In questo articolo proponiamo un’interpretazione adeguatrice della disciplina della s.r.l., che tenga conto non solo e non tanto del fenomeno del finanziamento via crowdfunding, ma anche e soprattutto del finanziamento via business angels e venture capital. Avanziamo quindi una proposta di rilettura integrale della materia come uscita dalle riforme del 2012-2015-2017, tesa laddove possibile a rendere attuabili le pratiche negoziali del venture capital financing. La nuova lettura della disciplina della s.r.l. riflette gli originali intenti del legislatore, riduce l’ancora elevato tasso di imperatività di quella disciplina ed è coerente con i sentiti bisogni di modernizzazione del nostro diritto societario.
This article provides an innovative interpretation of the rules of limited responsibility companies (s.r.l.), which takes into account not only and not much the phenomenon of crowdfunding, but also and above all the financing via business angels and venture capital. We therefore advance a proposal for a complete re-reading of the subject as reformed in 2012-2015-2017, aimed wherever possible at making venture capital financing feasible. The proposed construction reflects the original intentions of the legislator, reduces the impact of mandatory rules and is consistent with the deeply felt need to modernise Italian company law.
Keywords: business angels – venture capital – limited liability company
CONTENUTI CORRELATI: business angels - venture capital - s.r.l.
Introduzione. - Parte I: Storia ed evoluzione della disciplina. - 2. Il caso della Germania: l’utilizzo di norme di diritto societario a tutela dell’integrità del mercato. - 3. Il caso del Regno Unito: la tutela del mercato tramite regole di trasparenza. - 4. La nascita della s.r.l. nell’ordinamento societario italiano. - 5. La riforma italiana del 2003. - 6. Le riforme del 2012-2017. - 6.2. La crisi economica italiana e la spinta a rinnovare il sistema imprenditoriale: il Rapporto Restart, Italia! e il d.l. 179/2012. - 6.3. Da eccezione a regola: gli interventi del 2015 e 2017. - Parte II: Il finanziamento delle imprese startup “VC-backed” - 7. I problemi regolatori alla base del rapporto contrattuale tra socio fondatore e finanziatori esterni. - 8. I protagonisti del finanziamento di startup: l’early stage, FFFs e Business Angels. - 9. L’intervento dei VCs. - 10. L’importanza di un sistema “enabling”. - Parte III: L’apertura della nuova s.r.l. ai finanziamenti di venture capital - 12. È ancora attuale e vigente un principio di “rilevanza centrale del socio”? - 13. Sulle conseguenze dell’eccessiva enfasi data all’introduzione del crowdfunding: la necessità di prediligere un approccio che valorizzi l’autonomia contrattuale. - Sezione II: Questioni applicative nella contrattazione delle operazioni di VC - 14.1. L’ammissibilità di strumenti di debito convertibili in quote dell’emittente e l’applicabilità dall’art. 2483 c.c. - 14.2. La conversione a sconto (premiale). - 14.3. La disciplina negoziale nell’emissione di titoli convertibili. - 15. La raccolta tramite capitale di rischio. - 15.1. L’esclusione del diritto di opzione e l’art. 2481-bis c.c. - 15.2. Le clausole antidiluizione del venture capital financing in Italia. - 15.3. L’emissione di categorie di quote. - 15.4. Segue: gli eventuali limiti “interni” alla disciplina delle s.r.l. - 15.5. Segue: la non applicabilità analogica dei limiti della s.p.a. - 15.6. La non applicabilità del divieto del patto leonino. - 15.7. Il principio di equa valorizzazione della partecipazione e la sua compatibilità con taluni strumenti tipici del VC financing (liquidation preferences e clausole di drag-along). - 16. Gli schemi di work for equity nella startup s.r.l. - 17. Il problema della trasformazione. - Osservazioni conclusive. - NOTE
Chi, con poco capitale e molte idee, avesse voluto costituire un’impresa innovativa prima del 2012 in Italia, avrebbe avuto difficoltà non solo a reperire capitali privati, ma ancor prima a individuare un idoneo modello societario. La società per azioni avrebbe offerto ampia flessibilità nella costruzione dei rapporti finanziari e di governo societario con gli investitori [1], a parte i limiti di durata di eventuali patti parasociali; ma avrebbe imposto, tra le altre cose, un capitale minimo di 120.000 Euro e meccanismi rigidi e costosi di amministrazione e controllo: si pensi al solo costo di un collegio sindacale composto da tre membri. La società a responsabilità limitata non avrebbe richiesto alcun rilevante capitale iniziale, né il collegio sindacale, né avrebbe posto limiti di durata ad eventuali patti parasociali; ma la costruzione delle relazioni con gli investitori sarebbe stata enormemente complicata dall’inflessibilità finanziaria del modello. In questa situazione, la disciplina non era appetibile per gli startuppers, che hanno sempre guardato al diritto societario degli Stati Uniti (del Delaware in particolare) come riferimento [2]; e così in qualche misura si tradiva l’intento del legislatore delegante del 2001 di riformare il diritto societario per “perseguire l’obiettivo prioritario di favorire la nascita, la crescita e la competitività delle imprese” [3]. Con la crisi del debito sovrano del 2010-2012 e le spinte dell’Unione Europea tese a favorire interventi di rivitalizzazione della nostra economia, nell’auspicio che i problemi del debito pubblico potessero essere risolti con un incremento del tasso di crescita del prodotto interno, il legislatore è intervenuto sul diritto societario per modernizzarlo e lo ha fatto operando, come appariva certamente più facile, sulla s.r.l. L’intervento iniziale, poi proseguito con le riforme del 2015 e 2017, ha sostanzialmente ridisegnato la disciplina di questa società, rendendola finanziariamente più flessibile per dare la possibilità alle startup [4] di raccogliere apporti secondo il modello prevalentemente americano del finanziamento di venture capital (venture capital financing o VC financing). Con l’occasione, il legislatore del 2012 ha aperto le s.r.l. anche al mercato del capitale pubblico, attraverso la [...]
1. La nascita della s.r.l. nell’Europa continentale. Sino al quinquennio di riforme 2012-2017 il diritto delle società di capitali italiano aveva confermato la sua tradizionale impronta dualistica: da un lato una s.p.a. che, pur avendo conosciuto una grande liberalizzazione delle regole in tema di raccolta della provvista finanziaria, era sottoposta alle regole particolarmente severe sul capitale sociale e su amministrazione e controlli; dall’altro lato una s.r.l. che, pur consentendo un apprezzabile spazio all’autonomia statutaria in punto di organizzazione interna, non essendo concepita quale “veicolo di investimento” non consentiva la medesima libertà dal lato del finanziamento [10]. Da tale caratteristica veniva e viene tuttora argomentata in Italia la tendenziale uniformità di intenti tra i soci di s.r.l., con impossibilità di concepire una distinzione tra soci “imprenditori” e soci “investitori” [11], oltre che il più ampio grado di derogabilità della disciplina, vista la non necessità di tutelare «un azionariato potenzialmente illimitato, disperso, per lo più disinformato e assenteista» [12]. Il dibattito sulle origini del dualismo s.p.a./s.r.l. sembra dunque dare per acquisito che la distinzione tra le due società di capitali, conosciuta in molti ordinamenti dell’Europa continentale, risponda a bisogni naturali del mercato e, quindi, costituisca una scelta obbligata. Al contrario, la contrapposizione tra il tipo della s.p.a./AG/S.A., e quello della s.r.l./GmbH/s.à.r.l. è molto più artificiale di quanto si possa ritenere, traendo le proprie origini da specifici processi storici verificatisi negli ordinamenti che la contemplano [13]. In estrema sintesi, la spinta è stata data dalla rimozione, verso la metà del XIX secolo, delle barriere alla libertà di costituzione delle società-persone giuridiche. Fino a tale fondamentale punto di svolta, infatti, le società di capitali erano solo “grandi”, necessitando per la loro costituzione di una speciale autorizzazione governativa sul presupposto della loro “utilità per il benessere sociale” [14]. Con l’affermarsi del principio di libera costituzione [15], invece, il beneficio della responsabilità limitata veniva garantito, [...]
Più in particolare, la risposta tedesca ad una crisi finanziaria costituisce probabilmente uno dei fattori che, pur indirettamente, contribuì in misura determinante alla creazione di un nuovo tipo sociale per le società “chiuse”, poi diffusosi nel resto dell’Europa continentale. Ci riferiamo al c.d. Gründerkrach verificatosi nel 1873 a valle del periodo di notevole crescita economica dei due anni precedenti (Gründerboom), le cui radici sono state individuate nella velocità con cui la Francia onorò le riparazioni impostele dopo la conclusione della guerra franco-prussiana [19]. La notevole diffusione tra il pubblico di titoli collocati da Aktiengesellschaften in assenza di qualsiasi regolazione causò ingenti perdite ad un esteso pubblico di piccoli risparmiatori. La reazione del legislatore tedesco si tradusse in una profonda riforma della AG attuata nel 1884 [20] al dichiarato fine di prevenire usi abusivi della responsabilità limitata in danno del pubblico dei risparmiatori, così rendendo l’utilizzo della società-persona giuridica meno attraente (e più costosa) per un gran numero di attività imprenditoriali di dimensioni non rilevanti [21]. Dette innovazioni legislative furono sin da subito percepite come superflue ed eccessivamente onerose per quelle società a ristretta base sociale in cui la forma della AG era stata scelta unicamente allo scopo di limitare la responsabilità dei soci e non anche per reperire risparmio presso il pubblico [22]. Fu così che, dopo una gestazione-lampo di soli quattro mesi [23], vide la luce la GmbH, una nuova forma organizzativa espressamente ideata per quelle attività imprenditoriali collettive, di norma ma non necessariamente medio-piccole e poco rischiose [24], alla ricerca della responsabilità limitata, ma: i) non disposte a sottoporsi alla rigida struttura della AG così come da ultimo novellata; ii) non interessate a finanziarsi sul mercato. Di qui, tra le altre novità, il divieto di incorporazione in azioni delle quote di partecipazione e la necessità di un atto pubblico per il loro trasferimento [25].
Al contrario, il Regno Unito, che pure sperimentò bolle speculative a seguito dell’affermarsi della freedom of incorporation con le riforme del 1847 e 1856 [26], reagì adottando una diversa strategia di riforma [27], in ciò poi sostanzialmente seguito dall’esperienza nordamericana. Sulla base di quanto osservato dal c.d. “Comitato Davey” del 1895, nel 1900 il Parlamento emanò il Companies Act al preciso scopo di regolare la collocazione presso il pubblico di titoli azionari. È interessante notare che in tale processo di riforma il legislatore inglese non prese in considerazione la recente esperienza tedesca delle riforme 1884-1892, tutta basata sull’utilizzo di norme imperative di diritto societario, optando invece per una regolazione tutta basata sulla distinzione tra due “modelli” (private/public) di un medesimo tipo sociale dotato di personalità giuridica, la company, in funzione della sua apertura o meno al mercato del capitale di rischio [28]. La public company fu quindi sottoposta a regole più stringenti non tanto in tema di costituzione o organizzazione, quanto in materia di pubblicità dei dati di bilancio e di pubblicità nel collocamento dei propri titoli sul mercato [29]. Al contrario, la private company era definita per la prima volta dalla section 37 del Companies Act solo in funzione dell’esenzione dalle appena citate regole di disclosure e appello al pubblico risparmio, come quella società il cui statuto: i) prevedesse delle limitazioni alla circolazione delle proprie azioni; ii) limitasse il numero massimo di azionisti a cinquanta; iii) proibisse qualsiasi forma di collocamento presso il pubblico di qualsiasi titolo, azionario o obbligazionario, emesso dalla società medesima [30].
Come appena osservato, entrambi gli ordinamenti definivano il neonato tipo (in Germania) o modello (in Inghilterra) di società chiusa sostanzialmente in base all’ampia autonomia statutaria ad esso concessa, utilizzabile dai soci per gli scopi concreti più disparati: dalla piccola impresa familiare, o società di persone a responsabilità limitata, sino a imprese ad alto rischio, come aveva ben compreso Tullio Ascarelli già nel 1924 [31]; il costo imposto per godere di siffatta ampia libertà di autoorganizzazione era dato dal divieto di ricorrere al pubblico risparmio. La “pioniera” GmbH esercitò poi, seppure con intensità varia, una notevole forza attrattiva nei confronti degli altri legislatori societari dell’Europa continentale, tanto da venire considerata orgogliosamente da Marcus Lutter come «uno dei prodotti legali d’esportazione più importanti e di maggiore successo» [32]. Emblematico è il caso della vicina Austria, che introdusse la GmbH nel 1906 [33]; similmente, in Francia, a seguito della pressione competitiva causata dalla riannessione dell’Alsazia-Lorena, nel 1925 [34] fu introdotta, accanto alla société anonyme, la société à responsabilité limitée, la cui disciplina prevedeva numerose cautele per evitare che si finanziasse presso il pubblico [35]. Anche in Italia, che pure conservò la GmbH nei territori annessi dopo il primo conflitto mondiale [36] e che aveva considerato, per poi scartare, l’ipotesi di introdurre nel Codice di Commercio del 1882 [37], un tipo ispirato alla private company inglese [38], sia il Progetto Vivante sia il Progetto D’Amelio contemplavano l’introduzione di un tipo di società “a garanzia limitata” cui, tra le altre cose, fosse impedito di ricorrere al pubblico risparmio per finanziarsi [39]. Tale obiettivo veniva realizzato prevedendo un numero massimo di soci [40], limitazioni alla circolazione delle quote [41], oltre che, come per la GmbH tedesca, la forma notarile per l’atto di cessione. Tuttavia, il sostanziale allineamento dei progetti di riforma italiani con quelli europei fu abbandonato con il progetto di riforma del 1940 [42] e poi confermato in sede di emanazione del Codice civile, quando la differenza normativa tra s.r.l. e s.p.a. si [...]
L’approccio di politica legislativa cambiava solo parzialmente con la riforma societaria del 2003, pur nella conferma del carattere chiuso della s.r.l. [46]. Infatti, è indubbio che il legislatore delegato abbia accentuato l’autonomia della s.r.l. rispetto alla s.p.a., predisponendo – come imposto dall’art. 3, primo comma, lett. a), l. 366/2001 – un complesso di norme «autonomo ed organico» [47], con conseguente venir meno della consolidata “dipendenza” del nostro tipo rispetto a quello azionario [48]; è altrettanto innegabile, però, che lo stesso legislatore delegato, pur consentendo ai soci di s.r.l. di adottare diversi “modelli tipologici” di s.r.l. [49], ha sfruttato solo in parte la possibilità di «prevedere un’ampia autonomia statutaria [50] [anche] riguardo […] agli strumenti di tutela degli interessi dei soci», concepita dalla legge delega al fine generale di favorire la competitività delle imprese [51]. Il risultato è stato così la costruzione di un tipo societario principalmente funzionale allo svolgimento di attività d’impresa tra “soci imprenditori” [52], dotata, per un verso, di notevole flessibilità nella definizione tailor-made della struttura organizzativa interna, ma, per l’altro verso, soprattutto a causa di una certa lettura data dalla dottrina al principio di «rilevanza centrale del socio e dei rapporti contrattuali tra soci» [53], compressa da una serie di norme (ritenute dai più imperative [54]) volte a conservarne il carattere chiuso, a tutelare il peso reciproco dei soci e a impedire l’ingresso di “soci finanziatori” [55]. La definizione, parimenti diffusa in dottrina, della s.r.l. come società “tra negoziatori” [56] può allora essere ritenuta accettabile a condizione che si ricordi come nella disciplina pre-2012, secondo la dottrina prevalente gli spazi di libertà statutaria erano comunque sostanzialmente limitati alla migliore definizione della corporate governance. Infatti, rimaneva impregiudicata l’impostazione paternalistica [57] volta ad assicurare un equilibrio etero-imposto tra maggioranza e minoranza e una rilevanza centrale del socio individualmente inteso [58], senza differenziazione tra soci attivi e [...]
6.1. Il prologo: la competizione tra ordinamenti europei in materia di società chiuse dopo Centros. Il menzionato processo di profonda riforma attuato dal legislatore italiano nel quinquennio 2012-2017 trova il proprio prologo in un più ampio fenomeno di vera e propria competizione tra gli ordinamenti europei in materia di società chiuse [59], innescato dalla nota giurisprudenza della Corte di Giustizia in tema di libertà di stabilimento [60]. Tale competizione [61] si è concentrata, seguendo anche gli auspici della Commissione Europea [62], proprio sulle P.M.I., individuate come campo di intervento elettivo al fine di facilitare la creazione di nuove imprese e la crescita di quelle già esistenti [63] e si è risolta in un generale rilassamento delle norme già esistenti, prendendo a modello i sistemi inglese e nordamericano [64]. Messa a confronto con le proprie cugine, la s.r.l. italiana uscita dalla Riforma del 2003, con le peculiari norme imperative a tutela delle reciproche posizioni dei soci che la definivano, ha mostrato tutti i suoi limiti. In tale contesto a cadere sotto i colpi degli interventi riformatori è stato per primo il capitale sociale minimo, che sino alla fine del XX° secolo era invece previsto anche per le società chiuse da pressoché tutti gli ordinamenti europeo-continentali [65], mentre oggi è ammessa in molte nazioni la possibilità di costituire una s.r.l. con capitale di un solo euro [66]. Un altro aspetto oggetto di revisione, in quanto considerato (a torto o a ragione) un ostacolo alla creazione di nuove imprese, è quello delle formalità previste per la registrazione, con una particolare attenzione alla costituzione per via telematica o, comunque, alla semplificazione dei relativi adempimenti [67]. Particolare enfasi è stata, infine, attribuita alla predisposizione di sotto-tipi della s.r.l. dedicati alle nuove iniziative imprenditoriali e caratterizzati da una forte semplificazione, se non addirittura da una standardizzazione, della loro articolazione statutaria [68]. Tra di essi si annoverano: la sociedad limitada nueva empresa (SLNE) introdotta, seppur senza particolare successo [69], in Spagna nel 2003; la Unternehmergesellschaft (UG), nata in Germania nel 2008; la société privée à responsabilité limitée-starter [...]
Le profonde modifiche subite dal diritto societario italiano nel quinquennio 2012-2017 costituiscono, è cosa nota, una risposta alla pressoché nulla crescita della produttività e ad un tasso di innovazione e sviluppo molto basso dell’economia italiana [75]/ [76]. È per questo motivo, balzato in cima all’agenda politica con il determinante impulso delle istituzioni europee [77], che il MISE nominò una commissione di dodici esperti nel campo delle startup, degli strumenti per la loro crescita (incubatori, acceleratori, ecc.) e del venture capital, che terminò i suoi lavori con l’elaborazione di un rapporto denominato “Restart, Italia!” [78], contenente specifiche proposte di riforme nel campo del diritto societario. Più in particolare, nella consapevolezza che la sistemazione della materia frutto della Riforma del 2003 fosse inadatta a recepire le istanze dei finanziatori di imprese innovative [79], la sezione significativamente denominata “iSRL” del rapporto [80] suggeriva l’introduzione dei tipici strumenti di finanziamento utilizzati dal Venture Capital, quali il work for equity, l’abbandono del regime del capitale minimo, la possibilità di emettere titoli di debito convertibili e classi di partecipazioni, quali ad esempio le performance shares per i fondatori e il team originario e le seeding shares per gli investitori, così da poter incorporare nel contratto sociale tutti quei diritti che tipicamente vengono attribuiti al finanziatore VC (clausole di co-vendita, privilegio in sede di liquidazione, nomina degli amministratori, ecc.). Il Rapporto, tra le altre cose, suggeriva alcune modifiche e semplificazioni in tema di disciplina delle società di gestione del risparmio [81], l’agevolazione per la costituzione di “investment companies” [82], l’introduzione di un regime ad hoc per il crowdfunding [83] e una regolazione più di favore della crisi, della liquidazione e dell’insolvenza [84]. Non bisogna tra l’altro dimenticare che a livello europeo era proprio in quel momento in corso la discussione sulla proposta della Commissione di introdurre un regolamento sui fondi europei di venture capital, proposta che comprendeva, tra gli investimenti ammissibili per quei fondi, gli strumenti di “equity” e di “quasi [...]
Quelle che dovevano essere eccezioni temporanee ad un sistema oramai consolidato si sono diffuse rapidamente. Prima a tutte le Piccole e Medie Imprese (PMI [94]), purché innovative, grazie all’art. 4 del d.l. 24 gennaio 2015, n. 3 [95], poi a tutte le PMI, anche non innovative, grazie al d.l. 24 aprile 2017, n. 50 [96], che si sono limitati a mutare la fattispecie di riferimento di pressoché [97] tutta la disciplina dell’art. 26 d.l. n. 179/2012. Rimangono escluse dal campo di applicazione delle riforme le sole s.r.l. “grandi”, come se il legislatore si fosse vergognato di ammettere sino in fondo che la disciplina uscita dalla riforma del 2003 era già largamente superata [98]. Il quinquennio di riforme 2012-2017 ha quindi grandemente indebolito, sino quasi ad annullarla, la valenza normativa del tipo [99] s.r.l. così come definito nel 2003, sino ad allora basato sul presupposto dell’omogeneità d’interessi e vedute dei soci, tutti interessati alla gestione dell’impresa sociale. All’esito, il nostro ordinamento sembra aver recepito la possibilità, già presente ad altre esperienze europee-continentali ed anglosassoni, di un “dual-use” della s.r.l., così abbandonando il paradigma di riferimento della s.r.l. quale “società di persone a responsabilità limitata”, con tutte le norme a tutela dei soci che ne derivavano, a favore della possibilità di disegnare anche una s.r.l. VC-backed con una maggiore libertà statutaria idonea a favorire i rapporti con possibili investitori privati. D’altro canto, con l’introduzione del crowdfunding e il venir meno del divieto di appello al pubblico risparmio, il legislatore italiano sembra essersi avviato, poi seguito da altri legislatori europei [100], verso un progressivo abbandono del secolare sistema tedesco basato su una distinzione tra s.p.a. aperta al mercato e s.r.l. invece chiusa, senza però approdare a lidi conosciuti [101]. L’alternativa al sistema dualistico, infatti, sarebbe stata quella degli ordinamenti inglese e statunitense, in cui la distinzione tra private companies/close corporations e public companies/corporations non è tra tipi, ma tra tipo generale e sottotipo, o tra “modelli” nell’ambito di un medesimo tipo.
A nostro parere, la riforma del 2012-2017 va letta dalla prospettiva del venture capital prima che da quella del crowdfunding, come testimoniato dalla particolare attenzione riservata dal “Restart Italia!” prima, e del legislatore poi, anche successivamente al citato quinquennio di riforme [102], a strumenti tipicamente utilizzati dai business angels e dai venture capitalists. In questa parte vogliamo esporre sinteticamente le tecniche usate nel finanziamento delle startup innovative e il ruolo fondamentale, purtroppo dimenticato dal rapporto “Restart Italia!”, di un diritto societario che garantisca sufficiente autonomia statutaria all’imprenditore o al team di imprenditori (founders) e ai finanziatori esterni (“family friends and fools”, business angels e venture capitalists) in sede di negoziazione dei relativi rapporti.
Il finanziamento di un’impresa startup è processo complesso, visto che la società finanziata si riduce spesso meramente ad un’idea di business e ad una squadra di soggetti innovatori. La definizione della struttura finanziaria risulta fortemente condizionata dal concreto atteggiarsi degli interessi facenti capo all’imprenditore-fondatore ed agli investitori esterni [103]. Infatti, diversi problemi possono presentarsi nell’ambito del rapporto di agenzia corrente tra i soggetti coinvolti nell’operazione di finanziamento, tutti riconducibili ad asimmetrie informative, incertezza contrattuale e fenomeni di opportunismo vario [104]. In primo luogo, il finanziatore deve subito interrogarsi sulle ragioni per le quali il fondatore, spesso fuoriuscito da un’impresa tecnologica, non abbia ottenuto mezzi finanziari sufficienti a sviluppare il proprio progetto da parte del proprio precedente datore di lavoro o da altri contatti nel settore in cui intende avviare la nuova impresa. Il rapporto tra il finanziatore e il fondatore si apre subito, dunque, all’insegna di un profondo pericolo di selezione avversa, in cui il primo rischia di fornire capitali ad una persona o un team le cui idee e competenze non hanno trovato l’appoggio di soggetti apparentemente più informati [105]. Soprattutto, il finanziatore è esposto al rischio di azzardo morale da parte del fondatore, il quale potrebbe opportunisticamente utilizzare le somme erogate per finalità estranee allo sviluppo del progetto imprenditoriale o, più semplicemente, non dedicare sufficienti sforzi ed energie in vista del raggiungimento degli obiettivi aziendali stabiliti. L’operazione di finanziamento è, quindi, strutturata in modo tale da evitare il problema di un non adeguato impegno, rispetto ai bisogni e alle promesse, da parte del fondatore [106]. Infatti, visto che il finanziatore non è in grado di misurare la quantità e qualità degli sforzi lavorativi profusi dal fondatore sino a quando una qualche creazione di valore diviene tangibile, il finanziamento è scaglionato per fasi (o milestones) di avanzamento secondo un principio di reward for performance, ove il raggiungimento di determinati obiettivi di prestazione incentiva il finanziatore a fornire ulteriore capitale di rischio o di debito [107]. Al fine di assicurare un efficace funzionamento del principio [...]
Nel mondo statunitense delle imprese innovative, i fondi necessari per lo sviluppo dell’idea imprenditoriale provengono nella iniziale fase di avviamento (early stage) dai fondatori stessi (c.d. bootstrapping), nonché da un gruppo di soggetti descritto con l’acronimo FFF, che sta per family, friends and fools (famigliari, amici e folli) [115]. Detti investitori iniziali acquistano partecipazioni ordinarie, condividendo i medesimi diritti e rischi dell’imprenditore fondatore, e ciò in ragione del fatto che sia le relazioni personali esistenti tra essi sia l’ammontare modesto dell’investimento scoraggiano l’avvio di più costose e sofisticate negoziazioni contrattuali. La società viene comunemente costituita nel Delaware o, meno frequentemente, nello stato d’origine del fondatore, anche se l’arrivo di investitori da luoghi differenti da quello dello stato d’origine aumentano le probabilità di un successivo trasferimento di sede nel Delaware [116]. A seguire, intervengono frequentemente, sempre ancora nella fase early stage, singoli soggetti facoltosi (angels) o associazioni regionali di angels (angel groups o superangels), i quali, oltre all’apporto finanziario, generalmente forniscono anche attività di consulenza. Un tipico round di finanziamento erogato dagli angels oscilla tra centomila ed un massimo di 1 o 2 milioni USD [117]. Gli angels stipulano normalmente un contratto di investimento, quest’ultimo strutturato in modo più semplificato rispetto agli accordi contrattuali in uso nel mondo del venture capital (VC). In passato, gli angels usavano investire in azioni ordinarie, mentre più recentemente si assiste, soprattutto da parte dei più sofisticati angel groups, all’impiego di strumenti di investimento maggiormente protettivi [118], quali azioni privilegiate convertibili (seed equity) o obbligazioni convertibili con rapporto di conversione sotto la pari (seed debt). Con riferimento alle obbligazioni convertibili, la ratio è quella di consentire agli angels di esercitare il diritto di conversione contestualmente all’intervento (successivo) del VC, acquisendo così, sotto forma di sconto di conversione (conversion price cap), una quota di partecipazione al capitale di rischio ad un prezzo inferiore rispetto al valore dell’impresa al momento della conversione, ottenendo [...]
Nella successiva fase di espansione e, eventualmente, in quella finale che precede la quotazione in borsa, si assiste prevalentemente all’ingresso di investitori istituzionali quali fondi di venture capital e di private equity. I VCs tendono a concedere finanziamenti corposi che si aggirano mediamente tra i 2 e 10 milioni USD per singolo round di finanziamento [123], con una durata media dell’investimento nella portfolio company di circa 5 anni [124]. Inoltre, di strategico valore per il fondatore è la consulenza e la reputazione fornite dal VC, il quale comunemente presta attività di assistenza tecnica e manageriale, individua ed attrae ulteriori investitori e personale chiave, etc. [125]. Il primo fondo di VC è stato probabilmente la American Research and Development Corp., costituita nel 1946 da Georges Doriot, Professore della Harvard Business School, e da Ralp Flanders, Presidente della Federal Reserve Bank di Boston [126]. Attualmente, l’industria del venture capital più sviluppata a livello mondiale è operativa nella Silicon Valley e, in misura minore, nella Route 128 di Boston, ove si rinvengono i fondi più importanti, come Kleiner Perkins e Sequoia Capital [127]. Come già accennato, tali finanziatori investono nell’impresa innovativa in modo incrementale, al raggiungimento di determinati obiettivi. In corrispondenza di ogni fase di finanziamento nuovi investitori possono aggiungersi, dando così luogo ad una struttura finanziaria complessa e a potenziali conflitti d’interesse tra gli investitori stessi. Il VC sottoscrive quasi esclusivamente, anche per preminenti ragioni fiscali [128], azioni privilegiate convertibili, le quali assicurano diritti e tutele speciali rispetto a quelle riservate ai soci ordinari [129]. Tali strumenti finanziari attribuiscono perlopiù un diritto di preferenza nella distribuzione degli utili (upside protection) e, inoltre, una preferenza nella ripartizione del residuo di liquidazione (downside protection), che può essere in forma participating o non participating. Le due forme si distinguono a seconda che assegnino (nel primo caso) o meno (nel secondo caso), oltre all’incasso pieno dell’importo portato dalla preferenza liquidatoria in sé (solitamente un multiplo dell’investimento originario o un importo fisso massimo), anche il diritto alla distribuzione [...]
È noto che il successo del sistema Silicon Valley dipende dal concorso favorevole di molteplici fattori, tra cui spiccano il rapporto virtuoso di collaborazione tra industria e università (in particolare, Stanford), un mercato del venture capital molto attivo e interconnesso [136], con sviluppo di importanti economie di reputazione [137], un intervento pubblico mirato [138], nonché una forte propensione della comunità imprenditoriale e finanziaria all’innovazione e condivisione delle conoscenze e della prassi contrattuale [139]. Un ruolo importante gioca anche il diritto societario, in particolare quello del Delaware. Il dominio del diritto societario del Delaware è oggetto di ampio approfondimento dottrinale. Le relative ragioni giustificative sono state identificate nella presenza di un apparato giudiziario altamente competente e specializzato, di notevoli economie di rete e di apprendimento, nonché di influenti gruppi d’interesse [140]. Qualunque sia il reale motivo di tale predominio, è certo che il diritto societario del Delaware si contraddistingue per un forte ed autentico riconoscimento dell’autonomia privata. In generale, si tratta di un sistema largamente enabling basato su un approccio di policy non paternalistico [141], che – come scrive l’autorevolissimo Leo Strine, già presidente della Corte Suprema del Delaware – è molto «differente da quello rinvenibile in un Paese di civil law, che molto presumibilmente è dotato di un diritto societario prescrittivo pieno di clausole inderogabili specificanti esattamente come le società debbono condurre i propri affari» [142]. Il carattere flessibile e dispositivo del diritto societario statunitense in generale, e di quello del Delaware in particolare, hanno indubbiamente favorito il finanziamento di imprese startup con modalità e strumenti contrattualmente innovativi [143]. A dire il vero, anche negli Stati Uniti si sono registrati dei tentativi di approntare regimi normativi ad hoc per la close corporation, i quali, tuttavia, non hanno riscosso il successo auspicato, soprattutto nel mondo del VC [144]. Infatti, mentre il fondo di venture capital è tipicamente organizzato in forma di limited partnership, con gli investitori istituzionali (fondi pensione, banche, assicurazioni e fondazioni, ecc.) operanti quali [...]
Sezione I: Questioni di metodo 11. L’intepretazione adeguatrice della disciplina della s.r.l. Nell’affrontare i problemi del recepimento della prassi VC in Italia si incontrano, con precipuo riferimento alla disciplina della s.r.l., due potenziali ostacoli, un primo di carattere normativo e un secondo più propriamente culturale. Il primo è costituito dalle norme codicistiche della s.r.l., sino al 2012 considerate imperative in quanto espressione del principio di rilevanza centrale del socio posto a base della riforma del 2003. Il secondo coincide con l’atteggiamento, diffuso in dottrina, di tornare a guardare alla (nuova) s.r.l. dalla prospettiva della s.p.a., ossia della società che tradizionalmente fa ricorso all’offerta al pubblico, in nome del fenomeno del crowdfunding e dimenticando invece le esigenze del venture capital.
Si è appena accennato al fatto che la riforma del 2003, presupponendo come fenomeno della realtà unicamente una s.r.l. formata da soci imprenditori, abbia modellato il nostro tipo sulla base del principio di rilevanza centrale del socio, dettando tutta una serie di regole volte ad assicurare il rispetto della proporzione di ciascun socio nella partecipazione al contratto sociale. I punti di emersione di tale principio sono stati individuati nell’art. 2481-bis c.c., che, con regola particolarmente rigida nel panorama comparatistico [153], per l’aumento di capitale a pagamento prevede l’obbligatorietà dell’opzione [154] e, in caso di diversa disposizione dell’atto costitutivo – salvo che per la ricostituzione del capitale sceso al di sotto del minimo legale [155] – comunque il diritto di recesso [156]; nell’art. 2481-ter c.c., che nell’aumento di capitale gratuito attuato tramite passaggio di riserve a capitale impone di mantenere «immutata» la quota di partecipazione di ciascun socio [157]; nell’art. 2482-quater c.c., che per la riduzione di capitale per perdite impone il mantenimento «delle quote di partecipazione e dei diritti spettanti ai soci» [158]; nell’art. 2468, quarto comma, c.c., che per la modifica dei diritti particolari dei soci di s.r.l. richiede il consenso dei singoli soci pregiudicati, surrogabile, nell’ipotesi di diversa statuizione dell’atto costitutivo, «in ogni caso» dal diritto di recesso ex art. 2373 c.c. [159]; nell’art. 2466, secondo comma, c.c., che consente la vendita all’incanto delle quote del socio moroso – in luogo dell’attribuzione proporzionale agli altri soci – solo in presenza di apposita clausola dell’atto costitutivo [160]; negli artt. 2473 c.c., in tema di recesso, e 2473-bis c.c., in tema di esclusione del socio, in base ai quali la quota del socio recedente o escluso può essere acquistata da un terzo solo con il consenso di tutti i soci [161]. Secondo la dottrina assolutamente dominante la declinazione del principio comportava che «laddove si tratti di incidere sulla pretesa di ciascun socio al mantenimento dell’assetto originario dei rapporti fra i propri e gli altrui diritti, fra la propria e le altrui partecipazioni, tale incidenza non può che prodursi con il [...]
A fronte della duplice strada percorsa dalle riforme del 2012-2017, la dottrina italiana, forse influenzata dalla narrazione indotta dalla “saggezza della folla” [172], ha prestato molta attenzione al fenomeno, invero altrove alquanto marginale in termini assoluti [173], dell’equity crowdfunding [174], che peraltro non era oggetto di particolare attenzione nel rapporto “Restart Italia!” e che non costituisce, per la letteratura in tema di imprenditorialità, fenomeno rilevante per il finanziamento di startup innovative [175], dove invece hanno un ruolo centrale i business angels e i venture capitalists. Di qui il fiorire di diverse ricostruzioni interpretative, tutte accomunate dal fatto di ricorrere, più o meno espressamente e con diversa intensità, all’argomento tipologico [176] per affermare la inadeguatezza della disciplina codicistica della s.r.l. rispetto al nuovo fenomeno e, quindi, per affermare la possibilità di “ibridarla” [177] con la disciplina della s.p.a., ritenuta più adeguata a regolare il fenomeno, ritenuto centrale, della s.r.l. “aperta” in quanto crowdfunded. Secondo un orientamento la disciplina della s.p.a. dovrebbe essere applicata alla s.r.l. P.M.I. solo là dove quella originaria della s.r.l. presenti delle lacune o, comunque, disciplini alcuni aspetti in maniera poco appropriata rispetto alla realtà della “s.r.l. aperta” [178]. In tale prospettiva, però, il superamento di alcune norme della s.r.l. dettate dal codice civile non è visto in funzione di un ampliamento dell’autonomia statutaria, ma è piuttosto riconducibile alla distinzione tra “soci imprenditori”, per cui continuerebbero a valere le regole codicistiche della s.r.l., e “soci investitori” (divenuti tali tramite portali di crowdfunding e disinteressati ad ottenere un peso organizzativo), per i quali varrebbero le regole della s.p.a. Questo tipo di approccio potrebbe essere definito “à la carte”, in quanto individua la disciplina applicabile alle “nuove s.r.l.” prendendola, di volta in volta, da quella della s.p.a. o delle s.r.l., se ed in quanto ritenuta più consona al fenomeno da regolare. Tale approccio pone a nostro giudizio un problema di correttezza nell’impiego dell’argomento analogico, perché non [...]
14. La convertibilità degli strumenti finanziari di equity e di debt. Sulla base delle predette considerazioni metodologiche, si possono ora affrontare le questioni più spinose attinenti alla contrattazione dell’operazione di venture capital alla luce del diritto riformato delle s.r.l., partendo dapprima dal tema della convertibilità di strumenti finanziari di capitale e di debito. Come si è visto analizzando i tipici canali di finanziamento delle startup [185], un ruolo importante, soprattutto nella fase di early stage ma anche nei successivi round di finanziamento da parte dei VCs, è svolto da tutta una serie di strumenti convertibili (titoli di debito convertibili, c.d. convertible note o seed debt; partecipazioni privilegiate convertibili, c.d. seed equity) o convertendi (SAFE). Si è poi già accennato alla circostanza che, perlomeno normalmente, le fasi di early stage (in cui predominano i business angels) sono finanziate tramite seed debt o SAFE, mentre i VCs preferiscono utilizzare strumenti di equity convertibili. Nessun problema, ad eccezione di quello, comune a tutti gli strumenti, relativo alla possibilità di effettuare una conversione sotto la pari [186], sembra frapporsi all’emissione di seed debt convertibile in quote, di seed equity mediante quote privilegiate convertibili [187] e, soprattutto sotto il profilo della meritevolezza degli interessi perseguiti, all’emissione di SAFE, da qualificarsi quali apporti irredimibili non convertibili ma “convertendi in senso stretto” [188]. Rimangono, quindi, i seguenti profili d’indagine: i) quello della stessa ammissibilità dei titoli di debito o strumenti finanziari convertibili in quote dell’emittente; ii) quello dell’applicabilità della peculiare disciplina (limitatrice e restrittiva) dell’art. 2483 c.c. ai seed debt emessi sotto forma di titoli di debito convertibili o anche, solo per le s.r.l. startup e PMI innovative [189], sotto forma di strumenti finanziari convertibili; iii) quello della possibilità di prevedere tassi di conversione “sotto la pari”; iv) quello della eventuale applicabilità analogica della disciplina invece dettata per la s.p.a. in punto di tutela dei titolari in pendenza del periodo di conversione/convertibilità. I primi due profili saranno esaminati congiuntamente nel paragrafo immediatamente [...]
La disciplina dei titoli di debito dettata dall’art. 2483 c.c. costituisce, insieme a quella della postergazione dei finanziamenti soci ex art. 2467 c.c., uno dei cardini dell’organizzazione finanziaria della s.r.l. frutto della riforma del 2003. Essa, anzi, fu salutata come una notevole innovazione rispetto al regime previgente [190], in cui l’art. 2486 c.c. proibiva alla s.r.l. di emettere prestiti obbligazionari. Ciò nonostante, la figura ha trovato rara applicazione [191]. Numerosi, infatti, sono i limiti posti all’emissione: necessità di una espressa previsione dell’atto costitutivo; limitazione del mercato primario ai soli «investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali» [192]; taglio minimo di ciascun titolo di 50.000 euro [193]; garanzia del primo sottoscrittore nei confronti dei successivi acquirenti, a meno che non si tratti di investitori professionali [194] o soci dell’emittente; possibilità, solo in presenza di apposita disposizione statutaria, di modificare le condizioni del prestito rimessa alla «maggioranza dei possessori dei titoli» e non ai portatori della maggioranza delle quote di sottoscrizione del prestito [195]. Una disciplina così restrittiva si poneva in perfetta consonanza con la più volte richiamata caratteristica tipologica della s.r.l. presupposta dal legislatore del 2003 (divieto di finanziamento presso il pubblico) e su questa base era giustificato e approvato dalla dottrina [196], che peraltro in via maggioritaria negava la possibilità di emettere titoli convertibili in quote, sostenendo che la idoneità alla circolazione dei titoli convertibili avrebbe comportato una sostanziale elusione dell’art. 2468 c.c. [197]. A valle delle riforme del 2012-2017, con le quali come visto il legislatore ha profondamente mutato l’archetipo delle “nuove s.r.l.”, riteniamo che la soluzione negativa all’ammissibilità di titoli convertibili in partecipazioni della s.r.l. debba essere oramai superata. Ciò non tanto in virtù di una oramai acquisita assimilazione tipologica della s.r.l. alla s.p.a. [198], che da tempo conosce una ampia regolazione del fenomeno della convertibilità, né tantomeno in virtù di una coesistenza di soci imprenditori e soci investitori [199], ma, sulla [...]
Il tasso di conversione degli strumenti convertibili della prassi VC normalmente prevede, sia per il seed debt sia per il SAFE sia per il seed equity, un forte sconto. Tramite tali strumenti, infatti, il titolare può, se del caso con un limite massimo (c.d. “valuation cap” [207]), ottenere partecipazioni di valore di gran lunga superiore rispetto al capitale inizialmente versato. Ciò si iscrive nel già esposto meccanismo di incentivi proprio dello staging financing [208], caratterizzato da diversi round di finanziamento successivi, in cui i finanziatori (soprattutto se early stage) subordinano il loro coinvolgimento alla possibilità di ottenere, tramite la conversione – vuoi volontaria vuoi automaticamente al round successivo – un notevole ritorno per aver rischiato nella fase iniziale del business [209]. La fissazione di un tasso di conversione anche sotto la pari è ampiamente fattibile nella s.r.l., non trovando un particolare ostacolo nelle norme sull’effettività del capitale sociale e, in particolare, nell’art. 2464 c.c. che impone l’equivalenza tra valore complessivo dei conferimenti e ammontare globale del capitale sociale [210]. La fissazione, non a caso diffusa nella prassi, dell’ammontare del capitale sociale in misura prossima se non pari a quella minima, rende infatti del tutto marginale l’ipotesi in cui il valore dell’apporto iniziale sia tale da non coprire integralmente il valore nominale delle quote offerte in conversione [211]. Una volta rispettato il limite posto dall’art. 2464 c.c., il meccanismo della distribuzione delle quote non proporzionale ai conferimenti (art. 2468, secondo comma, c.c.) consente allora di ottenere gli effetti premiali a favore dei primi finanziatori della startup. Non si verificherebbe, peraltro, un’ipotesi di non proporzionalità “estrema” [212], sulla cui ammissibilità la dottrina è divisa, giacché l’apporto del nuovo finanziatore (il VC) verrebbe in parte imputato a capitale e in parte a coprire la differenza tra il valore del finanziamento originario e il valore nominale delle quote (qualora si tratti di titolo convertibile) assegnate a favore dello strumento convertibile [213].
Le riforme del 2012-2017 non hanno ritenuto di dettare per la s.r.l. una disciplina analoga a quella dettata dal Codice per la s.p.a. (artt. 2420-bis, 2441, 2503-bis c.c.) in tema di operazioni straordinarie compiute dall’emittente nel periodo di conversione. Conformemente alle premesse metodologiche in questa sede adottate, non riteniamo abbia senso affermare la natura “transtipica” di tali norme o, che è lo stesso, sostenerne l’applicazione analogica al fenomeno della “nuova s.r.l.” [214]. La soluzione che ci appare preferibile, invece, è quella di rimettere ogni questione all’autonomia delle parti nella predisposizione del regolamento del prestito convertibile, sicché potrebbe anche al limite sostenersi che, in difetto di previsione del regolamento di emissione, ogni operazione possa legittimamente essere ostacolata addirittura da un solo obbligazionista convertibile ad essa contrario [215]. Di conseguenza, è da escludere la necessità, a differenza di quanto accade per la s.p.a., di deliberare un aumento di capitale a servizio del diritto di conversione contemporaneamente all’emissione del prestito, così a ben vedere ricadendosi nella stessa situazione della s.p.a. anteriormente alla novella del 1974 [216]. In ogni caso, quando anche venisse deliberato l’aumento di capitale a servizio del diritto di conversione e pur in presenza di una clausola statutaria che consentisse l’esclusione del diritto d’opzione per permettere la collocazione dei convertibili presso i business angels o i venture capitalists, l’applicabilità dell’art. 2481-bis c.c. comporterebbe la spettanza del recesso ai soci preesistenti, che potrebbero così ostacolare l’ingresso in società di un finanziatore esterno o, comunque, porre in essere comportamenti opportunistici [217]. Abbiamo però già constatato come il presupposto tipologico su cui si fonda la norma in questione, ovvero la “rilevanza centrale del socio”, è stato oramai superato dalle riforme 2012-2017; vedremo subito come da ciò riteniamo possibile sostenere che, quantomeno in sede di costituzione, l’art. 2481-bis c.c. sia derogabile da parte dell’autonomia statutaria.
Il tema della raccolta da parte delle “nuove” s.r.l. di capitale di rischio è stato affrontato dal legislatore delle riforme 2012-2017 unicamente sotto il profilo della riconosciuta possibilità di emettere categorie di quote. Ciò nondimeno, la pratica attuazione di gran parte degli schemi contrattuali propri della prassi VC potrebbe trovare un notevole ostacolo: i) nel caso di aumenti di capitale, nella disposizione dell’art. 2481-bis c.c., che in caso di esclusione del diritto di opzione impone il riconoscimento del diritto di recesso ai soci dissenzienti, sulla cui inderogabilità nell’ambito delle “nuove” s.r.l. è quindi necessario interrogarsi; ii) nelle varie disposizioni che possono ostacolare l’introduzione di antidilution clauses; iii) nell’imperatività delle norme attributive di diritti ai soci di s.r.l. e nell’applicazione analogica dei limiti previsti nel sistema delle s.p.a. per l’emissione di categorie di azioni; iv) nell’applicazione, e comunque nell’eccessiva dilatazione, del divieto di patto leonino; v) nell’interpretazione della disciplina alla luce di un preteso principio di necessaria “equa valorizzazione della partecipazione”, tale da fulminare con l’invalidità qualsiasi pre-determinazione pattizia del quantum dovuto al socio recedente, trascinato o riscattato in misura inferiore a tale “equa valorizzazione”. Affronteremo questi problemi proponendo quelle soluzioni interpretative in linea con l’impostazione teorica ritenuta più corretta, caratterizzata dal netto rifiuto verso la costruzione interpretativa di principi inderogabili e tesa alla massima valorizzazione della libertà contrattuale e, là dove possibile, a rimeditare l’imperatività di alcune norme codicistiche.
Il campo dell’aumento di capitale è uno di quelli nei quali maggiormente si avvertono le tensioni tra le esigenze propriamente capitalistiche della s.r.l. VC-backed e la disciplina, in ciò non modificata dalle ultime riforme, dettata dal codice civile. La disciplina della s.r.l. in tema di aumento del capitale, infatti, con l’art. 2481-bis c.c. accoglie, ancor più che rispetto al Codice del 1942 [218], una nozione “forte” del principio di rilevanza centrale del socio, tale da ricomprendere anche l’interesse al mantenimento del proprio peso organizzativo-amministrativo [219]. Questo costituisce un problema, perché nelle operazioni di finanziamento VC il peso reciproco tra founders e investitori deve essere frutto della libera negoziazione delle parti. Si è già avuto e si avrà modo di osservare come in numerose occasioni [220] la alternativa tra opzione e recesso, imposta dall’art. 2481-bis c.c., può porre un problema di hold-up del socio dissenziente, che potrebbe assumere atteggiamenti opportunistici in un momento delicato come quello del reperimento di nuovo capitale di rischio [221]. Il testo dell’art. 2481-bis, primo comma, non sembrerebbe consentire alcuna forma di interpretazione adeguatrice. La sua seconda parte, infatti, fa espresso richiamo alla possibilità che l’atto costitutivo preveda l’offerta di nuova emissione a terzi ma nulla dice circa il diritto di recesso attribuito in tale circostanza al socio che non ha consentito alla decisione. Ciò costituisce, secondo la dottrina unanime [222], un indice forte che il diritto di recesso non sia derogabile nell’atto costitutivo. Di fronte ad un simile dato testuale può diventare difficile argomentare la derogabilità della norma esclusivamente sulla base della circostanza che essa si fonda su un principio, quello della rilevanza centrale del socio, che le riforme del 2012-2017 hanno messo in discussione. Tuttavia, vi è un altro dato testuale che può fornire sostegno all’argomento della derogabilità. L’art. 2481-bis, primo comma, c.c. si conclude affermando che il socio che non ha consentito all’aumento spetta il diritto di recesso a norma dell’art. 2473 c.c. Quest’ultima norma attribuisce all’atto costitutivo la determinazione dei casi in cui al socio spetta il recesso. La [...]
Nell’ipotesi di aumento del capitale un conflitto tra il rispetto del principio di proporzionalità in senso forte imposto dalla riforma del 2003 e l’esigenza di permettere una libera contrattazione tra founders e finanziatori può peraltro emergere qualora si consideri la possibilità di recepimento da parte dell’autonomia statutaria, o più spesso parasociale, di quelle anti-dilution clauses così diffuse nell’esperienza statunitense [228], che invero rimette all’autonomia statutaria la possibilità di prevedere un diritto di opzione dei soci [229], e usualmente previste nei model documents preparati dalla National Venture Capital Association (NVCA). Con tali clausole le parti affrontano il problema della diluizione conseguente a un eventuale aumento di capitale in modo alquanto differente rispetto al diritto d’opzione di matrice europea. Il diritto d’opzione, infatti, consente semplicemente di mantenere inalterata la quota di partecipazione detenuta ante-aumento a fronte dell’esborso di ulteriore denaro. La anti-dilution clause, invece, è uno strumento che in caso di aumento del capitale distribuisce in modo non proporzionale tra i soci preesistenti la perdita di peso amministrativo (diluizione nominale) e di valore della partecipazione (diluizione sostanziale). Con essa, infatti, il socio beneficiario (usualmente il finanziatore VC) non subisce alcun pregiudizio a tutto svantaggio del socio non beneficiario (usualmente il founder). Per meglio comprendere la questione è però necessario distinguere tra i concetti di diluizione nominale, che si ha quando a seguito di un aumento del capitale si riduce la percentuale complessiva del capitale detenuta da un socio, e diluizione sostanziale, che si ha quando l’aumento avviene a un prezzo inferiore a quello attuale di mercato, così venendo a diminuire il valore complessivo di tutte le azioni e, quindi, anche delle singole partecipazioni dei soci preesistenti. Entrambi i fenomeni hanno rilievo nella s.r.l. e, anzi, quello della diluizione sostanziale assume caratteristiche sue proprie, dato che l’esclusione del diritto di opzione non comporta, come nella s.p.a., l’obbligatorietà del sovrapprezzo [230]. Come vedremo subito, le clausole anti-diluitive possono proteggere sia dal primo sia dal secondo tipo di diluizione [231]. Un primo tipo di clausola [...]
L’art. 26, secondo comma, d.l. 179/2012 consente l’emissione di categorie di quote ma nei «limiti imposti dalla legge». Occorre allora interrogarsi su quali siano questi limiti e, in particolare, se essi debbano essere individuati esclusivamente nel sistema delle s.r.l. o anche in quello della s.p.a.
Un primo insieme di questioni si riferisce alla possibilità di considerare quali limiti all’autonomia statutaria alcune norme codicistiche della s.r.l., non espressamente derogate dalle riforme del 2012-2017. Il codice civile sul punto è comprensibilmente muto, presupponendo a livello tipologico una s.r.l. chiusa, in cui la creazione delle categorie era, se non esclusa, quantomeno stravagante rispetto all’impianto concettuale originario [246]. I limiti sono perciò stati cercati in pretesi elementi caratterizzanti il tipo s.r.l., secondo un approccio che abbiamo già detto non condividere [247]. In primo luogo, si è sostenuta la irrinunciabile presenza nella “nuova s.r.l.” di soci forniti di tutti i diritti che il codice civile prevede per il socio di s.r.l., giacché, in assenza di altri organi, altrimenti si avrebbe una società priva di soci dotati di poteri di controllo tali da assicurarne un corretto andamento [248]. La maggioranza delle posizioni si esprime pertanto nel senso della inderogabilità delle norme codicistiche [249] e, in particolare: di quella sull’avocabilità delle decisioni gestorie da parte dei soci (art. 2479, primo comma) [250]; di quella sulla competenza inderogabile dei soci a decidere il compimento di «operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale» o «una rilevante modificazione dei diritti dei soci» (art. 2479, secondo comma, n. 5); di quella sulla legittimazione individuale del socio ad esperire l’azione di responsabilità sociale (art. 2476, secondo comma); di quella sulla necessaria proporzione tra quote e diritti di voto (art. 2479, quinto comma); di quella sulla postergazione dei finanziamenti soci (art. 2467); di quella sulle cause inderogabili di recesso (art. 2473) [251]; di quella che attribuisce il diritto di recesso in caso di esclusione del diritto di opzione (art. 2481-bis). Gli unici dubbi sono stati sollevati con riferimento al penetrante diritto di ispezione e controllo riconosciuto ad ogni socio dall’art. 2476, secondo comma, che potrebbe ridursi al diritto garantito dall’art. 2422 c.c. ai soci di s.p.a. di prendere visione del libro soci e del libro delle assemblee [252]. La soluzione non ci convince. Asserire la necessaria presenza di soci dotati di tutti i diritti loro attribuiti dalla riforma del 2003 [...]
Un secondo gruppo di questioni, invece, concerne l’applicabilità analogica della disciplina della s.p.a. Alcuni autori, infatti, fautori di una avvenuta assimilazione tipologica della s.r.l. P.M.I. alla s.p.a., sostengono che i limiti di cui discorre l’art. 26 dovrebbero essere derivati analogicamente, in assenza di indicazioni da parte del codice civile nell’ambito delle s.r.l., dalla disciplina generale (divieto di patto leonino fra tutti) e, soprattutto, da quella in tema di s.p.a. [259]. Ne conseguirebbe che: tutte le quote appartenenti a una medesima categoria dovrebbero attribuire i medesimi diritti (art. 2348, terzo comma) [260]; in caso di quote con voto multiplo, ogni quota (e, si badi bene, non ogni azione) potrebbe attribuire non più di tre voti (art. 2351, quarto comma) [261]; l’ammontare massimo di quote con diritto di voto escluso o limitato non potrebbe eccedere la metà del capitale sociale (art. 2351, secondo comma) [262]. Analogamente, il silenzio della legge in merito alle procedure da seguire per la modificazione dei diritti attribuiti alle categorie induce molti autori a sostenere l’applicazione analogica dell’art. 2376 in tema di assemblee speciali delle s.p.a. [263], escludendosi l’applicazione della disposizione dell’art. 2468 c.c. in tema di modificazione dei diritti particolari dei soci. Tali soluzioni, come tutte le altre che importano nella s.r.l. regole imperative della s.p.a. non espressamente richiamate in ragione di una affinità tipologica, non convincono [264]. Al contrario, riteniamo che il silenzio del legislatore sul punto non debba essere interpretato come restrizione dell’autonomia statutaria. In tal modo riduciamo al minimo indispensabile il perimetro dei “limiti” cui fa riferimento l’art. 26, secondo comma, coincidenti con il divieto di patto leonino, nei ristretti confini in cui si ritenga sussistere [265], oltre che con il diritto d’opzione in caso di ricostituzione del capitale eroso dalle perdite, espressamente qualificato come inderogabile dall’art. 2482-quater c.c. [266].
Ci si potrebbe chiedere se un ulteriore ostacolo alla recezione nell’ordinamento italiano dei tipici schemi contrattuali adottati dalle imprese VC-backed non possa essere dato dall’impostazione, non comune ad altri ordinamenti europei [267], che vede nel divieto di patto leonino, espressamente statuito dall’art. 2265 c.c. per le sole società semplici, un principio generale del diritto societario, per ciò valido per tutti i tipi societari [268]. A nostro parere, la guadagnata flessibilità finanziaria della s.r.l. startup (e della s.r.l. PMI in genere) e le ragioni di politica economica della riforma impongono di riconsiderare l’applicazione del divieto di patto leonino alle società di capitali, che conoscono gradi di differenziazione delle posizioni dei soci che mal si conciliano con la possibile interferenza di un divieto di tal genere, divieto che rischia di creare intollerabili effetti distorsivi e che non ha ragion d’essere in un ordinamento che consente la massima flessibilità nell’articolazione delle preferenze liquidatorie (in senso ampio) [269]. A prescindere da queste osservazioni, comunque, a nostro parere il divieto in questione non può comunque trovare applicazione nelle ipotesi, comuni nella prassi VC, di diversa allocazione dei risultati del rischio d’impresa tra il socio finanziatore e il socio imprenditore, a beneficio del primo [270]. Tali ipotesi e le relative clausole contrattuali, infatti, non comportano, come richiesto dalla giurisprudenza ai fini della configurabilità del divieto, una «totale [o assoluta] e costante» [271] esclusione dalle perdite del socio finanziatore, tale da impedire ex ante [272] ogni suddivisione tra i soci del risultato economico con rilievo reale verso l’ente societario, limitandosi a ripartire tale risultato in modo non proporzionale. Se l’impresa andasse male, infatti, il venture capitalist potrebbe perdere interamente il proprio apporto; e il fatto che in certe situazioni il finanziatore possa recuperare un valore equivalente a quello del proprio apporto grazie al gioco delle preferenze liquidatorie non equivale certo a realizzare, in prospettiva ex ante anziché ex post, la situazione colpita dal divieto. Contro tale posizione non ci pare avere pregio l’argomento, diffuso anteriormente alla riforma del 2003 [273] ma ancor oggi sostenuto da [...]
L’esigenza di una equa valorizzazione della partecipazione è stata posta da una certa giurisprudenza, anche notarile, e dalla dottrina giuscommercialistica come necessario presidio a tutela del socio washed-out. La problematica, nell’ambito del proposito qui perseguito di interpretare la disciplina, per quanto possibile, in modo da consentire in Italia la replica degli accordi VC, si pone in particolare con riferimento alle liquidation preferences e alle clausole di drag-along, clausole il più delle volte presenti in combinazione tra di loro. Con riferimento alle liquidation preferences una importante precisazione definitoria si impone in questa sede al fine di evitare facili confusioni. Tali clausole, così come intese e costruite nella prassi statunitense del VC, sono preferenze spettanti agli investitori titolari di partecipazioni privilegiate nella distribuzione del ricavato dalla liquidazione dell’investimento in occasione del verificarsi di determinati liquidity events, quali fusione, cessione d’azienda o alienazione del pacchetto di controllo [287]. In ogni caso, le liquidation preferences non debbono confondersi, come verrebbe facile all’interprete italiano alla stregua di una semplicistica traduzione letterale, con i “classici” privilegi nella ripartizione del residuo netto di liquidazione della società, atteso che i predetti liquidity events non riguardano la liquidazione della società. Scontata, evidentemente, è la possibilità di prevedere anche simili preferenze liquidatorie in senso stretto, operanti unicamente in corrispondenza dello scioglimento della società; esse, tuttavia, non destano particolari problemi applicativi e non formeranno oggetto delle successive considerazioni [288]. Ciò detto, le criticità dovute alla presenza di una liquidation preference possono essere molteplici. Infatti, mentre in caso di successo del progetto imprenditoriale l’impatto di simili prerogative sulla posizione partecipativa del fondatore è relativamente marginale, notevoli squilibri tra le aspettative del fondatore e degli investitori possono emergere allorquando la performance è solo discreta e l’iniziativa si rivela quindi essere un living dead [289]. In un simile scenario, infatti, può ben verificarsi che il ricavato dalla cessione sia pari o di poco superiore alla liquidation preference [...]
Nella trattazione che precede si è avuto modo di porre in evidenza la grande importanza che hanno gli schemi di incentivo c.d. “work-for-equity” nella prassi contrattuale di finanziamento delle imprese in fase di startup; grazie ad essi, infatti, il finanziatore riesce ad alleviare comportamenti opportunistici sia degli amministratori della società finanziata sia dei dipendenti chiave della medesima [312]. Il divieto posto dall’art. 2474 c.c. di effettuare operazioni sulle proprie partecipazioni [313], spesso argomentato proprio in ragione della naturale chiusura al mercato del tipo s.r.l. [314], è stato quindi derogato nel 2012, con disposizione poi estesa a tutte le PMI, dall’art. 26, sesto comma, d.l. 179/2012 «qualora l’operazione sia compiuta in attuazione di piani di incentivazione che prevedano l’assegnazione di quote di partecipazione a dipendenti, collaboratori o componenti dell’organo amministrativo, prestatori di opera e servizi anche professionali» [315].. Un primo dubbio interpretativo sulla portata della deroga sorge, però, in ragione della formulazione letterale della norma derogata, ossia dell’art. 2474 c.c., che si riferisce espressamente al solo acquisto, o accettazione in garanzia, di proprie quote e non anche alla sottoscrizione delle medesime, come noto vietata alle s.p.a. dall’art. 2357-quater c.c. Al riguardo la prassi notarile si è orientata per una soluzione più liberale, sostenendo che «il divieto di sottoscrizione di azioni proprie stabilito dall’art. 2357-quater c.c. non può ritenersi applicabile, una volta operante la citata deroga all’art. 2474 c.c., alle società a responsabilità limitata, dal momento che manca un richiamo espresso sul punto e dal momento che la norma non può considerarsi portatrice di un principio di ordine pubblico o comunque di portata generale» [316]. Il ragionamento, dettato dal condivisibile intento di ampliare l’autonomia statutaria sul punto, si pone in linea con i presupposti metodologici del presente lavoro e convince appieno. Analogo intento di semplificazione è rinvenibile in quella prassi notarile che, con riferimento al caso dell’acquisto di azioni proprie, ha sostenuto la legittimità di una clausola statutaria che preveda la possibilità di autorizzare una volta per tutte [...]
Abbiamo evidenziato in precedenza che negli Stati Uniti i VCs preferiscono finanziare startup in forma di corporation piuttosto che di LLC, per diverse ragioni tra cui la non necessità di passare per un processo di trasformazione in caso di offerta al pubblico e quotazione in borsa (IPO). Si tratta di un problema che sussisterebbe anche in Italia nel caso in cui una s.r.l. finanziata attraverso venture capital arrivasse alla meta dell’ammissione alle negoziazioni su un sistema multilaterale di negoziazione tipo AIM Italia ovvero alla negoziazione in borsa. Infatti, la possibilità di esercitare il recesso in caso di trasformazione (art. 2473 c.c.) potrebbe dar modo ad alcuni soci di minacciare strategicamente il recesso per indebolire la società prima dell’operazione, con la speranza di poter vedere acquistate le partecipazioni a prezzi più vantaggiosi rispetto a quelli auspicati con l’avvio delle negoziazioni ovvero di poter sfuggire subito alle clausole di lock-up che vengono tipicamente inserite a carico dei soci [338]. Anche di questo problema il legislatore della riforma del 2012-2017 non si è fatto espressamente carico, forse perché neppure il legislatore è così ottimista da pensare che una s.r.l. startup possa, un giorno, diventare effettivamente uno unicorn [339] e magari quotarsi in borsa. Tuttavia, l’eventualità non può essere scartata a priori, anche perché il socio che si mettesse di traverso comunque avrebbe a disposizione un recesso a prezzi presumibilmente molto favorevoli, vista l’impossibilità di inserire in statuto criteri dissuasivi incentrati sul criterio di valorizzazione della quota di recesso. Per tale motivo la minaccia di votare contro la trasformazione e di esercitare il recesso potrebbe almeno in alcuni casi essere credibile. Il futuro dirà se il problema è reale e come potrebbe essere risolto. Il futuro dirà anche se una possibile evoluzione del sistema possa essere quella non solo dell’apertura delle quote di s.r.l. all’offerta al pubblico e alla circolazione tramite annotazione nei registri degli intermediari finanziari (come ora consentito dall’art. 100-ter, secondo comma-bis, lett. c, TUF), ma addirittura al regime di quotazione e al trattamento a pieno titolo come strumento finanziario ai fini della disciplina europea dei mercati finanziari [340]. Esistono [...]
Nel presente articolo abbiamo offerto una (ri)lettura della disciplina della s.r.l. dalla prospettiva della startup che si voglia finanziare attraverso il ricorso al venture capital. A differenza dei lavori che si sono focalizzati sull’interpretazione della disciplina della “nuova s.r.l.” dalla prospettiva del finanziamento attraverso crowdfunding, il nostro approccio non si fonda sul riferimento alla disciplina della s.p.a., ma valorizza al massimo un’interpretazione della disciplina propria della s.r.l., in modo da riconoscere la massima libertà negoziale delle parti coinvolte nell’operazione di finanziamento e rispettare l’intento del legislatore di innescare anche in Italia uno sviluppo delle startup tramite il finanziamento da parte dei fondi di venture capital. La nostra lettura segnala alcuni ostacoli insuperabili anche per un’interpretazione fortemente adeguatrice della disciplina quale quella che abbiamo inteso presentare. Il limite posto dall’art. 2483 c.c. blocca la possibilità di emettere obbligazioni convertibili a favore di business angels. Si possono emettere strumenti finanziari anche convertibili, ma probabilmente ad essi non possono essere attribuiti diritti di partecipazione alle decisioni dei soci, contrariamente a quanto accade nella s.p.a. L’obbligo di non dare attuazione a nuovi aumenti di capitale sinché per i precedenti non siano stati interamente eseguiti i conferimenti impedisce di articolare round di finanziamenti destinati a diversi soggetti beneficiari (dipendenti, business angels, venture capitalist). La disciplina della trasformazione può offrire lo spazio per comportamenti strategici da parte dei soci della s.r.l. che, per ventura, giungesse sino al traguardo dell’IPO. L’art. 2481-bis e l’art. 2473 c.c. costituiscono due enormi potenziali deal-breaker; ma abbiamo suggerito percorsi interpretativi che potrebbero consentire di superarli. Quanto al diritto di recesso del socio in caso di aumento di capitale a pagamento offerto a terzi, abbiamo prospettato gli argomenti che permettono di sostenere un suo sacrificio. Con riguardo al vincolo di valore della quota di liquidazione in caso di recesso, abbiamo evidenziato che tale vincolo non si pone per le liquidation preferences accordate al VC. Inoltre, laddove spetti il diritto di recesso (per es., dissenso rispetto ad una cessione dell’intera azienda ai [...]