Questo saggio si confronta con la situazione attuale di molti settori del diritto commerciale, ove dottrina e giurisprudenza sembrano procedere senza una vera cornice di riferimento. L’Autore crede che questo, in un mondo soggetto ad evoluzione continua ed accelerata, sia inevitabile, e sia pure sostanzialmente corretto, quanto meno per la ricerca di decisioni su problemi nuovi, lontani dai precedenti. Suggerisce di ricollegare il mondo del diritto al mondo delle scienze sperimentali, ed auspica un ruolo più pregnante della ragione, in prosecuzione ideale della grande rivoluzione dell’Illuminismo.
This article tries to evaluate the current situation of many sectors of Business Law, where both doctrinal works and judge made law seem to proceed in their search for a good and fair solution of the problems of today without caring for theoretical frames. The Author says this is something appropriate and correct for an everchanging world. In our world – at least when deciding on problems particularly different from the already known problems – we must proceed per trial and error, without relying on the past. The article proposes to connect the world of Law with the world of the experimental sciences, and wishes for a more active role of the reason, in an ideal renewal of the great revolution of the Enlightenment.
Keywords: legal style – Neo-Liberal legal style
CONTENUTI CORRELATI: stile giuridico - stile giuridico neo-liberale
1. Un bel dibattito in corso. - 2. Un panorama senza una cornice di riferimento. - 3. È giusto arrabbiarsi per questo? - 4. Un mondo in evoluzione continua e accelerata può avere “cornici”? - 5. Una precisazione dialettica - 6. Cornici vecchie per problemi nuovi? - 7. Anche il diritto è una scienza sperimentale. - 8. Francesco Denozza e il caso HUAWEI. - 9. Una “illusione mortifera” … - 10. … o il “lume della ragione”? - NOTE
Ho seguito con curiosità e attenzione i lavori che si sono svolti sul tema della esistenza o non esistenza di uno “stile giuridico neo-liberale” – prima, nei vivaci seminari organizzati da Roberto Sacchi e Alberto Toffoletto a Milano, poi nel bel volume da loro stessi curato [1]. Ma li ho seguiti anche con un certo senso di estraneità, perché sono rimasto sempre a distanza di sicurezza dai grandi dibattiti sui grandi principi. Ho sempre cercato di interpretare le norme nel modo che credevo migliore, nel modo che provi a valorizzare al meglio la loro funzione, che è, mi sembra [2], quella di migliorare la collaborazione fra uomini e risolvere i conflitti tra uomini. Ma, consapevole della enorme complessità del problema e dei miei limiti, mi sono tenuto sempre lontano dal meta-diritto, dalla riflessione del diritto sul diritto stesso. E dunque, se sono stato invitato ad interloquire su questo tema non è certo perché abbia già in passato proposto su di esso qualche mia riflessione. Devo l’invito soltanto alla amicizia che mi lega da tanto tempo a Francesco Denozza, ed ho accettato perché desidero qui esprimergli la mia gratitudine per il ruolo importante di guida che ha avuto, fin da quando eravamo ragazzini, per me e per tutta la mia generazione. Cercherò di fare del mio meglio.
Esiste uno stile giuridico neoliberale? Sono assolutamente d’accordo con quanto Francesco Denozza ha evidenziato. L’odierna epoca neoliberale ha suoi caratteri molto precisi ed evidenti, ma lo “stile” dei giuristi di oggi – almeno, nel nostro settore – non ha nulla di liberale e non è neanche uno “stile”, se con questa parola intendiamo qualcosa di organico e coerente. Manca una cornice, una teoria di riferimento. La cornice precedente è saltata, non era più adatta ai nostri tempi, e non è stata sostituita. Il diritto di oggi – e questo è particolarmente vero per il diritto antitrust, ma riguarda tutto il diritto delle attività economiche. Riguarda anche, ad esempio, il diritto delle società commerciali e la proprietà intellettuale – si caratterizza, tra l’altro, per due note abbastanza facilmente individuabili. In primo luogo, il diritto di oggi tende ad affrontare i problemi partendo dall’analisi delle singole operazioni – o transazioni. In campo legislativo, si assiste alla creazione di regole sempre più speciali e dettagliate, sempre più “diverse” dall’assetto anteriore. In campo giudiziario, ogni decisione tende sempre più a presentarsi come decisione del singolo caso, più o meno espressamente evitando di proporsi come qualcosa che si innesti sul già vissuto e possa impegnare anche altri più ampi orizzonti. In secondo luogo, gli enunciati del diritto amano predicare una propria significativa depoliticizzazione. I problemi da risolvere sono considerati tutti problemi strettamente tecnici, privi di rilievo politico. Il diritto antitrust, ma anche il diritto delle società, pensa di risolvere tutto in termini tecnici. Il mito dell’efficienza promette una soluzione ottimale per qualunque problema giuridico. L’efficienza viene fatta coincidere con l’interesse del consumatore, ma non si comprende bene come questo venga identificato. Il mantra di Chicago è ancora tra noi, nonostante dichiarazioni in senso contrario si sprechino. Anzi, forse, queste dichiarazioni si moltiplicano proprio perché non sono vere, e lo si sa. Potrebbe proprio dirsi che il virus di Chicago è particolarmente diffuso nel nostro ambiente, grazie a moltissimi portatori sani i quali si sforzano di dire che [...]
Sono quindi d’accordo con l’analisi del panorama che ci circonda. Non mi sento però d’accordo con chi lo valuta sconfortante. Per certi versi, sarei più portato a vederlo come un panorama esaltante. In altri termini, è giusto arrabbiarsi per questo? Certo, “è sempre giusto arrabbiarsi”. Questa è una delle grandi frasi scolpite nella mia memoria. L’ho appresa quando avevo quindici o sedici anni, da quella arrabbiata cronica che era, e credo sia ancora, Mafalda [3]. Allora arrabbiamoci. Ma fino a che punto arrabbiarsi? E, soprattutto, per cosa esattamente arrabbiarsi? Qui forse – è la mia opinione, ma, mi piace pensarlo, questa è l’opinione più volte espressa da Francesco Denozza – c’è un processo da governare, non un panorama da esorcizzare. Un processo con importanti opportunità.
Oggi sappiamo di trovarci in un mondo in evoluzione continua e accelerata, molto, molto più del mondo di ieri. L’universo è stato sempre in divenire, ma in altri tempi il mutamento era forse più lento, e non se ne aveva piena consapevolezza. Oggi la tecnologia evolve a ritmo accelerato. L’ambiente in cui viviamo e operiamo è sempre più incerto e imprevedibile. Il contesto sociale si modifica incredibilmente senza soste. Le nostre idee, il nostro pensiero mutano costantemente. Il ritmo della vita si accentua ogni giorno. Tutto cambia di continuo con cadenze accelerate intorno a noi e dentro di noi [4]. Tutto questo accade in una rete di connessioni che non riusciamo a comprendere fino in fondo e in tutte le sue componenti. È facile capire che se il ghiaccio dell’Artico si scioglie gli orsi bianchi muoiono; più difficile è capire che anche la barriera corallina – che sta a varie migliaia di miglia di distanza – è messa a rischio dallo scioglimento dei ghiacci. Ce lo ha dovuto ricordare una ragazzina impertinente, forse discendente, o a dirittura reincarnazione, del bambino – quasi suo conterraneo, del resto, e rimasto purtroppo anonimo – che Hans Christian Andersen sentì per la prima volta dire “il re è nudo” [5]. Ma è sempre difficile capire davvero che un battito d’ali di una farfalla nelle Filippine può provocare una valanga nelle Ande [6]. Tutto questo è vero per il mondo fisico, ed è vero anche per i mondi in cui abita e si muove il nostro pensiero, per il nostro contesto sociale e per il nostro ambiente giuridico. La nostra riflessione su quello che succede è sempre successiva al fatto. Le nostre idee si propongono sempre su un fatto che è già accaduto, su una situazione che frattanto è già cambiata. E quindi le norme che noi scriviamo, le interpretazioni che elaboriamo, le teorie che inventiamo sono sempre anteriori ai fatti che vorrebbero comprendere, interpretare, regolare, perché le abbiamo pensate riflettendo sui fatti già accaduti. Tutto questo si è sempre saputo. Quello che però ci sfugge è che se il mondo resta fermo, ed i fatti si ripetono identici – e se il mondo si muove poco, e i fatti si ripetono quasi identici – è possibile che la riflessione sul fatto di ieri sia [...]
Le osservazioni che ho proposto contengono – per la ragione, puramente dialettica, di mettere meglio e maggiormente in luce il nodo centrale della mia idea – un’evidente forzatura, che non sarà sfuggita neanche al lettore più distratto. Il mondo di oggi – e lo stesso sarà vero, probabilmente, anche per il mondo di domani – continua comunque a presentare – accanto ad una serie crescente di fatti nuovi ed inediti – una serie decrescente, ma ancora molto consistente, ed anzi ancora maggioritaria, di fatti e problemi che sono ancora identici a quelli di ieri. Non potrebbe certo dirsi che fino a ieri il mondo era sempre uguale, e che oggi tutto è assolutamente nuovo. Quello che è cambiato, e cambia in termini accelerati, è la proporzione, il rapporto “quantitativo” tra vecchio che si ripete e nuovo che appare: il vecchio che si ripete è in via di progressiva riduzione – pur essendo ancora numericamente enorme; il nuovo che appare è in via di progressivo incremento, e guadagna terreno a ritmo accelerato – pur essendo ancora numericamente contenuto. Per il vecchio che si ripete il modo consueto di operare continua a funzionare: utilizziamo, per il vecchio che si ripete, e si ripete con numeri ancora grandi, le idee e le regole che abbiamo pensato in precedenza. Ma, in effetti, regolare il vecchio che si ripete non è poi un gran problema. Per il nuovo che appare, però, e che appare in numeri sempre più grandi, questo modo di operare non funziona, e dobbiamo inventarne un altro [7].
Fatta questa necessaria precisazione, possiamo riprendere il filo del discorso dalla conclusione del § 4. Procedere senza cornici e senza teorie, per i problemi nuovi, non è sbagliato, anzi, è l’unico modo accettabile. Non sarebbe ragionevole utilizzare per problemi nuovi teorie ormai vecchie e superate, perché queste non potrebbero svolgere un ruolo positivo rispetto a fatti e problemi nuovi. Propongo una controprova. Alcuni problemi di oggi, se li guardiamo alla luce di una teoria precostituita, sono insolubili, o non sono risolubili in modo accettabile, proprio perché sono del tutto nuovi, sono troppo diversi dai problemi di ieri, che hanno dato occasione alla costruzione di quella teoria. Penso, tanto per fare un esempio, al problema – lo descrivo qui nel modo in cui è stato descritto negli ultimi decenni – della interferenza tra diritto antitrust e proprietà intellettuale. Qualcuno si meraviglia per il fatto che non si riesce a “conciliare” il diritto antitrust con il problema degli standard setting patents (SEP), pur dopo avere concordato sull’idea che – in presenza di talune condizioni, generalmente descritte in termini talmente vaghi da non riuscire ad intendersene praticamente nulla – il rifiuto di concedere licenza su un diritto di proprietà intellettuale costituisce abuso di posizione dominante – dunque, illecito antitrust. Perché meravigliarsi? I problemi evocati dagli standard setting patents sono troppo diversi dai problemi dei boicottaggi vissuti nei – lontanissimi, per l’ambiente dell’alta tecnologia! – anni Ottanta del Novecento. E per risolvere oggi in modo accettabile il problema degli standard setting patents non è importante, anzi, può essere controproducente, pensare che lo si debba risolvere in un modo che sia coerente con – o coordinato con, o derivato da – la regola antica, pensata anni luce fa, del rifiuto di dar licenza su un copyright opposto da alcuni operatori televisivi ad un editore di un giornaletto – cartaceo! – che voleva pubblicare una guida agli spettacoli [8]. Analogamente, e gli esempi potrebbero moltiplicarsi, il problema della c.d. record date ha bisogno di una soluzione, e, ovviamente, di una soluzione soddisfacente. Ha senso o non ha senso che nell’assemblea di una società per azioni quotata venga ammesso al voto [...]
Perché stupirsi? Inquadriamo il mondo del diritto ed il ruolo del giurista – cioè noi stessi – in una prospettiva più ampia. Biologia e antropologia ci dicono – anche se il mondo del diritto non sembra essersene mai accorto, non sembra averne consapevolezza – che l’evoluzione dell’uomo procede essenzialmente per trial and error, per tentativi ed errori. Davanti alle sfide della continua evoluzione del mondo la specie umana – come ogni altra specie – ha una limitatissima capacità di progettazione. Forse non ne ha nessuna. In realtà, si muove a tentoni, fidando sul fatto che tra innumerevoli risposte date dai molti che si confrontano con il problema nuovo emerga anche una risposta che riesca – per caso? – a risolverlo davvero in modo soddisfacente. E questo non può non esser vero anche per il diritto. Siamo noi giuristi a non saperlo, a non sapere che anche il diritto è, in questo senso, una “scienza sperimentale”. Occorre che siano altri – come Francesco Priolo [10], un fisico – a dircelo, e noi ce ne meravigliamo. Forse, tra i grandi pensatori delle ultime generazioni, quello che ha più coerentemente visto, in questa prospettiva, il parallelo tra l’evoluzione biologica e l’evoluzione sociale è Karl Popper. Egli, nella sua complessa opera, purtroppo oggi poco letta, ha insistito ripetutamente sulla disfunzionalità, e quindi sulla pericolosità, di progettazioni sociali che si propongano come olistiche e intrinsecamente coerenti. Non siamo in grado di comprendere l’intero, tentativi così ambiziosi non possono riuscire. Meglio, ribadisce Karl Popper in vari passaggi di un’opera complessiva audace ed iconoclastica – penso soprattutto a “La società aperta e i suoi nemici” [11] – procedere a pezzi isolati, meglio una ingegneria sociale gradualistica, una ingegneria sociale a spizzico. Procedere per tentativi ed errori, nel mondo organico, significa affidarsi a due grandi forze, il caso e la necessità. Chi non crede alla favola del “disegno intelligente” sa che le mutazioni si susseguono casualmente, e che poi la selezione naturale le valuterà. Nel mondo del pensiero, procedere per tentativi ed errori può forse non essere un procedere del tutto a caso. Se utilizziamo la ragione, possiamo far [...]
Tutto questo è perfettamente noto a Francesco Denozza, ed in varie occasioni il suo lavoro ce lo mostra. Vorrei qui guardare rapidamente, come “case study”, il suo recente commento alla decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel caso HUAWEI [12]. Il caso contrappone HUAWEI, titolare di uno standard setting patent – cioè di un brevetto che copre una tecnologia assunta a standard di settore, ed è dato in licenza a tutti a condizioni FRAND, cioè fair, reasonable and non-discriminatory – a ZTE, altro operatore del settore. ZTE ha aperto con HUAWEI una trattativa per la licenza, l’ha condotta in modo da portarla per le lunghe invece di finalizzarla verso la conclusione del contratto, ed avvia l’utilizzazione dello standard prima che il contratto di licenza sia stato concluso. A questo punto HUAWEI agisce in inibitoria contro ZTE per contraffazione di brevetto. ZTE reagisce denunziando giudizialmente il comportamento di HUAWEI come abuso di posizione dominante. Il problema posto all’esame del giudice antitrust è quindi questo: è o non è autore di un abuso di posizione dominante il titolare di un diritto di brevetto che copre una tecnologia elevata a standard di settore il quale pretenda di inibire, in virtù del brevetto, l’utilizzazione di quella tecnologia a chi ha chiesto a lui la licenza, ma non l’ha ancora ottenuta? La Corte, come è noto, dà ragione al titolare del brevetto, affermando che così vuole l’interesse dei consumatori. La critica di Denozza – la riferisco per grandi linee, invitando chi non la conosca a leggerla per intero in originale – è centrata sull’idea che qui la Corte non ha effettuato nessuna analisi empirica del mercato che potesse consentirle di vedere quali esattamente siano, nella situazione in esame, gli interessi dei consumatori. L’interesse dei consumatori, nel discorso della Corte, non ha alcuna valenza empirica, è solo uno slogan. Se si analizza davvero la realtà, ci si accorge subito che i consumatori, rispetto al problema in esame, non hanno tutti lo stesso interesse. Tra loro esistono differenze importanti, e rilevanti ai fini della soluzione del problema, soprattutto quanto a propensione a pagare l’innovazione, e quanto a propensione al rischio. E non è [...]
Mentre preparavo questa riflessione, e rileggevo il commento di Francesco Denozza alla decisione del caso HUAWEI, mi è venuto alla mente come Piergaetano Marchetti, un pomeriggio di febbraio del 2018, se non ricordo male, a Torino, ha concluso il suo intervento ad un seminario di presentazione del bel libro di Paolo Montalenti “Impresa, società di capitali, mercati finanziari”. Lo ha fatto tirando fuori un libretto di poche pagine, copertina gialla, stropicciato e un po’ sconnesso, forse per avere abitato a lungo nella tasca della giacca del suo proprietario. Era una raccolta di poesie di Wisława Scymborszka [14], e da quel libretto ha letto alcuni brani di una breve poesia, che ha titolo “vecchio professore” – o forse l’ha letta per intero. L’Autrice conversa – ponendogli alcune domande – con un vecchio amico, che è appunto un vecchio professore, ma in realtà è una sorta di doppio dell’Autrice, così che la conversazione ha il sapore di un dialogo con sé stessa. Non conoscevo allora questa poesia. Poi l’ho riletta tante volte, e ormai quasi la conosco a memoria. Una delle prime strofe dice così: “Gli ho chiesto se sa ancora di sicuro cosa è bene e male per il genere umano. – È la più mortifera di tutte le illusioni – mi ha risposto”. E, poco dopo: “Gli ho chiesto se gli capita di essere felice. – Lavoro – mi ha risposto”. La prima frase è terribile, e tutti quelli che come noi si occupano di diritto – ma, forse, non solo loro. Penso ai moralisti, e soprattutto ai politici – dovrebbero riflettere su di essa almeno dieci minuti ogni giorno. Non pensiamo forse tutti noi, in fondo, di sapere perfettamente “cosa è bene e male per il genere umano”? Ed ecco invece la verità, semplice e brutale, ma del tutto ovvia: “È la più mortifera di tutte le illusioni”. Questa conclusione, però, non giustifica anarchia, caos, disimpegno. Pur sapendo che non avremo mai certezza su bene e male, la risposta a “tu cosa fai?” è, semplicemente, “Lavoro”. Impossibile esprimersi con maggiore rispetto e maggiore understatement – mi spiace non conoscere la parola corrispondente nella lingua polacca. Dobbiamo continuare a cercare una risposta ai nostri problemi, [...]
Vado a chiudere. Non saprei dire se esiste o non esiste uno stile giuridico neoliberale. Forse esiste. Forse non esiste. Ma non credo che questo sia un grosso problema, e non credo che sia questo il problema che fa arrabbiare Francesco Denozza. Il vero problema è che per ogni problema nuovo, per ogni problema a soluzione davvero incerta, non possiamo valerci di criteri euristici sicuri. Ma dobbiamo ugualmente continuare a cercare per essi una risposta – che, senza poter essere perfetta, sia quanto meno accettabile. E per questo il solo aiuto affidabile è la ragione, per la quale, non per caso, in una stagione felice dell’umanità, è stata creata l’espressione “il lume della ragione”. Da più di due secoli il nostro mondo ha vissuto quella grande rivoluzione che è stata l’Illuminismo – l’unica che veramente meriti il titolo di “rivoluzione culturale”, creato secoli dopo per rivolgimenti molto meno preziosi. Ma è una rivoluzione non ancora compiuta, che dobbiamo continuare, pazientemente, giorno per giorno.