Muovendo dall’esame di un recente orientamento di merito, il saggio propone una riflessione sulla natura e la forza che deve caratterizzare l’azione dei soci per poter giustificare una loro responsabilità solidale nella commissione di un illecito da parte dell’organo amministrativo, per poi concludere nel senso dell’inapplicabilità dell’art. 2476, ottavo comma, c.c. alle decisioni/autorizzazioni riguardanti atti che in nessun caso gli amministratori potrebbero compiere (vuoi perché contra legem, vuoi perché estranei all’ambito gestorio).
The paper addresses the question whether shareholders might be considered personally liable for supporting with their vote the directors in doing something which is contra legem.
1. Ragioni e finalità dell’indagine. A proposito di un recente orientamento di merito. - 2. Il principio “ricapitalizza o liquida” nel sistema codicistico e nella legislazione speciale. Azzeramento del capitale sociale e scioglimento. - 3. La tesi giurisprudenziale dell’eventuale (co-)responsabilità deliberativa dei soci (ex art. 2476, ottavo comma, c.c.) per mancata adozione degli opportuni provvedimenti. Critica. - 4. Deliberazione sociale viziata, efficacia causale e cooperazione nella gestione. - 5. Responsabilità dei soci e atti organizzativi. - 6. Responsabilità dei soci e natura della condotta. Sul rilievo delle condotte omissive (inerzia, astensionismo, delibere a contenuto negativo). - NOTE
A dispetto del notevole interesse della dottrina per il tema della responsabilità deliberativa dei soci, in particolare di s.r.l., modeste, per non dire rare, figurano le applicazioni giurisprudenziali della regola portata da quello che (ormai) è l’ottavo comma dell’art. 2476 c.c. sulla corresponsabilità gestoria dei soci che abbiano intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi [1]. Varie sono le ragioni che si potrebbero addurre a fondamento dello scarso rilievo pratico della disposizione appena menzionata: a partire dalla normale compresenza di ruoli in capo ad alcuni almeno dei soci(-amministratori) o comunque dalla preferenza verso un articolato sistema di amministrazione di fatto, in vece di una limitata cogestione formale fra organi (art. 2479 c.c.) o soggetti (art. 2468, terzo comma, c.c.), fino alla problematica dimostrazione del requisito soggettivo specifico dell’intenzionalità [2]. Ora, tuttavia, l’affacciarsi di un innovativo orientamento di merito sembrerebbe lasciar intravedere lo spazio per un’inversione di tendenza e segnatamente per un’applicazione intensiva della disposizione sanzionatoria. Ciò che potrebbe anche segnalarsi come un fatto positivo, considerata la funzione di garanzia che dovrebbe (in teoria) accompagnare l’estensione della responsabilità gestoria, il cui scopo non può che essere quello di assicurare un certo bilanciamento fra le ragioni dei diversi soggetti coinvolti e le rispettive iniziative. Sennonché è proprio sotto questo profilo, è bene rimarcarlo subito, che l’interpretazione largheggiante offerta da questa giurisprudenza sembra mostrare il suo limite, tanto da venire a configurarsi come un’insidia per i soci, in particolare (ma non solo, come vedremo) delle tante organizzazioni societarie che, a causa della pandemia e della crisi energetica, già versano o potrebbero presto ritrovarsi in una condizione di grave insufficienza patrimoniale [3]. Nello specifico, invero, il collegio giudicante ha deciso di accogliere la richiesta del fallimento agente ex art. 146 l. fall. che invocava la (co-)responsabilità dei soci per l’illegittima prosecuzione dell’attività sociale, sostenendo che, in ipotesi di perdita integrale del capitale sociale, costoro hanno l’obbligo (legale) di [...]
Partendo dunque dal nucleo caldo della questione e segnatamente dalla considerazione dell’impatto che genera sul sistema societario, in punto di ruoli e responsabilità, il verificarsi di una condizione di perdita grave, è noto che le istanze di continuità aziendale hanno portato col tempo ad un ammorbidimento della rigida regola codicistica comunemente riassunta nella nota formula “ricapitalizza, (trasforma) o liquida” [7]. In quest’ottica devono invero apprezzarsi le novità a vario titolo introdotte dall’art. 182-sexies l. fall. (ora artt. 89 e 64 c.c.i.i.), dall’art. 26, primo comma, del d.l. n. 179/2012 e successive integrazioni, e infine dalla legislazione pandemica (art. 6, d.l. 8 aprile 2020, n. 23, e successive modificazioni), rispettivamente in punto di efficacia sospensiva delle domande di concordato preventivo (anche “con riserva” o “in bianco”) e di ristrutturazione, di duplicazione della durata del periodo di grazia concesso alle start-up e PMI innovative, e infine di sterilizzazione quinquennale delle perdite maturate nel biennio Covid [8]. Sennonché il fatto che si diano oggi delle deroghe, se da un lato può certamente rendere più complicata la ricostruzione del quadro normativo, dall’altro non sembra poter scalfire il ruolo centrale delle misure di salvaguardia del capitale sociale, quale confermato anche dalla loro derivazione comunitaria, oltre che dalla sostanziale identità della disciplina rispettivamente dettata per i diversi tipi di società capitalistiche [9]. Sì che, come rileva una dottrina, in difetto di un’indicazione chiara, non vi sarebbe motivo – a maggior ragione dopo la scelta restrittiva compiuta con il decreto legge 24 aprile 2017, n. 50 convertito con legge 21 giugno 2017, n. 96 in tema di PMI [10] – per distinguere, sotto questo aspetto, le s.r.l. ordinarie da quelle semplificate o a capitale ridotto [11]. Altro discorso essendo ovviamente quello della funzione oggi ascrivibile al capitale sociale e quindi dell’opportunità, de iure condendo, di un ripensamento complessivo dei principi vigenti in materia [12], inclusi quelli su cui poggia la disciplina della riduzione nominale, talvolta anche detta “obbligatoria”, e che invece sarebbe preferibile semplicemente indicare come “riduzione per perdite”, [...]
Se dunque si accetta che il sistema approntato a protezione dell’effettività del capitale non richiede necessariamente una delibera sociale per ottemperare alla propria funzione (di garanzia), non potendosi ascrivere ai soci né l’obbligo di evitare lo scioglimento né quello di dichiararlo, appare inevitabile prendere le distanze da quanto affermato dalla giurisprudenza citata in apertura. Allora la curatela lamentava l’assenza di un’adeguata reazione da parte dei soci di fronte all’azzeramento integrale del capitale sociale, sostenendo che così facendo gli stessi avrebbero favorito il comportamento illegittimo degli amministratori, quando semmai proprio la mancata assunzione degli opportuni provvedimenti avrebbe dovuto spingere (definitivamente) gli amministratori a dichiarare l’avvenuto scioglimento e – quel che più conta – ad interrompere subito l’attività d’impresa, secondo quanto disposto dagli artt. 2485 e 2486 c.c., pena la loro (esclusiva) responsabilità. Vero è che nel caso specifico – almeno così sembrerebbe evincersi dalla lettura del provvedimento – l’assemblea, opportunamente convocata, non era rimasta propriamente passiva di fronte alla richiesta di autorizzazione alla continuazione presentata dagli amministratori, circostanza che avrebbe senz’altro messo fuori gioco l’applicazione dell’art. 2476, ottavo comma, c.c. [19]. Ma il dato non sembra poter offrire un argomento sufficiente per imputare anche ai soci, che con il loro voto abbiano contribuito all’approvazione della delibera di rinvio a nuovo delle perdite, la responsabilità per i danni scaturenti dall’illegittima prosecuzione dell’attività sociale. Primo perché, come abbiamo già visto, l’art. 2486 c.c. dispone che gli amministratori debbano astenersi dal compimento di nuovi atti a far data dal verificarsi della causa di scioglimento, quindi a partire dal momento stesso del superamento del minimo legale previsto per la capitalizzazione del tipo, e fino alla sua effettiva rimozione (per ricapitalizzazione o trasformazione) o in alternativa alla nomina dei liquidatori e poi alla cancellazione dell’ente dal registro delle imprese. Con la conseguenza che, mentre potrebbe senz’altro decidere di intervenire a monte, rimuovendo la causa di scioglimento e con essa [...]
Premesso invero che l’ordinamento contempla due piani di tutela distinti (: quello dell’invalidità dell’atto e quello della responsabilità del suo agente), non sempre coincidenti, potendo darsi sia ipotesi di atti contrari ai principi di corretta amministrazione pienamente validi (es.: l’acquisto o vendita di un cespite a condizioni palesemente non di mercato), sia anche casi di atti, al limite anche profittevoli, epperò contra legem (es.: l’emissione di titoli di debito a favore di sottoscrittori retail), viene da chiedersi se esista una relazione tra il sistema reale delle invalidità, soprattutto nelle sue forme più gravi, e quello risarcitorio della responsabilità. Il dubbio, in sostanza, che nasce dalla lettura della giurisprudenza più recente è questo: se ai soci è data unicamente l’opportunità di optare per la ricapitalizzazione o la trasformazione, come potrebbe una decisione diversa (: di mera continuazione) come tale estranea alla sfera del possibile giuridico [21], assurgere a presupposto di (cor)responsabilità per coloro che l’hanno votata? In altre parole, provando ora ad astrarre il ragionamento dalle specificità del regime di gestione delle perdite, come può affermarsi che una delibera abbia svolto un ruolo causale rispetto al compimento dell’atto finale da parte degli amministratori se non ha forza legale? Per uscire dall’impasse qualcuno potrebbe trovare giovamento nel ricordare che la responsabilità solidale del socio si fonda sempre ed esattamente sull’assenza di vincoli cogenti all’agire gestorio. Nel senso che, anche di fronte ad un’autorizzazione e financo ad una decisione dei soci, deve sempre riconoscersi all’organo amministrativo il potere (e il dovere) di scegliere se dar corso all’operazione [22]. Fermo restando che, quando gli amministratori dovessero decidere di seguire l’indicazione proveniente dai soci e l’atto dovesse in ipotesi rivelarsi contrario ai principi di buona amministrazione, l’art. 2476, ottavo comma, c.c., prevede che del suo compimento debbano rispondere anche i soci che vi hanno concorso. Sennonché quando una delibera risulta affetta da assoluta incompetenza – diversamente forse da quando il vizio sia solo di natura formale o eventualmente anche di contenuto, a maggior ragione se [...]
Chiarito questo tanto in merito alla forza giuridica (minima) che deve possedere l’atto deliberativo per generare una responsabilità (concorrente) in capo ai soci che lo abbiano votato [25], vi sono poi altri due aspetti su cui merita svolgere qualche riflessione ulteriore, anche rispetto alla vicenda specifica da cui ha preso origine l’orientamento giurisprudenziale qui allo studio. Il primo, nonché più importante anche sul piano sistematico, è quello che riguarda la definizione del campo oggettivo di applicazione della disposizione contenuta nell’ottavo comma dell’art. 2476 c.c. Sebbene infatti il giudicante sembri dare per scontata l’applicabilità della norma citata, in realtà, volendo ragionare in termini ancora più generali, è piuttosto incerto che si possa venire a configurare una responsabilità dei soci in rapporto a decisioni rientranti nella loro sfera di competenza naturale (esclusiva), fra cui quelle sollecitate dal prodursi di una situazione di perdita integrale del capitale sociale. Secondo infatti la ricostruzione tradizionale, la collocazione della norma sanzionatoria all’interno della disciplina della s.r.l. sarebbe da intendersi come indicativa della volontà del legislatore della riforma di inserire una misura di bilanciamento rispetto ai più ampi poteri di ingerenza gestoria ivi spettanti ai soci, tanto ai sensi degli artt. 2479, primo comma, e 2468, terzo comma, c.c., quanto in via di mero fatto [26]. Di talché, al di fuori di queste ipotesi (per così dire devianti, ancorché proprie del tipo), di alterazione (programmatica o occasionale) del normale riparto di competenze, non avrebbe senso discorrere di un’eventuale responsabilità deliberativa dei soci, né di s.r.l. e men che meno di s.p.a. [27]. Non tutti, però, come noto, sono d’accordo con questa lettura riduzionistica di matrice storico-funzionale, facendosi da altri osservare come la lettera della legge si presti ad accogliere qualunque specie di decisione comunque adottata dai soci, sia essa di contenuto gestorio sia organizzativo, purché mediata da una concorrente attività dell’organo amministrativo. E si fa l’esempio proprio delle delibere di aumento del capitale, oltre che di distribuzione degli utili [28]. Ora, che ci debba essere un concorso di [...]
A questo punto dovrebbe essere chiaro che occorre cautela nel valutare le ragioni e quindi le responsabilità che hanno portato al prodursi di determinate situazioni dannose. Che non basta, cioè, che l’illecito si ponga all’esito di una sequenza di atti, in parte riconducibili agli amministratori in parte ai soci, perché subito ne scaturisca una responsabilità solidale. Per ciò dovendosi piuttosto verificare la sussistenza di un vero e proprio concorso di volontà, effettive, specifiche e coincidenti. Solo invero quando l’atto (finale) dannoso risulti effettivamente imputabile a più soggetti – come nel caso in cui l’amministratore che versi in uno stato di conflitto di interessi chieda e ottenga dai propri soci una valida autorizzazione a concludere un determinato contratto che questi sanno (o non possono non saper) essere illegittimo sul piano della corretta gestione imprenditoriale – è giusto che la sanzione si estenda a tutti i compartecipi. Siano essi (altri) amministratori o soci. Diversamente, quando si discorra di decisioni organizzative (ad esempio di modifica statutaria) o comunque di competenza esclusiva dei soci, non avrebbe senso pretendere di includere anche gli amministratori nel perimetro dei soggetti responsabili. Tanto più che, come si è detto, l’ordine che l’art. 2476, ottavo comma, c.c., ci impone di seguire è esattamente l’opposto. Prima cioè bisogna accertare la violazione dei doveri imposti all’organo gestorio, e solo quando ricorra questo presupposto, si può/deve verificare se l’illecito sia stato intenzionalmente (ed efficacemente) sostenuto anche da una corrispondente volontà dei soci. Tornando all’ipotesi di azzeramento del capitale, da cui siamo partiti, è palese che gli amministratori (una volta riscontrata l’inutilità – in senso tecnico – dell’intervento assembleare) avrebbero dovuto chiedere tempestivamente l’iscrizione della causa di scioglimento ed evitare di insistere nella gestione. Ma alla commissione dell’illecito gestorio non si può dire che abbiano concorso anche i soci, giacché, come abbiamo visto, la legge prevede qui un sistema tale per cui o i soci acconsentono alla ricapitalizzazione o alla trasformazione, oppure gli amministratori devono immediatamente porre in [...]