Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeISSN 2282-667X
G. Giappichelli Editore

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La capacità propulsiva della s.p.a. quotata è andata esaurendosi? (di Roberto Sacchi, Professore ordinario di diritto commerciale, Università degli Studi di Milano)


Il lavoro muove dalla premessa che la forte rilevanza acquisita nell’azionariato delle società quotate dagli investitori istituzionali (pur con diversità di caratteristiche e obiettivi fra loro), nonostante l’importante contributo dato dagli stessi allo sviluppo della grande impresa azionaria, ha posto in crisi l’istituto della s.p.a. quotata, come conosciuto nella tradizione. Questo perché i fondi, tendenzialmente, hanno un interesse all’andamento delle singole società in cui hanno investito nettamente inferiore rispetto a quello di altri stakeholders, quali, ad esempio, i dipendenti e i fornitori.

L’insoddisfazione per i risultati ai quali conduce l’attuale modello della s.p.a. quotata trova conferma nell’approccio assunto sia dai managers (si veda lo statement della BRT), sia dai fondi (si veda la presa di posizione del CEO di BlackRock) rispetto al ruolo che la grande impresa azionaria deve svolgere in relazione alle tematiche ESG. Questo approccio è segnaletico dell’attuale incapacità delle società quotate di rispondere in modo adeguato ai problemi posti da queste tematiche.

Nel saggio si sostiene che la soluzione del problema ora segnalato e, più in generale, della crisi dell’attuale s.p.a. quotata non può consistere nell’attribuzione della gestione dei profili ESG ai managers (eventualmente con il ricorso a nominee directors) o agli investitori istituzionali. Si propone, invece, di rafforzare le competenze degli amministratori, ponendo però rigorosi vincoli al loro operato, mediante l’assegnazione alla loro azione (i) di finalità determinate in modo netto e univoco e collocate secondo un chiaro ordine gerarchico e (ii) di precisi limiti posti da norme inderogabili, a tutela degli stakeholders diversi dai soci.

Has the driving force of the listed company been exhausted?

The essay starts from the premise that the great importance acquired by institutional investors in the shareholding structure of listed companies (although with different characteristics and objectives among them), despite the important contribution given by them to the development of the large shareholding company, has put in crisis the institution of the listed company, as traditionally known. This is because funds tend to be less interested than other stakeholders, such as, for example, employees and suppliers, in the performance of the individual companies in which they have invested.

The dissatisfaction with the results to which the current model of the listed company leads is confirmed by the approach taken both by managers (see the statement of the BRT) and by funds (see the position of the CEO of BlackRock) concerning the role that the large shareholding company must play in relation to ESG issues. This approach signals the current inability of listed companies to respond adequately to the problems posed by these issues.

In the essay, it is argued that the solution to the problem reported above and, more generally, to the crisis of the current listed company cannot consist in attributing the management of ESG profiles to managers (possibly with the use of nominee directors) or to institutional investors. On the contrary, it is proposed to strengthen the competences of directors, but placing strict constraints on their work. This can be done by assigning to their action (i) clearly and unequivocally determined goals placed in a precise hierarchical order and (ii) specific limits set by mandatory rules, to protect stakeholders other than shareholders.

Keywords: institutional investors; ESG; market vs. regulation

 

Sommario/Summary:

1. Gli investitori istituzionali sono la soluzione o (una parte de) il problema delle società quotate? - 2. Alcune recenti proposte di reazione ai problemi della s.p.a. quotata: critica. - 3. Un’ipotesi in controtendenza. - NOTE


1. Gli investitori istituzionali sono la soluzione o (una parte de) il problema delle società quotate?

Come noto, nei Paesi connotati da un capitalismo maturo (negli U.S.A., soprattutto, ma in misura sempre maggiore, anche se non uniforme, pure in Europa) la componente più importante sul piano quantitativo e qualitativo del­l’azionariato delle società quotate è rappresentata da investitori istituzionali [1] (al di là della eterogeneità che essi presentano). La circostanza che il denaro degli investitori retail giunge alle grandi imprese non direttamente, ma per il tramite della intermediazione degli investitori istituzionali consente che la scelta e la gestione dell’investimento siano affidate a soggetti che, rispetto a coloro dai quali provengono i capitali da investire, garantiscono (in linea di massima) una maggiore sofisticazione e dovrebbero avere (date le ingenti – talora enormi – quantità di investimenti gestiti) un maggior incentivo ad affrontare i costi da sostenere per assumere in modo informato e ponderato le decisioni sulle scelte degli investimenti e sulla loro gestione. A questo si aggiunga che, recentemente, gli investitori istituzionali – per il tramite dell’autorevole voce del CEO di BlackRock [2] – hanno manifestato la volontà di affermare il loro ruolo anche in relazione alla cura delle tematiche Environmental, Social, Governance (ESG), centrali nell’attuale dibattito sullo scopo delle grandi imprese azionarie, trovando supporto in letteratura, nella quale si è ad esempio sostenuto che «l’unico strumento per condizionare la gestione verso obiettivi di responsabilità sociale sia costituito dal ruolo degli investitori istituzionali» [3]. L’evoluzione della composizione della struttura proprietaria delle s.p.a. quotate si è svolta in concomitanza con la modificazione (in realtà, l’inver­sione) del rapporto tra diritto dell’impresa e diritto del mercato. Il diritto del mercato è nato con la finalità di fornire incentivi agli investitori (anzitutto, a coloro che investono in capitale di rischio) ad accedere ai mercati finanziari, così da consentire alle imprese di procurarsi capitali più agevolmente e a un costo inferiore. In questa prospettiva la protezione fornita agli investitori dal diritto del mercato aveva la finalità ultima di facilitare la raccolta di capitali in funzione della crescita delle imprese. Da tempo [...]


2. Alcune recenti proposte di reazione ai problemi della s.p.a. quotata: critica.

La crisi del modello della s.p.a. quotata (nonché l’insoddisfazione per i risultati ai quali esso ha condotto) trova, del resto, conferma nei recenti tentativi di modificare l’obiettivo dell’azione della grande impresa azionaria, affiancando a quello tradizionale (la creazione di valore per gli azionisti) la salvaguardia dei temi ESG. Non è un caso che in questo senso si siano espressi sia i CEOs di importanti imprese statunitensi (il riferimento è ovviamente allo statement della Business Roundtable (BRT), sia un’autorevole voce del mondo degli investitori istituzionali, ossia il CEO di BlackRock nella lettera precedentemente menzionata. Non credo, tuttavia, che né queste iniziative, né altre proposte avanzate in letteratura per tutelare gli stakeholders diversi dai soci attraverso il ricorso a nominee directors [22] forniscano una risposta che consente di affrontare in modo soddisfacente i problemi precedentemente richiamati. In primo luogo appare lecito un certo scetticismo sul tasso di sincerità della preoccupazione per gli interessi degli stakeholders manifestata, da una parte, dai managers, dall’altra, nel mondo degli investitori istituzionali. Sotto il primo profilo è ragionevole il dubbio che lo statement della BRT sia mosso dall’esigenza dei managers di sottrarsi alla pressione di soggetti, quali gli investitori istituzionali, dotati (potenzialmente) della capacità (in presenza di adeguati incentivi) di effettuare un monitoraggio effettivo, a differenza della moltitudine degli investitori retail disorganizzati, che in precedenza caratterizzava l’azionariato delle imprese quotate [23]. Anche rispetto alla posizione assunta dal CEO di BlackRock non è ingiustificato chiedersi se il riferimento agli stakeholders sia compiuto strumentalmente in funzione della dialettica con i managers. Di fronte all’improvvisa propensione per le tematiche ESG manifestata sia dai CEOs, sia dagli investitori istituzionali è condivisibile il rilievo secondo cui «nella misura in cui le dichiarazioni di entrambe le categorie concordano nell’esaltare il lungo periodo, la domanda spontanea è: se siete davvero d’ac­cordo voi, chi mai vi impedisce di passare dalle parole ai fatti?» [24]. A parte questo – e considerando in primo luogo lo statement della BRT – con esso viene sostanzialmente [...]


3. Un’ipotesi in controtendenza.

Di fronte a questo quadro non appare fuori luogo porsi l’interrogativo se il modo per conservare un significato all’utilizzazione del codice organizzativo azionario da parte della grande impresa debba essere un altro. A questo proposito si può muovere dalla constatazione che fra i soci di un’impresa quotata e coloro che possiedono quote di un fondo di investimento non appare sussistere una significativa diversità sul piano della logica (finanziaria) dell’investimento. Naturalmente, non nascondo le differenze sul piano giuridico formale fra s.p.a. e fondi, a maggior ragione se si esclude che l’attività di gestione dei fondi di investimento sia attività di impresa [37]. Né trascuro la circostanza che, se una componente significativa dell’azionariato delle società quotate è costituita da investitori istituzionali, nei fondi i titolari delle quote sono spesso (ma non sempre) investitori retail. Resta però il fatto che la prospettiva finanziaria connota non solo investimenti in quote di fondi, ma anche, in ampia misura, l’investimento in azioni di imprese quotate. Muovendo da questa premessa ci si potrebbe domandare se l’analogia ora richiamata giustifichi una riduzione dei diritti di voice degli azionisti nelle imprese quotate, tenendo presente la compressione dei diritti di voice degli investitori nei fondi. Non sto riproponendo la provocazione compiuta di Guido Rossi negli anni ottanta del secolo scorso, ossia il divieto di voto per le azioni detenute da fondi. Ritengo invece che – in una situazione nella quale la più significativa componente della struttura proprietaria delle società quotate (gli investitori istituzionali) presenta rilevanti problemi di conflitto di interessi/carenza di interessi a supportare i costi per un esercizio informato e ponderato dei diritti sociali – si debba prendere in seria considerazione una contrazione delle competenze decisionali dei soci, allargando, in corrispondenza, la sfera di attribuzioni degli amministratori. A questo riguardo va ricordato che, ad esempio, negli Stati Uniti è normale fissare a cifre molto alte il limite massimo delle azioni “autorizzate”, il che consente agli amministratori una forte discrezionalità nella decisione se – e, allora, in che misura – effettivamente emettere nuove azioni [38] (potere che si aggiunge a quello [...]


NOTE