Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeISSN 2282-667X
G. Giappichelli Editore

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Brevi note in tema di annullabilità delle delibere dell'assemblea di s.p.a. (di Ruggero Vigo, Professore di diritto commerciale in quiescenza, Università degli Studi di Catania)


Si interpretano gli artt. 2377-2378 c.c. sulla premessa che le delibere assembleari annullabili appartengono a tre diversi ordini. Vi sono: a) delibere che ledono diritti dei soci verso la società. Si ha in tal caso un conflitto intersoggettivo e una impugnativa contenziosa; b) delibere contrarie a norme, procedimentali o sostanziali, che prescrivono comportamenti doverosi per la stessa società nel cui interesse sono poste. Vi è in tal caso una impugnativa giudiziale, ma non una controversia intersoggettiva; c) delibere contrarie a norme che tutelano un interesse pubblico affidato ad una autorità di vigilanza. In ciascuna ipotesi la annullabilità svolge una funzione diversa ed è regolata in maniera parzialmente diversa.

Brief notes on the voidability of decisions made at shareholders’ meetings of joint stock companies

The interpretation of Articles 2377-2378 of the Civil Code is based on the premise that the voidable decisions of shareholders’ meetings belong to the following three different categories.

(a) Decisions that affect rights of shareholders within the company. In this case, a conflict between the two parties occurs and the shareholders pursue the voiding of the decisions by a Court.

(b) Decisions contrary to procedural or substantive laws that set out obligations for the company in whose interest such laws were created. In this case, the shareholders pursue the voiding of the decisions by a Court but there is no conflict between the two parties.

(c) Decisions contrary to laws that protect a public interest entrusted to a supervisory authority.

In each of these categories the voidability plays a different role and is regulated in a partially different way.

Keywords: joint stock company; shareholders’ meeting; decisions; voidability

Sommario/Summary:

1. Premessa. - 2. Delibere lesive dei diritti dei soci. - 3. Delibere illegittime non lesive dei diritti dei soci. - 4. Ratio della seconda impugnativa privatistica. - 5. La legittimazione dei soci. - 6. La impugnativa privatistica endosocietaria. - 7. I procedimenti di formazione delle delibere assembleari. - 8. La legittimazione dei soci e degli organi. - 9. La soglia di legittimazione. - 10. Le delibere irregolari. - 11. Risarcimento del danno e sospensiva. - 12. La annullabilità per difetti del verbale. - 13. La annullabilità per conflitto di interessi. - 14. Le impugnative pubblicistiche e la nullità. - 15. Le impugnative pubblicistiche del diritto societario. - NOTE


1. Premessa.

Le disposizioni alle quali non sono conformi le delibere assembleari impugnabili ai sensi degli artt. 2377 e 2378 c.c. sono eterogenee perché recepiscono ora un interesse dei soci, ora un interesse della società, ora un interesse pubblico [1] [2]. La legge sanziona con la annullabilità ciascuna patologia. Può farlo perché la annullabilità è un rimedio duttile, e si presta a svolgere funzioni diverse, solo che al suo regime siano apportati i necessari adattamenti [3]. Dal momento che la sanzione della annullabilità non risponde sempre alla medesima ratio, ma ha, di volta in volta, fondamenti diversi, le disposizioni degli artt. 2377 e 2378 c.c. sono, talvolta, comuni a tutte le impugnative, e altre volte sono dedicate soltanto ad alcune di esse [4]. Saranno esaminate dapprima le fattispecie di annullabilità (che può essere chiamata) “privatistica”, nelle quali la legittimazione alla impugnativa è attribuita ai soci o agli organi della stessa società. La annullabilità privatistica è disposta quando la delibera è stata presa in violazione di norme legali o statutarie [5]. Peraltro, la legge sottopone ad annullabilità privatistica anche le delibere mal verbalizzate e quindi delibere assunte legittimamente e viziate da una anomalia posteriore alla loro approvazione. Sono sottoposte ad annullabilità anche le delibere approvate con il voto determinante del socio in conflitto di interessi. Queste delibere sono state prese in violazione di un divieto che attiene al merito della operazione. Successivamente saranno considerate le fattispecie di annullabilità (che chiameremo) “pubblicistica”, nelle quali la legittimazione alla impugnativa giudiziale compete anche ad una pubblica autorità [6].   Parte I. LE IMPUGNATIVE PRIVATISTICHE. Sezione I. Le impugnative di delibere illegittime.


2. Delibere lesive dei diritti dei soci.

Fino alla riforma del 2003 non tutte le delibere prese in difformità della legge o dello statuto erano considerate annullabili. In particolare, si riteneva che (oltre a quelle nulle) non fossero sottoposte al regime della annullabilità le delibere contrarie alle norme che istituiscono un rapporto giuridico fra il socio e la società, attribuendo un diritto al primo, e un obbligo a questa. Una opinione fondata su una argomentazione di stretto diritto positivo perveniva a questa lettura restrittiva dell’art. 2377, secondo comma, c.c., osservando che alcuni soci, pur essendo titolari di diritti individuali, non erano legittimati alla azione di annullamento delle delibere lesive di tali diritti (il socio che non aveva diritto di voto, il socio che aveva ceduto le proprie azioni dopo la votazione e prima della domanda) [7]. Dunque, per evitare che questi soci restassero senza tutela, era necessario difenderli diversamente, e la difesa appropriata sembrava essere l’inefficacia della delibera assembleare lesiva del loro diritto [8]. Ma, su questo assunto, diveniva necessario postulare l’inefficacia della delibera illegittima anche nei confronti dei soci che avevano accesso alla impugnativa di annullabilità, essendo irragionevole che la medesima delibera fosse annullabile da alcuni soci e inefficace nei confronti di altri soci. Bisognava interpretare restrittivamente l’art. 2377, secondo comma, c.c., escludendone la applicazione nei confronti di tutti i soci di cui erano stati pregiudicati i diritti, perché non era possibile colpire con la annullabilità soltanto le delibere lesive dei diritti individuali di alcuni di loro. In tal modo si attribuiva agli amministratori il compito di disapplicare le delibere assembleari lesive dei diritti dei soci, ed ai soci il potere di far valere sine die il loro diritto. Sopraggiunta la riforma, che ha riconosciuto il potere di esercitare la azione risarcitoria ai soci che non sono legittimati alla impugnativa, è venuta meno la alternativa annullabilità/inefficacia per tutti i soci, ed è stato possibile prospettare una soluzione meno rigida, per la quale spetta ad alcuni soci l’azione risarcitoria e ad altri soci la impugnativa, di cui in questo modo si è ampliata l’area di applicazione rispetto al passato [9]. Che, fra le delibere annullabili, vi siano delibere che ledono diritti dei soci è dunque [...]


3. Delibere illegittime non lesive dei diritti dei soci.

Si hanno impugnative privatistiche anche quando sono violate norme che regolano i deliberati della assemblea (le norme di azione della assemblea), ma non creano un rapporto giuridico fra la società e i soci.  I vizi che affettano le delibere di questo secondo ordine possono essere relativi al procedimento con cui esse sono state prese. Deve trattarsi, però, di vizi procedimentali diversi da quelli che danno luogo ad una semplice irregolarità ai sensi dell’art. 2377, quinto comma, c.c.; diversi dai vizi procedimentali che conducono alla nullità ai sensi dell’art. 2379 c.c.; diversi dai vizi procedimentali consistenti nella violazione di norme pubblicistiche [14]. Rientrano dunque in questa seconda classe, ad esempio, le delibere prese con la partecipazione determinante di persone non legittimate, e le delibere per le quali sono stati computati voti invalidi, o per le quali vi sono stati errori nel conteggio dei voti [15]- [16]. Sono delibere contrarie a norme, legali o statutarie, che non trovano riscontro nel diritto delle persone fisiche. Infatti, il procedimento volitivo delle persone fisiche non è regolato dall’ordinamento, ma è un fatto naturale, sicché la legge interviene soltanto per fronteggiarne le patologie (vizi della volontà). Con riguardo agli enti, invece, occorre che la norma “crei” le modalità di svolgimento del processo deliberativo. Si delineano quindi norme che prescrivono comportamenti doverosi per la stessa società nel cui interesse sono poste, e non rapporti giuridici intersoggettivi. Le norme poste nell’interesse della società, violate dalle delibere assembleari, possono essere anche norme non procedimentali, ma sostanziali. Così, ad esempio, rientra fra le delibere illegittime e annullabili la delibera con la quale l’assemblea rilascia il placet in una fattispecie in cui la clausola statutaria lo vieta.


4. Ratio della seconda impugnativa privatistica.

Le regole poste nell’interesse della società, se di natura procedimentale, poggiano sull’assunto che vi è un nesso fra le modalità di svolgimento del procedimento assembleare e la bontà delle decisioni prese dai soci. Il codice pone regole procedimentali, anche inderogabili, atte a favorire l’assunzione di decisioni convenienti per la società. Per questa ragione la legge considera valide soltanto le delibere prese nel rispetto di quelle norme. Ma, nei fatti, anche la delibera assunta in modo irrituale può essere vantaggiosa per la società e la legge può consentire che essa sia “recuperata”, obliterando il vizio del procedimento [17]. Anzi, l’art. 2377 c.c. si orienta in senso favorevole al “salvataggio” della delibera illegittima, in quanto sottopone l’im­pugnativa della delibera viziata a quel breve termine di decadenza. In tal modo la legge mostra di presumere che, in concreto, la violazione di quelle regole procedimentali sia innocua. Proprio in ragione di questa possibile convenienza, l’art. 2377 c.c. fa seguire la annullabilità della delibera alla violazione delle regole procedimentali. La legge non intende decidere in astratto quale sorte assegnare alla delibera illegittima, ma preferisce affidare ai soci e alla stessa società attraverso i suoi organi, il potere di caducare la delibera illegittima, impugnandola, o di lasciare che essa si consolidi. Similmente per le delibere contrarie a norme sostanziali poste nell’interesse della società. Ratio della annullabilità, questa volta, è consentire a(gli organi de)lla società o ai soci che, dall’esterno, ne curano gli interessi, di valutare se la delibera illegittima (perché contraria a norme poste nell’interesse della società) sia realmente nociva per la società. Questa volta le delibere illegittime sono sottoposte alla sanzione della annullabilità perché non se ne può stabilire la sorte in fase legislativa ed è necessario rinviare alla società ed ai suoi soci la decisione di promuoverne l’annullamento giudiziale, o di lasciarle consolidare. Spetta ai privati valutare in concreto la convenienza di reagire alla illegittimità della delibera, o di tollerarla. Pertanto, l’impugnazione di queste delibere è soltanto eventuale [18].


5. La legittimazione dei soci.

Le due impugnative “privatistiche” fin qui prese in considerazione sono strutturalmente diverse. La prima impugnativa (che può essere detta “contenziosa”) [19] presuppone che esista un rapporto intersoggettivo fra la società ed il socio. Impugnando la delibera, il socio promuove un ordinario giudizio di cognizione con il quale chiede tutela giurisdizionale per un diritto che la società ha ingiustamente pregiudicato. La tutela consiste nell’annullamento della delibera. Nella seconda impugnativa (anch’essa privatistica, ma “endosocietaria”), viceversa, colui che agisce in giudizio (sia un socio, sia un organo della società) non lamenta la lesione di un suo diritto da parte della società convenuta, e non ne chiede tutela giurisdizionale. Proprio a causa della differenza strutturale, e contrariamente a quanto si potrebbe desumere dalla formulazione dell’art. 2377, secondo comma, c.c., la legittimazione alle due impugnative non è regolata uniformemente. In effetti, la norma stabilisce che le delibere annullabili possono essere impugnate dai soci e dagli organi della società, ma questa proposizione normativa non va intesa nel senso che tutte le delibere annullabili possono essere impugnate tanto da ogni socio, quanto dagli organi sociali. Infatti, l’art. 2377 c.c. elenca indistintamente coloro che sono legittimati alle due impugnative, lasciando all’interprete il compito di individuare chi è legittimato ad impugnare le delibere di un ordine e chi può impugnare le delibere dell’altro ordine. Quella dell’art. 2377, secondo comma, c.c. è una disposizione prolettica, nel senso che anticipa e compendia le regole che l’interprete costruirà sull’assunto che la legittimazione alla impugnativa delle delibere annullabili può essere diversamente assegnata ai soci e agli organi sociali [20]. Pertanto, le delibere lesive dei diritti sostanziali di un socio possono essere impugnate da lui, come d’ordinario, mentre sarebbe incongruo che l’impu­gnativa fosse proponibile anche dagli organi della società debitrice o dai soci che non ne sono pregiudicati. L’esigenza di sottoporre le delibere assembleari ad un controllo interno di legalità si pone quando non vi è di fronte alla società un interessato che faccia valere le sue ragioni. Non vi [...]


6. La impugnativa privatistica endosocietaria.

Quando la norma violata disciplina l’operato della assemblea, ma non attribuisce un diritto ad un socio che possa far valere le sue ragioni, vi è, questa volta sì, una carenza da colmare ed un controllo da istituire con una previsione ad hoc. Si pone per il legislatore il problema di individuare un soggetto a cui affidare il compito di valutare la legittimità della delibera, e quindi decidere se chiedere al giudice di porre nel nulla la delibera viziata, o lasciare che essa si consolidi, essendo conveniente per la società, benché illegittima. Se non fosse previsto alcun controllo, le norme volte a regolare l’operato dell’assemblea (e non ad attribuire un diritto ad alcuno) potrebbero essere violate impunemente.  Sia i soci, sia gli organi societari sono chiamati a valutare l’opportunità della impugnativa nella prospettiva dell’interesse, in concreto, della società L’art. 2377 c.c. rimette questi compiti (di nuovo) ai soci, ed anche agli amministratori, al consiglio di sorveglianza ed al collegio sindacale.  Si comprende che la legittimazione alla impugnativa sia affidata agli organi sociali. Quando sono investiti di questa decisione, gli organi sociali esprimono la volontà della società e ne curano l’interesse come in ogni altro momento in cui esercitano le loro competenze. In particolare, devono lasciar consolidare la delibera, astenendosi dalla impugnativa, se ritengono che, nel merito, la delibera sia conveniente per la società [23]. Debbono impugnarla e provocarne l’annullamento se ritengono che la delibera, oltre che illegittima, sia pregiudizievole per la società [24]. In tal modo gli organi della società ampliano la loro competenza a materie che sono riservate alla assemblea se essa delibera in modo rituale: alle stesse materie si espande la competenza degli altri organi se l’assemblea disattende le regole procedimentali o sostanziali [25]. Anche a ciascun socio la legge affida il compito di valutare la convenienza della delibera, e anche a lui la legge attribuisce il potere di promuoverne in giudizio l’annullamento. In questo modo il socio cura l’interesse della società e prende una decisione i cui effetti si producono in capo ad essa. I soci (ma soltanto quelli che non hanno approvato la delibera) acquistano una competenza ulteriore rispetto a quella che essi [...]


7. I procedimenti di formazione delle delibere assembleari.

Applicando una formula organizzativa inconsueta, la legge dispone che più soggetti e più organi sono parimenti competenti a prendere la medesima decisione. La particolarità è che i soci e gli organi sociali non deliberano congiuntamente, bensì ciascuno in modo autonomo dagli altri, ed è sufficiente che uno solo fra i legittimati consideri le ragioni dell’annullamento prevalenti su quelle del consolidamento della delibera perché – mediante l’impugnativa – si giunga alla rimozione della medesima. La delibera viziata nel suo procedimento è rimossa in giudizio, a meno che ciascuno di coloro che hanno il potere di impugnarla ritenga conveniente per la società tollerarne la illegittimità. O, se si vuole, la delibera viziata nel suo procedimento si consolida soltanto se nessuno di coloro che hanno il potere di impugnarla prende l’iniziativa di rimuoverla. In tal modo, per ciò che riguarda i soci, si ha la disapplicazione del principio maggioritario, in quanto la volontà di un socio (che propone la impugnativa per annullare la delibera) prevale su quella degli altri (che optino per il consolidamento della delibera), anche se il socio è portatore di una quota minoritaria. Si hanno due procedimenti di formazione della delibera assembleare. Vi è il procedimento “ordinario”, che ha luogo quando la delibera è presa nel rispetto delle regole sostanziali e procedimentali; vi è il procedimento “secondario”, nel quale, approvata in assemblea la delibera invalida, si apre una fase ulteriore. In questa fase gli organi della società debbono, e i suoi soci possono, valutare la convenienza della delibera illegittima per poi provocarne la rimozione o il consolidamento. In questo senso, la delibera assembleare viene in essere se è approvata dai soci con il procedimento regolare; o se è approvata dai soci con un procedimento irregolare, e non è poi sottoposta tempestivamente ad impugnativa giudiziale da nessun socio e da nessun organo della società [27].


8. La legittimazione dei soci e degli organi.

Nel giudizio di annullamento delle delibere illegittime perché non rispettose delle norme imposte nell’interesse della società, funge da attore un socio o un ufficio della società. L’ufficio non ha soggettività, ma può agire in giudizio contro l’ente di cui è una partizione; il socio ha soggettività, ma non lamenta la lesione di un proprio diritto. La prima particolarità [28] è stata spiegata osservando che «è perfettamente ipotizzabile un contrasto fra due organi della persona giuridica nella determinazione dell’interesse di quest’ultima: contrasto che, quando viene portato davanti al giudice, comporta semplicemente una distinzione sul piano processuale (attraverso ad es. la nomina di un curatore speciale ex artt. 79-80 c.p.c.) tra la società, cui l’atto sul quale il contrasto nasce è già imputato, e l’organo che rispetto a quell’atto assume posizione conflittuale» [29]. In effetti, quando un organo della società impugna la delibera assembleare, il giudice non dirime un contrasto sulla determinazione dell’interesse della società, ma si pronuncia sulla legittimità della delibera. Quando, per mezzo di un suo organo, lamenta la illegittimità della delibera assembleare, la società non chiede tutela giudiziale per un suo diritto, ma denuncia di aver violato, essa stessa, una regola del procedimento o di merito, e chiede che la delibera sia annullata. Vi è un dissenso endosocietario (l’as­semblea non revoca né annulla essa stessa, come pure potrebbe, la delibera illegittima) [30] perché gli enti, e quindi anche la s.p.a., a differenza di quanto avviene nella persona fisica, sono sede di più processi conoscitivi e volitivi. A differenza di ciò che avviene nella persona fisica, ogni organo dell’ente esprime una volontà distinta dalle altre. All’interno della s.p.a. possono formarsi, pertanto, giudizi e volontà contrastanti in ordine a competenze che si sovrappongono. Dal canto suo, quando denuncia la violazione di una regola posta nell’in­teresse della società, il socio non chiama in giudizio la società per ottenere tutela di un suo diritto ai sensi dell’art. 24 Cost., ma agisce nell’interesse della stessa società “convenuta”. Per [...]


9. La soglia di legittimazione.

Ambo le impugnative privatistiche sono sottoposte alla regola della soglia di cui all’art. 2377, terzo comma, c.c. Quando tale disposizione si applica alle impugnative (endosocietarie) delle delibere che violano norme poste nell’interesse della società, fissando la soglia minima, la legge non priva il socio della legittimazione ad agire in giudizio a tutela del suo diritto. Piuttosto, non lo investe del potere di decidere autonomamente dagli altri soci la sorte della delibera illegittima. In tal caso la soglia attenua la gravità della deroga al principio di maggioranza. Per altro verso, in relazione alla impugnativa “contenziosa” (quella proposta dal socio a tutela di un suo diritto) la regola della soglia si giustifica osservando che, se la sua partecipazione è inferiore al minimo, la legge presume che il pregiudizio sofferto dal ricorrente per la ingiusta lesione del suo diritto sia inferiore al pregiudizio che subirebbe la società per la (pur legittima) rimozione della delibera. Tanto basta a privare il socio della tutela invalidatoria, lasciandogli quella risarcitoria [33]. Peraltro, quando non vi è un danno risarcibile, il socio resta privo di ogni tutela. Così, ad esempio, quando il socio sottosoglia è stato ingiustamente privato del voto (che sarebbe potuto risultare) determinante, o quando al socio sottosoglia è stato ingiustamente impedito di partecipare ai lavori assembleari.


10. Le delibere irregolari.

Nel comma 5 dell’art. 2377 c.c., sono elencate le delibere che, pur essendo illegittime, non sono invalide, ma meramente irregolari. Attengono soltanto alla impugnativa “endosocietaria” le norme poste nel n. 2. Pertanto al socio che raggiunge la soglia ed è stato privato ingiustamente del diritto di voto, se il suo voto non sarebbe stato determinante, non si può applicare direttamente l’art. 2377, quinto comma, c.c., ai sensi del quale non è annullabile la delibera viziata per l’errato conteggio di voti non determinanti. Infatti nel caso in esame non vi è un errore di conteggio di un voto espresso. Tuttavia, dal quinto comma si ricava che tutte le delibere illegittime sono soltanto irregolari se, ove non fosse stata violata la norma procedimentale, l’assemblea avrebbe adottato la medesima delibera. Questa regola può valere allo stesso modo per le norme poste nell’interesse della società e per quelle che attribuiscono un diritto al socio. Vi è poi il caso in cui al socio si vieta ingiustamente di partecipare alla assemblea, sicché egli non può intervenire nel dibattito assembleare, e non può tentare di orientare la decisione dei soci. Questa delibera è annullabile e non meramente irregolare. Non depone in senso contrario l’art. 2377, quinto comma, lett. a), dove si considera soltanto irregolare la delibera presa con la partecipazione di persone non legittimate che potrebbero avere influenzato la formazione della volontà assembleare. Dal fatto che la legge tollera questa alterazione del processo deliberativo assembleare, non si desume che il socio può essere privato del suo diritto di intervento [34].


11. Risarcimento del danno e sospensiva.

Il diritto al risarcimento del danno di cui all’art. 2377, quarto comma, c.c., risulta bifronte in quanto esso spetta sia al socio che non è legittimato ad impugnare la delibera che pregiudica il suo diritto soggettivo, sia al socio che non è legittimato a impugnare la delibera pregiudizievole per la società [35]-[36]. In ambo i casi, il fatto illecito a cui consegue il danno risarcibile ai sensi dell’art. 2377, quarto comma, c.c., è la delibera assunta dalla società. La società è dunque l’autore dell’illecito. La delibera è illegittima, ma non è rimuovibile dal socio, che non è legittimato a promuovere l’azione di annullamento. Soggetto danneggiato è il socio, quando la delibera viola una norma posta nell’interesse di lui. In questo caso il socio ha diritto al risarcimento del danno che consegue all’inadempimento della obbligazione. Soggetto direttamente danneggiato è invece la stessa società quando la delibera viola una norma posta nel suo interesse. Il danno del quale il socio può chiedere il risarcimento è il danno da lui indirettamente subito [37]. In questo caso la azione risarcitoria non ha la funzione di riparare un danno sofferto direttamente nel patrimonio del socio, ma può proteggerlo dai danni che colpiscono la sua partecipazione di riflesso al danno sofferto dalla società [38]. Anche la disciplina della sospensiva deve essere adattata alle differenze fra le due impugnative. La norma formulata nell’art. 2378, quarto comma, c.c., ai sensi del quale il giudice valuta comparativamente il pregiudizio che subirebbe il ricorrente dalla esecuzione della delibera, e quello che subirebbe la società dalla sospensione della esecuzione della delibera, si riferisce alla impugnativa contenziosa, ma è inapplicabile alla impugnativa promossa dagli organi della società, che non subiscono alcun danno perché non hanno alcun patrimonio e sono uffici della società convenuta. È inapplicabile anche al socio che propone la impugnativa endosocietaria perché in questo caso, come si è detto, il socio non lamenta la violazione di un suo diritto e impugna la delibera per tutelare non un proprio interesse, ma l’interesse della società. Anche nella impugnativa endosocietaria, peraltro, il ricorrente (organo o socio) [...]


12. La annullabilità per difetti del verbale.

Dall’art. 2377, quinto comma, c.c., si evince che la delibera è annullabile se l’incompletezza o l’inesattezza del verbale impediscono di accertarne contenuto ed effetti [39]. Questa volta la scelta della annullabilità si fonda sul fatto che la legge munisce il verbale di efficacia certificativa, onde la delibera deve essere eseguita nei termini in cui risulta verbalizzata e non nei termini storicamente autentici, se diversi. La delibera non può essere eseguita nei termini in cui fu realmente approvata fino a quando il verbale la registra in modo inesatto o incompleto. E allora, dal momento che i vizi del verbale possono comportare la ineseguibilità della (autentica) delibera, la legge ha voluto che il verbale sia attaccabile con la azione di annullamento della delibera. L’accertamento della inesattezza del verbale ha luogo attraverso l’impugnativa della delibera. La annullabilità della delibera conseguente ai difetti del verbale è una annullabilità privatistica. I difetti del verbale conducono alla impugnativa privatistica endosocietaria perché è interesse della società evitare che siano eseguite delibere mai realmente prese dalla assemblea. Pertanto ogni socio e gli organi sociali sono legittimati ad agire in giudizio per l’annullamento della delibera infedelmente verbalizzata. Gli organi sociali sono tenuti ad impugnare la delibera ogni volta che il verbale la riporta in modo infedele. In questo caso, non vi è da valutare in concreto la convenienza della impugnativa per la società, perché per nessuna ragione è interesse della società che le delibere dei soci siano eseguite infedelmente. Gli organi sociali si astengono dalla impugnativa soltanto se sanno di non essere in grado di assolvere in giudizio l’onere di provare la inesattezza o la incompletezza del verbale. Anche i soci sono legittimati ad impugnare la delibera verbalizzata infedelmente. La legittimazione spetta ai soci che non contribuirono ad approvare la delibera; spetta anche ai soci che votarono a favore della delibera malamente verbalizzata. Anche questi soci possono reclamare contro una deliberazione che non corrisponde a quella che essi approvarono. I difetti del verbale conducono (anche) alla impugnativa contenziosa se ne risulta la violazione (in realtà non deliberata) di un diritto del socio. In questo caso si configura [...]


13. La annullabilità per conflitto di interessi.

L’art. 2373 c.c. stabilisce che la delibera, approvata con il voto determinante di un socio in conflitto di interessi, è annullabile se può arrecare danno alla società [40]. Secondo una opinione, la prospettiva scelta dall’art. 2373 c.c. (che ha ad oggetto la validità della delibera e non la validità del voto) non impedisce di ritenere che il presidente della assemblea debba «espungere dal computo dei voti validi il voto del socio in conflitto di interessi, quando esso è espresso in senso potenzialmente pregiudizievole per la società» [41].  Ma, se così fosse, nell’art. 2373 c.c., il legislatore, piuttosto che disporre la impugnabilità della delibera, avrebbe dettato la disciplina del voto, e avrebbe stabilito che il voto del socio in conflitto di interessi con la società è invalido se risulta determinante per l’approvazione di una delibera che può arrecare danno alla società. Ne sarebbe seguita, de plano, la invalidità della delibera approvata con un voto determinante invalido, ai sensi dell’art. 2377, quinto comma, n. 2, c.c., e il giudice non dovrebbe accertare il pericolo del danno [42]. Secondo un’altra dottrina il voto è, sì, illegittimo, ma il presidente della assemblea non potrebbe rilevarne la invalidità e dovrebbe proclamare la approvazione della delibera viziata [43]. Questa seconda opinione assume implicitamente che il voto del socio in conflitto non sia nullo, perché in tal caso il presidente non potrebbe conteggiarlo, e che piuttosto sia annullabile. Peraltro, l’art. 2373 c.c., prevede che sia impugnata immediatamente la delibera e non fa riferimento alla previa impugnativa del voto. Bisogna ammettere quindi che il voto non è nullo né annullabile, né vi è un vizio procedimentale [44]. La delibera in discorso è affetta, in realtà, da un vizio sostanziale, ed è questa la ragione per cui l’art. 2373 c.c. interviene sulla delibera già approvata, piuttosto che regolare l’esercizio del voto. Si potrebbe obiettare che così non è perché la stessa delibera sarebbe valida se il voto del socio in conflitto non fosse stato determinante. Essa, però, è illegittima in quanto viola una regola desumibile dallo stesso art. 2373 c.c.; una regola [...]


14. Le impugnative pubblicistiche e la nullità.

Ricorre la annullabilità pubblicistica quando una pubblica autorità ha il compito di impugnare in giudizio le delibere assembleari contrarie a norme che tutelano interessi pubblici. In tal senso vanno considerate pubblicistiche le impugnative disciplinate dall’art. 23 c.c., che attribuisce al pubblico ministero la legittimazione a chiedere l’annullamento giudiziale delle delibere delle assemblee delle associazioni, e alla autorità governativa il potere di sospendere l’efficacia di quelle contrarie all’ordine pubblico o al buon costume [47]. Fino al 1992 il diritto societario ha ignorato le impugnative pubblicistiche. Piuttosto che seguire il modello del I libro e attribuire al p.m. la legittimazione ad impugnare le delibere societarie contrarie a norme che tutelano un interesse pubblico, nel 1942, l’art. 2379 c.c. ha preferito disporre la nullità delle delibere aventi oggetto illecito o impossibile. La misura della annullabilità è stata respinta perché avrebbe comportato la legittimazione giudiziale della pubblica autorità, o, addirittura, il suo potere di sospensione o di annullamento. Per non arrivare a questi esiti la legge ha preferito consentire che organi societari diversi dalla assemblea acquisissero il compito di accertare la illegittimità della delibera assembleare. In tal modo il legislatore ha “privatizzato” la sanzione disposta per le delibere che, secondo il modello dell’art. 23 c.c., avrebbero dovuto essere impugnate dal p.m., ed ha affidato agli amministratori della stessa società il compito di disapplicarle, e a chiunque vi abbia interesse la legittimazione ad esercitare l’azione di nullità (ove gli amministratori non rilevino essi stessi il vizio della delibera). Optando per la nullità, la legge ha modificato i rapporti fra gli organi della società, e ha consentito agli amministratori di disapplicare i deliberati dei soci, ove li ritengano illegittimi. Un legislatore attento alla libertà di iniziativa economica, ha ritenuto che sottoporre la eseguibilità delle delibere dei soci al giudizio degli amministratori sia un prezzo minore rispetto a quello che la società sopporterebbe se fosse previsto il controllo del p.m. sulle delibere assembleari, e quindi l’ingerenza dell’autorità nella vita della società. Il codice conosce dunque due assetti: [...]


15. Le impugnative pubblicistiche del diritto societario.

Il legislatore societario ha riveduto la sua posizione introducendo alcune fattispecie di annullabilità pubblicistica a partire dal d. lgs. 27 gennaio 1992, n. 90, che riscrisse l’art. 5, l. 216/1974, ora trasfuso nell’art. 120 t.u.f. Vi sono quindi alcune disposizioni “gemelle” (gli artt. 14, quinto, sesto, settimo comma; 16; 120, quinto comma; 121, sesto comma; 122, quarto comma, t.u.f.; l’art. 24, primo e secondo comma, t.u.b.; gli artt. 74 e 77, terzo comma, c. ass. priv.) che seguono uno schema uniforme: la legge richiede che il socio sia munito di una qualifica o tenga un determinato comportamento; il socio non ottempera alla prescrizione; il suo diritto di voto è sospeso ope legis; se tuttavia il socio vota e il suo voto è determinante, la delibera è annullabile «secondo le previsioni del codice civile»; l’impugnazione può essere proposta «anche» dalla autorità di vigilanza [49]. Si manifesta un interesse pubblico a che nella assemblea della società non abbia un ruolo determinante la volontà di soci non qualificati o di soci la cui partecipazione non è stata ritualmente comunicata. Nel contempo è anche interesse della società che ciò non avvenga. In questi casi, il legislatore, piuttosto che ampliare l’area delle delibere nulle, ha preferito adottare il regime della annullabilità attribuendo, oltre che alla stessa società, alla Consob, alla Banca d’Italia o all’IVASS il compito di promuovere l’impugnativa avverso le delibere assembleari prese con il voto determinante di quei soci. Per ciò che riguarda la legittimazione degli enti pubblici, il fondamento della annullabilità non risiede nella impossibilità di decidere in astratto la sorte della delibera illegittima, perché vi è da considerare soltanto l’interesse pubblico pregiudicato dalla delibera. Pertanto l’ente deve impugnare la delibera ogni volta che ve ne sono gli estremi, e non è chiamato a valutare discrezionalmente l’opportunità della impugnativa rispetto alla tutela di interessi diversi da quello che sta a fondamento del divieto di voto. In questo senso, il fondamento della annullabilità pubblicistica risiede nella volontà di assicurare alla società la garanzia del previo accertamento giudiziale. Si spiega [...]


NOTE