto di abuso di dipendenza economica sarà limitata per via della prevalenza delle norme del Digital Markets Act, che spesso impongono norme di condotta di identico contenuto.
The article carries out an exegesis of art. 33 of the Competition Act (Law No. 118 of 5 August 2022), which introduces a presumption of economic dependence on digital platforms with a decisive role in reaching end customers or suppliers. The a. notes that, with regard to the most important digital platforms, the application of the national rules on the prohibition of abuse of economic dependence will be limited by the prevalence of the rules of the Digital Markets Act, which often impose rules of conduct with an identical content.
1. La nuova disciplina. - 2. Il coordinamento con il Digital Markets Act. - 2.1. La coesistenza fra norme del DMA e norme antitrust generali. - 2.2. Il coordinamento fra il DMA e le norme nazionali che vietano l’abuso di dipendenza economica. - 2.3. Le ipotesi di prevalenza di norme del DMA sulle norme interne in materia di abuso di dipendenza economica. - 2.4. Il diverso problema di coordinamento con il reg. 2019/1150 (reg. P2B). - 3. La fattispecie della “dipendenza economica” e il meccanismo di presunzione legale. - 3.1. L’applicazione della norma in sede giudiziaria. - 3.2. L’applicazione della norma da parte dell’AGCM. - 4. Le nuove fattispecie di abuso di dipendenza economica. - 5. La competenza delle sezioni specializzate. - 6. Le Linee Guida previste dal terzo comma dell’articolo. - NOTE
L’art. 33 della l. 5 agosto 2022, n. 118 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021) ha modificato l’art. 9 della l. 18 giugno 1998, n. 192 (Abuso di dipendenza economica).
Si riporta anzitutto, per comodità di lettura, il testo dell’art. 33:
Art. 33. (Rafforzamento del contrasto all’abuso di dipendenza economica)
All’articolo 9 della legge 18 giugno 1998, n. 192, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al comma 1 è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Salvo prova contraria, si presume la dipendenza economica nel caso in cui un’impresa utilizzi i servizi di intermediazione forniti da una piattaforma digitale che ha un ruolo determinante per raggiungere utenti finali o fornitori, anche in termini di effetti di rete o di disponibilità dei dati»;
b) al comma 2 è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Le pratiche abusive realizzate dalle piattaforme digitali di cui al comma 1 possono consistere anche nel fornire informazioni o dati insufficienti in merito all’ambito o alla qualità del servizio erogato e nel richiedere indebite prestazioni unilaterali non giustificate dalla natura o dal contenuto dell’attività svolta, ovvero nell’adottare pratiche che inibiscono od ostacolano l’utilizzo di diverso fornitore per il medesimo servizio, anche attraverso l’applicazione di condizioni unilaterali o costi aggiuntivi non previsti dagli accordi contrattuali o dalle licenze in essere»;
c) al comma 3 è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Le azioni civili esperibili a norma del presente articolo sono proposte di fronte alle sezioni specializzate in materia di impresa di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 27 giugno 2003, n. 168».
Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano a decorrere dal 31 ottobre 2022.
La Presidenza del Consiglio dei ministri, d’intesa con il Ministero della giustizia e sentita l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, può adottare apposite linee guida dirette a facilitare l’applicazione delle disposizioni di cui al comma 1, in coerenza con i princìpi della normativa europea, anche al fine di prevenire il contenzioso e favorire buone pratiche di mercato in materia di concorrenza e libero esercizio dell’attività economica[1].
Tale articolo – come è agevole notare – introduce:
a) una presunzione di dipendenza economica dell’impresa che utilizzi i servizi di intermediazione forniti da una piattaforma digitale che abbia un ruolo «determinante» per raggiungere utenti finali o fornitori;
b) nuove fattispecie tipizzate di pratiche abusive, che possono essere realizzate dalle piattaforme digitali;
c) una modifica della competenza giurisdizionale per le controversie in materia di abuso di dipendenza economica;
d) la facoltà, attribuita alla Presidenza del Consiglio dei ministri, d’intesa con il Ministero della giustizia e sentita l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, di adottare linee guida dirette a facilitare l’applicazione della nuova presunzione.
Scopo dell’art. 33 della Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021 è, chiaramente, quello di ampliare la possibilità di intervento delle autorità nazionali nei confronti del potere di mercato delle grandi piattaforme digitali [2]: a tale scopo è ampliato l’ambito di applicazione della norma sul divieto di abuso di dipendenza economica (art. 9, l. n. 192/1998), creando, fra l’altro, nuove ipotesi tipizzate di abuso, configurate con specifico riguardo alle piattaforme digitali. Tra i primi commentatori è diffusa la convinzione secondo cui la norma in esame è «un passo avanti nel percorso di progressivo potenziamento della giustizia contrattuale nei mercati digitali» [3].
Lo scopo della norma interferisce, tuttavia, con quello del nuovo Regolamento europeo relativo a mercati equi e contendibili nel settore digitale (Digital Markets Act o DMA) [reg. UE/2022/1925 del 14 settembre 2022], che entrerà in vigore il 2 maggio 2023. Prima di affrontare direttamente i problemi esegetici posti dall’art. 33, l. n. 118/2022, occorre dunque chiedersi come la nuova norma può coordinarsi con il nuovo regolamento europeo, che intende garantire “equità e contendibilità” dei mercati digitali.
Nelle note che seguono si dà per acquisito – per ragioni di brevità – il contenuto normativo complessivo del DMA e si cercherà di mettere in evidenza solo alcuni punti, che più direttamente incidono sul problema di coordinamento sopra accennato.
In primo luogo, occorre mettere in evidenza che le norme di condotta sancite dal DMA si applicano non a tutte le piattaforme digitali “che svolgono un ruolo determinante ecc.” (e che sono, come tali, destinatarie della norma dell’art. 33, l. n. 118/2022), ma solo a quelle grandi piattaforme che vengono designate formalmente come gatekeeper dalla Commissione UE, perché superano certe soglie dimensionali, stabilite dall’art. 3 DMA. Un problema di interferenza fra le due discipline può porsi, dunque, solo con riguardo a questo delimitato, se pur importantissimo, segmento dei mercati digitali [4].
Il DMA ha posto, tra i propri fini dichiarati, quello di «evitare una frammentazione del mercato interno» (così l’art. 1, § 5, DMA, e i cons. 6, 7 e 9, nonché il cons. 91, per cui «la Commissione è l’unica autorità a cui è conferito il potere di applicare il presente regolamento»). Il legislatore europeo ha dunque voluto concentrare presso la Commissione UE i poteri di vigilanza sul rispetto delle norme del DMA da parte dei “giganti del web” e i poteri ulteriori di regolazione e di irrogazione di sanzioni. Ciò perché, considerando la dimensione globale dei mercati digitali, è apparso, comprensibilmente [5], inopportuno che le norme volte a controllare le piattaforme digitali fossero differenziate tra i diversi Stati membri [6].
Questa scelta politica ha suscitato tuttavia resistenza, durante i lavori preparatori del regolamento, da parte di alcuni Stati membri, che nel frattempo avevano avviato incisivi interventi contro le grandi piattaforme digitali, facendo leva sull’applicazione estensiva delle norme antitrust generali, e che vedevano un rischio di inapplicabilità di queste norme generali, a seguito dell’entrata in vigore del DMA, in conseguenza del principio di specialità. Sul punto si è giunti ad una soluzione di compromesso, la cui premessa teorica è espressa nel cons. 11 del regolamento, ove si afferma che le norme antitrust proteggono interessi diversi da quelli protetti dalle norme del DMA e sono pertanto complementari e non sovrapponibili a queste. Su questa base, l’art. 1, § 6, DMA sancisce che il nuovo regolamento non pregiudica l’applicazione degli artt. 101 e 102 T.F.U.E. (cioè delle norme antitrust che vietano intese anticoncorrenziali e abusi di posizione dominante; norme di cui è possibile l’applicazione decentrata da parte delle autorità nazionali), né delle norme nazionali in materia di concorrenza che vietano, a loro volta, intese anticoncorrenziali e abusi di posizione dominante.
Questa impostazione non è del tutto coerente: l’asserita diversità di interessi protetti dalle norme antitrust e da quelle del DMA è affermata nel cons. 11, ma non è sviluppata, né chiarita, nel contenuto complessivo del regolamento. Gli scopi dichiarati di quest’ultimo (equità e contendibilità dei mercati digitali) non possono ritenersi estranei alle finalità delle norme antitrust [7]; tra gli scopi dichiarati del regolamento ci sono altresì quelli di promuovere l’innovazione, la concorrenzialità dei prezzi, la libertà di scelta del consumatore (cons. 25). L’interferenza degli scopi delle due discipline è dunque inevitabile e la vera complementarità fra le stesse non riguarda gli scopi perseguiti, che sono sostanzialmente comuni, quanto piuttosto l’apparato rimediale: il DMA contiene uno strumentario estraneo alle norme antitrust generali; detta infatti norme di condotta dettagliate (e non a maglie larghe, come è tipico delle norme antitrust) e dispone un public enforcement preventivo. Ambedue questi strumenti sono assenti nelle norme antitrust generali. Solo in questo senso può dirsi che le norme antitrust e le norme del DMA sono diverse e complementari fra loro.
La scelta normativa del DMA è comunque chiara, nel senso della possibilità di applicazione cumulativa [8] (teoricamente, anche in uno stesso procedimento, da parte della Commissione) [9] delle norme antitrust generali e di quelle del DMA. Si è determinata dunque una di quelle situazioni in cui – per rimanere fermi alle più recenti indicazioni della Corte di Giustizia [10] – può dirsi che, per ragionevoli scelte di politica legislativa, l’applicazione cumulativa di due norme di condotta interferenti è compatibile con il principio del ne bis in idem, anche se dev’essere temperata dall’applicazione del principio di proporzionalità nella determinazione delle sanzioni. Inoltre, gli ulteriori requisiti del cumulo sanzionatorio, previsti dalla giurisprudenza europea, cioè la chiarezza e precisione delle norme applicabili, la prevedibilità del cumulo stesso, e l’esistenza di una legislazione o di una giurisprudenza che garantisca il rispetto del principio di proporzionalità [11], possono dirsi presenti nel caso in esame. In particolare, l’ultimo requisito può dirsi normativamente garantito dalle norme che, in caso di avvio di un procedimento sanzionatorio antitrust da parte di un’autorità nazionale, impongono a quest’ultima l’obbligo di comunicare alla Commissione UE l’atto di avvio e poi di coordinarsi con la Commissione («la Commissione e gli Stati membri operano in stretta collaborazione e coordinano le loro azioni di esecuzione sulla base dei principi di cui agli articoli 37 e 38» [art. 1, § 7]).
In particolare, va segnalato che l’art. 37 DMA prevede un obbligo permanente di collaborazione informativa tra la Commissione e gli Stati membri in tema di applicazione del DMA stesso, mentre l’art. 38 – come già ricordato – impone alle «autorità nazionali competenti degli Stati membri» di comunicare alla Commissione l’intento di avviare un procedimento contro un gatekeeper in base alle norme di concorrenza, ovvero di applicare una qualche misura a carico di un gatekeeper.
Il testo normativo è sufficientemente chiaro nel senso che la disciplina di coordinamento riguarda solo il public enforcement e non si estende ai procedimenti giudiziari nazionali: la cooperazione tra la Commissione e i giudizi nazionali è disciplinata a parte, nell’art. 39.
Solo l’esperienza applicativa potrà mettere in evidenza se questi criteri di coordinamento saranno idonei a prevenire le incertezze insite nella previsione del cumulo sanzionatorio “proporzionato” a seguito di procedimenti che – anche in considerazione delle fasi di sindacato giudiziario successivo al provvedimento amministrativo – avranno tempi e andamenti diversi.
Al di là della soluzione del cumulo sanzionatorio, che può dirsi espressamente sancita per i rapporti tra norme del DMA e norme antitrust generali europee e nazionali, l’art. 1 DMA prevede altre due ipotesi:
La norma del § 5 si riferisce chiaramente, anzitutto, a norme dettate in materie estranee alla disciplina del buon funzionamento dei mercati (anche se la locuzione «questioni [12] che non rientrano nell’ambito di applicazione del presente regolamento» non è tra le più felici). Ciò giustifica l’applicazione parallela delle due normative, senza neanche la necessità di quel coordinamento ex art. 38 DMA, che è previsto per i procedimenti antitrust delle autorità nazionali. La previsione di cui si tratta potrà riguardare, comunque, diverse categorie di norme: p.e. norme tecniche o tributarie o di tutela del diritto d’autore, ecc. Sembra invece da escludere l’applicazione parallela indipendente delle norme sulla tutela dei dati personali, dato che questa materia è espressamente trattata nell’art. 5, § 2, DMA. Ne consegue che un’eventuale «decisione relativa all’inosservanza» di queste norme da parte della Commissione, ai sensi dell’art. 29 DMA, dovrebbe precludere un distinto procedimento sanzionatorio da parte delle autorità preposte alla tutela dei dati personali (soluzione che può essere ampiamente discussa, ma che non toccheremo ulteriormente in questa sede).
La norma dell’art. 1, § 6 b, DMA, detta invece una disciplina particolare per le «norme nazionali in materia di concorrenza che vietano altre forme di comportamento unilaterale», cioè comportamenti unilaterali diversi dall’abuso di posizione dominante (per quest’ultima ipotesi, invece, l’applicazione delle norme europee e nazionali rimane – come si è visto – interamente impregiudicata, salvo l’obbligo di coordinamento di cui all’art. 38 DMA).
In questo quadro normativo si pone il problema della collocazione delle norme nazionali sull’abuso di dipendenza economica [13]. Queste norme si caratterizzano perché riferite non alla posizione di potere di un’impresa in un mercato complessivamente considerato, come avviene per l’abuso di posizione dominante, bensì alla posizione di potere di un’impresa in una relazione bilaterale con un’impresa “dipendente” [14]. Potrebbe dunque ipotizzarsi che queste norme siano poste a tutela dell’equità contrattuale, da considerare come un bene giuridico distinto rispetto alla concorrenza effettiva nel mercato. Ne conseguirebbe che queste norme rientrerebbero nella previsione dell’art. 1, § 5, DMA e sarebbero pertanto applicabili autonomamente dalle autorità nazionali [15], senza neanche l’obbligo del coordinamento con la Commissione, che riguarda solo le «norme nazionali a tutela della concorrenza».
Per contro, secondo una linea di pensiero che sembra in crescita [16], anche le norme che vietano l’abuso di dipendenza economica sono norme poste a tutela dell’efficienza dei mercati, sia perché volte a impedire un’appropriazione ingiustificata (i.e. non giustificabile in termini di competition on the merits) di vantaggi finanziari (“extraprofitti”) da parte dell’impresa più forte (simile a quanto avviene negli “abusi di sfruttamento”, in materia di divieto di abuso di posizione dominante), sia perché incentiverebbero la realizzazione di investimenti efficienti da parte delle imprese dipendenti.
A prescindere dalla soluzione di questo problema generale, che sembra non aver ancora raggiunto un approdo definitivo [17], mi sembra che la questione in esame trovi una linea di soluzione razionale proprio nella disciplina italiana dell’abuso di dipendenza economica. Questa disciplina, che qualcuno ha qualificato come «unica e singolare» sul piano comparatistico [18], ma che, a mio avviso, fornisce un modello interessante anche a livello comparatistico, distingue due livelli di rilevanza della fattispecie.
Un primo livello di rilevanza, che potremmo dire “di base”, regola – con la previsione di vari rimedi giudiziari – il rapporto bilaterale che lega un’impresa forte a un’impresa dipendente. Un secondo livello riguarda i casi in cui l’abuso di dipendenza economica non incida soltanto sul rapporto contrattuale (o pre- o postcontrattuale) fra due imprese, ma «abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato» (art. 9, l. n. 192/1998, comma 3-bis). In questa seconda ipotesi, com’è noto, l’AGCM può avviare un procedimento sanzionatorio applicando le norme generali antitrust (ferma restando, peraltro, la possibilità di ricorso ai rimedi giudiziari previsti per tutti i casi di abuso di dipendenza economica).
Sul modo di intendere la rilevanza concorrenziale dell’abuso di dipendenza economica possono sollevarsi dubbi interpretativi, su cui si dovrà tornare (v. infra, par. 3). Tuttavia, non può mettersi in dubbio il fatto che il legislatore italiano abbia individuato una fattispecie costituita da casi di abuso di dipendenza economica la cui repressione si giustifica non più solo per ragioni di giustizia contrattuale, ma anche per ragioni generali di tutela della concorrenza.
Non può ragionevolmente dubitarsi, dunque, del fatto che l’ipotesi normativa del comma 3-bis dell’art. 9, l. n. 192/1998, rientri fra le «norme nazionali in materia di concorrenza che vietano altre forme di comportamento unilaterale» (i.e. comportamenti unilaterali diversi dall’abuso di posizione dominante), di cui parla l’art. 1, § 6 b, DMA [19]. In conseguenza di ciò, questa norma interna potrà applicarsi integralmente alle piattaforme che non siano designate come gatekeeper dalla Commissione, mentre, per i gatekeeper designati, potrà applicarsi solo per quelle norme che prevedano «ulteriori obblighi» rispetto a quelli già sanciti dal DMA. Questa espressione, letteralmente, si riferisce a norme di condotta diverse (“ulteriori”) rispetto a quelle già sancite dal DMA. Una diversa interpretazione, come quella per cui norme che prevedono “obblighi ulteriori” sarebbero tutte quelle che perseguono obiettivi differenti da quelli propri del DMA, mi sembra confliggere con il testo dell’art. 1, in quanto le norme che perseguono obiettivi diversi rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 1, § 5, e non in quello dell’art. 1, § 6, b [20].
Data la prevalenza del regolamento europeo nella gerarchia delle fonti, la norma interna, nelle parti in cui prevede obblighi coincidenti con quelli sanciti dal DMA, diviene inefficace per difetto di competenza (non si tratta di semplice disapplicazione al caso concreto, ma di una modalità di risoluzione di un’antinomia normativa).
L’applicazione di questo criterio dovrebbe essere, comunque, relativamente agevole per due ragioni. La prima è che gli obblighi sanciti dal DMA sono tassativi (e non ammettono prova contraria, da parte dei gatekeeper, in termini di guadagni di efficienza [21]), per cui – al netto di pur inevitabili problemi interpretativi [22] – è facilitato il compito di definire ciò che è coincidente e ciò che è “ulteriore” rispetto agli obblighi sanciti dal DMA. La seconda è che, comunque, l’avvio di un procedimento per abuso di dipendenza economica dovrà essere comunicato dall’autorità nazionale – come si è prima ricordato – alla Commissione, a fini di “coordinamento”. Il coordinamento, a sua volta, implica la possibilità che, in caso di dissenso, vi sia una possibilità di decisione vincolante. Questa decisione, nella materia in esame, sarà necessariamente quella voluta dalla Commissione.
Questa disciplina, tuttavia, non è destinata ad operare nei casi di private enforcement in materia di abuso di dipendenza economica, cioè nei casi di applicazione delle norme in materia da parte dei giudici nazionali. In questi casi, il coordinamento è meno stringente, in quanto la collaborazione informativa riguarda solo le sentenze e non gli atti di avvio di procedimenti. Tuttavia, la Commissione può intervenire nei procedimenti giudiziari nazionali e, soprattutto, è disposta, per il private enforcement interferente con norme del DMA [23], una norma analoga al ben noto art. 16 del reg. 1/2003: i giudici nazionali non possono adottare decisioni contrastanti con decisioni (adottate o «contemplate») della Commissione e possono sospendere i procedimenti giudiziali già avviati (art. 39, § 5, DMA).
Ciò premesso – e pur dovendosi riconoscere che, in materia di private enforcement dell’abuso di dipendenza economica, potranno aversi incertezze applicative – può ritenersi che l’intervento delle autorità nazionali nei confronti dei gatekeeper è precluso, in base alla più volte citata norma dell’art. 1, § 6 b, DMA, in una serie numerosa di casi, in quanto espressamente menzionati negli artt. 5 e 6 del DMA, che pongono precisi obblighi di condotta a carico dei gatekeeper. Questi casi saranno qui di seguito elencati, ricordando che le norme di condotta di cui all’art. 6, DMA a differenza di quelle di cui all’art. 5, potranno essere oggetto di precisazioni, da parte della Commissione, a seguito dei procedimenti di cui all’art. 8 DMA, per cui l’elenco che segue dovrebbe essere, in futuro, precisato/integrato tenendo conto dei provvedimenti adottati dalla Commissione ai sensi del citato art. 8.
Ciò posto, i casi di possibile interferenza da segnalare mi sembrano i seguenti:
a) utilizzo, senza consenso del titolare, di dati personali (in quanto contemplato dall’art. 5, § 2, DMA);
b) divieto agli utenti commerciali di utilizzare canali alternativi o propri servizi di vendita on line (art. 5, §§ 3 e 4, DMA);
c) divieto agli utenti finali ad accedere a determinati contenuti mediante software alternativi a quelli forniti dal gatekeeper (art. 5, § 5, DMA);
d) divieto imposto agli utenti di esercitare rimedi giudiziari o amministrativi (art. 5, § 6, DMA);
e) imposizione di una serie di prestazioni supplementari, cioè tying contracts (art. 5, §§ 7 e 8, DMA);
f) rifiuto di fornire informazioni su servizi pubblicitari on line (art. 5, §§ 9 e 10, DMA);
g) utilizzo, in concorrenza con gli utenti commerciali, di dati generati da questi ultimi (art. 6, § 2, DMA);
h) impedimento alla disinstallazione di applicazioni software presenti nel sistema operativo del gatekeeper (art. 6, § 3, DMA);
i) impedimento all’installazione ed uso di software alternativi (art. 6, § 4, DMA);
l) trattamento più favorevole ai propri prodotti rispetto a quelli di operatori terzi [c.d. self preferencing] (art. 6, § 5, DMA);
m) impedimento agli utenti finali di abbonarsi a servizi e applicazioni software diversi (art. 6, § 6, DMA);
n) rifiuto di fornire effettiva interoperabilità ai fornitori di servizi e di hardware (art. 6, § 7, DMA);
o) impedimento all’uso di strumenti di verifica indipendente dell’offerta di spazi pubblicitari (art. 6, § 8, DMA);
p) rifiuto di portabilità dei dati forniti dall’utente finale (art. 6, § 9, DMA);
q) rifiuto di fornire gratuitamente agli utenti commerciali l’accesso ai dati da loro generati (art. 6, § 10, DMA);
r) rifiuto di fornire alle imprese che forniscono motori di ricerca on line l’accesso, a condizioni eque e non discriminatorie, ai dati generati da utenti finali (art. 6, § 11, DMA);
s) rifiuto di fornire accesso ai propri servizi, a condizioni eque e non discriminatorie, ad utenti commerciali (art. 6, § 12, DMA);
t) adozione di condizioni generali di contratto sproporzionate per la risoluzione dei rapporti di fornitura dei servizi di piattaforma di base (art. 6, § 13, DMA).
Il fatto che, nei procedimenti per abuso di dipendenza economica, le condotte sopra elencate vengano in rilievo in una prospettiva relazionale bilaterale, e non con riferimento a un intero mercato, nulla toglie alla possibile identità degli «obblighi» imposti dal DMA con quelli imposti dal divieto di abuso di dipendenza economica (del resto, il DMA non richiede neanche che la violazione rilevante delle norme di condotta sopra elencate sia plurima).
Come si è visto, sono numerosi i casi in cui le norme di condotta sancite dal DMA interferiscono con possibili casi di abuso di dipendenza economica (ciò anche quando l’abuso a danno dell’impresa dipendente sia indiretto, perché derivante da clausole imposte agli utenti finali: v., p.e., supra, lett. k). Ciò non toglie, tuttavia, che, in ragione della tassatività delle prescrizioni del DMA, rimangano spazi in cui la norma nazionale sulla dipendenza economica può direttamente applicarsi: p.e., in materia di tying contracts (supra, lett. e), quando la prestazione supplementare imposta sia diversa da quelle espressamente indicate nell’art. 5, §§ 7 e 8, del DMA; o in materia di carenze informative, ove i casi previsti dal DMA sono concentrati sui soli rapporti pubblicitari.
I problemi di coordinamento, comunque, non mancheranno. Il punto più delicato potrà essere costituito dall’interferenza fra l’obbligo, a carico del gatekeeper, di fornire i propri servizi a condizioni eque e non discriminatorie (supra, lett. q) e il divieto di imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose, di cui all’art. 9, secondo comma, l. n. 192/1998. Un dubbio può sorgere anche con riferimento all’ipotesi di «interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto», prevista dall’art. 9, secondo comma, l. n. 192/1998, e costituente la ragione più frequente di richiesta di tutela antiabusiva da parte di imprese dipendenti. Qui, in effetti, il DMA non menziona espressamente l’interruzione del rapporto, ma l’adozione (“a monte”, si direbbe) di condizioni generali di contratto sproporzionate per la risoluzione dei rapporti di fornitura dei servizi (supra, lett. r). Tuttavia, può ragionevolmente ritenersi che l’interruzione arbitraria rientri in ogni caso nella previsione dell’art. 6, § 13, DMA, in quanto momento esecutivo di condizioni di contratto “sproporzionate”, implicitamente applicate dal gatekeeper nella vicenda contestata.
È certo dunque che i problemi applicativi non mancheranno, soprattutto – come si è già notato – in sede di applicazione giudiziaria delle norme sul divieto di abuso di dipendenza economica, ove non potrà operare il coordinamento con la Commissione di cui all’art. 38 DMA. In situazioni del genere, la prevalenza, sul piano sistematico, dev’essere comunque data al principio di uniformità europea del trattamento riservato ai gatekeeper, che è una scelta politica centrale nell’ambito del Regolamento [24] (e trova il suo punto di riferimento sistematico nell’art. 114 T.F.U.E. sulle misure di armonizzazione delle norme del mercato interno, che costituisce la base giuridica dell’emanazione del regolamento stesso [25]). In conseguenza, nei casi dubbi, si dovrà riconoscere la inapplicabilità della norma interna e la competenza esclusiva della Commissione europea per ciò che riguarda il public enforcement nei confronti delle condotte dei gatekeeper.
La disciplina interna sull’abuso di dipendenza economica avrà dunque, nei confronti delle grandi piattaforme digitali dichiarate gatekeeper ai sensi del DMA, un’applicazione solamente residuale. Sotto questo profilo, si può dubitare dell’opportunità della riforma in commento, se intesa come strumento per rafforzare il ruolo delle autorità di concorrenza nazionali proprio nei confronti dei cosiddetti “giganti del web”. Lo strumento principale di intervento nei confronti di costoro rimane infatti la norma antitrust sul divieto di abuso di posizione dominante, che ha già dimostrato di avere potenzialità applicative non indifferenti [26]. Peraltro, la stessa norma generale sul divieto di abuso di dipendenza economica era stata applicata senza difficoltà, dai giudici nazionali, nei confronti di queste grandi imprese [27].
La riforma conserva invece una sua funzione, potenzialmente incisiva, come strumento di facilitazione di interventi nei confronti di piattaforme digitali che non superano le soglie richieste per essere dichiarate gatekeeper ai sensi del DMA. In ogni caso, si deve tener presente che le norme di condotta del DMA, se anche possono determinare l’inefficacia, nei confronti dei gatekeeper, di gran parte degli obblighi derivanti dalle norme interne sull’abuso di dipendenza economica, sono suscettibili di private enforcement, nei termini stabiliti dall’art. 39 DMA.
Qui si deve subito aggiungere che un problema di coordinamento, in parte analogo a quello sopra esaminato, si pone con riguardo alle norme del reg. UE/2019/1150, «che promuove equità e trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online» (c.d. Regolamento P2B). Questo regolamento non si applica a tutte le piattaforme digitali, ma solo a quelle che forniscono servizi di intermediazione online o servizi di motore di ricerca online (cioè solo ai primi due fra i dieci «servizi di piattaforma di base» elencati nell’art. 2 DMA). Inoltre, l’applicazione è limitata ai servizi offerti ad imprese (art. 1, § 2). Si tratta comunque di un segmento molto importante dei mercati digitali. Il regolamento prevede obblighi di informazione dettagliati, anche per ciò che riguarda il posizionamento che gli utenti commerciali riceveranno nella piattaforma, nonché sulle condizioni di trattamento differenziato eventualmente previste; prevede anche obblighi di trasparenza e di motivazione per i casi di sospensione o cessazione del rapporto, nonché il divieto di alcune clausole contrattuali.
Quanto ai rapporti con i diritti nazionali, il reg. P2B sancisce, all’art. 1, § 4, che «Il presente regolamento non pregiudica la legislazione nazionale che, secondo il diritto dell’Unione, vieta o sanziona i comportamenti unilaterali o le pratiche commerciali sleali nella misura in cui gli aspetti pertinenti non sono contemplati dal presente regolamento. Il presente regolamento non pregiudica il diritto civile nazionale». Analogamente al DMA, il regolamento P2B prevede dunque che, in caso di sovrapposizione, le norme europee si applichino in via esclusiva, mentre le norme nazionali rimangono efficaci per la disciplina di “aspetti non contemplati” dal Regolamento (con una differenza, all’art. 10, § 2, per le clausole che prevedono limitazioni alla facoltà degli utenti commerciali di ricorrere a canali di offerta alternativi: in questa materia sono fatte salve le norme nazionali che prevedano divieti o limitazioni di tali clausole e quindi sembra tornarsi ad un’ipotesi di applicazione cumulativa, come quelle sopra viste per le norme antitrust).
Una differenza fondamentale fra il DMA e il reg. P2B è però che quest’ultimo prevede un’applicazione decentrata da parte degli Stati membri.
Ciò è scontato, anzitutto, per il private enforcement, per il quale sono espressamente fatte salve – come si è visto – le norme del «diritto civile nazionale» (anche se per alcune clausole è lo stesso regolamento, all’art. 3, § 3, a sancire che le stesse sono «nulle e prive di validità»). Lo stesso regolamento poi dispone (art. 14) che le azioni giudiziarie possano essere esercitate tanto in forma individuale quanto in forma collettiva.
Anche per il public enforcement è data un’ampia autonomia agli Stati membri. L’Italia ha provveduto, in proposito, con l’art. 1, cinquecentoquindicesimo comma, l. 30 dicembre 2020, n. 178 (legge di bilancio 2021), che ha attribuito le competenze sanzionatorie all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCom) [28]. Questa ha anche adottato «Linee guida per l’adeguata ed efficace applicazione del Regolamento (UE) 2019/1150» (All. A alla Del. AGCom 406/22/CONS del 24 novembre 2022).
L’art. 1, cinquecentosedicesimo comma, della l. n. 178/2020, ha però fatte salve le competenze dell’autorità antitrust (AGCM) in materia di pratiche commerciali scorrette. Ciò determina un delicato problema di compatibilità con il citato art. 1, § 4, del reg. P2B, che limita l’efficacia delle norme nazionali su materie contemplate dal regolamento stesso (le norme sulle pratiche commerciali scorrette sono pur sempre norme nazionali, anche se adottate in conformità a una direttiva europea molto dettagliata). Ciò induce ad ammettere che, anche per le violazioni del reg. P2B che possono essere qualificate come pratiche scorrette, debba valere la competenza sanzionatoria dell’AGCom, sancita dal cinquecentoquindidicesimo comma. Per non giungere, tuttavia, ad un’interpretazione abrogativa del cinquecentosedicesimo comma, una soluzione “conservativa” potrebbe essere quella dell’ammissione di una competenza sanzionatoria cumulativa dell’AGCM per il caso in cui la condotta vietata dal reg. P2B (le cui norme rimangono le sole direttamente applicabili alla fattispecie) integri anche gli estremi di una pratica commerciale scorretta ai sensi del codice del consumo. L’eventuale cumulo sanzionatorio dovrà essere temperato dal principio di proporzionalità, alla stregua dei criteri dettati dalla giurisprudenza europea, di cui sopra si è detto.
Senza ulteriormente soffermarsi sui problemi di interpretazione e applicazione del reg. P2B, resta comunque evidente che anch’esso pone dei limiti incisivi alla possibilità di esplicazione di un public enforcement nazionale contro le piattaforme digitali, mediante un’applicazione diretta delle norme che vietano l’abuso di dipendenza economica.
Dopo queste lunghe premesse sul regolamento di confini tra norme europee sulle piattaforme digitali e norme interne sul divieto di abuso di dipendenza economica, si può ora procedere all’esame dei problemi esegetici posti dall’art. 33, l. n. 118/2022.
Il primo (e centrale) problema riguarda la presunzione legale relativa di dipendenza economica, applicata in presenza di una piattaforma digitale «che ha un ruolo determinante per raggiungere utenti finali e/o fornitori, anche in termini di effetti di rete o di disponibilità di dati».
In primo luogo, è opportuno occuparsi dell’applicazione della norma in sede giudiziaria (e non in sede amministrativa, cioè dinanzi all’AGCM).
In sede giudiziaria il problema si pone in termini lineari, e cioè nei termini di rapporto bilaterale fra un attore e un convenuto (anche se non può escludersi, in linea di principio, la possibilità di un’azione collettiva ex art. 840-bis, c.p.c., esercitata nell’interesse di una pluralità di imprese dipendenti).
Nel giudizio, l’attore farà valere la presunzione legale di dipendenza economica. Questa, come tutte le presunzioni legali (ai sensi dell’art. 2727 c.c.), richiede – ai fini dell’applicazione – un procedimento logicamente distinguibile in due fasi: nella prima si deve acquisire al processo un «fatto noto», costituente presupposto della presunzione; nella seconda si adotta una decisione sulla base del “fatto presunto” (cioè provato indirettamente, ex lege, una volta acquisito il presupposto del fatto noto). Il fatto presunto, a sua volta, è suscettibile di prova contraria da parte del soggetto interessato.
Il fatto noto presupposto dev’essere, tuttavia, a sua volta provato, a meno che non costituisca una «nozione di comune esperienza», ai sensi dell’art. 115 c.p.c.
Nella normalità dei casi, dunque, l’attore avrà l’onere di provare che la piattaforma convenuta svolge un «ruolo determinante ecc.». Sul piano testuale, la qualifica di «determinante» per raggiungere gli utenti finali o i fornitori letteralmente significa che, senza tali servizi di piattaforma di base, l’impresa attrice non potrebbe raggiungere, o non potrebbe farlo a condizioni economicamente soddisfacenti, gli utenti finali o i fornitori. L’espressione ha una connotazione di “necessarietà” (economica) per l’impresa attrice. Viene allora in evidenza un’apparente identità fra questo requisito e quello della mancanza di possibilità di reperire sul mercato alternative soddisfacenti, che l’art. 9, primo comma, l. n. 192/1998, indica come elemento tipico del rapporto di dipendenza economica [29].
In proposito, si deve considerare che è opinione diffusa in dottrina quella secondo cui l’assenza di concrete alternative sul mercato – con la corrispondente sussistenza di un partner “obbligato” – resta, in realtà, l’essenziale parametro costitutivo della fattispecie (della dipendenza economica) [30]. Il «ruolo determinante», di cui parla l’art. 33 in commento, sembrerebbe dunque coincidere con un elemento centrale della fattispecie costitutiva della dipendenza economica.
In questa prospettiva si determinerebbe, nell’art. 33 in commento, un corto circuito: il fatto noto (presupposto della presunzione) finirebbe per coincidere con il fatto presunto (che è, appunto, la dipendenza economica). La norma apparirebbe sostanzialmente inutile.
Per superare questa impasse, e per rispettare il principio di conservazione delle norme di legge [31], credo che una via d’uscita possa consistere nel ritenere che la “posizione determinante”, di cui parla l’art. 33, sia una posizione riferita, in via sintetica, ad un intero mercato (senza, dunque, necessità di provare una dipendenza economica individuale, che è invece il fatto presunto). Si tratterà dunque di provare che, per un’impresa ragionevolmente efficiente (quindi in via generale e tipizzata), l’accesso ai servizi della piattaforma digitale di cui si tratta costituisce una scelta economicamente necessitata (anche se ciò non esclude che pur sia possibile il ricorso a qualche altra piattaforma alternativa, dotata di minore presenza nel mercato, o alla vendita online su un proprio sito, o ad altre modalità commerciali). Invece, la prova contraria, che può esser data dalla piattaforma convenuta in giudizio, dovrà riguardare il rapporto bilaterale intercorrente con la parte attrice, e quindi la concreta possibilità di quest’ultima di reperire alternative nel mercato. In altri termini, la prova contraria, da parte della piattaforma convenuta, dovrebbe avere ad oggetto la concreta «assenza di sudditanza negoziale nei [suoi] confronti, anche in ragione delle alternative disponibili nel mercato» [32].
L’onere probatorio a carico dell’impresa attrice non è proibitivo, ma neanche semplice, perché in ogni caso richiede un’analisi del mercato (o dei mercati) di riferimento. Si tratta quindi, pur sempre, di una prova complessa [33], comunque non tanto più semplice rispetto alla prova di versare, in concreto, in una situazione di dipendenza economica. In qualche caso, la prova potrà essere agevolata dall’esistenza di provvedimenti giudiziari, o dell’AGCM, che hanno qualificato la piattaforma convenuta come impresa dominante in quel mercato in cui l’impresa dipendente lamenta di avere subito condotte abusive.
La prova contraria, da parte della piattaforma convenuta, è ancora più difficile (anche se questa normalmente disporrà di strumenti tecnici e finanziari superiori a quelli di cui dispone la parte attrice) [34]. Infatti, la parte convenuta – pur essendo in possesso di maggiori informazioni sulle dinamiche complessive del mercato – è chiamata a dare una prova incentrata sulla concreta posizione di mercato dell’impresa attrice, e ciò richiede la conoscenza di una serie di elementi (disponibilità finanziarie, know-how, piani strategici, ecc.), che spesso costituiranno informazioni commerciali riservate [35].
Quanto detto vale nelle ipotesi in cui l’azione venga intentata contro una piattaforma digitale che non è stata designata come gatekeeper dalla Commissione UE. Quando invece la convenuta sia stata designata come gatekeeper, ci si deve chiedere se ciò sia sufficiente a rendere applicabile la presunzione legale, in quanto la “posizione determinante” sarebbe divenuta una nozione di comune esperienza, ai sensi dell’art. 115 c.p.c.
Un dubbio potrebbe insorgere per il fatto che il DMA, ai fini della designazione di una piattaforma come gatekeeper, richiede (art. 3, § 1) che questa fornisca un punto di accesso «importante» affinché gli utenti commerciali raggiungano gli utenti finali. Sul piano testuale, una posizione «importante» è meno di una posizione «determinante». Tuttavia, richiamando quanto si è detto prima, la posizione «determinante» non richiede l’esistenza di un monopolio assoluto o di una assoluta insostituibilità tecnica della piattaforma de qua, ma si traduce in una forte posizione di mercato, che a sua volta genera la necessità, per un’impresa ragionevolmente efficiente, di ricorrere ai servizi della piattaforma digitale de qua. In questa prospettiva, i gatekeeper del DMA, che sono così definiti in quanto titolari di un forte potere di mercato, per giunta di carattere consolidato e duraturo, sembrano integrare tutti i requisiti necessari per l’operare della presunzione legale dell’art. 33. È interessante anche notare che lo stesso testo del DMA parla più volte di situazione di dipendenza economica degli utenti commerciali rispetto ai gatekeeper (cons. 2, 40, 75).
Ciò non esclude che l’impresa gatekeeper possa vincere la presunzione dimostrando, pur con tutte le difficoltà sopra segnalate, che, nello specifico segmento di mercato in cui opera la controparte (per ipotesi in un territorio determinato), o per la concreta posizione di mercato dell’impresa attrice, questa non si trova in una condizione di necessità economica di ricorrere ai servizi della piattaforma convenuta.
Tutto ciò vale sul piano della ricostruzione normativa, ma, il più delle volte, per l’impresa attrice potrà essere più conveniente esercitare un’azione civile direttamente fondata sulla violazione di norme del DMA da parte di un gatekeeper che non un’azione per abuso di dipendenza economica fondata sull’attivazione della presunzione ex art. 33 a carico del gatekeeper. La scelta della prima via impedisce infatti l’insorgere di tutte le questioni derivanti dalla sovrapposizione fra norme di condotta europee, dettate dal DMA, e norme di condotta nazionali (di cui si è discusso supra, § 2.3). Si è anzi sostenuto, plausibilmente, che nell’ordinamento italiano le eventuali condotte dei gatekeeper contrari alle prescrizioni del DMA possano dar luogo ad azioni di concorrenza sleale per violazione dei principi di correttezza professionale [36].
Le riflessioni sopra svolte subiscono diversi adattamenti se si considera l’applicazione della presunzione non più in sede giudiziaria, bensì nei procedimenti amministrativi dinanzi all’AGCM.
In primo luogo, occorre notare che l’AGCM, ai fini dell’avvio di un procedimento di abuso di dipendenza economica, deve accertare che l’ipotesi accusatoria «abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato». Infatti, il comma 3-bis dell’art. 9, l. n. 192/1998, non è stato toccato dalla legge di riforma in commento e rimane pienamente applicabile [37]. L’accertamento di questo presupposto non è apparso finora semplice, tant’è vero che l’AGCM, per lunghi anni, si è astenuta dall’applicare la norma, che è stata improvvisamente rivalutata in una serie di procedimenti degli ultimi anni [38].
Il requisito della rilevanza concorrenziale della dipendenza economica non risulta ancora definitivamente messo a fuoco, nella casistica dell’Autorità. Secondo alcuni, questa casistica non fornisce idonei elementi di orientamento [39]. Secondo un’altra ricostruzione [40], che a me sembra attendibile, la rilevanza concorrenziale consiste, per l’Autorità, nel fatto che la situazione di dipendenza non è limitata a un rapporto bilaterale, ma investe una serie di rapporti paralleli. Questa soluzione, peraltro, porta a riconoscere che l’accertamento della dipendenza economica di rilevanza concorrenziale finisce sostanzialmente per coincidere con l’accertamento di una tipica posizione dominante “verticale” in un certo mercato [41], con la sola differenza di consentire un percorso probatorio semplificato.
In ogni caso, l’Autorità non è un soggetto che agisce di fronte ad un giudice terzo, in contraddittorio con una controparte, ma è un soggetto dotato di poteri inquisitori, che può avviare d’ufficio i suoi procedimenti sanzionatori. L’onere di provare i fatti che stanno a fondamento del potere sanzionatorio dell’Autorità si traduce quindi nell’onere, in capo all’Autorità stessa, di svolgere un’adeguata istruttoria su tali fatti e di fornire un’adeguata motivazione dei propri provvedimenti. Ciò significa che l’atto di avvio del procedimento dovrà contenere, a pena di illegittimità, un’adeguata dimostrazione del «ruolo determinante ecc.» (oltre che, come si è detto prima, della rilevanza del caso per la concorrenza in generale). Su questi elementi potrà immediatamente svilupparsi una dialettica procedimentale, in cui la piattaforma destinataria dell’atto di avvio potrà ampiamente valorizzare tutti gli elementi di conoscenza dei mercati in suo possesso [42].
Si deve poi rilevare che, una volta accertato il «ruolo determinante ecc.» la piattaforma, dato il carattere relativo della presunzione, può ancora provare che, in concreto, non sussiste una posizione bilaterale di dipendenza economica. La piattaforma può trovarsi però nell’impossibilità di fornire la prova contraria sulla dipendenza economica. Infatti, il procedimento dinanzi all’AGCM non è un procedimento in contraddittorio fra parti private (ci possono essere uno o più denunzianti, ma questi non sono tecnicamente controparti, come in un giudizio civile). In pratica, quando il procedimento è avviato su denunzia di un soggetto determinato, la prova contraria potrà concentrarsi sulla posizione del denunziante. Può accadere tuttavia, ed è concretamente accaduto nella prassi applicativa, che non ci sia una controparte privata (in senso sostanziale), perché il procedimento è stato aperto d’ufficio e i nomi dei denunzianti sono mantenuti segreti. In tali casi, non sarà possibile calibrare una prova contraria sulla mancanza di sudditanza negoziale, come prevede la legge. In sostanza, il meccanismo presuntivo previsto dall’art. 33 finirà qualche volta (o spesso) per funzionare, quando applicato nei procedimenti AGCM, come una presunzione assoluta, per l’impossibilità logica, per la piattaforma, di fornire la prova contraria sulla dipendenza economica di una controparte non individuata [43].
A ciò si aggiunga che anche nei procedimenti AGCM di cui si tratta possono insorgere le questioni derivanti dalla sovrapposizione fra norme di condotta europee, dettate dal DMA, e norme di condotta nazionali (di cui si è discusso supra, § 2.3). In questo caso, in sede giudiziaria il problema può essere risolto se l’attore invoca, in via alternativa o subordinata, l’applicazione diretta del DMA. Lo stesso non può però avvenire in sede di public enforcement, ove, in caso di sovrapposizione con le norme del DMA, le norme nazionali sull’abuso di dipendenza economica divengono prive di efficacia. All’Autorità non resterà dunque che avviare il procedimento, eventualmente, sulla base delle norme antitrust sul divieto di abuso di posizione dominante.
In conclusione, credo che il ruolo della norma in esame, al fine di favorire iniziative delle autorità nazionali contro i “giganti del web”, sia stato sopravvalutato, tanto più che l’avvio di procedimenti per abuso di dipendenza economica richiede pur sempre il coordinamento con la Commissione, ex art. 38 DMA, alla stessa stregua dei procedimenti antitrust.
La lett. b) del primo comma dell’art. 33 della l. 5 agosto 2022, n. 118 contiene, testualmente con riferimento alle sole piattaforme digitali «di cui al comma 1», un ampliamento delle ipotesi tipizzate di abuso, che si aggiungono a quelle già previste nel testo originario dell’art. 9, l. n. 192/1998.
Le nuove ipotesi sembrerebbero riferite – sul piano testuale – solo alle piattaforme che abbiano un ruolo determinante per raggiungere utenti finali o fornitori e non a tutte le piattaforme digitali in quanto tali, cui si applicherebbe la disciplina generale. Il punto, tuttavia, non è particolarmente rilevante. Infatti, nell’interpretare la portata dei nuovi obblighi si deve considerare che le ipotesi originarie di abuso, di cui al secondo comma dell’art. 9, non hanno carattere di tassatività, bensì solo esemplificativo [44]. Anche le nuove ipotesi, riferite alle piattaforme digitali, sono da considerare non tassative, giacché testualmente la nuova disciplina dispone che le pratiche abusive possono “consistere anche” (e non, dunque, esclusivamente) nelle ipotesi tipizzate di abusi. Non è dunque da ritenere che le nuove ipotesi costituiscano norma speciale applicabile alle sole piattaforme digitali.
Ciò premesso, queste nuove ipotesi sono le seguenti:
a) «fornire informazioni o dati insufficienti in merito all’ambito o alla qualità del servizio erogato»;
b) «richiedere indebite prestazioni unilaterali non giustificate dalla natura o dal contenuto dell’attività svolta»;
c) «adottare pratiche che inibiscono od ostacolano l’utilizzo di diverso fornitore per il medesimo servizio»[45].
Per quanto riguarda le ipotesi elencate sub b) e c), può dirsi che integrano figure note di abusi di posizione dominante (rispettivamente, tying contracts e clausole escludenti a danno di concorrenti). Come tali, esse potevano già agevolmente rientrare nella previsione generale di «eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi», contenuta nell’art. 9. L’integrazione espressa è comunque opportuna (e sembra da ribadire la possibilità di un’interpretazione estesa, che porti a ritenere applicabile la previsione anche con riferimento al divieto di abuso di dipendenza economica in generale).
Invece, l’ipotesi sub a), che consiste nel fornire informazioni o dati insufficienti in merito all’ambito o alla qualità del servizio erogato, sembra effettivamente nuova. Se questa previsione fosse intesa alla lettera, porterebbe a configurare come abuso di dipendenza economica qualsiasi difetto di trasparenza informativa (con una portata potenzialmente così ampia da superare l’ambito degli obblighi informativi previsti a tutela dei consumatori). È stato però giustamente ritenuto [46] che la previsione degli obblighi informativi dev’essere interpretata alla luce dello scopo generale della norma sul divieto di abuso di dipendenza economica e quindi non può essere applicata per sanzionare qualsiasi difetto di trasparenza, ma solo quelle omissioni informative che comportino un eccessivo squilibrio nel rapporto contrattuale fra le parti (così come accade per le omissioni informative nei rapporti pubblicitari, ora vietate dal DMA).
La lett. c) del primo comma dell’art. 33 in commento attribuisce opportunamente alle sezioni specializzate in materia di impresa la competenza a decidere le azioni civili in materia di abuso di dipendenza economica. La norma pone fine a precedenti incertezze e corregge l’indirizzo giurisprudenziale prevalente, che riteneva applicabili, in questa materia, le norme di competenza generali per le azioni contrattuali [47]. Il testo normativo è chiaro nel definire la competenza per tutte le azioni civili in materia di abuso di dipendenza economica e non solo per quelle rivolte contro le piattaforme digitali e fondate sulla presunzione di cui si è discusso.
Si noti che la competenza è attribuita a tutte le sezioni specializzate, e non alle sole tre sezioni competenti per le controversie in materia di antitrust (di cui all’art. 4, comma 1-ter, d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168).
Si noti anche che, per le azioni civili per violazione di norme del DMA, rimangono per il momento applicabili le norme generali di competenza. È auspicabile che il legislatore nazionale, nel dettare norme di attuazione interne del DMA, estenda anche alle azioni civili relative la norma sulla competenza delle sezioni specializzate.
C’è da chiedersi cosa accade se, nello stesso processo, sia presentata cumulativamente una domanda principale per abuso di dipendenza economica ed una subordinata per violazione del DMA (o viceversa). Se la competenza è comunque nella stessa sede, non dovrebbero insorgere problemi, se si segue la tesi corrente, secondo cui il riparto di competenze fra sezioni ordinarie e sezioni specializzate dello stesso Tribunale ha rilevanza meramente tabellare e non incide sulla competenza [48]. Nel caso in cui le due competenze si radicano su sedi diverse, il giudice adito in quanto competente sulla domanda principale, dovrebbe dichiararsi incompetente sulla subordinata, in caso di rigetto della principale [49].
In ogni caso, la scelta normativa a favore della competenza delle sezioni specializzate sulle controversie in materia di dipendenza economica può avere un qualche peso anche sul piano sistematico, a favore delle tesi che vedono questa disciplina come un capitolo del diritto della concorrenza e non come una disciplina meramente “civilistica”.
L’art. 33 in commento dispone anche che La Presidenza del Consiglio dei ministri, d’intesa con il Ministero della giustizia e sentita l’AGCM [50], «può adottare apposite linee guida dirette a facilitare l’applicazione delle disposizioni di cui al comma 1, in coerenza con i princìpi della normativa europea, anche al fine di prevenire il contenzioso e favorire buone pratiche di mercato in materia di concorrenza e libero esercizio dell’attività economica».
L’adozione delle Linee Guida è espressamente dichiarata facoltativa, per il Governo, sicché l’entrata in vigore della nuova disciplina non è condizionata alla pubblicazione delle stesse (è invece disposta un’entrata in vigore a data fissa: 31 ottobre 2022).
Altra indicazione espressa della norma in esame è che l’atto governativo in questione non avrà natura di regolamento, ma di istruzione amministrativa. Ciò suscita qualche perplessità, dal momento che la presunzione di cui al primo comma (che sarà oggetto delle Linee Guida) è destinata ad essere applicata da parte dei giudici ordinari, che sono soggetti solo alla legge e non agli atti di indirizzo del Governo, nonché dall’AGCM, che è sì un’autorità amministrativa, ma indipendente, e come tale anch’essa soggetta soltanto alla legge (si noti peraltro che l’Autorità, singolarmente, è chiamata ad esprimere un parere obbligatorio su Linee Guida governative che sono dirette anche a se stessa). Per le stesse ragioni, le L.G. non saranno vincolanti per i giudici amministrativi che saranno chiamati ad esercitare il sindacato giurisdizionale sugli atti dell’AGCM, applicativi dell’art. 33, l. n. 118/2022.
In pratica, può prevedersi che le Linee Guida, se mai vedranno la luce, saranno essenzialmente una comunicazione dell’AGCM, avallata dal Governo, sui propri programmi di applicazione della presunzione dell’art. 33.
A prescindere dai (non semplici) profili di forma e di struttura delle L.G., sembra comunque che il legislatore ne abbia previsto l’inserimento nell’art. 33 perché si è reso conto dei non facili problemi interpretativi ed applicativi che la nuova presunzione comporta, nonché degli altrettanto complessi problemi di coordinamento della norma nazionale sulla presunzione con «i princìpi della normativa europea». Da qui l’opportunità di emanare un documento “facilitante”, che dovrebbe di fatto favorire orientamenti interpretativi comuni nell’applicazione della norma.
Il documento di L.G., in sostanza, dovrebbe affrontare gli stessi problemi interpretativi che sono stati oggetto delle presenti note. Esso, tuttavia, non avrà carattere vincolante, ma solo di raccomandazione rivolta alle autorità decidenti e sarà naturalmente soggetto a commenti dottrinali, adesivi o critici. Per le sue caratteristiche, non credo che il documento possa considerarsi “immediatamente lesivo” e quindi direttamente oggetto di sindacato giurisdizionale [51]. Dovrà invece essere impugnato, se del caso, insieme all’atto esecutivo, che si sia espressamente attenuto alle indicazioni delle L.G.
Nel merito, l’indicazione ricavabile dalla norma è quella di favorire, mediante le L.G., interpretazioni “facilitanti”, cioè volte a limitare le difficoltà applicative dell’art. 33. L’indicazione appare, in qualche misura, ingenua, perché i vincoli derivanti dal coordinamento con il diritto europeo non sono certamente disponibili da parte del Governo (e neanche del legislatore) ed anche gli altri problemi interpretativi posti dall’art. 33 sono oggettivamente complessi e non sembrano potersi risolvere con soluzioni facilitanti e, insieme, legittime.
[1] L’attuale art. 9 è, pertanto, stato riformulato come segue: (Abuso di dipendenza economica):
1. È vietato l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice. Si considera dipendenza economica la situazione in cui una impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subìto l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti. Salvo prova contraria, si presume la dipendenza economica nel caso in cui un’impresa utilizzi i servizi di intermediazione forniti da una piattaforma digitale che ha un ruolo determinante per raggiungere utenti finali o fornitori, anche in termini di effetti di rete o di disponibilità dei dati.
2. L’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto. Le pratiche abusive realizzate dalle piattaforme digitali di cui al comma 1 possono consistere anche nel fornire informazioni o dati insufficienti in merito all’ambito o alla qualità del servizio erogato e nel richiedere indebite prestazioni unilaterali non giustificate dalla natura o dal contenuto dell’attività svolta, ovvero nell’adottare pratiche che inibiscono od ostacolano l’utilizzo di diverso fornitore per il medesimo servizio, anche attraverso l’applicazione di condizioni unilaterali o costi aggiuntivi non previsti dagli accordi contrattuali o dalle licenze in essere.
3. Il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica è nullo. Il giudice ordinario competente conosce delle azioni in materia di abuso di dipendenza economica, comprese quelle inibitorie e per il risarcimento dei danni. Le azioni civili esperibili a norma del presente articolo sono proposte di fronte alle sezioni specializzate in materia di impresa di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 27 giugno 2003, n. 168.
3-bis. Ferma restando l’eventuale applicazione dell’articolo 3 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato può, qualora ravvisi che un abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato, anche su segnalazione di terzi ed a seguito dell’attivazione dei propri poteri di indagine ed esperimento dell’istruttoria, procedere alle diffide e sanzioni previste dall’articolo 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, nei confronti dell’impresa o delle imprese che abbiano commesso detto abuso.
In caso di violazione diffusa e reiterata della disciplina di cui al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, posta in essere ai danni delle imprese, con particolare riferimento a quelle piccole e medie, l’abuso si configura a prescindere dall’accertamento della dipendenza economica.
[2] V., per tutti, V. Bachelet, Il rafforzamento del contrasto agli abusi di posizione “non dominante” delle piattaforme digitali, in Nuove leggi civ. comm., 2023, 39 ss.
[3] Così A. Moliterni, La legge annuale sul mercato e la concorrenza ai tempi del PNRR, in GDA, 2022, 586; ma si tratta di opinione diffusa. Per V. Falce, Rapporti asimmetrici fra imprese e soluzioni pro-concorrenziali, in Riv. dir. ind., 2021, 200, la riforma realizza «un formidabile incentivo ad adottare comportamenti virtuosi verso le imprese».
Spesso si nota anche che, sul piano comparatistico, la recente riforma italiana si inserisce in una tendenza più ampia – sostenuta dalle autorità antitrust nazionali – a rafforzare la possibilità di impiego di norme nazionali sull’abuso di dipendenza economica, in quanto ritenute di più facile applicazione rispetto alle norme sul divieto di abuso di posizione dominante (cfr. R. Alimonti, M. Johnson, Abuse of economic dependence and its interaction with competition policy: the economics perspective, in Competition L. J., 2022, 87 ss.; A. Licastro, La riscoperta dell’abuso di dipendenza economica nell’era dei mercati digitali, reperibile in Federalismi.it, 4 maggio 2022; M.W. Monterossi, La tutela dell’utente commerciale nei mercati digitali, in Contr. impr., 2021, 919 ss.).
[4] Per una trattazione più diffusa dei temi accennati di seguito nel testo, v. M. Libertini, Il Regolamento europeo sui mercati digitali e le norme generali in materia di concorrenza, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 1069 ss.
[5] Cfr. P. Akman, Regulating Competition in Digital Platform Markets. A Critical Assessment of the Framework and Approach of the EU Digital Markets Act, in European L. Rev., 2022 (4 della versione disponibile su https://eprints.whiterose.ac.uk/181328/).
[6] Sulle ragioni che stanno a fondamento di questa scelta politica v., più ampiamente, G. Monti, The Digital Markets Act – Institutional Design and Suggestions for Improvement, TILEC Discussion Paper No. 2021-04, February 22, 2021, reperibile al seguente indirizzo: https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3797730, 5-6.
[7] Rinvio a M. Libertini, (nt. 4), ove altre indicazioni, cui adde A, Ezrachi, EU Competition Law and The Digital Economy, Oxford Legal Studies Research Paper No. 17/2018, June 6, 2018, reperibile al seguente indirizzo: https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_
id=3191766.
[8] V., per tutti, P. Akman, (nt. 5), 26. Ampiamente, sul punto, G. Monti, (nt. 6), 15 ss., il quale prevede, ragionevolmente, che la prassi si assesterà nel senso di un’applicazione solo sussidiaria delle norme generali di concorrenza.
[9] Cfr., p.e., P. Baschenhof, The Digital Markets Act (DMA): A Procompetitive Recalibration of Data Relations?, in Journal of Law, Technology & Policy, 2022, 101 ss., spec. 148; e già G. Contaldi, La proposta della Commissione europea di adozione del “Digital Markets Act”, in Papers di diritto europeo, 2021, 86 ss.
[10] CGUE, Grande Sez., 22 marzo 2022, causa C-117/20, bpost SA; CGUE, Grande Sez., 22 marzo 2022, causa C-151/20, Nordzucker AG.
In senso conforme a quanto sostenuto nel testo, A. Andreangeli, The Digital Markets Act, EU competition enforcement and fundamental rights: some reflection on the future of ne bis in idem in digital markets, in CPI Antitrust Chronicle, Dec. 22, 2022, 43 ss.
Si noti, tuttavia, che secondo la Corte costituzionale, l’applicazione cumulativa di due norme sanzionatorie deve limitarsi ai casi di interferenza fra le norme stesse e non si estende ai casi di piena sovrapposizione fra due diverse norme sanzionatorie, nel qual caso devono tornare a prevalere i criteri di soluzione delle antinomie normative, fra cui il principio di specialità (cfr. Corte Cost., 16 giugno 2022, n. 149, su cui v. il commento adesivo – molto critico sull’indirizzo della CEDU e della Corte di Giustizia, tendente a risolvere il principio del ne bis in idem nell’applicazione del principio di proporzionalità al cumulo sanzionatorio – di J. Della Valentina, Il paradigma del ne bis in idem tra proporzionalità assorbente, rinnovata concezione processuale e overlapping protection, in Sistema penale, 24 novembre 2022).
[11] V., da ultimo, CGUE, sez. I, 5 maggio 2022, causa C-570/20, BV.
[12] «Matters» nel testo inglese, «points» in quello francese, «Angelegenheiten» in quello tedesco, «cuestiones» in quello spagnolo.
[13] Per V. Falce, (nt. 3), 200, il DMA tratterebbe allo stesso modo il rapporto fra il DMA e le norme nazionali sulla tutela della concorrenza e sul divieto di abuso di dipendenza economica. A me sembra che il dato testuale dell’art. 1, § 6, lett. b, DMA, smentisca la tesi di una piena assimilazione fra le due categorie di norme.
[14] Opinione corrente, fondata sul dato testuale dell’art. 9, l. n. 192/1998, in cui l’abuso di dipendenza economica è definito come condotta che si realizza «nei rapporti commerciali con un’altra impresa». Cfr., p.e., S. Scalzini, Abuso di dipendenza economica, mercati digitali e libertà d’impresa, in questa Rivista, 2022, 140.
La relazione bilaterale di cui si tratta non è necessariamente interna ad un rapporto contrattuale in atto, ma può consistere in una relazione di fatto, anteriore o collaterale o successiva all’esistenza di un contratto fra le parti [v., per tutti, V. Minervini, L’abuso di dipendenza economica a rilevanza concorrenziale nelle prime decisioni dell’AGCM. Fattispecie, rapporto con il private enforcement e prospettive applicative, in Riv. reg. merc., 2022, 516 ss.; nonché V. Bachelet, Abusi “contrattuali” fra imprese: per una rilettura dell’art. 9 della legge sulla subfornitura industriale, in Riv. dir. comm., 2021, I, 612 ss.].
[15] Così, sembra, L. Idot, Introductory Remarks – Digital Market Act: Competition Law and Digital Giants, in Concurrences, 3/2022, §§ 27 e 28, che ritiene applicabile all’abuso di dipendenza economi a l’art. 1.6.a DMA (pur criticando questa soluzione sul piano politico-legislativo). La soluzione mi sembra però incompatibile con il testo dell’art. 1.6, che distingue l’abuso di posizione dominante dalle altre condotte unilaterali vietate da norme nazionali.
Per l’applicazione integrale delle norme nazionali sull’abuso di dipendenza economica v. anche M. Behar-Touchais, Articulation avec les autres textes existants, ivi, in base a una discutibile costruzione delle norme del DMA come norme speciali in materia di pratiche commerciali sleali, come tali estranee alla materia disciplinata dal divieto di abuso di dipendenza economica.
[16] S. Lee, A Theoretical Understanding of Abuse of Economic Dependence in Competition Law, (June 24, 2022), 17th ASCOLA Conference, Porto, June 30-July 2, 2022, reperibile al seguente indirizzo: https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=4134583; P. Bougette, O. Budzinski, F. Marty, Exploitative Abuse of Economic Dependence: What Can We Learn From the Industrial Organization Approach?, in GREDEG Working Papers Series, No. 2017/37.
In Italia v. già P. Fabbio, L’abuso di dipendenza economica, Milano, Giuffrè, 2006; C. Osti, L’abuso di dipendenza economica, in Merc. conc. reg., 1999, 18.
Tendenzialmente contrari R. Alimonti, M. Johnson, (nt. 3).
[17] A mio avviso, l’argomento relativo all’analogia tra l’abuso di dipendenza economica e gli abusi di sfruttamento della norma antitrust è valido. Se si ritiene, come mi sembra difficilmente negabile alla stregua del diritto antitrust europeo “vivente”, che gli abusi di sfruttamento siano parte integrante e sostanziale dei divieti antitrust, è giocoforza ammettere che i rapporti contrattuali squilibrati che si instaurano spesso nelle reti di dipendenza economica (anche sotto il profilo di clausole di traslazione dei rischi di mercato a carico delle imprese dipendenti) costituiscano distorsioni della concorrenza on the merits, e meritino pertanto di essere sanzionate con le norme antitrust generali (fatta salva l’applicazione della regola de minimis: ma questa è un regola generale, per tutto l’ambito di applicazione delle norme antitrust, e che non vale per l’applicazione delle norme sulla dipendenza economica).
Più problematico mi sembra l’argomento relativo al livello efficiente di investimenti dell’impresa dipendente. Se, da un lato, è vero che una elevata protezione dell’impresa dipendente può agevolare la propensione di quest’ultima ad effettuare investimenti per rendere più efficiente la propria attività, è anche vero che un mercato complessivamente efficiente dovrebbe anche agevolare la trasformazione delle imprese dipendenti in imprese indipendenti (fenomeno possibile e sperimentato, se si pensa a quante imprese “terziste” sono state capaci di fare il salto ed affrontare direttamente il mercato). In questa prospettiva, può dubitarsi dell’efficienza di norme volte a stabilizzare il più possibile la posizione di dipendenza di un’impresa rispetto a un’altra.
[18] P.P. Ferraro, Dipendenza tecnica e dipendenza economica nella subfornitura industriale, Napoli, E.S.I., 2022, 91.
[19] Conf. V. Bachelet, (nt. 2), § 8. V. anche V. Minervini, (nt. 14), che sostiene, condivisibilmente, che l’abuso di dipendenza economica a rilevanza concorrenziale rientra nella definizione ampia di «diritto della concorrenza» contenuta nell’art. 2, primo comma, lett. b, d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3, che disciplina il risarcimento del danno antitrust. Importante conseguenza di questo assunto è che anche alle azioni di abuso di dipendenza economica di rilevanza concorrenziale si applicheranno le norme che rafforzano l’esercizio di azioni c.d. follow-on, cioè susseguenti ad una condotta della condotta illecita da parte dell’autorità antitrust.
[20] Il punto non risulta ancora messo a fuoco nei commenti al DMA. L’ambiguità dei criteri indicati nell’art. 1 DMA (così come di quelli indicati nell’art. 3, reg. 1/2003, che ne costituisce l’antecedente storico), è sottolineata da O. Brook, M. Eben, Who should guard the gatekeepers: does the DMA replicate the unworkable test of Regulation 1/2003 to settle conflicts between EU and National Laws?, in CPI Antitrust Chronicle, Dec. 2022, 37 ss. La posizione di queste aa. sul problema indicato nel testo è incerta: esse affermano che le norme nazionali possono applicarsi «to the extent they differ from the DMA»; poi precisano che esse possono applicarsi «as long as they do not undermine the uniform and effective application in the internal market of obligations imposed under the DMA»; infine, ritengono che il criterio distintivo base dell’art. 1 DMA – ripreso dall’art. 3, reg. 1/2003, e come questo criticato per la sua indeterminatezza – sia quello della differenza di obiettivi fra le diverse norme.
[21] È questa una scelta politico-legislativa molto criticata, tanto che in Germania è stato ufficialmente chiesto un emendamento del DMA al fine di ammettere l’eccezione (cfr. Monopolkommission, Empfehlungen für einen effektiven und effizienten Digital Markets Act, Sondergutachten 82/2021, 47 ss.). Resta però il fatto che l’attuale disciplina è rafforzata sul piano della certezza applicativa.
[22] Enfatizza la complessità di questi problemi P. Akman, (nt. 5), 26, preconizzando un’applicazione non facile della disciplina e la possibilità che la stessa fallisca gli obiettivi dichiarati di pervenire ad un rapido intervento nei confronti delle condotte di mercato delle grandi piattaforme digitali.
[23] Nei commenti sul DMA è stato anche manifestato il dubbio se la violazione delle norme del regolamento possa dar luogo ad azioni civili (cfr. C. Ritz, B. Weiss, T. Kleinschmitt, The Digital Markets Act: Towards a Compliance Concept For Gatekeepers, in CPI Antitrust Chronicle, Dec. 2022, 35). Sembra dare per scontato che l’enforcement del DMA sia solo pubblicistico V. Falce, (nt. 3), 200.
A me sembra tuttavia che – anche a prescindere da altre considerazioni, di principio – l’art. 39 DMA, menzionando possibili «questioni [giudiziarie] riguardanti l’applicazione del presente regolamento» e riprendendo la norma dell’art. 16 reg. 1/2003 sulla vincolatività delle decisioni giudiziarie nei procedimenti di private enforcement, non consenta di sollevare questo dubbio.
Per contro, valorizza l’importanza del private enforcement nell’attuazione delle norme del DMA G. Monti, (nt. 6), 12-13.
[24] Cfr. A.P. Komninos, The Digital Markets Act: How Does it Compare with Competition Law?, in Portale di diritto europeo e internazionale, 2022.
[25] Secondo P. Akman, (nt. 5), 26 nt. 118, il DMA non realizza a sufficienza la funzione di armonizzazione, proprio per lo spazio lasciato a norme nazionali differenziate, che prevedono obblighi ulteriori a carico delle imprese.
[26] Queste potenzialità applicative dipendono dalla disponibilità dei decisori amministrativi e giudiziari ad interpretare estensivamente ed evolutivamente le norme tradizionali sul divieto di abuso di posizione dominante (tema che non può essere approfondito in questa sede). Si deve tenere conto che una vasta letteratura contesta che i c.d. giganti del web abbiano un potere di mercato inattaccabile (v., da ultimo, J. Barnett, Fragile Giants: Reassessing Market Power in Platform Ecosystems, reperibile in www.competitionpolicyinternational.com, Jan. 18, 2023, secondo cui i mercati digitali danno normalmente luogo ad oligopoli naturali, ma le posizioni, all’interno di questi mercati, rimangono pienamente contendibili). Tuttavia, la corrente di pensiero tuttora prevalente tende ad ingigantire il potere di mercato delle grandi piattaforme digitali e ad affermare la necessità, anche costituzionale (per ragioni di tutela dei diritti fondamentali), di controlli giuridici su tale potere (v. da ultimo, nella dottrina italiana, F. Paruzzo, I sovrani della rete. Piattaforme digitali e limiti costituzionali al potere privato, Napoli, E.S.I., 2022). Questa linea di pensiero, se da un lato costituisce ragione ispiratrice del DMA, dall’altro dà sostegno ad interpretazioni estensive delle tradizionali norme antitrust.
[27] Trib. Milano, 18 novembre 2021, Guard c. Facebook, in Società, 2022, 705 ss., con nota adesiva di O. Cagnasso.
[28] Sulla compatibilità con il regolamento di alcune disposizioni dell’AGCom è stata sollevata questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia (T.A.R. Lazio, sez. IV-bis, 10 ottobre 2022, n. 12834). Non è necessario approfondire il punto in questa sede.
[29] È significativo il caso sopra ricordato alla nt. 27, in cui un tribunale italiano ha applicato la disciplina sul divieto di abuso di dipendenza economica a carico di una grande piattaforma digitale senza l’ausilio della nuova presunzione.
[30] V., p.e., A. Musso, La subfornitura, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, Zanichelli-Il Foro italiano, 2003, 496; A. Di Biase, L’abuso del potere negoziale nel contratto di distribuzione della stampa quotidiana e periodica, in Contr., 2015, 717 ss.
[31] V., da ultimo, Cass. civ., sez. III, 15 aprile 2022, n. 12387: «il principio di conservazione delle norme, per cui l’introduzione di queste non può essere sterilizzata sino a privarle di qualsiasi nuova portata concretamente precettiva, induce pertanto, in chiave ricostruttiva, e ferma la richiamata congruenza costituzionale, ad attribuire valore prescrittivo all’articolo in parola, ecc.».
[32] V. Falce, Abuso di dipendenza esteso alle grandi piattaforme digitali, in Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2022, 37.
[33] Conf. V. Bachelet, (nt. 2), che parla di «prova tutt’altro che scontata» e trae spunto da ciò per criticare quelle opinioni giornalistiche che hanno paventato «il rischio di facili automatismi sottesi al meccanismo presuntivo».
[34] Cfr. G. Colangelo, Piattaforme digitali e squilibrio di potere economico nel disegno di legge annuale sulla concorrenza: l’araba fenice della dipendenza economica, reperibile in etica
economia.it, 14 dicembre 2021 (nel quadro di una più generale critica a tutta l’impostazione della riforma in commento).
[35] Svaluta questo argomento V. Bachelet, (nt. 2), 17-18, secondo cui la conoscenza del proprio modello di business e del mercato di riferimento dovrebbero essere sufficienti, per l’impresa convenuta, per fornire, se ne sussistono le condizioni, la prova contraria. Mi sembra però che queste informazioni, possedute dall’impresa convenuta, possano essere da questa proficuamente utilizzate nella dialettica “a monte”, come prova contraria all’assunto dell’attore circa l’esistenza di una posizione determinante, piuttosto che come prova volta a contrastare la presunzione, una volta che il presupposto di questa sia stato acquisito.
[36] M.W. Monterossi, (nt. 3), 951 ss.
[37] Contrario, sul punto, V. Bachelet, (nt. 2), 4 e 26, secondo cui le caratteristiche del mercato delle piattaforme digitali fanno sì che la situazione di dipendenza economica si riflette normalmente su un intero mercato e non su un rapporto bilaterale. Pertanto, l’oggetto della presunzione legale finirebbe per coprire anche la rilevanza concorrenziale della dipendenza economica.
Il dato testuale mi sembra però chiaro nel senso che oggetto della presunzione legale è la dipendenza economica, ma non anche la rilevanza concorrenziale di questa. Che poi la prova di quest’ultima possa essere facilitata da considerazioni di comune esperienza, relative al funzionamento dei mercati digitali, può ammettersi, ma non esclude che, in linea di principio, i due elementi rimangano concettualmente distinti.
[38] L’esame di questi precedenti è stato condotto diligentemente da V. Minervini, (nt. 14) e da S. Scalzini, (nt. 14).
[39] S. Scalzini, (nt. 14).
[40] V. Minervini, (nt. 14).
[41] A questa conclusione giunge lo stesso, V. Minervini, (nt. 14).
[42] P. Fabbio, Abuso di dipendenza economica: non è una condanna a priori, reperibile in www.la voce.info, 23 novembre 2021.
[43] Si è ritenuto che i principi del diritto antitrust non ostino alla previsione di alcune presunzioni assolute, volte a facilitare l’applicazione delle norme sanzionatorie (cfr. A.S. Choné-Grimaldi, Les présomptions en droit de la concurrence, in Concurrences, 4/2022, 1 ss.; V. Falce, L’abuso di dipendenza economica nel digitale. Perché no?, reperibile in www.filo
diritto.com, 5 marzo 2022).
In effetti, può dubitarsi di questa conclusione, se si tiene presente che l’art. 2, reg. 1/2003, che pone sulle autorità antitrust l’onere della prova delle intese e delle posizioni dominanti, può essere inteso come una disposizione di principio, sistematicamente collegata alla presunzione di innocenza, correntemente ritenuta applicabile ai procedimenti antitrust (v., da ultimo, Cons. St., sez. VI, 4 ottobre 2022, n. 8505). Queste considerazioni, se pur riferite alla disciplina antitrust generale, dovrebbero ritenersi valide anche per la materia in esame.
[44] Cfr., per tutti, M.R. Maugeri, Subfornitura e abuso di dipendenza economica. Fra diritto civile e diritto della concorrenza, Torino, Giappichelli, 2022, 81.
[45] Il testo normativo aggiunge che questa terza ipotesi può realizzarsi «anche attraverso l’applicazione di condizioni unilaterali o costi aggiuntivi non previsti dagli accordi contrattuali o dalle licenze in essere». Questa, che formalmente è una sottoipotesi, sembra, in realtà, una figura distinta di abuso. Non si vede, infatti, come la pretesa arbitraria di costi o condizioni aggiuntive possa funzionare da strumento escludente a danno di fornitori concorrenti, come si richiede nell’ipotesi sopra elencata sub c). Se mai, la previsione sembrerebbe piuttosto integrare una sottoipotesi di quella sopra elencata sub b).
Peraltro, la pretesa arbitraria di prestazioni aggiuntive può rientrare già nella previsione di «imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose», contenuta nel testo originario dell’art. 9.
[46] M.R. Maugeri, in un lavoro in preparazione, di cui mi sono state cortesemente anticipate alcune conclusioni.
[47] V., p.e., Cass. civ., sez. VI, 23 febbraio 2018, n. 4421; Cass. civ., sez. VI, 4 novembre 2015, n. 22584.
[48] Cass. civ., sez. un., 23 luglio 2019, n. 19882.
[49] V., anche se con riferimento a diversa questione, Cass. civ., sez. I, 22 settembre 2005, n. 18634.
[50] A parte le più generali perplessità, esposte nel testo, la definizione delle competenze suscita qualche curiosità, per l’investitura diretta della Presidenza del Consiglio e per il mancato coinvolgimento dei ministeri economici.
[51] La giurisprudenza amministrativa ammette, com’è noto, il ricorso immediato solo per le istruzioni amministrative “immediatamente lesive” di diritti o interessi legittimi. Cfr., p.e., T.A.R. Lazio, sez. I, 4 marzo 2019, n. 2800.