Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeISSN 2282-667X
G. Giappichelli Editore

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Sulla gestione sostenibile e i poteri degli amministratori: uno spunto di riflessione (di Marco Cian)


Lo scritto esamina il problema dello spazio di discrezionalità degli amministratori di società di capitali nell’adozione di strategie gestorie protese alla sostenibilità dell’impresa, muovendo dall’analisi del modello della società benefit e passando attraverso le recenti tendenze di enunciazione del corporate purpose e volte ad esprimere negli statuti societari l’at­tenzione alle tematiche ESG. Una moderna lettura del quadro normativo del diritto societario induce a negare la necessaria tensione alla massimizzazione del profitto e ad ammettere la considerazione di queste tematiche nell’orizzonte delle prerogative decisorie degli amministratori.

On sustainable management and the powers of directors: a first start for deeper consideration

This paper analyses the question of the directors’ discretionary powers in corporations in choosing management strategies aimed at sustainability. It begins with an investigation of the ‘società benefit’ and then considers recent trends in the enunciation of the corporate purpose aimed at expressing in the statutes an attention to ESG issues. A modern interpretation of the regulatory framework of corporate law implies the denial of a necessary tension towards profit maximisation and it leads to accepting the consideration of these issues within the directors’ decision-making prerogatives.

Keywords: sustainability; directors; profit

 

Sommario/Summary:

1. La sostenibilità con i soldi degli altri? - 2. Realizzare utilità sociali: la sostenibilità disinteressata nella società benefit. - 3. Corporate purpose, raison d’être, enlightened shareholder value doctrine et similia. - 4. La sostenibilità disinteressata statutarizzata. - 5. Liberi di essere sostenibili? - 6. La libertà basta? - NOTE


1. La sostenibilità con i soldi degli altri?

Gli argomenti su cui si fondava la celebre critica mossa cinquant’anni orsono da Milton Friedman [1] alla tesi della responsabilità sociale dell’impresa e la sua difesa del carattere viceversa esclusivamente speculativo della medesima erano, come è noto, essenzialmente due. La prima obiezione verteva sul potere che si sarebbe attribuito agli amministratori di una società, ove li si fosse legittimati a tenere conto o a farsi carico anche delle aspettative degli stakeholders estranei alla compagine societaria: nel perseguire obiettivi di interesse collettivo o comunque esterno agli investitori mediante risorse finanziarie di questi ultimi, gli amministratori avrebbero di fatto esercitato nei loro confronti una potestà parafiscale senza alcuna base di legittimazione. La seconda obiezione si rivolgeva al beneficio extrasocietario realizzato per questa via: il potere di selezione degli interessi da perseguire, nell’ampio e sfaccettato panorama di quelli potenzialmente implicati dall’attività imprenditoriale, a­vrebbe conferito agli amministratori un ruolo sostanzialmente di natura politica, al di fuori di qualsiasi contesto democratico. In ultima analisi, Friedman non sembrava essere pregiudizialmente ostile all’opportunità di realizzare un equilibrato bilanciamento tra l’interesse speculativo dell’impresa e le aspettative degli stakeholders, purché il compito di trovare questo equilibrio non venisse affidato all’azione spontanea dei manager, ma fosse assolto da norme imperative chiamate a calibrare dall’esterno l’attività dell’impresa stessa. Le posizioni di Friedman, almeno per quel che riguarda l’esito delle sue riflessioni (che si possono tradurre molto semplicemente nella tensione, nei termini in cui ci si accinge a dire, alla massimizzazione del profitto legittimamente conseguibile), si ritrovano in larga parte degli studi successivi e tuttora sembrano in modo esplicito o implicito dominanti nel panorama della letteratura dedicata alla governance societaria. L’evocazione di una responsabilità sociale d’impresa [2] appare sì una marea montante sotto il profilo culturale, provocata anche dallo sviluppo dei movimenti politici e dalla crescente sensibilità della pubblica opinione verso i temi dell’ecologia, della tutela delle identità locali, delle biodiversità [...]


2. Realizzare utilità sociali: la sostenibilità disinteressata nella società benefit.

Il quadro codicistico e legislativo italiano e comparato risulta, sull’argo­mento, piuttosto composito e in ultima analisi aperto. Il primo aspetto in particolare risalta oggigiorno per effetto delle numerose riforme che vengono interessando proprio questa materia e che segnano una marcata sensibilità ai temi ESG proprio come possibile oggetto dell’azione gestoria imprenditoriale. In sede domestica, il riferimento principale è senz’altro alle società benefit; all’e­stero, desta sicuramente interesse la loi PACTE francese, almeno per alcune delle novità che essa ha introdotto; pure il Companies Act inglese interviene in questo ambito, seppure in termini forse più blandi. Quanto alla società benefit di stampo italiano, la portata più evidente della sua pur succinta regolazione (art. 1, comma 376 ss., l. n. 208/2015) è rappresentata dalla negazione del nesso tra sostenibilità legittima e sostenibilità opportunistica (ciò che voglio dire non è che questa disciplina deroga ad un prin­cipio altrimenti generale istitutivo di un simile nesso, che è proprio la tesi che intendo discutere nel corso di questo lavoro; voglio solo constatare, restando per il momento agnostico su quale sia il principio generale, che la disciplina delle SB sicuramente permette una sostenibilità non opportunistica). A onor del vero la dimensione gestoria di queste società è declinata in modo un po’ più articolato dalla legge e non è riassumibile in termini così elementari: la SB deve prefiggersi (oltre al lucro) una finalità di beneficio comune e operare sostenibilmente (dunque: beneficio comune ≠ sostenibilità, almeno potenzialmente, come subito dirò), il che rende l’enunciato appena formulato di meno immediata derivazione, ma non per questo inesatto. È vero infatti che: a) non è richiesto da nessuna parte che il perseguimento del beneficio comune vada per forza di cose a scapito dell’interesse dei soci (nel distribuire energia da fonti rinnovabili la società potrebbe trovare la gallina dalle uova d’oro che nessun’altra linea di produzione potrebbe garantirle) e non è scritto neppure che la sostenibilità promossa debba tradursi necessariamente in una strategia in perdita; b) la massimizzazione del profitto potrebbe essere sacrificata [...]


3. Corporate purpose, raison d’être, enlightened shareholder value doctrine et similia.

Alle porte d’Italia, l’ordinamento francese ha accolto, oltre ad un modello simile alla benefit corporation (la société à mission) [9], anche e più in generale la formula del corporate purpose [10], che è stata oltralpe tradotta nella possibilità per tutte le società di prevedere nelle carte statutarie la c.d. raison d’être (art. 1835 Code civil) [11], che consiste nei «principes dont la société se dote et pour le respect desquels elle entend affecter des moyens dans la réalisation de son activité». A ben vedere, in realtà, questa previsione, tralasciando i nobili ideali cui si ispira, sembra meno pregnante rispetto alla disciplina delle SB a proposito degli spazi d’azione aperti agli amministratori; questi infatti sono chiamati a porre in essere l’attività sociale «conformément à son intérêt social, en prenant en considération […], s’il y a lieu, la raison d’être de la société» (art. L225-35 Code comm. [12]), così che non appare chiaro se quest’ultima debba essere considerata solo in quanto compatibile con l’interesse dei soci, o possa in una qualche misura dirottare le scelte gestorie anche a costo del (parziale) sacrificio di questo. Si tratta di un interrogativo che mi sembra debba esser rivolto a tutte le previsioni, di hard come di soft law, che integrano gli interessi degli stakeholders nell’istruttoria che deve precedere le decisioni imprenditoriali degli amministratori. Sempre l’ordinamento francese dispone in proposito che, a prescindere da qualsiasi manifestazione statutaria di principio, «toute société […] est gérée dans son intérêt social, en prenant en considération les enjeux sociaux et environnementaux de son activité» (art. 1833 Code civil) [13]; il Companies Act inglese si esprime in termini analoghi (Sec. 172); tornando al nostro Paese, basta ricordare le istanze propugnate dal Codice di Corporate governance, che, come è noto, indirizza la gestione verso il “successo sostenibile” dell’impresa [14]. Quale sia la portata possibile di queste previsioni è per l’appunto dubbio: banalizzando (perché la gestione di un’impresa non [...]


4. La sostenibilità disinteressata statutarizzata.

Procedendo a tappe, al problema ci si può accostare tornando per un attimo alle società benefit e allargando progressivamente l’orizzonte oltre il loro perimetro. Nelle società benefit, come si è detto, la sostenibilità disinteressata è istituzionalizzata, nel senso che nelle medesime essa è sicuramente permessa (non dovuta, ma legittima), almeno nei limiti del bilanciamento tra gli interessi. Una declinazione analoga sembra però possibile non solo qualora l’impresa voglia connotarsi come benefit, ma in ogni società anche non benefit; sembra cioè che nulla osti all’introduzione negli statuti di qualsiasi società di una clausola di perseguimento di qualche beneficio comune, con gli stessi esiti, in termini di deviazione delle scelte gestorie rispetto allo scopo di profitto, resi accessibili dalla formula benefit. La stessa disciplina di quest’ultima fa d’altra parte parola, come si sa, delle «società diverse dalle società benefit, [che] intendano perseguire anche finalità di beneficio comune» sulla base di specifiche disposizioni statutarie (comma 379). La finalizzazione dell’azione imprenditoriale al massimo profitto appare di conseguenza un modello di governance che i soci possono esplicitamente respingere, consacrando per tabulas la legittimità di condotte gestorie diversamente orientate. Il limite dell’autonomia negoziale, in questa direzione, appare rappresentato dalla vocazione comunque lucrativa, che connota indispensabilmente l’istituto societario e non può dunque essere rifiutata neppure su basi statutarie: mentre deve perciò reputarsi ammissibile una ricerca sostenibile del profitto, non lo sarebbe l’indirizzamento verso una gestione puramente altruistica dell’attività. Va poi fatta, a proposito di queste opzioni negoziali, una precisazione. La sostenibilità può essere cercata agendo su più livelli. Qui interessa solo quello rappresentato dalle modalità d’azione in senso stretto degli amministratori. Non interessano dunque, ad esempio, le clausole che perseguano la sostenibilità direttamente perimetrando in funzione di essa l’oggetto sociale, come potrebbe accadere per una società la cui attività fosse individuata nella produzione di energia esclusivamente da fonti rinnovabili e non [...]


5. Liberi di essere sostenibili?

I movimenti d’opinione verso la sostenibilità e le pressioni del mercato finanziario, nel caso in cui montasse l’onda degli investimenti ESG, potrebbero certo indurre ad una adozione diffusa di regole o di modelli statutari espressivi della sensibilità societaria verso questi temi, almeno nelle realtà di maggiori dimensioni [22]. Resta il tema di fondo della ricostruzione del quadro normativo di partenza, dal quale dipende d’altra parte la stessa valenza che possono avere le clausole suddette. Anche previsioni quali sono quelle contenute nel Codice di Corporate Governance vanno declinate alla luce di quel quadro e finiscono quindi per assumere una coloritura diversa a seconda delle sfumature di questo. Altro discorso varrebbe evidentemente per le disposizioni legislative, che contribuirebbero come tali alla sua composizione (il riferimento è ai modelli inglese e francese sopra ricordati); ma poiché non se ne rinvengono, allo stato, nel sistema italiano, è inutile parlarne, se non in una prospettiva comparatistica. Ora, è appena il caso di ribadire che la discussione non verte sulla perseguibilità della sostenibilità sic et simpliciter, ma della sostenibilità disinteressata; che, in altre parole, non è revocabile in dubbio la legittimità delle strategie e delle condotte ESG oriented, quando siano proiettate alla realizzazione di un vantaggio societario almeno di medio-lungo periodo; mentre nella zona d’ombra lungo cui corre il limen della discrezionalità gestoria si situano quelle strategie che sacrifichino attraverso ogni orizzonte temporale il tornaconto dei soci. È qui che l’ammonimento di Milton Friedman torna ad esercitare la sua pressione, per evitare che i soci possano venire spogliati delle proprie risorse sul pur nobilissimo altare della sostenibilità, ma non per una loro scelta generosa e spontanea, bensì per le inclinazioni etico-sociali di professionisti da loro stessi pagati per gestirle e farle fruttare finanziariamente. Penso tuttavia che, oggi come oggi, questa obiezione debba essere superata. Non pare anzitutto ravvisabile nell’ordinamento un principio impositivo dell’obbligo, per gli amministratori, di tendere alla massimizzazione del profitto. Che lo scopo di lucro e la tensione alla redditività degli investimenti (cfr. art. 2497 c.c. [23]) ne orientino [...]


6. La libertà basta?

Non è facile comunque credere che il riconoscimento di una compiuta libertà degli amministratori di comportarsi sostenibilmente sia sufficiente per un concreto e deciso cambio di rotta. D’altra parte l’allarme focalizzatosi su molte pratiche, reputate di mero greenwashing [24], e le perplessità suscitate dalle dichiarazioni rese da alcuni tra i protagonisti dell’industria e della finanza mondiali [25] giustificano lo scetticismo. È illusorio probabilmente attendersi una diffusa adesione spontanea a politiche reali ed efficaci di difesa dell’eco­sistema e di tutti gli altri valori e interessi meritevoli di protezione; anche sulla capacità del mercato, in un futuro prossimo, di esercitare sulle imprese una adeguata pressione è lecito essere assai dubbiosi. D’altra parte, in uno scenario di competizione senza esclusione di colpi tra le imprese stesse, l’adozione individuale di politiche di “sacrificio”, suscettibili di ridurre i profitti, di frenare lo sviluppo dei processi produttivi, di contrarre l’offerta e via dicendo, potrebbe rivelarsi spesso semplicemente perdente [26]. Il rischio è, in definitiva, di vedere solo amplificato lo spazio di manovra dei manager nei confronti degli investitori, senza alcuna reale ricaduta benefica sull’ambiente e sugli stakeholders, come d’altra parte è già stato da più fronti paventato [27]. Occorrerebbe, per non ridurre tutto a questo, una conversione culturale di portata planetaria; e non una conversione solo di categoria (dei manager), ma di civiltà: anche gli investitori retail hanno una responsabilità sociale, e così pure i consumatori [28]; e dovrebbe essere una conversione coraggiosa, perché comporta delle rinunce. L’alternativa è la coazione; non però una coazione timida, come in fin dei conti si palesa essere quella realizzata in Francia o nel Companies Act inglese, che lascia margini eccessivi agli amministratori e non sembra idonea neppure ad avvicinarsi ad una concreta protezione dei valori che vuole proteggere; piuttosto un intervento normativo – che, oltretutto, non potrebbe che essere coordinato e attuato su scala globale [29], sia per raggiungere un sufficiente grado di efficacia, sia per non produrre effetti anticompetitivi nei confronti delle imprese locali – che intensifichi [...]


NOTE