La dicotomia fra contratti civili e contratti commerciali rappresentava un profilo costitutivo della disciplina dell’autonomia privata prima dell’unificazione dei codici. Il tratto centrale della differenza tra le due discipline stava nella diversa gerarchia delle fonti: l’uso commerciale prevaleva sulle norme generali di diritto civile e, pertanto, poteva derogare anche alle norme imperative della parte generale della disciplina dei contratti. Con l’unificazione dei codici, diverse norme di diritto commerciale sono divenute norme di diritto privato generale, ma la disciplina generale dei contratti è rimasta legata, in buona parte, alla tradizione civilistica, sì da creare qualche difficoltà al riconoscimento, nell’ordinamento italiano, di figure negoziali correntemente utilizzate nella pratica commerciale internazionale. Per questa ragione, parte della dottrina italiana ha proposto di adottare interpretazioni differenziate delle norme generali sui contratti, atte a costruire una specifica disciplina dei “contratti d’impresa”. L’autore, sviluppando questa prospettiva, che sembra ricevere adesioni crescenti, tenta di delineare i profili disciplinari caratteristici dell’autonomia d’impresa.
Parole chiave: Contratto (disciplina generale); Diritto commerciale; Autonomia d’impresa
The dichotomy between civil and commercial contracts was a constitutive profile of the discipline of private autonomy before the unification of the codes. The central feature of the difference between the two disciplines lays in the different hierarchy of sources: commercial usage prevailed over the general rules of civil law and, therefore, could derogate even from the mandatory rules of the general part of contract law. With the unification of the codes, several commercial law norms became general private law norms, but the general discipline of contracts remained tied, for the most part, to the civil law tradition, so as to create some difficulty in the recognition, in the Italian legal system, of negotiating figures currently used in the international commercial practice. For this reason, part of the Italian doctrine has proposed to adopt differentiated interpretations of the general rules on contracts, capable of constructing a specific discipline of “business contracts.” The author, developing this perspective, which seems to receive growing adherence, attempts to outline those disciplinary profiles which are distinctive in business autonomy.
Keywords: Contract (general discipline); Commercial law; Businesses’freedom of contract
1. Contratti commerciali e contratti d’impresa. Notazioni terminologiche. - 2. La ricostruzione tipologica della realtà degli atti di autonomia privata: mancanza di un referente tipologico unitario. - 3. I diversi riferimenti di principio degli atti di autonomia privata nel diritto costituzionale interno e nel diritto europeo. - 4. La ricostruzione tipologica dei contratti d’impresa: diverse sottocategorie, pur nella costanza del dato della strumentalità rispetto all’attività d’impresa e al funzionamento dei mercati. - 5. Valorizzazione della priorità sistematica della disciplina delle attività e dei mercati rispetto a quella dei singoli atti. - 6. L’unificazione della disciplina generale dei contratti nel codice civile del 1942: il recepimento di diverse norme giuscommercialistiche in un quadro generale che si voleva confermare immutato. - 7. La riemersione di una peculiarità dell’autonomia d’impresa nel dibattito dottrinale. - 8. Conferma di questo orientamento, alla luce del dibattito odierno. - 9. Un tentativo di delineare i profili disciplinari propri dell’autonomia d’impresa. - 9.1. La “libertà contrattuale” dell’impresa. - 9.2. La parte generale della disciplina del contratto come insieme di norme residuali, per ciò che riguarda l’autonomia d’impresa. - 9.3. La formazione del rapporto contrattuale e i rapporti di fatto. - 9.4. Regolazione privata e regolazione amministrativa dei contratti d’impresa. - 9.5. Il controllo causale nei contratti d’impresa. - 9.6. Profili rimediali nella disciplina dei contratti d’impresa. - NOTE
L’organizzazione di questo convegno mi ha affidato un intervento sul tema “contratti civili e contratti commerciali”. Il tema potrebbe essere trattato retrospettivamente, ripercorrendo i ragionamenti che si facevano quando questa distinzione aveva una sicura rilevanza per il diritto positivo ed anche – fino all’abolizione dei tribunali di commercio – per la scelta della giurisdizione. Non è questo, però, il profilo su cui vorrei soffermarmi. Il tema più interessante mi sembra quello relativo alla possibilità (o meno) di attualizzare, in qualche modo, quella distinzione in un sistema giuridico come quello italiano, che non contiene più una disciplina separata dei contratti civili e di quelli commerciali. Prima di procedere oltre, vorrei fare una rapida riflessione terminologica. Il termine “contratti commerciali” potrebbe essere, ancor oggi, convenzionalmente usato per designare, in generale, gli atti di autonomia privata che vedano partecipe un imprenditore. Peraltro, nell’uso corrente il termine continua ad essere largamente usato come sinonimo di “contratti d’impresa”, nel senso generico di contratti in cui almeno una delle parti è necessariamente un’impresa. Sul piano delle scelte terminologiche, il termine “contratti d’impresa” mi sembra peraltro preferibile, perché “contratti commerciali” richiama un contesto storico in cui il diritto commerciale era incentrato sulla nozione oggettiva di atto di commercio (anche occasionale) e si riconosceva l’autonomia “giuridica” del diritto commerciale, con fonti e codici separati. Nell’attuale sistema, in cui l’autonomia del diritto commerciale è divenuta solo “scientifica” o “disciplinare”, e l’identità della disciplina è incentrata sulla nozione di impresa, rispetto alla quale la caratterizzazione in termini di “commercialità” è divenuta sempre meno netta, con l’evolversi dell’ordinamento, la scelta terminologica a favore della locuzione “contratti d’impresa” sembra preferibile [1]. È appena il caso di avvertire, peraltro, che questa non è una categoria ontologica e che non esiste una disciplina organica dei contratti “d’impresa”, completamente separata da quella dei contratti [...]
Per sviluppare il punto accennato, vorrei muovere da una constatazione già enunciata: mi sembra ormai largamente condivisa, anche in questo convegno, la tesi che nega valore di principio alle norme di parte generale dei contratti nel codice civile, attribuendo piuttosto alle stesse un carattere di norme generali residuali; e, nella stessa prospettiva, ammette l’estensione analogica di norme speciali, dettate per singoli tipi contrattuali [4]. Questo orientamento – di cui Giorgio De Nova ha rivendicato la formulazione iniziale – è, a mio avviso, corretto. Esso muove da quella che, usando la terminologia ascarelliana, possiamo chiamare “ricostruzione tipologica della realtà sociale”, che dovrebbe sempre costituire necessaria premessa di qualsiasi ragionamento giuridico destinato alla costruzione della disciplina normativa applicabile a tale realtà. In tale prospettiva, il fatto che la disciplina generale del contratto del codice civile sia considerata come avente un valore residuale e non di principio, si giustifica, a parte ogni altra argomentazione giuridica (su cui v. infra), almeno per la mancanza di un referente tipologico unitario. Se oggi la dottrina generale del negozio giuridico è pressoché abbandonata perché troppo astratta, altrettanto si può dire per la teoria generale del contratto. L’autonomia privata è oggi un arcipelago di operazioni funzionalmente differenziate. L’idea archetipica di contratto, come atto di scambio paritario fra individui proprietari e portatori di libere volontà, continua ad avere un suo spazio nella vita reale, ma copre una frazione minima di quella magmatica realtà che viene toccata da atti di autonomia privata: concetti tipologici così diversi come quelli relativi, per esempio, a un accordo economico collettivo, all’acquisto di un bene di consumo mediante un distributore automatico, a un patto parasociale, a un patto di convivenza fra persone adulte, ecc., reclamano evidentemente discipline differenziate (almeno in parte), appropriate ai diversi assetti di interesse e ai diversi princìpi e valori implicati nei diversi fenomeni della vita reale nei quali si verificano segmenti di “accordi aventi contenuto patrimoniale” (cioè “contratti”, nel significato normativo elementare del termine). Non esiste un concetto tipologico di contratto che possa [...]
A questa considerazione di metodo, si aggiungono altre argomentazioni, di diritto positivo. In primo luogo, la mancanza di una base costituzionale unitaria riferibile al contratto “in generale”. Infatti, l’autonomia privata, nella Costituzione, è una situazione giuridica strumentale rispetto a diverse situazioni di interesse giuridicamente protette, e gode di diversi tipi di tutela “indiretta”, in coerenza con la situazione primaria di cui l’autonomia costituisce, di volta in volta, strumento; strumento, peraltro, necessario, senza il quale le diverse libertà non potrebbero effettivamente esplicarsi. In altri termini, sono differenti i princìpi governanti l’atto di autonomia del proprietario, del testatore, dell’associato, del lavoratore subordinato, dell’individuo nei rapporti familiari o strettamente personali e, infine, dell’imprenditore nell’esercizio della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost. [5]. La peculiarità dei princìpi inerenti all’esercizio dell’autonomia privata dell’imprenditore è accentuata dopo la recente riforma degli artt. 9 e 41 Cost., che ha rafforzato i limiti – non soggetti, testualmente, a riserva di legge – previsti dal secondo comma di quest’ultima norma [6]. Al dato costituzionale interno si aggiunge quello fornito dal diritto europeo, le cui fonti hanno sconvolto l’idea stessa di disciplina generale del contratto, introducendo normative fortemente differenziate per diverse tipologie di contratti: non solo per i contratti dei consumatori, ma anche per le più diverse modalità di esercizio dell’autonomia privata, destinate ad essere inquadrate in complesse discipline di regolazione dell’attività economica in cui esse si inseriscono, e spesso governate da princìpi ben lontani dalle regole civilistiche tradizionali [7]. Vi sono dunque ragioni normative di principio che giustificano una trattazione giuridica del tema degli atti di autonomia privata dell’imprenditore che veda questi ultimi come momento e strumento all’interno di quella attività economica che, in quanto oggetto primario di rilevanza da parte dell’ordinamento, condiziona la disciplina dell’atto con modalità diverse da quelle che possono riferirsi ad altri campi di esercizio [...]
In questa prospettiva, può riconoscersi che i “contratti d’impresa” – a differenza del “contratto” in generale – appaiono caratterizzati da un referente tipologico preciso, costituito appunto dall’essere momenti strumentali (necessari) nell’ambito di un’attività di produzione di beni o servizi per il mercato. Sono dunque, in primo luogo, i contratti, seriali o di durata, che danno luogo alla serie di operazioni mediante le quali si realizza l’esercizio di un’attività economica imprenditoriale. La considerazione di questo nucleo essenziale della categoria dei contratti d’impresa denota già un profondo mutamento di prospettiva, rispetto all’idea che tradizionalmente si aveva del contratto, sotto il profilo funzionale. Il contratto, infatti, non appare più come il motore di una dinamica economica animata da atti di disposizione occasionali di soggetti proprietari, ma come un tassello (uno strumento necessario) dell’attività d’impresa. Impresa che, a sua volta, è protagonista dell’economia di mercato, ed è caratterizzata da continuità organizzativa e gestionale. L’attività d’impresa, inoltre, è soggetta a regolazioni privatistiche e amministrative di vario tipo, che riverberano i loro effetti sulla disciplina dei contratti strumentali rispetto all’attività [8]. In realtà, la nozione (sempre “tipologica”) di contratto d’impresa può essere allargata, andando oltre i contratti seriali o di durata di cui si è detto. Nella classica trattazione di Dalmartello [9] si individuavano altre due categorie di contratti tipicamente imprenditoriali: i contratti necessari per la costituzione e l’organizzazione delle imprese (cioè i contratti preparatori per l’avvio dell’attività e quelli che incidono sull’organizzazione e la gestione dell’impresa, fra cui possono considerarsi anche i patti parasociali) e i contratti di collaborazione fra imprese indipendenti. Anche queste due categorie possono essere tipologicamente ben definite e si caratterizzano per l’essere anch’esse, in ogni caso, strumentali rispetto all’esercizio di un’attività d’impresa. Intuitivamente, la differenza con i contratti seriali o di durata che costituiscono strumento di [...]
Ciò posto, si deve sottolineare come, a loro volta, le caratteristiche dell’attività imprenditoriale sono segnate dal tipo di mercato in cui essa si inserisce. La notazione è frequente, nella dottrina sui contratti d’impresa [12] e può avere anche risvolti terminologici (Enzo Roppo, in questo convegno, ha utilizzato l’espressione “contratti di mercato”, che è soluzione brillante, ma, a mio avviso, non comporta – per le ragioni infra espresse – un guadagno espressivo tale da giustificare la scelta terminologica innovativa). In proposito, si deve rilevare come tutti i contratti comportanti scambi di beni patrimoniali si inseriscono, lato sensu, in qualche tipo di mercato. La tradizionale teoria generale del contratto è fondata sul tipo ideale dei mercati precapitalistici, che avevano un ruolo limitato nell’organizzazione complessiva della società di allora ed erano tendenzialmente vicini al modello di concorrenza perfetta [13] (posto anche a base della teoria microeconomica standard [14]). La realtà dei mercati attuali vede invece, come tipo ideale di base, quello della concorrenza imperfetta (o “monopolistica”), con presenza, più o meno accentuata, di potere di mercato in capo ad alcune imprese operanti in detti mercati e la dilatazione della domanda dei “consumatori” (un tempo limitata dall’esistenza di ampi fenomeni di autoproduzione). Inoltre, una pluralità di mercati è caratterizzata da una intensa regolazione amministrativa delle attività di impresa, in cui diversi momenti (p.e. gestione di infrastrutture e accesso alle stesse, rapporti di utenza) sono oggetto di pervasiva disciplina, anche se formalmente strutturati come accordi (fra imprese o fra imprese ed utenti). Vi sono poi casi in cui la regolazione impone la gestione accentrata degli scambi in determinati mercati: così gli strumenti finanziari, di norma, non sono oggetto di scambi diretti fra venditori e compratori, ma vengono immessi in un circuito a gestione accentrata, in cui ciascun operatore conclude accordi con intermediari specializzati e autorizzati, per cui troviamo diversi “contratti” che coprono segmenti dell’operazione economica, ma questa, nella sua interezza, non è più coperta da un contratto unitario [15]. Senza continuare [...]
Il codice civile del 1942 ha voluto unificare la disciplina generale dei contratti civili e commerciali. Una serie di norme giuscommercialistiche sono divenute così norme di parte generale del contratto (per es. l’esecuzione prima della risposta dell’accettante, l’offerta al pubblico, l’inserzione automatica di clausole, gli usi interpretativi, il criterio di interpretazione tipologico dell’art. 1369 c.c., ecc.). Altre volte, il contratto dell’imprenditore è stato oggetto di norme speciali (come l’art. 1330 c.c.). Ciò – insieme con la scelta di far transitare alcune norme commercialistiche, come la presunzione di solidarietà e la produzione ex lege di interessi pecuniari, nella disciplina generale delle obbligazioni – ha indotto spesso a ritenere avvenuta una “commercializzazione del diritto privato”, con la definizione di una disciplina generale delle obbligazioni e dei contratti piegata a soddisfare le esigenze dell’economia di mercato capitalistica [16]. La realtà è però più complessa. Il punto critico è costituito dal fatto che la sintesi operata dal legislatore ha comportato anche l’unificazione del sistema delle fonti ed ha così sottratto ai contratti commerciali il terreno su cui tradizionalmente potevano costruire la loro evoluzione. In questa prospettiva, se il referente tipologico degli interpreti, nell’interpretare le norme di parte generale del contratto, rimane quello “euclideo” [17] dello scambio fra pari in un mercato aperto, che – nell’assunto teorico – soddisfa contemporaneamente l’utilità individuale e quella collettiva, quelle norme “commercialistiche”, se pur acquisite alla disciplina generale, assumono tendenzialmente un carattere di specialità, o addirittura di eccezionalità, rispetto ai supposti princìpi generali della materia, e non sono valorizzate sul piano sistematico. Questo spettro dell’eccezionalità ha colpito più o meno tutte le norme codicistiche che hanno dato rilievo all’autonomia d’impresa; talora la vicenda giurisprudenziale si è conclusa con il superamento della tesi dell’eccezionalità (ad esempio per gli artt. 1330 [18] e 2558 c.c.), talaltra, invece, ha visto bloccare i tentativi di applicazione estensiva della norma (come [...]
Col passare degli anni, la riflessione sulla differenza fra contratti individuali e contratti d’impresa si è sviluppata con l’osservazione secondo cui autonomia individuale e autonomia d’impresa hanno non solo diverse dinamiche evolutive, ma anche diversi princìpi giuridici di riferimento (tutela della proprietà e certezza degli scambi, da un lato; tutela dell’impresa ed efficienza dei mercati, dall’altro); con la conseguenza che, in funzione di tali princìpi, l’interpretazione delle stesse norme di parte generale del contratto possa avere esiti differenziati a seconda che debba applicarsi ad un contratto individuale o ad un contratto d’impresa [22]. Questa linea di pensiero, volta a individuare, al di là della ricognizione delle norme di legge postulanti la presenza di un’impresa, princìpi giuridici atti a costruire, per via di interpretazione sistematica, regole giuridiche prettamente rivolte ad atti di autonomia privata compiuti da imprese, si è inizialmente sviluppata con le riflessioni, mie e di Portale [23], sull’ammissibilità di negozi astratti da ritenere validi se e in quanto la giustificazione causale possa trarsi da una valutazione complessiva dell’attività di impresa in cui l’impegno astratto si inserisce. Successivamente, questa linea di pensiero si è arricchita con il contributo di Carlo Angelici, volto a valorizzare, in particolare, l’idea della dipendenza della disciplina dell’atto da quella dell’attività e, soprattutto, le peculiari regole di formazione del vincolo contrattuale, applicabili alle attività d’impresa [24]. È significativo come lo stesso Dalmartello, in un suo tardo contributo, abbia riconosciuto, se pur con cautela, che la categoria dei contratti d’impresa potesse avere una funzione costruttiva di princìpi e regole peculiari e non un valore soltanto ricognitivo [25]. La piena valorizzazione dell’idea di princìpi e regole proprie dei contratti d’impresa si è avuta poi con Buonocore [26], che ha elaborato una vera e propria dottrina normativa dei contratti d’impresa, individuando diversi princìpi ispiratori della disciplina: ambulatorietà del contratto, obblighi di trasparenza/informazione, variabilità della disciplina dell’invalidità, [...]
Tutto ciò premesso, il criterio metodologico che si può enunciare è dunque nel senso che, quando il contratto è strumentale rispetto all’attività d’impresa, la sua disciplina deve adattarsi a quella dell’attività, che assume priorità sistematica rispetto alle norme di parte generale del contratto. Le implicazioni contenute in questa scelta di fondo erano, in fondo, chiare anche al tempo della formazione del codice civile. In quella sede, al di là del convincimento diffuso sull’avvenuta “commercializzazione”, prevalse, in alcuni casi, la scelta opposta, volta proprio ad evitare che la disciplina dell’attività assorbisse quella del contratto, come atto individuale. Le norme “commercialistiche” erano anche viste come deroghe ad una disciplina di base del contratto, che rimaneva (rectius: che si voleva rimanesse) quella della tradizione romanistica e civilistica. Il caso più emblematico riguarda la disciplina di quelli che erano stati chiamati “contratti di massa” ed erano stati oggetto di particolare attenzione da parte della dottrina giuscommercialistica (in particolare di Lorenzo Mossa). Il legislatore del 1942, con una operazione che potrebbe qualificarsi perfino “ideologica”, pur essendo consapevole delle caratteristiche tipiche del fenomeno, lo inquadrò sistematicamente come una particolare modalità di conclusione del contratto, per la quale fu disposta l’inutile formalità della doppia firma, e non anche come una manifestazione del potere di mercato dell’impresa, come tale suscettibile (e meritevole) di sindacato giudiziale nel merito. Solo a distanza di un quarto di secolo la dottrina si rese conto della distorsione che questo inquadramento determinava rispetto alla portata degli interessi in gioco e della necessità di superare la lacuna legislativa con interpretazioni evolutive delle norme [34]. Ma solo lo sconvolgimento portato dal diritto europeo e dall’introduzione di una regolazione amministrativa di repressione delle clausole vessatorie ha segnato una svolta decisiva nella disciplina del fenomeno. È istruttivo, poi, richiamare la storia di un’altra norma, rispetto alla quale il tentativo di riportarla alla disciplina generale del contratto, pur esperito, fu respinto in sede di lavori preparatori [35], sicché essa [...]
Ho tentato già, in altre sedi [40], di sviluppare la tesi esposta. Qui di seguito vorrei, sinteticamente, riprendere e sviluppare il punto, aggiungendo qualche esemplificazione di attualità.
La prima notazione da fare riguarda la tutela della “libertà contrattuale” dell’impresa. In proposito, si deve ribadire che il riferimento di principio non può essere quello della libertà di disporre dei propri beni personali (art. 42 Cost.), bensì quello del divieto di svolgimento dell’attività d’impresa in contrasto con l’utilità sociale e con gli altri valori tutelati dell’art. 41 Cost. Ne consegue che le norme che prevedono obblighi di contrarre (come gli artt. 1679 e 2597 c.c. e le altre presenti nella legislazione speciale) o qualificano come abusivo, in determinate circostanze, il rifiuto di contrarre (come i divieti di abuso di posizione dominante o di abuso di dipendenza economica), non hanno carattere di eccezionalità; sicché, per esempio, va qualificato come abuso il rifiuto di concedere licenze a condizioni “FRAND” [41] quando non vi siano condizioni di fatto ostative e il rifiuto si traduca in un impedimento dell’attività d’impresa del richiedente [42]. Allo stesso modo, deve ammettersi specularmente che, in determinate circostanze, l’impresa abbia l’obbligo di non contrarre, per evitare la produzione di effetti lesivi dell’utilità sociale o degli altri valori garantiti dall’art. 41 Cost. (per esempio, si consideri la giurisprudenza sulla c.d. concessione abusiva del credito da parte di banche, nei confronti di imprese in crisi [43]).
Una seconda implicazione della tesi è quella – già enunciata in apertura di questo intervento – di considerare le norme di parte generale dei contratti come norme di default, suscettibili di ampia deroga mediante applicazione analogica di norme dettate per determinati contratti tipici (è appena il caso di ricordare la frequente osservazione secondo cui i nuovi contratti legalmente tipici sono sempre figure che si formano nella pratica dei mercati e possono quindi qualificarsi, concettualmente, come “contratti d’impresa”). Questo orientamento, teorizzato circa mezzo secolo fa da Giorgio De Nova, sembra entrato a far parte dell’opinione corrente. Un’esperienza significativa, in tal senso, si è avuta con l’introduzione della norma sul divieto di abuso di dipendenza economica, inserita – com’è noto – nella legge sulla subfornitura (n. 192/1998). Non mancarono, inizialmente, decisioni giurisprudenziali che interpretavano la norma restrittivamente (escludendone quindi l’applicabilità a rapporti non qualificabili come subfornitura); e ciò perché la norma è derogatoria rispetto a (supposti) princìpi generali in materia di libertà contrattuale. Tuttavia, questa linea interpretativa è stata presto posta in minoranza, e infine smentita dalla Cassazione [44]. Più in generale, è persuasiva l’idea per cui le norme di legge sui contratti tipici non vanno interpretate come se fossero riferite a fattispecie ben definite e chiuse in sé; ciò perché la tipologia reale degli atti di autonomia privata – nel funzionamento dei mercati – è in continua evoluzione, sicché i tipi legali considerati dal legislatore del 1942 sono oggi, in larga parte, superati dall’esperienza applicativa, mentre tipizzazioni frammentarie emergono continuamente, nella legislazione speciale, per le più diverse nuove esperienze contrattuali. Diviene dunque criterio decisivo valutare la lunga serie di norme (codicistiche ed extra-codicistiche) su determinati tipi contrattuali soprattutto come punti di emersione di valutazioni legislative su taluni conflitti d’interessi, largamente suscettibili di applicazione analogica ad opera dell’interprete. Per fare un solo altro esempio, da tempo si ammette la validità, in linea di principio e salva [...]
Una seconda linea caratterizzante la disciplina dell’autonomia d’impresa riguarda la formazione del rapporto contrattuale. In materia sussistono diversi usi giudiziari, in parte oggetto di continua elaborazione giurisprudenziale, come quelli relative a società di fatto, società occulte, società apparenti [46]; tutte fattispecie emergenti in procedure di fallimento in estensione (e, come tali, non utilizzate per dirimere conflitti propriamente contrattuali fra i soci di fatto); il fenomeno, da ultimo, è stato rinverdito dal riconoscimento della ammissibilità di “supersocietà di fatto”, in cui i soci di fatto sono a loro volta persone giuridiche (società) e non (o non soltanto) persone fisiche [47]. Inoltre, altro solido uso giudiziario è quello relativo alla possibilità di configurare un “amministratore di fatto”, anche in una società di capitali, e stavolta con rilevanza non meramente concorsuale, e comunque con l’ammissione di una responsabilità contrattuale dell’amministratore di fatto nei confronti della società [48]. Infine, questa serie di usi giudiziari si completa con la regola della “rappresentanza apparente” [49], costruita dalla giurisprudenza su due elementi: un affidamento socialmente apprezzabile e la colpa del rappresentato nell’aver consentito il formarsi di questa situazione. È interessante osservare che questo insieme di regole è destinato ad applicarsi esclusivamente (o quasi esclusivamente) ad atti compiuti all’interno di un’attività d’impresa. Tuttavia, le soluzioni normative indicate non sono state costruite, in giurisprudenza, come una componente della disciplina dell’attività d’impresa, bensì con richiami a “teorie” generali, come la c.d. teoria dell’apparenza o quella della responsabilità contrattuale da contatto sociale [50]. Peraltro, la costruzione di queste regole è rimasta soprattutto giurisprudenziale, con modesta attenzione da parte della dottrina giuscommercialistica e ancor meno da parte di quella giuscivilistica. Si può riconoscere, comunque, che la disciplina dell’impresa, con le norme concorsuali che attribuiscono rilevanza all’esercizio di fatto dell’attività in qualità di socio occulto (il vecchio art. 147 l. [...]
Passando al contenuto del rapporto contrattuale, una prima linea costruttiva riguarda la rilevanza degli atti di regolazione privata (unilaterale) del rapporto, che l’impresa normalmente adotta, nel programmare la propria attività di produzione e distribuzione di beni o servizi. Le condizioni generali di contratto e gli accordi-quadro devono qualificarsi – secondo una linea di pensiero da tempo presente nel dibattito dottrinale – come atti normativi privati e possono essere dunque oggetto di sindacato di validità (precipuamente, di tipo causalistico: v. infra, § 9.4) nel loro contenuto regolamentare, con possibili esiti invalidativi efficaci erga omnes (così come avviene per gli atti regolamentari pubblici [61]). Del resto, la rilevanza giuridica oggettiva delle clausole vessatorie, che combina la nullità civilistica di protezione e il public enforcement amministrativo, contiene già un riconoscimento positivo di questa costruzione [62]. Questa soluzione comporta un superamento dell’idea del legislatore del 1942, che vedeva le condizioni generali di contratto come mero contenitore di contenuti omogenei, destinati ad acquisire rilevanza giuridica solo mediante la traduzione nel contratto individuale; una concezione già distorta per il tempo in cui il codice entrò in vigore e ancora più oggi, nell’età della comunicazione digitale [63], in cui l’utente di un servizio si trova spesso introdotto in un “ecosistema” governato dalla piattaforma digitale, che non solo detta condizioni generali, ma esercita anche ulteriori forme di regolazione e giurisdizione privata. Il collegamento sistematico fra attività d’impresa e regolazione privata si estende anche al fenomeno dell’autoregolazione. Questa può tradursi negli atti di programmazione interna, che dovranno essere “presi sul serio” ai fini della valutazione della diligenza degli amministratori; ed anche nell’adozione di codici di condotta contenenti impegni nei confronti di stakeholder o della collettività in genere. In merito, credo che debba essere rivalutata l’opinione che accostava tali codici alla figura della promessa al pubblico [64], comunque attribuendo agli stessi un effetto di vincolatività giuridica [65]. E ciò senza distinzioni nominalistiche, volte a differenziare codici di condotta e [...]
Un capitolo a parte merita il profilo del controllo causale sui contratti d’impresa. In proposito, vorrei confermare la tesi [78] secondo cui, in materia di contratti d’impresa, il controllo causale sulla liceità e meritevolezza di tutela del contratto non può essere assorbito dall’applicazione del principio di buona fede, che ha un’intrinseca valenza relazionale (i.e. interindividuale); il controllo causale richiede invece un inquadramento del giudizio di meritevolezza degli interessi nella valutazione dell’attività d’impresa nel suo complesso e del buon funzionamento del mercato in cui il singolo contratto si inserisce; e ciò secondo un modello normativo che trova la sua più compiuta espressione nella disciplina antitrust della nullità delle intese restrittive della concorrenza, temperata dalla possibilità di esenzione dalla nullità quando l’intesa possa dar luogo a risultati positivi per il mercato e per il benessere del consumatore (art. 101, par. 3,T.F.U.E.). Il punto critico di questa tesi sta nella complessità di un giudizio di liceità e di meritevolezza focalizzato non sulla singola operazione (e la relativa “causa in concreto”, intesa come funzione economica individuale), bensì sull’intera attività d’impresa e sul funzionamento del mercato in cui essa si inserisce. È questo un tipo di giudizio più appropriato per l’attività di un regolatore che non per quella di un giudice, che deve risolvere controversie particolari e concrete. Affidare l’evoluzione dei mercati al succedersi di precedenti giudiziari è teoricamente possibile, ma in pratica difficile, soprattutto in sistemi giudiziari come quello italiano, caratterizzati da una debole funzione nomofilattica centrale. Una conferma di quanto detto emerge dalla considerazione della “saga” giudiziaria delle clausole claims made nei contratti di assicurazione per la responsabilità civile. In proposito, due note sentenze delle sez. un. (nn. 9140/2016 e 22437/2018) hanno affermato – con diversità di accenti, che qui non è il caso di evidenziare – la centralità del controllo causale delle singole clausole, ma non hanno dato indirizzi operativi ai giudici di merito sui criteri di valutazione delle stesse. Questi, a loro volta, hanno ricercato la causa in [...]
Un’ultima riflessione si può fare con riguardo ai profili rimediali nella disciplina dei contratti d’impresa. In proposito, un sistema rimediale incentrato sulla tutela dell’attività richiede – come ho spesso cercato di segnalare in altre sedi [91] – il riconoscimento della priorità sistematica dei rimedi specifici rispetto a quelli risarcitori per equivalente e l’applicabilità generale del rimedio inibitorio. Su questi temi si può peraltro riconoscere che la più recente evoluzione della riflessione giuscivilistica ha portato ad un’ammissione sempre più ampia della tutela specifica contro l’inadempimento delle obbligazioni e della tutela inibitoria [92] (ormai sistematicamente sganciata dalla dipendenza concettuale dallo schema romanistico dell’actio negatoria servitutis). Sotto questo profilo, si potrebbe persino dire che, almeno in questa materia, si sta realizzando, in modo inespresso, una tendenziale “commercializzazione del diritto privato”. Questa impostazione trova i suoi riflessi più significativi con riguardo alla disciplina dei contratti di durata (che sono spesso, anche se non necessariamente, contratti d’impresa). Per questi – come si è già segnalato [93] – la tesi dell’obbligo di rinegoziazione fondato sul dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto tende a divenire ius receptum. Nel dibattito dottrinale, questa tesi è rafforzata, per i contratti d’impresa, dalla considerazione di norme speciali su singoli contratti, come l’appalto (art. 1664 c.c.) o l’affitto (art. 1623 c.c.), nonché dalla considerazione della norma sul divieto di abuso di dipendenza economica, intesa come espressione di un principio applicabile a tutti i casi di “contrattazioni di mercato asimmetriche” [94]. Più aperta è la questione relativa ai rimedi esperibili in caso di fallimento della rinegoziazione obbligatoria. Il legislatore ha mostrato una certa prudenza: la punta normativa più avanzata era costituita dalla prima versione dell’art. 7 d.lgs. n. 231/2002 sui ritardi nei pagamenti, ma la previsione, ivi contenuta, di un potere di rideterminazione equitativa del contenuto del contratto da parte del giudice è stata abrogata con il d.lgs. n. 192/2012. Una seconda ipotesi legislativa è [...]