Il contributo si propone di studiare i rapporti tra “sostenibilità” e diritto della crisi e dell'insolvenza dell’impresa societaria, cercando di verificare in quale misura i precetti collegati alla sostenibilità (ambientale e sociale) possano o debbano assumere un qualche spazio rispetto alla società in stato di crisi o di insolvenza e di comprendere come ciò si coordini con la finalità, tipica del diritto della crisi, di tutelare l'interesse dei creditori a recuperare il loro credito nella misura massima possibile. A questi fini, il lavoro si sofferma sulle possibili ricostruzioni, anche in chiave comparata, che potrebbero essere utilizzate per argomentare a favore o contro la tesi dell'inclusione dei precetti della sostenibilità fra gli interessi perseguibili attraverso il diritto della crisi. Si conclude, anche alla luce delle norme da ultimo introdotte con il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, nel senso che gli argomenti a favore della tesi per la quale il diritto della crisi non appare la sede idonea per la tutela (in via diretta) di interessi diversi da quello dei creditori appaiono maggiormente convincenti.
The paper aims to investigate the relationship between “sustainability” and corporate insolvency law, attempting to assess the extent to which environmental and social sustainability can or should have some space with respect to a distressed company, and to understand how this coordinates with the purpose, typical of insolvency law, of protecting the interest of creditors in recovering their credit to the maximum extent possible. To these ends, the paper dwells, also adopting a comparative perspective, on the possible theories that could be used to argue for or against the thesis of the inclusion of sustainability values among the interests that can be pursued through insolvency law. It is concluded, also in the light of the recent c.c.i.i., that the arguments in favour of the thesis that insolvency law does not appear to be the appropriate forum for the (direct) protection of interests other than that of creditors appear more convincing.
1. Introduzione - 2. Precisazione del campo dell’indagine. - 3. Il possibile argomento fondato sullo stakeholderism a favore di un diritto della crisi “sostenibile”: rigetto. - 4. Le incerte indicazioni ricavabili dal diritto positivo. - 4.1. Direttiva Restructuring e interessi perseguiti. - 4.2. C.c.i.i. e interessi perseguiti. - 5. Il dibattito dottrinale sugli interessi perseguiti nella regolazione della crisi dell’impresa societaria. - 5.1. Nel diritto statunitense. - 5.2. Nel diritto italiano. - 5.3. Profili del dibattito dottrinale più recente. - 6. Alcune preliminari considerazioni per una proposta di soluzione. - NOTE
Come noto, nel dibattito e nella legislazione contemporanei, sta emergendo con sempre maggior vigore una “nuova” parola d’ordine, «sostenibilità» [1]. Nei progetti dell’Unione Europea, in particolare, si colgono tra i molti obiettivi quelli relativi alla sostenibilità ambientale e alla protezione dei diritti umani, secondo Linee guida elaborate dall’ONU in anni recenti [2]. L’attenzione al tema della sostenibilità dell’attività economica ha così coinvolto anche il diritto della crisi, specialmente nella sua accezione del diritto societario della crisi [3]. Il contributo si propone di studiare i rapporti tra “sostenibilità” e diritto della crisi e dell’insolvenza dell’impresa societaria. Si tratta, in particolare, di verificare in quale misura i precetti collegati alla sostenibilità (ambientale e sociale) possano o debbano assumere un qualche spazio nell’ambito dello statuto della società in stato di crisi o di insolvenza, e di comprendere come ciò si coordini con la finalità, tipica del diritto della crisi, di tutelare l’interesse dei creditori alla soddisfazione del loro credito. Il quesito dal quale si prenderanno le mosse nel presente lavoro è, dunque, se, nel diritto societario della crisi, assumano rilevanza solo ed esclusivamente gli interessi dei creditori o se occorra tenere conto in via diretta anche degli interessi di quei soggetti che il principio di “sostenibilità” vorrebbe proteggere, e cioè gli interessi dei c.d. stakeholders (o interessi-altri); con la conseguenza, in questa seconda ipotesi, che, in alcuni casi, gli interessi dei creditori potrebbero o dovrebbero essere bilanciati con gli interessi-altri, ed eventualmente essere sacrificati di fronte ad essi. E così, ci si potrebbe chiedere, ad esempio, se, alla luce del nuovo paradigma della sostenibilità [4], gli amministratori di una s.p.a. che, ai sensi dell’art. 120-bis c.c.i.i., decidono in via esclusiva sull’accesso ad uno strumento di regolazione della crisi, debbano scegliere quello che tutela «al meglio» (nella loro prospettazione) l’interesse dei creditori [5] o se possano/debbano optare per quello che tutela anche l’interesse-altro che viene in rilievo nel caso di specie, ad esempio quello dei lavoratori a [...]
Come anticipato, al fine di impostare l’analisi nei termini (ritenuti) corretti, si impongono sin da subito alcune precisazioni. (i) Si è detto del possibile conflitto, nell’ambito del diritto (societario) della crisi d’impresa, se esaminato nell’ottica del nuovo paradigma della sostenibilità, fra interesse dei creditori alla soddisfazione della loro pretesa e interesse degli stakeholders (che il principio di sostenibilità vorrebbe proteggere). Nello specifico, per quanto riguarda la categoria dei creditori (in senso lato e atecnico) occorre precisare che al suo interno vanno oramai inclusi anche i soci della società debitrice quali titolari di una pretesa di ultima istanza. Questo perché il c.c.i.i. si caratterizza per una concezione della partecipazione sociale in chiave essenzialmente finanziaria, in coerenza con l’approccio che postula che l’unico interesse giuridicamente rilevante del socio di una società in stato di crisi o di insolvenza è la pretesa economica al recupero della quota di patrimonio residuo [7]. I soci, in altri termini, lungi dall’essere considerati come i “proprietari” della società (in crisi), sono oggi riguardati come l’ultima classe di creditori [8]. Questa concezione trova conferma in molteplici indici normativi, e segnatamente: (a) nella competenza esclusiva degli amministratori a decidere sull’accesso ad uno strumento di regolazione della crisi, e cioè a decidere sulla tipologia di strumento da utilizzare per affrontare la crisi, sulle condizioni della proposta e sul contenuto del piano (art. 120-bis c.c.i.i.) [9]; (b) nell’impossibilità per i soci di reagire ad una proposta di regolazione della crisi sgradita mediante la destituzione degli amministratori e la loro sostituzione, perché «dalla iscrizione della decisione [di accedere ad uno strumento di regolazione della crisi] nel registro delle imprese e fino alla omologazione, la revoca degli amministratori è inefficace se non ricorre una giusta causa» [10]; (c) nell’effetto del provvedimento di omologazione di uno strumento di regolazione della crisi, che – sulla scia di una teoria elaborata nel vigore della legge fallimentare da parte di una dottrina (allora) minoritaria [11] – è tale da determinare “automaticamente” la riduzione e [...]
Come noto, il “nuovo” interesse per i temi legati alla sostenibilità dell’attività d’impresa ha (ri)portato l’attenzione degli studiosi su dibattiti antichi, e segnatamente quelli riconducibili all’“interesse sociale” [27] o, utilizzando concetti che per la verità non appaiono coincidere pienamente [28], allo “scopo della società” o al “corporate purpose” [29]. Il tema, cioè, se (semplificando) gli obiettivi delle società siano limitati alla soddisfazione degli interessi dei soli soci o si estendano anche ad altri portatori di interessi. In effetti, se si accoglie la premessa che la società in bonis, ed in particolare la s.p.a. lucrativa “comune”, possa o debba perseguire anche interessi diversi da quello dei soci alla massimizzazione del valore delle partecipazioni, secondo il c.d. stakeholderism [30], si potrebbe essere indotti a pensare che, allora, anche la società in crisi (o insolvente) possa o debba perseguire anche interessi diversi da quelli dei creditori [31]. Ciò, sulla base della premessa teorica per la quale, nella società in crisi, i veri “soci” (investitori di capitale di rischio) sarebbero i creditori, in quanto soggetti oramai esposti al rischio d’impresa (residual claimants) [32]. Ebbene, se si accetta che la società in bonis possa o debba perseguire una molteplicità di interessi (non solo quelli dei soci ma anche quelli degli stakeholders) e che dunque l’interesse dei soci alla massimizzazione del loro investimento possa o debba essere legittimamente bilanciato con gli interessi-altri, si potrebbe ritenere che anche nella società in crisi il perseguimento dell’interesse dei creditori possa o debba concorrere con la tutela di interessi-altri e che addirittura possa (o debba) cedere il passo a questi ultimi [33]. D’altra parte, se la crisi è solo una fase dell’attività, il quadro degli interessi tutelati non dovrebbe mutare a seconda della fase (in bonis o in crisi) in cui la società si trova ad operare [34]. Questa ricostruzione, sebbene suggestiva, non pare cogliere nel segno. Il dibattito sullo scopo della s.p.a. (o sull’interesse sociale o sul corporate purpose) si sviluppa intorno alla domanda centrale se, al di fuori di una decisione in questo [...]
Se si esaminano gli elementi ricavabili dal diritto positivo in punto di interessi perseguiti dal diritto societario della crisi (almeno per quanto riguarda le procedure giudiziali [37]) emerge un quadro non del tutto univoco. In particolare, non si capisce (i) se, in generale, gli interessi legati ai precetti della sostenibilità rilevino in via diretta (con la conseguenza che gli interessi dei creditori potrebbero eventualmente retrocedere di fronte ad essi) o in via soltanto indiretta (nel senso che essi sarebbero perseguibili solo in quanto funzionali al perseguimento degli interessi dei creditori); (ii) se il modo in cui viene affrontato il tema dell’assetto di interessi perseguiti nelle procedure di regolazione della crisi muti a seconda del tipo di procedura, o, comunque, della tecnica utilizzata per reagire alla crisi e cioè a seconda che si proceda ad una liquidazione del patrimonio responsabile (procedure liquidatorie) o piuttosto ad una sua ristrutturazione (procedure di ristrutturazione); (iii) qualora si risponda positivamente al quesito sub (ii), quale sia la ratio alla base dell’ipotetico differente assetto di interessi fra procedure liquidatorie e procedure di ristrutturazione. Al fine di illustrare tali ambiguità, sembra utile in questa sede esaminare i dati di diritto positivo ricavabili, da un lato, dall’esame della direttiva Restructuring [38], che rappresenta il primo tentativo a livello di Unione Europea di armonizzare il diritto della crisi (sostanziale) dei vari Stati Membri [39]; dall’altro lato, occorre fare riferimento al nuovo c.c.i.i., entrato in vigore in tutte le sue parti il 15 luglio 2022.
Quanto alla direttiva Restructuring, non c’è dubbio che essa assegni rilevanza ad una molteplicità di interessi eterogenei. Si pensi: (i) al considerando 2, per il quale «i quadri [di ristrutturazione] dovrebbero impedire la perdita di posti di lavoro nonché la perdita di conoscenze e competenze e massimizzare il valore totale per i creditori […] così come per i proprietari e per l’economia nel suo complesso»; (ii) al considerando 3, che prevede che nei quadri di ristrutturazione «i diritti di tutte le parti coinvolte, compresi i lavoratori, dovrebbero essere tutelati in modo equilibrato»; o, ancora, (iii) al considerando 10, per il quale «le operazioni di ristrutturazione, in particolare quelle di grandi dimensioni che generano un impatto significativo, dovrebbero basarsi su un dialogo con i portatori di interessi […] e dovrebbero garantire l’adeguata partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori»; si pensi, inoltre, (iv) al riferimento, nell’art. 4, alla finalità di «tutelare i posti di lavoro e preservare l’attività imprenditoriale», nonché (v) al contenuto dell’art. 19, che vuole che gli amministratori di una società in crisi «tengano debitamente conto», come minimo, degli «interessi dei creditori, e dei detentori di strumenti di capitale e degli altri portatori di interessi». Dalla lettura di queste norme, come anticipato, emerge che la direttiva Restructuring assegna rilevanza ad una molteplicità di interessi. Tuttavia, non appare altrettanto chiaro se la direttiva imponga il perseguimento degli interessi diversi da quelli dei creditori soltanto in via mediata e indiretta o, piuttosto, in via immediata e diretta, con la conseguenza, in quest’ultimo caso, che gli interessi dei creditori potrebbero essere anche sacrificati [40]. Lampante in questo senso è il considerando 71, il quale, con riferimento ai doveri degli amministratori in caso di crisi [41], enuncia che «la presente direttiva non intende stabilire alcuna gerarchia tra le varie parti i cui interessi devono essere tenuti in debita considerazione» [42]. Peraltro, varrà sottolineare che la direttiva Restructuring non fa alcun riferimento al tema della tutela ambientale (fattore E dell’acronimo ESG), che sotto questo profilo risulta del tutto [...]
Passando, dunque, al quadro desumibile dal c.c.i.i., è possibile affermare che anch’esso lasci alcuni margini di incertezza. Infatti, quanto all’interesse dei creditori, è possibile rilevare che talvolta si parla di “interesse prevalente”, altre volte di “interesse prioritario”, e altre volte ancora di necessità che detto interesse non sia pregiudicato o che esso non sia pregiudicato “ingiustamente” [44]; quanto agli altri interessi, il c.c.i.i. prende in considerazione non solo gli interessi dei lavoratori, della continuità aziendale per se, ma anche dell’ambiente (anche se in quest’ultimo caso limitatamente ad un solo articolo) [45]. Tuttavia, non si capisce se l’interesse dei creditori e quello ad esempio dei lavoratori siano posti sullo stesso piano o se il secondo sia sempre subordinato al primo. In questo senso, si confrontino l’art. 84, secondo comma, c.c.i.i., in materia di concordato preventivo, che prevede che «la continuità aziendale tutela l’interesse dei creditori e preserva, nella misura possibile, i posti di lavoro», dal quale sembra desumersi la rilevanza soltanto indiretta degli interessi dei lavoratori rispetto a quelli dei creditori; e l’art. 53, quinto-bis comma, c.c.i.i., per il quale: «[i]n caso di accoglimento del reclamo proposto contro la sentenza di omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale, la corte d’appello, su richiesta delle parti, può confermare la sentenza di omologazione se l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante, riconoscendo a quest’ultimo il risarcimento del danno», che potrebbe fornire un elemento nel senso che i due interessi (quello dei creditori e quello dei lavoratori) siano posti sullo stesso piano. Si prenda in considerazione, inoltre, l’art. 212, primo e secondo comma, c.c.i.i., che prevede che, nella liquidazione giudiziale, può essere autorizzato l’affitto dell’azienda «quando appaia utile al fine della più proficua vendita dell’azienda o di parti della stessa» e che la scelta dell’affittuario «deve tenere conto, oltre che dell’ammontare del canone offerto, delle garanzie prestate e della attendibilità del piano di prosecuzione delle attività [...]
Come anticipato, lo studio dei rapporti fra diritto (societario) della crisi e nuovo paradigma della sostenibilità implica anzitutto interrogarsi sul tema dell’assetto di interessi realizzato attraverso tale branca del diritto. Tema, quest’ultimo, che, anche prima e a prescindere dall’emersione del principio di sostenibilità, ha da tempo suscitato interesse in letteratura [47]. Tuttavia, anche a causa della continua stratificazione del sistema del diritto della crisi e dei continui mutamenti di paradigma, una riflessione teorica, per così dire, “d’insieme” sull’argomento è apparsa (e appare tutt’ora) compito piuttosto arduo [48]. In effetti, il tema degli interessi perseguiti attraverso il diritto della crisi è emerso con particolare forza, ed è stato allora affrontato dalla dottrina con speciale attenzione (anche prima e a prescindere dall’emersione del paradigma della sostenibilità), in alcuni momenti specifici del percorso italiano del diritto della crisi (e non solo). Mi riferisco, ad esempio, al dibattito dottrinale sviluppatosi a seguito dell’introduzione nel nostro ordinamento giuridico della procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese (dibattito che si è concentrato più che altro sulla contrapposizione fra interessi dei creditori e interessi dei lavoratori) [49]. Peraltro, quando si parla di dibattito sull’assetto di interessi realizzato nel diritto della crisi nell’ordinamento italiano non è possibile non accennare al dibattito sul corporate bankruptcy purpose, caratteristico del diritto statunitense [50]. Ciò perché è proprio in questo sistema che il tema è stato sviluppato con maggiore enfasi, forse anche a causa di quell’approccio, tipico del sistema statunitense, più attento rispetto ad altri alla prospettiva de jure condendo. Peraltro, come si avrà modo di chiarire in seguito, la circostanza che in quel sistema il dibattito si sia sviluppato in una più accentuata prospettiva de jure condendo – prospettiva di studio invece meno diffusa (almeno apparentemente) in Italia – non rende meno utile un tentativo di accostamento dei due dibattiti. D’altra parte, anche a voler restare sul piano del diritto positivo, gli elementi di sistema ricavabili dal c.c.i.i. a favore dell’una o [...]
La questione dell’assetto di interessi realizzato attraverso il sistema del diritto della crisi e dell’insolvenza statunitense, e quindi della giustificazione teorica dello stesso, ha occupato un posto centrale negli studi statunitensi in materia. In estrema sintesi, è possibile tracciare una distinzione fondamentale nella dottrina statunitense sul diritto (societario) della crisi fra, da un lato, gli studiosi che guardano a tale branca del diritto in una prospettiva economica e, dall’altro lato, quelli che adottano un approccio che è stato definito «progressive» [53]. Secondo la prima ricostruzione, maggioritaria [54], il diritto della crisi esiste per risolvere un problema di coordinamento fra i vari creditori di uno stesso debitore, con il solo scopo di offrire a questi ultimi un sistema (collettivo) che, in presenza di un patrimonio insufficiente o comunque inadeguato (anche in via prospettica) a soddisfare regolarmente le obbligazioni assunte, massimizzi complessivamente la loro soddisfazione [55]. Secondo questa linea, dunque, il diritto della crisi dovrebbe occuparsi unicamente di perseguire l’interesse dei creditori di un debitore incapace (anche in via prospettica) di soddisfare regolarmente tutte le obbligazioni al recupero del credito (nella massima percentuale possibile e nel minor tempo possibile) [56]. In questa prospettiva, la sospensione dei diritti individuali dei singoli creditori di agire esecutivamente sul patrimonio del debitore per conseguire forzosamente quanto loro dovuto, e cioè la sospensione del sistema della tutela esecutiva individuale, si giustifica solo in presenza di un sistema alternativo a questa, che non solo condivida con essa la funzione satisfattiva, ma che consenta anche di massimizzare il valore complessivo a disposizione di tutti (utilizzando un’espressione tipica del dibattito statunitense, si suole parlare di «maximize the bankruptcy pie») [57]. Al contrario, i sostenitori del c.d. “progressive approach” ritengono, seppur secondo differenti percorsi argomentativi e con diverse sfumature, che, dal momento che il dissesto di un’impresa, specialmente se si tratta di grande impresa organizzata in forma societaria, coinvolge e si ripercuote su una molteplicità di interessi – fra i quali rientra non solo quello dei creditori al recupero del loro credito, ma anche, ad esempio, quello [...]
Come anticipato, nel contesto italiano il dibattito sull’assetto di interessi realizzato nel diritto (societario) della crisi è stato meno lineare e dai contorni più sfaccettati che negli Stati Uniti. In Italia, ancora oggi non sembra chiaro quali siano (o debbano essere) gli interessi perseguiti (o, fra i vari interessi astrattamente perseguibili, quale sia l’interesse prioritario). Ciò è probabilmente dovuto al fatto che il nostro diritto della crisi è stato oggetto di continue riforme nel corso del tempo, non caratterizzate da una visione unitaria e complessiva [72]. In estrema sintesi, è noto che inizialmente (e cioè nel periodo sia anteriore alla legge fallimentare del 1942, sia successivo) il diritto della crisi, il cui perno era costituito dalla procedura di fallimento, preordinata alla liquidazione del patrimonio del debitore, era contraddistinto da quella che è stata definita una doppia anima [73]: da un lato, la funzione punitiva, che mirava ad espellere l’imprenditore dal mercato, in un’ottica di tutela dell’economia e del commercio in generale, tanto che al fallito venivano comminate una serie di incapacità di natura personale e sanzionatoria [74]; dall’altro lato, la funzione satisfattiva, che aspirava a consentire al creditore di recuperare, compatibilmente con la funzione punitiva di espulsione dell’imprenditore dal mercato, il suo credito. Al centro si poneva l’imprenditore persona fisica, e non l’impresa come realtà produttiva che esprime un insieme di valori utilizzabili per la soddisfazione dei creditori [75]. Per via di questa particolare concezione, incentrata sul soggetto, le sorti dell’impresa finivano peraltro con l’essere legate a quelle dell’imprenditore e la tendenza ad espellere dal sistema l’imprenditore in dissesto si risolveva nella tendenza ad espellere dal mercato l’impresa, attraverso la liquidazione (tendenzialmente atomistica) del patrimonio [76]. Non è necessario indugiare in questa sede sui caratteri di questa doppia anima del diritto fallimentare italiano del tempo. Basti qui osservare che la circostanza che il diritto fallimentare fosse funzionale anche e soprattutto a “punire” l’imprenditore poneva in ombra non tanto la funzione satisfattiva in sé (che comunque era presente), ma [...]
Come anticipato in apertura, il crescente interesse (in ogni campo del sapere) per i temi legati alla sostenibilità, e nello specifico (e per quello che qui più interessa) al tema della sostenibilità dell’attività d’impresa, ha recentemente investito anche la dottrina di diritto della crisi, riaprendo il dibattito, per vero mai esaurito, sugli interessi perseguiti da tale branca del diritto. Volendo limitarsi in questa sede ad illustrare sinteticamente i tratti principali del recente dibattito sul punto, è possibile rilevare una molteplicità di ricostruzioni, talvolta anche di segno opposto. In particolare [97]: (i) vi è una corrente di pensiero che argomenta a favore di un principio generale inespresso di responsabilità sociale dell’impresa insolvente, ossia di un «principio di possibile bilanciamento tra interesse dei creditori e altri interessi, con il vincolo di limitare il pregiudizio dei creditori nella misura strettamente necessaria al soddisfacimento degli altri interessi e sempre nel rispetto di un contenuto minimo non tangibile» [98], la cui operatività viene però limitata alla sola procedura di liquidazione giudiziale (e non ad esempio al concordato preventivo [99]); (ii) vi è un diverso orientamento che sostiene che gli interessi degli stakeholders rileverebbero solo nelle procedure alternative alle procedure di liquidazione, ossia (sostanzialmente) nelle procedure di ristrutturazione [100]; (iii) vi è poi un ulteriore orientamento che, al pari dell’orientamento sub (i), assegna rilevanza diretta al principio di sostenibilità, ma solo negli strumenti di “continuità” o “di risanamento” e non in strumenti diversi da questi (a prescindere, sembrerebbe, dalla tipologia di procedura) [101]; (iv) infine, vi è chi continua a sostenere la rilevanza soltanto indiretta degli interessi degli stakeholders nel diritto della crisi [102] (a parte il caso della procedura di amministrazione straordinaria) [103]. Varrà a questo punto sottolineare che le tesi che assegnano rilevanza diretta al principio di sostenibilità sembrano fondarsi su due principali argomenti, e cioè l’art. 41 Cost. e gli elementi ricavabili dalla direttiva Restructuring [104]. Tuttavia, il richiamo a quest’ultima non appare condivisibile, in quanto, [...]
Anche a prescindere dalle critiche ai singoli argomenti utilizzati dai sostenitori delle tesi che – secondo diversi percorsi e con varie sfumature – argomentano a favore della rilevanza diretta degli interessi degli stakeholders nel diritto societario della crisi, gli argomenti a favore della rilevanza solo mediata e indiretta degli interessi di questi ultimi appaiono ad ogni modo maggiormente convincenti. Persuadono, in particolare, quelli fondati sugli artt. 42 e 53 Cost. [112]. Convincono, inoltre, le obiezioni alla rilevanza diretta degli interessi degli stakeholders nel diritto della crisi fondate sui possibili effetti negativi sul mercato dell’accoglimento di una tale ricostruzione, ossia il rischio di aumento del costo del credito [113] e di uso opportunistico delle procedure di regolazione della crisi [114]. A questi argomenti se ne può aggiungere, poi, uno ulteriore. In effetti, sembra opportuno sottolineare che il presupposto di qualsiasi procedura di regolazione della crisi o dell’insolvenza è la disfunzione del rapporto obbligatorio. Per il verificarsi di una particolare situazione, che nel nostro ordinamento prende il nome di stato di crisi o di insolvenza [115], il rapporto obbligatorio e, in generale, la garanzia patrimoniale offerta dal patrimonio responsabile, subisce quella che una parte della dottrina ha definito una «disfunzione» [116]: l’obbligazione non sarà più soddisfatta nei modi e nei termini stabiliti ex ante, ma in modo diverso. Può essere così necessario, ad esempio, procedere ad una riduzione del debito (falcidia o haircut), oppure ad una modifica dei termini di rimborso (riscadenziamento del debito) o, ancora, a una modifica qualitativa del mezzo di pagamento (ad esempio, soddisfazione attraverso l’attribuzione ai creditori di strumenti partecipativi nella società debitrice stessa o in altra società [117]). Ebbene, nell’ipotesi di disfunzione del rapporto obbligatorio, il nostro ordinamento reagisce con l’attivazione di un meccanismo ben preciso, e cioè con il sistema della responsabilità patrimoniale del debitore, regolato dal Titolo III del Libro VI del Codice civile, dedicato alla tutela dei diritti [118]. Ora, rispetto a questo meccanismo è affermazione condivisa quella per la quale non assumono rilevanza gli interessi-altri, ma solo quelli [...]