La dottrina attuale dellaCorporate Social Responsibility(CSR) nasce negli U.S.A., negli anni Ottanta del sec. XX, come reazione all'affermarsi di quellamainstream theoryche esalta loshareholder valuecome unico obiettivo dell'impresa e la supremazia dei mercati finanziari. La dottrina della CSR riprende temi già largamente presenti nel dibattito precedente ed utilizza anche gli apporti delle critiche alla unilateralità e inadeguatezza delle ricostruzioni dell'impresa con il metodo dell'analisi economica del diritto. Un profilo relativamente nuovo è stato tuttavia quello della proposizione di argomenti di tipo efficientistico (le scelte di responsabilità sociale come investimenti reputazionale dell'impresa), oltre che quello legato all'elaborazione del nuovo concetto distakeholder(i.e. portatori di interessi, diversi da quelli degli investitori, ma stabilmente connessi alle sorti dell'impresa).
Dagli anni Ottanta a tutt'oggi si è assistito ad una prepotente e continua crescita di consensi (ed anche di riconoscimenti normativi) in ordine alla dottrina dellaCSR.Anche in Italia, mentre la riforma societaria del 2003 era incentrata sul primato delloshareholder value,interventi successivi (influenzati anche dalle prese di posizione della Commissione europea), come la l. 180/2011, hanno dato rilievo normativo alla CSR.
Resta tuttavia insuperata l'obiezione dei critici della dottrina della CSR, secondo cui, in un'economia effettivamente concorrenziale, il perseguimento di obiettivi socialmente responsabili deve necessariamente cedere al vincolo della ricerca del massimo profitto. Si deve dunque riconoscere che l'attuazione dei principi della CSR avrà tanta più consistenza quanto più sarà accompagnata da norme di incentivazione, anziché essere affidata allo spontaneismo (e ad una supposta, e improbabile, lungimiranza delle imprese), come è nella teoria ufficiale della CSR.
L'a. si chiede poi se la dottrina della CSR sia parte integrante della tutela della "economia sociale di mercato altamente competitiva", di cui parla l'art. 3 T.U.E.
A tal fine la dottrina dell'Economia Sociale di Mercato (ESM) viene ricostruita come evoluzione delle teorie liberali, intesa ad esaltare la complementarietà fra pubblico e privato, muovendo dalla convinzione che l'ordine spontaneo del mercato non sia possibile né auspicabile, che il processo concorrenziale debba essere sostenuto da un'autorità pubblica indipendente, e che il potere pubblico debba supplire, con la propria azione, alle insufficienza del mercato.
In questa prospettiva, la dottrina dell'ESM non pone un preciso vincolo, a carico delle imprese, di perseguire obiettivi socialmente responsabili. La socialità del sistema dev'essere piuttosto garantita dall'azione regolatoria e, all'occorrenza, suppletiva dello Stato, mentre il compito essenziale delle imprese è quello di farsi lealmente concorrenza nel rispetto delle leggi.
The current doctrine of Corporate Social Responsibility (CSR ) was born in the USA, in the eighties of the twentieth century, as a reaction to the mainstream theory that emphasizes the role of shareholder value as the sole objective of the company and the financial markets' supremacy. The doctrine of CSR includes themes that were widely present in the previous debate, and also utilizes the contributions of the criticism to the one-sided and inadequacy of the reconstructions of the company by the method of economic analysis of law. What is relatively new, however, is the proposition of arguments based on efficiency (the enterprise's policies oriented to social responsibility as an investment in the enterprise's reputation), as well as the development of the new concept of stakeholders (i.e. people, other than investors in equity or company's creditors, who are firmly connected to the fortunes of the company) .
Since the eighties of the last century the CSR doctrine has been continuously growing in importance, not only as a philosophical point of view, but also as a regulatory tool. In Italy, there has been a quite recent development (see Law no. 180 of 2011), also influenced by the positions taken by the European Commission, while previously the corporation law reform of 2003 was centred on the primacy of shareholder value.
However, the objection of the critics to the CSR doctrine remains unsurpassed: in an effectively competitive economic system, they say, the pursuit of socially responsible goals must necessarily give way to the pursuit of profit maximization. It follows that the implementation of CSR principles is not going to be possible if it is not incentivized by the law or by public interventions; in other words, it is not realistic to rely only on spontaneity (and supposed far-sightedness of companies) , as the official CSR doctrine declares.
The author then considers whether the doctrine of CSR is connected with the objective of enhancing a "highly competitive social market economy ", as mentioned in article 3 EU Treaty.
He describes the doctrine of the Social Market Economy (SME) as an evolution of liberal theories, which aims at enhancing the complementarity between public and private, moving from the assumptions that the spontaneous order of the market is neither possible nor desirable, the competitive process should be supported by a public independent authority and that the public power should be able to make up for market failures.
In this perspective, we cannot say that, according to the SME doctrine, companies are obliged to pursue socially responsible objectives. This is a task for public regulation, while enterprises are basically requested to compete fairly according to the legal framework.
1. Premessa - 2. La riemersione della Corporate Social Responsibility nella teoria dell’impresa negli Stati Uniti, a temperamento dell’affermazione delle teorie finanziarie dell’impresa. - 3. Le diverse giustificazioni della CSR e il crescente consenso su tale teoria - 4. Le posizioni critiche sulla teoria della CSR nel dibattito americano - 5. L’accoglienza ricevuta dalla teoria nell’ambiente europeo ed italiano. L’atteggiamento prevalentemente negativo dei giuristi italiani. - 6. La responsabilità sociale dell’impresa come problema di diritto positivo. Diverse forme di riconoscimento e tendenziale crescita delle stesse. La legge 180/2011 sullo “statuto delle imprese” - 7. La costituzione economica europea dopo il Trattato di Lisbona: la libertà d’impresa nell’art. 16 della Carta dei Diritti e il principio della “economia sociale di mercato altamente competitiva”. - 8. Una difesa della dottrina dell’economia sociale di mercato - 9. Mancanza di una corrispondenza necessaria fra economia sociale di mercato e responsabilità sociale dell’impresa, ma possibile (e tendenziale) confluenza ideale delle due linee di pensiero - 10. Conclusioni - NOTE
Questo intervento sarà diviso in due parti: (i) nella prima (più lunga) si tenterà di esporre una sintesi dello stato attuale del dibattito sulla "responsabilità sociale dell'impresa", che oggi prosegue vivacemente in diverse sedi, politiche e scientifiche; questa parte riprende, con qualche aggiornamento e approfondimento, uno scritto da me pubblicato nel 2009; (ii) nella seconda parte si cercherà di verificare se e in quale misura la teoria della responsabilità sociale d'impresa è fatta propria, o è almeno compatibile, con i principi dettati dal Trattato di Lisbona.
L'attuale dibattito in materia diCorporate Social Responsibilityha una matrice prettamente statunitense: è nato come un capitolo importante all'interno dellaCorporate Law(cioè, potrebbe dirsi, del "diritto delle grandi imprese"), con scarsa attenzione verso i contributi che, sugli stessi temi, potevano essere forniti della storia delle istituzioni e del pensiero politico ed economico europeo.
In questa sede preferisco evitare un allargamento della prospettiva e concentrare l'attenzione sui punti salienti della teoria americana della CSR.
Nella storia delle dottrine diCorporate Lawda lungo tempo si sono abbandonate le prospettive formali, incentrate sull'idea di proprietà dell'impresa o su quella di personalità dellacorporation,e si è studiata quest'ultima come forma di organizzazione giuridica dell'impresa, intesa come formazione sociale ed economica (donde la generalizzata definizione del tema come "corporate governance",cioè teoria del governo dell'impresa: prospettiva evidentemente più ampia di quella definibile in termini di "diritto societario").
In questa prospettiva, l'idea che i comportamenti delle imprese siano di norma ispirati non solo a criteri di massimizzazione del profitto, ma anche a criteri di responsabilità sociale, nel senso della esigenza di costruire - al di là del rispetto dei doveri elementari di legge - un clima di fiducia reciproca (all'interno dell'impresa e nei rapporti esterni alla stessa), e la considerazione di questa fiducia come capitale collettivo, è radicata nella cultura economica e giuridica statunitense[1].
La prima, grande stagione del filone di studi ispirato a questo ordine di idee si caratterizzò con l'affermazione delle teorie manageriali dell'impresa, emblematicamente rappresentate dal libro di Berle e Means del 1932. In esse la grande impresa è vista essenzialmente come organismo produttivo stabile, caratterizzato da un patrimonio di conoscenze proprio, da una gerarchia interna, dalla necessità di una direzione strategica volta a mantenere e rafforzare la propria posizione nei mercati. In questa prospettiva, è visto come centrale il ruolo dei manager ed appare inevitabile che essi godano di ampia autonomia nei confronti degli investitori, proprietari formali dell'impresa[2]. Questa autonomia deve essere esercitata dai manager stessi, proprio per esigenze di mantenimento del ruolo sociale complessivamente svolto dalla grande impresa, tenendo conto non solo degli interessi immediati degli azionisti, ma di tutta la gamma di interessi terzi che gravitano entro e attorno all'impresa stessa[3]. Per questa conclusione le teorie "manageriali" americane sono state di solito classificate come teorie "istituzionalistiche" dell'impresa, in analogia con le teorie europee così chiamate (e pur aventi diversa matrice culturale).
A questa fase di "managerial capitalism" è seguita - com'è noto - la fase dello "investor capitalism". Come sfondo ideale di questo cambiamento sta l'affermazione neoliberistica, dagli anni Settanta in poi del sec. XX (e, in questo quadro, la notissima affermazione di M. Friedman per cui "the Social Responsibility of Business is to Increase Its Profits"). Sul piano della teoria giuridica dell'impresa, lo stesso periodo ha visto l'affermazione dell'analisi economica del diritto e, in questa prospettiva, della versione pancontrattualistica post-Coase della teoria dell'impresa (nexus of contracts theory), tendenzialmente volta a riconoscere la centralità dell'interesse degli investitori[4].
Nella concreta esperienza, si realizzava peraltro una progressiva crescita dei mercati finanziari e della conseguente pressione degli investitori istituzionali sulle performance fornite dai manager[5]. Contemporaneamente si sfaldava l'idea dell'impresa come comunità di lavoro organizzata, incentrata su una certa capacità produttiva condivisa da una pluralità di persone. Si è invece rapidamente affermata una concezione dell'impresa come "centrale di investimento", cioè come centro autonomo di programmazione finanziaria della valorizzazione del capitale investito, dotato di grande autonomia nella scelta degli strumenti produttivi, ritenuti ormai facilmente reperibili sui mercati mondiali, con possibilità di decentramento un tempo impensabili. La metafora della trasformazione dalla piramide alla rete (di moda in questi anni, e non solo per designare le trasformazioni dell'impresa, ma anche quelle dell'intero ordinamento giuridico) ha accompagnato questo fenomeno, certamente reale anche se non uniforme, né generalizzato[6].
Questa idea dell'impresa come organismo caratterizzato dalla centralità del momento finanziario, con la produzione e ilmarketingtendenzialmente concepiti come variabili dipendenti, ha come esito quello di assolutizzare loshareholder valuecome finalità propria dell'impresa, lasciando ad altri contesti della vita sociale e pubblica il compito di soddisfare esigenze di equità sociale.
Corollario di questa concezione dell'impresa è l'esaltazione dei mercati finanziari come strumenti di selezione dei migliori investimenti e dei migliori manager: l'esistenza di un vivace "mercato del controllo" è vista come lo strumento migliore per spingere gli amministratori alla massima efficienza[7]. Conseguenza "normativa" di questa concezione è il c.d.short-termism: i manager godono di amplissima autonomia, ma sono pungolati dal vincolo delle relazioni trimestrali e dalla necessità di presentare risultati positivi ai mercati finanziari.
La teoria contemporanea della CSR nasce, a cominciare dagli anni Ottanta del sec. XX, come reazione all'affermarsi di quella mainstream theory, che sopra abbiamo cercato di descrivere. In larga parte, la teoria riprende temi che erano stati largamente presenti nel dibattito precedente (la celeberrima affermazione di M. Friedman sulla responsabilità sociale dell'impresa di massimizzare i profitti nasce proprio in reazione alle diffuse affermazioni precedenti in senso contrario), ed erano stati solo parzialmente oscurati dall'affermazione delle teorie neoliberiste[8]. La nuova teoria della CSR utilizza anche gli apporti delle critiche sociogiuridiche alla unilateralità e inadeguatezza delle ricostruzioni dell'impresa con metodo EAL, che hanno visto quest'ultima in funzione esclusiva dell'efficienza dei mercati finanziari[9]. Un profilo relativamente nuovo è stato tuttavia - come si vedrà meglio più avanti - quello legato alla proposizione di argomenti di tipo efficientistico (in qualche modo rivolti a contrastare la teoria neoliberistica sul suo stesso piano di discorso), oltre che quello legato all'elaborazione del nuovo concetto distakeholder(i.e. portatori di interessi, diversi da quelli degli investitori, ma stabilmente connessi alle sorti dell'impresa).
Con sorpresa di qualche osservatore[10], dagli anni Ottanta a tutt'oggi si è assistito ad una prepotente e continua crescita di consensi in ordine alla teoria della Corporate Social Responsibility, tendente, essenzialmente, ad attribuire all'impresa compiti di cura diretta di interessi diversi da quelli degli shareholder; interessi ormai comunemente definiti come interessi di stakeholder (lavoratori, consumatori, imprese fornitrici e collegate, comunità locali etc.)[11]. Nello stesso torno di tempo (in particolare con il rapporto Brundtland, 1987) è maturata la teoria generale dello "sviluppo sostenibile", che afferma l'idea della possibilità di una relazione cooperativa fra impresa e ambiente[12].
La contraddizione fra i due filoni di pensiero che hanno convissuto ed hanno avuto parallelo successo nell'ultimo quarto di secolo, sembra a prima vista evidente. Così come è accaduto per il parallelo successo della teoria dell'impresa come centrale di investimento e della teoria dell'impresa come centro di gestione accentrata di risorse immateriali (conoscenza)[13].
Il fatto che queste differenti teorie abbiano convissuto e continuino a convivere non può, peraltro, stupire più che tanto: fa parte dell'esperienza postmoderna di pensiero debole, che caratterizza oggi anche il campo della politica e del diritto[14].
Bisogna peraltro riconoscere che, in molte espressioni della teoria della CSR, c'è un aspetto che attenua la contraddizione e spiega il successo notevole della teoria stessa, in tempi di accentuato neoliberismo: il filo rosso che dà una certa coerenza ideologica al ragionamento di tanti fautori della teoria sta proprio nella fiducia nell'autoregolazione dei mercati. Sarebbe proprio questa capacità di autoregolazione che porterebbe le imprese a farsi interpreti razionali e lungimiranti dei propri stessi interessi di lungo periodo[15] e a predisporre a tal fine codici di condotta, ritenuti per definizione più efficienti di qualsiasi regolazione amministrativa. Il mercato stesso creerebbe in tal modo un bilanciamento agli eccessi dell'affermazione della teoria dello shareholder value[16].
C'è anzi tutto un filone della teoria della CSR che tende a legittimare la stessa come strumento per reagire a "fallimenti dello Stato" (assunti come inevitabili) e quindi ad attribuire alle imprese una funzione di supplenza in compiti di equilibrio sociale, che gli Stati contemporanei, in un mondo globalizzato, non sarebbero più in grado di svolgere efficacemente.
Questo filone teorico ci porterebbe - anticipando quanto si segnalerà meglio più avanti - in rotta di collisione con la teoria dell'economia sociale di mercato (che invece pone il suo accento sulla necessità di uno Stato efficiente, in grado di supplire attivamente ai fallimenti del mercato).
Bisogna però subito dire che non sarebbe corretto ridurre la teoria della CSR a questo orientamento tendente ad inquadrarla in una visione panmercatistica del sistema economico. Da ciò, ed anche in conseguenza della tendenziale "ibridazione" dei modelli di governo dell'impresa, che ha segnato gli anni di svolta tra il XX e il XXI secolo[17], la crescente attenzione che la teoria della CSR ha avuto anche in contesto europeo.
Passando dal piano filosofico-politico generale a quello più propriamente economico-aziendale, la contraddizione fra i due orientamenti di fondo non solo permane ma si accentua.
Per cercare di approfondirne i possibili esiti, giova osservare che, mentre la teoria dell'impresa come "centrale di investimento" può dirsi ben radicata nell'esperienza e nei diversi contesti normativi, la teoria della CSR non ha un fondamento razionale altrettanto sicuro, e oscilla fra esortazioni etiche, affermazioni efficientistiche, e proposte di politica legislativa.
In un importante articolo del 2006 (di cui non avevo tenuto conto nel mio precedente scritto in argomento), M.E. Porter e M.K. Kramer[18] classificano le ragioni giustificatrici avanzate dai fautori della CSR in quattro diverse categorie:
(i) le ragioni puramente etiche[19];
(ii) il principio dello sviluppo sostenibile, inteso come principio fondante dell'attività di tutti i soggetti, pubblici e privati;
(iii) le teorie contrattualistiche (in senso lato)[20], per cui l'impresa non potrebbe normalmente svolgere la sua attività senza una"social licence to operate",cioè senza un accordo, espresso o tacito, con tutte le realtà coinvolte nell'attività dell'impresa stessa (in questa categoria si inquadrano lateam production theorye alcune varianti dellanexus of contracts theory);
(iv) le teorie dell'investimento reputazionale, secondo cui adottare criteri di CSR rafforzerebbe la reputazione dell'impresa e quindi la sua capacità di fare profitti nel lungo periodo.
Gli aa. criticano tutte queste giustificazioni[21], come inidonee a fondare una regola di comportamento vincolante per le imprese, e denunciano il rischio che l'affermarsi di tali giustificazioni porti solo ad un miscuglio di iniziative scoordinate e di facciata[22]. Questi rilievi non conducono però al risultato di rifiutare l'intera dottrina come infondata, bensì al tentativo di dare alla stessa un migliore fondamento razionale, che viene ancorato alla nota teoria dei vantaggi competitivi di Porter e costruito in termini di accoglimento della CSR come elemento centrale della strategia d'impresa.
Questo articolo, pur criticando le giustificazioni correnti dei fautori della CSR, e pur implicitamente ammettendo che la CSR non può essere, o comunque non è necessariamente, una strategia utilizzabile da qualsiasi impresa, è in ogni caso indicativo di una situazione di egemonia culturale che la teoria ha in qualche modo raggiunto negli Stati Uniti, con inevitabili effetti riflessi sul resto del mondo.
In un recente volume in argomento[23] si legge che "the world is reaching a turning point at which the inevitability of CSR overtakes the remaining oppositions to it". A sostegno di questa affermazione vi è una mole imponente di dati: dalle riforme legislative recenti (su cui dovremo tornare), al moltiplicarsi degli strumenti di soft law (in particolare, iniziative di diverse organizzazioni internazionali, fra cui va ricordato, in particolare, il progetto U.N. Global Compact, avviato nel 2000 e oggi coinvolgente più di 6000 imprese, di 135 paesi diversi[24]), alla crescente attenzione ai profili di CSR nell'informazione societaria fornita al pubblico dalle società quotate, allo sviluppo dei Socially Responsible Funds e delle Socially Responsible Lists, al fatto che, almeno nell'esperienza americana, il ruolo degli azionisti attivisti sembra sempre più orientato a rafforzare, che non a frenare, i comportamenti socialmente responsabili delle imprese. Infine, un capitolo a parte è costituito dall'enorme crescita della pubblicità commerciale "socialmente responsabile", e in particolare di quella "ecologica" (un tipo di pubblicità che, secondo diverse ricerche demoscopiche, ha un forte impatto sulle scelte dei consumatori)[25].
Il fenomeno è innegabile, e negli Stati Uniti ha dato luogo ad una sorta di legittimazione accademica della teoria della CSR. Sono state così avviate dispute scolastiche sulla terminologia: c'è chi (R. Edward Freeman) propone di rendere più preciso il significato dell'acronimo, parlando di Corporate Stakeholder Responsibility (anziché C. Social R.), e chi propone il termine, ancor più vago e suggestivo, di "Creative Capitalism" (pare che l'invenzione terminologica sia dovuta a Bill Gates in persona). Si pubblicano anche ricerche, un po' pedanti (anche se utili, in vista di una possibile crescita della rilevanza giuridica del fenomeno), sulla misurazione del grado di CSR imputabile ad un'impresa[26].
Si può dire, in sintesi, che oggi una qualche forma impegno in termini di CSR è diventata, praticamente, un punto fermo nelle regole di governo delle grandi imprese, in tutto il mondo capitalistico; sicché il dibattito in materia dovrebbe vertere non tanto sul "se"quanto sul "come" questo impegno possa essere efficacemente realizzato[27].
Più complesso, e meno studiato, è il problema del rapporto fra principi di CSR e piccole e medie imprese. Ad una forte corrente ideologica, che assume una "naturale" sensibilità sociale delle piccole imprese[28] (in quanto legate al territorio, caratterizzate da rapporti di fiducia personale fra imprenditore e lavoratori etc.), si contrappone un filone di pensiero che vede le piccole imprese, in quanto operanti in mercati sempre più aperti, come astrette da una logica della necessità, e quindi impossibilitate a proporsi impegni di responsabilità sociale, invece possibili nella grande dimensione produttiva. Vi è anche una tesi intermedia[29], secondo cui il rapporto fra gestione dell'impresa e CSR potrebbe essere definito, tendenzialmente, con una curva ad "U": alto livello di responsabilità sociale per le piccole imprese operanti in mercati statici, riduzione della responsabilità sociale nelle fasi di crescita dell'impresa verso più ampie dimensioni, riespansione della responsabilità sociale quando l'impresa ha raggiunto una dimensione veramente grande.
A parte una intuitiva propensione favorevole verso quest'ultima tesi (che comunque richiederebbe approfondite verifiche), resta da dire che il problema del rapporto fra CSR e piccole e medie imprese rimane ancora quasi tutto da esplorare.
Resta però, innegabile, la percezione di un'acquisizione ormai radicata del tema nelle teorie e nelle prassi contemporanee del governo dell'impresa, e conseguentemente dell'impossibilità di affrontare il tema della CSR da una prospettiva "esterna", come finora ha tendenzialmente fatto la dottrina giuridica italiana.
A questo punto, prima di accogliere la conclusione della "inevitabilità della CSR"[30] si deve riflettere sulle ragioni degli oppositori.
Sempre rimanendo fermi al dibattito di matrice americana, può dirsi che le voci critiche principali sono costituite, in primo luogo, dai fautori dell'ortodossia capitalistica, secondo cui l'affermarsi di principi di CSR rischia di ridurre l'efficienza imprenditoriale e così, indirettamente, lo stesso benessere complessivo. Queste voci sono però sempre meno frequenti e meno convinte[31]: è agevole infatti osservare che una gestione aziendale che, senza perdere di vista la finalità lucrativa, riesca a ridurre le esternalità negative - qual è, in ultima analisi, quella auspicata dai fautori della CSR - non può che incrementare il benessere collettivo (e quindi l'efficienza allocativa a livello globale).
La critica più forte alla teoria della CSR, come viene da più parti riconosciuto, è quella formulata da D. Vogel[32] e - soprattutto (per la diffusione mediatica) - da R. Reich[33]: questa critica non esprime alcuna contrarietà di principio alla CSR, ma rileva una contraddizione insuperabile nell'affermazione contemporanea di una sempre maggiore tutela della concorrenza fra imprese, da un lato, e di una sempre maggiore responsabilità sociale delle stesse, dall'altro. Il rafforzamento della concorrenza pone sempre più l'impresa nella "logica della necessità" (di cui parlava tanti anni fa K. Marx): se un'impresa rinuncia ad un'occasione di profitto, giuridicamente consentita, per ragioni di responsabilità sociale, questa stessa occasione sarà colta da un'impresa concorrente, che così acquisterà un vantaggio competitivo, che potrà poi sfruttare su altri terreni, migliorando ulteriormente la propria posizione nel mercato, a danno del concorrente socialmente responsabile[34].
Sul punto Reich ha scritto incisivamente: "Da anni ormai vado sostenendo che la responsabilità sociale e la redditività nel lungo termine convergono. Questo perché un'azienda che rispetta e valorizza i suoi dipendenti, la comunità in cui opera e l'ambiente alla fine ottiene il rispetto e la gratitudine dei suoi dipendenti, della comunità e dell'intera società, che si traducono poi in maggiori profitti. Ma non sono mai riuscito a dimostrare questa teoria o a trovare uno studio che la confermi [enfasi aggiunta]. Dal punto di vista della grande azienda moderna, però, il lungo termine potrebbe risultare irrilevante. Sotto il supercapitalismo, il 'lungo termine' è il valore attuale dei guadagni futuri. Non c'è misura migliore di questo del valore delle azioni"[35].
In questa prospettiva, la teoria della CSR appare destinata a rimanere una teoria insincera, suscettibile di segnare marginalmente l'attività delle imprese, ma impossibilitata - checché ne dica M. Porter - a diventare nucleo strategico dell'attività delle imprese stesse. Piuttosto, l'enfasi posta sull'obiettivo di rendere le imprese "più socialmente responsabili" costituisce - secondo i critici - un diversivo ideologico per distogliere l'attenzione dalla dominanza riconosciuta ai mercati finanziari[36] e soprattutto - secondo una linea di pensiero accentuata proprio da Reich, e a mio avviso molto importante - dalla crisi della democrazia e degli apparati pubblici, che hanno pur sempre, in via primaria, il compito di tutelare quegli interessi sociali che la teoria della CSR vorrebbe affidare alla cura diretta e volontaria delle imprese.
Il problema fondamentale oggi, secondo R., è che le istituzioni democratiche e gli apparati pubblici appaiono sempre più permeabili allelobbye sempre meno efficaci nella loro azione. Gli sforzi profusi nella costruzione della teoria della CSR dovrebbero essere, dunque, concentrati piuttosto nel combattere quello che R. chiama il declino delle democrazie, lasciando poi che le imprese continuino a svolgere la loro attività in modo efficiente, nell'interesse dei consumatori e degli investitori.
Non sono mancate verifiche empiriche di questa tesi critica sulla CSR[37], in relazione a recenti disastri ecologici e alla crisi finanziaria iniziata nel 2008.
Nel dibattito della dottrina di lingua inglese, le tesi di Reich non hanno ricevuto - per quanto a mia conoscenza - una vera e propria confutazione. La recente riflessione critica di B. Horrigan[38] si limita a notare che R. riduce eccessivamente gli spazi di discrezionalità che sussistono nella gestione delle imprese, nonché a contestare la tradizionale e fondamentale idea liberale della netta distinzione di ruoli fra pubblico e privato (che è molto forte, nella riflessione di R.), per sostituirla con una visione latamente cooperativa, che sarebbe la sola adatta ad affrontare i problemi che si presentano in un mondo globalizzato[39].
Da queste obiezioni si avrebbe il desiderio di dissentire, ma bisogna pur riconoscere che il loro peso è accresciuto dal dato fattuale, cioè dalla mole di opinioni, proposte, risoluzioni ufficiali, esperienze aziendali, che in vario modo supporta le obiezioni stesse.
Credo che valga perciò la pena di approfondire il tema della CSR, affrontando il profilo della sua traduzione in termini di diritto positivo.
Prima di fare ciò, mi sembra però opportuno aprire una parentesi per richiamare le reazioni che la teoria americana recente della CSR ha avuto in ambito europeo ed italiano.
La reazione europea è stata non entusiastica, almeno in un primo tempo[40]. C'era una differenza di fondo, derivante dall'ispirazione panprivatistica della teoria della CSR e dalla conseguente svalutazione del ruolo dell'intervento pubblico nella vita economica. La tradizione culturale europea si era nutrita di fiducia (eccessiva, ma questo è un altro discorso) nell'intervento pubblico e di forte protezione sindacale dei lavoratori[41] e, tradizionalmente, non aveva ridotto i problemi di corporate governance a problemi di agency nei rapporti fra investitori ed amministratori e di buon funzionamento dei mercati finanziari[42].
D'altra parte, le differenze fra Stati Uniti ed Europa, in termini di modelli dicorporate governance (che, secondo la schematizzazione corrente, caratterizzano l'Europa in termini di minore peso dei mercati finanziari, di controllo proprietario stabile delle imprese, di forte protezione sindacale dei lavoratori), facevano apparire meno urgente e non troppo realistico un approccio, come quello della teoria della CSR, fondato su un'esigenza di controllo della discrezionalità gestionale degli amministratori[43].
Non stupisce, pertanto, che l'attenzione verso la teoria della CSR sia stata importata, in Europa, con qualche anno di ritardo, e di pari passo proprio con l'affermazione delle teorie finanziarie dell'impresa, ed anche come contrappeso verso le stesse. E' interessante notare che il fenomeno si è presentato in forma di dipendenza culturale dagli Stati Uniti, senza un impegno di riflessione sulla potenziale continuità con le vecchie teorie istituzionalistiche dell'impresa, di matrice europea.
In ogni caso, ciò che in ultima analisi rendeva non difficile la recezione della teoria della CSR in Europa era la consonanza nei contenuti normativi della teoria, che andava dal rispetto degli interessi dei lavoratori e dei consumatori fino all'inclusione dei temi ambientali (principio dello sviluppo sostenibile) nei principi di governo dell'impresa.
Ciò ha fatto sì che la teoria della CSR venisse, a un certo punto, guardata con attenzione dalla Commissione Europea ed inserita nell'agenda dei temi da sviluppare; lo stesso è progressivamente avvenuto nei diversi ordinamenti nazionali.
In tale contesto, la reazione italiana è stata, per anni, relativamente più fredda che in altri paesi. In Italia il retroterra culturale era costituito dalla contrapposizione storica fra teorie istituzionalistiche e teorie contrattualistiche della società e dal dominio netto, da mezzo secolo a questa parte, di queste ultime, nell'ambito della dottrina giuridica[44]. Su questa base, mentre le teorie della società come "centrale di investimento" hanno trovato terreno fertile, la teoria della CSR ha trovato grandi accoglienze e sviluppi solo tra gli economisti aziendali (presso i quali le teorie istituzionali dell'impresa non sono mai entrate in crisi)[45] e tra diversi osservatori non giuristi. Nell'ambito della cultura giuridica, la teoria della CSR ha invece ricevuto un'accoglienza negativa. E' stata sostanzialmente ignorata dalla riforma del 2003 (a differenza di quanto avveniva, pochissimi anni dopo, nella riforma del Companies Act inglese) ed è stata rifiutata dalla dottrina. Nel dibattito dottrinale, alcune posizioni si possono direttamente collegare alla critica di Reich: così può dirsi per la posizione di G. Rossi (che ha meritoriamente introdotto in Italia il pensiero di questo autore), per quella di chi scrive (pur con un tentativo di ampliamento della prospettiva storica ed una maggiore enfasi sul profilo della crisi degli apparati pubblici) e, da ultimo, per quella, più tranchant, di M. Stella Richter[46]. Ma obiezioni consimili sono state formulate autonomamente da altri autori, come S. Scotti Camuzzi e, a più riprese, F. Denozza[47] (nonché da un insigne sociologo come L. Gallino[48]).
Il formarsi di un tale orientamento, sostanzialmente omogeneo, trova probabilmente le proprie radici nella forza ideale del contrattualismo societario italiano, segnato soprattutto dall'insegnamento di T. Ascarelli, sviluppato in primo luogo da G. Auletta e poi consolidato, mezzo secolo fa, dal contributo di P.G. Jaeger.
A mio avviso, la rigidità del contrattualismo societario italiano (per certi aspetti sorprendente, in una cultura che non è stata mai caratterizzata da eccessi di liberismo) si spiega come reazione all'adesione entusiastica che buona parte della cultura giuridica del tempo fascista aveva prestato all'idea di un inquadramento del diritto dell'impresa nell'ordinamento corporativo[49] e alla relativa legittimazione delle teorie istituzionalistiche dell'impresa. Il collegamento ideale, che per qualche tempo di era determinato fra teorie istituzionalistiche dell'impresa e corporativismo fascista, portò, nel periodo successivo, a una sorta didamnatio memoriae,che coinvolse tutte le idee sopra ricordate.
Così, nella prima stagione di seria discussione politico-legislativa sul tema della riforma del diritto azionario in Italia, svoltasi negli anni Sessanta, si affermò la tesi della "neutralità politica" del diritto societario, che cristallizzava il diritto societario nella prospettiva della tutela degli interessi degli investitori e dei creditori in genere, mentre, nelle posizioni "progressiste" di allora, la tutela di interessi generali era affidata all'azione di uno Stato-programmatore (che non realizzò mai questa sua funzione, ma anche questo è un altro discorso), senza entrare negli strumenti propri del diritto societario[50].
Non è fuori luogo però ricordare che un giurista colto e sensibile come Giuseppe Auletta, in un suo noto contributo[51], metteva in guardia contro le versioni formalistiche del contrattualismo, che portavano a legittimare, come espressione di libertà contrattuale, qualsiasi volontà espressa dai gruppi di comando interno. Osservava allora Auletta: "non vi è dubbio che la vita delle imprese sociali, in particolare quella delle grandissime imprese, investa un interesse generale essenziale, quello del massimo possibile di effettivo impiego delle risorse potenziali per il massimo possibile di produzione e, quindi, di tenore di vita. Si tratta di considerare se un simile interesse possa essere soddisfatto solo quando il perseguimento dello stesso costituisce lo scopo istituzionale dell'impresa e quindi solo in quanto ci si proponga il suo raggiungimento diretto ovvero possa essere perseguito anche indirettamente attraverso l'attività di imprese il cui scopo istituzionale è, invece, come per le società di diritto privato, il perseguimento del lucro".
La risposta che Auletta dava era nel secondo senso, sulla base della già ricordata concezione, prettamente liberale, della diversità e complementarietà dei ruoli fra pubblico e privato, e del timore (a quel tempo non del tutto infondato) che una concezione istituzionale dell'impresa potesse fungere da veicolo per il passaggio ad un'economia (ancor) più dirigistica e corporativa. Nello stesso tempo, Auletta prendeva però le distanze dal liberismo puro ed auspicava una riforma del diritto societario in cui fossero rafforzate le norme imperative poste a tutela non solo dei creditori ma anche di altri interessi socialmente meritevoli e, soprattutto, fossero rafforzati gli strumenti di controllo interno del potere dei gruppi di comando.
A distanza di tanti anni, può dirsi che, su quest'ultimo punto, il tempo ha dato ragione a queste tesi ed ha portato a riconoscere che un sistema bilanciato di poteri e contropoteri interni è essenziale per l'efficienza della gestione dell'impresa.
Sull'altro punto, l'esperienza maturata è più incerta: il grande tema della separazione e complementarietà dei ruoli fra pubblico e privato appare oggi più sfumato e tendenzialmente sostituito da visioni di cooperazione e convergenza nel perseguimento dei medesimi fini. Il grande sviluppo del dibattito sulla CSR, intesa come risultato della convergenza di spinte diverse, fra cui si inseriscono le scelte autonome dell'impresa, si inserisce in tale contesto.
Perciò - pur facendo forza sulle preferenze personali, che indurrebbero a riaffermare il tema della diversità di compiti fra pubblico e privato - sarebbe oggi precipitoso chiudere qui il discorso, denunziando l'intero dibattito sulla CSR come declamatorio e come diversivo ideologico.
Non solo, ma credo che debbano essere prese sul serio le considerazioni di chi afferma che proprio il processo di globalizzazione rende più urgente superare una visione puramente liberistica del ruolo delle imprese[52].
E' dunque di grande interesse chiedersi in che modo il lavorio, che da anni si compie in materia di CRS, si sia già tradotto, o possa tradursi, in termini di diritto positivo.
Sul piano delle norme di diritto positivo, gli ordinamenti attuali sono stati classificati (B. Horrigan), per quanto riguarda la CSR, in diverse categorie:
a) ordinamenti che non contengono norme che autorizzino gli amministratori a prendersi cura di interessi diversi da quelli degli azionisti (probabilmente ancora la maggioranza);
b) ordinamenti che contengono norme che autorizzano (ma non obbligano) espressamente gli amministratori a prendersi cura di interessi diversi da quelli degli azionisti (così leCorporate Constituency and Anti-takeover lawsdi una ventina di stati americani);
c) ordinamenti che contengono norme di soft law che pongono il dovere per gli amministratori di prendersi cura degli interessi degli stakeholder (per es. il codice tedesco di corporate governance del 2009[53]; in modo più sfumato, le stesse raccomandazioni della Commissione Europea degli anni 2001-2002, confermate a più riprese nel corso dell'ultimo decennio[54] e da ultimo rafforzate con la Comunicazione del 25 ottobre 2011[55]);
d) ordinamenti che contengono norme regolamentari che pongono il dovere per gli amministratori di prendersi cura degli interessi deglistakeholder(per es. i principi di governo delle società quotate dettati nel 2002 dall'autorità di regolazione della Nuova Zelanda);
e) ordinamenti in cui il dovereper gli amministratori di prendersi cura degli interessi deglistakeholderè stato affermato in precedenti vincolanti della Corte Suprema (Canada);
f) ordinamenti in cui il dovereper gli amministratori di prendersi cura degli interessi degli stakeholder è stato affermato in norme di legge espressa (Art. 172 Companies Act inglese)[56].
Ciò che più colpisce, in un panorama apparentemente così differenziato, è però la convergenza di tutti gli ordinamenti verso una soluzione sostanzialmente comune, che è quella per cui la cura degli interessi degli stakeholders rientra nella discrezionalità gestionale degli amministratori e non può essere censurata da quegli azionisti che pretenderebbero di avere, nell'immediato, dividendi più elevati[57]; ma, contemporaneamente, nessun ordinamento (neanche quello inglese) riconosce azioni dirette di stakeholders nei confronti della società o degli amministratori, per ottenere rimedi invalidativi o risarcitori a tutela dei propri interessi[58].
Così, negli ordinamenti per i quali gli amministratori devono curare esclusivamente gli interessi degli azionisti, è giurisprudenza prevalente - indipendentemente dall'espresso riconoscimento normativo di una business judgment rule - che gli amministratori possano legittimamente privilegiare gli interessi di lungo periodo degli azionisti rispetto all'interesse alla massimizzazione immediata degli utili distribuibili e, in tale prospettiva di lungo termine, dare spazio alla tutela di interessi di stakeholders (soluzione che, a mio avviso, può pianamente riproporsi anche per il diritto italiano)[59].
All'estremo opposto, la norma espressa dell'art. 172 delCompanies Actinglese, che a prima vista suona come un'affermazione molto forte della doverosità dell'applicazione di criteri di CSR, è poi costruita come norma che fonda un dovere degli amministratori verso la società e non verso terzi, e che dev'essere interpretata - secondo la stessa guida applicativa ufficiale della legge - alla luce di un criterio dienlightened shareholder value,cioè di priorità degli interessi di lungo periodo degli investitori rispetto alla profittabilità immediata dell'impresa. Se a ciò si aggiunge che l'ordinamento dicommon lawnon contiene una clausola generale di responsabilità civile (che, in ordinamenti come il nostro, renderebbe invece dirompente una disposizione come quella dell'art. 172 delCompany Law), si spiega agevolmente come la riforma di cui si tratta non abbia fatto nascere finora - a quanto sembra - alcun contenzioso.
Questa tendenziale convergenza degli ordinamenti verso una soluzione che fa rientrare la tutela degli interessi deglistakeholdersnella discrezionalità degli amministratori non deve indurre a negare il valore di queste diverse esperienze.
Esiste oggi una tensione irrisolta, in ordine ai criteri di corretta gestione societaria e imprenditoriale, fra criteri dishort-termisme criteri volti a privilegiare la stabilità dell'impresa nel tempo. La maggior parte degli ordinamenti non sceglie fra questi due criteri o si limita a riconoscere la discrezionalità degli amministratori in materia o a raccomandare criteri dilong-termism.L'ordinamento inglese ha fatto invece una scelta espressa e vincolante a favore di questo secondo tipo di criteri.
Col tempo si vedrà in quale misura queste norme incideranno sui concreti programmi gestionali delle grandi imprese e potranno anche dare luogo a contenziosi.
Quello che però può sin d'ora affermarsi è che l'affermazione di norme di questo tipo, volte a definire i criteri di corretta gestione societaria ed imprenditoriale nel senso della priorità dei criteri di lungo termine, dovrebbe essere auspicata da tutti coloro che hanno a cuore la stabilità e l'efficienza del sistema delle imprese.
Quanto detto può valere anche per il diritto italiano vigente, anche se la teoria della CSR non è stata affatto presa in considerazione dalla riforma del diritto societario del 2003[60].
Tuttavia, anche in Italia il quadro normativo è cambiato di recente, con l'approvazione della l. 11 novembre 2011, n. 180 (c.d. statuto delle imprese). La nuova legge sancisce, tra la proprie finalità (art. 1, comma 5), quella di "promuovere l'inclusione delle problematiche sociali e delle tematiche ambientali nello svolgimento delle attività delle imprese e nei loro rapporti con le parti sociali": si tratta di una proclamazione - netta, anche se generica - di recepimento della teoria della CSR. Inoltre, all'art. 2, comma 1, lett.p,sancisce il "principio" (sic) di "riconoscimento e valorizzazione degli statuti delle imprese ispirati a principi di equità, solidarietà e socialità".
Al di là della ridondanza e dell'enfasi, ne risulta confermato che, oggi, "l'inclusione delle problematiche socialietc.", nonché di "principi di equità, solidarietà e socialità" nelle strategie d'impresa è non solo legittima, ma anche raccomandata dalle norme italiane vigenti, ancorché non possa ancora configurarsi un vero e proprio dovere giuridico di adottare tali criteri di comportamento (il compito dell'ordinamento statale è, per ora, solamente "promozionale").
Si è così realizzato, silenziosamente (in una materia che avrebbe invece meritato un ampio dibattito pubblico), un cambiamento di rotta rispetto ai principi ispiratori della riforma del 2003, che erano chiaramente ancorati alla teoria dello shareholder value, anche se il legislatore non aveva tradotto tale teoria in disposizioni imperative[61].
Peraltro, un punto in cui la legge 180/2011 è andata ancora più avanti nel senso dell'adesione a principi di CSR, con una disposizione che, probabilmente, rappresenta ununicumnel panorama comparatistico: questa si trova nell'art. 4, comma 2, che dispone che "Le associazioni di categoria maggiormente rappresentative a livello nazionale, regionale e provinciale sono legittimate a impugnare gli atti amministrativi lesivi di interessi diffusi".Questa disposizione non si riferisce agli interessi collettivi della categoria rappresentata (che sono oggetto della diversa disposizione del 1° comma dello stesso articolo), ma ai veri e propri interessi "diffusi", che non possono essere intesi altrimenti che come interessi distakeholder.Si ha dunque l'introduzione di un inedito strumento di sostituzione processuale, che dovrebbe - nelle intenzioni del legislatore - suscitare una virtuosa competizione fra imprese nel farsi paladine di interessi collettivi delle comunità distakeholder.
L'esperienza ci dirà se queste innovazioni legislative porteranno con sé risultati concreti (finora non mi pare che se ne sia visto alcuno). Non credo, comunque, che l'innovazione legislativa possa rafforzare quei tentativi, che già sono stati in qualche modo formulati[62], di utilizzare la teoria della CSR come criterio interpretativo con riferimento all'applicazione delle norme sulla responsabilità contrattuale ed extracontrattuale d'impresa: rispetto a tali problemi credo che le soluzioni estensive, circa l'ambito della responsabilità imputabile alle imprese alla stregua del diritto vigente, possano linearmente essere confermate sulla base dell'interpretazione delle norme specifiche, nonché delle clausole generali, alla stregua del principio di solidarietà e senza bisogno di far capo alla teoria della CSR, che tipicamente - allo stato attuale del diritto positivo - postula una sceltaautonomadell'impresa, nell'ambito del genericamente lecito, e non la violazione di doveri, contrattuali od extracontrattuali, già fondati su norme vigenti.
In questa prospettiva, la scelta più interessante può essere quella di valorizzare i principi generali di solidarietà al fine di rafforzare il rilievo giuridico dei codici autodisciplinari adottati autonomamente dalle imprese[63].
Inoltre, a mio avviso, l'innovazione legislativa non fa venir meno (ed anzi in certo senso rafforza) il rilievo secondo cui l'attuazione dei principi della CSR avrà tanta più consistenza quanto più sarà accompagnata da norme di incentivazione (per es. vantaggi fiscali legati alla qualità del bilancio ambientale e/o del bilancio sociale dell'impresa)[64] e non affidata alla mera volontarietà (come avviene invece nella versione ideologica prevalente della CSR)[65].
Questi auspici non sono evidentemente fondati su sentimenti anticapitalistici e non richiedono neanche la necessità di aderire a determinate concezioni etiche dell'impresa; anche se si deve riconoscere che l'eventuale ed auspicata affermazione di criteri dilong-termismmetterebbe in luce contraddizioni del sistema attuale e imporrebbe di superarle progressivamente.
In conclusione, credo che l'atteggiamento più convincente, nei confronti della teoria della CSR, non sia quello dello scetticismo assoluto, ma quello che ne riconosce gli aspetti positivi, come teoria che impone di guardare all'impresa come struttura destinata a durare nel tempo, e come teoria che può essere pienamente realizzata solo se sostenuta da adeguati incentivi di carattere normativo.
A questo punto, resta da chiedersi se e in che misura la teoria della CSR sia penetrata nelle norme del Trattato di Lisbona, con ciò creando qualche "vincolo derivante dal diritto comunitario",come tale rilevante ai sensi dell'art. 117, comma 1, Cost.
A tale proposito non può fornire spunti significativi l'art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell'U.E. (che, ai sensi dell'art. 6 del T.U.E., ha "lo stesso valore giuridico dei Trattati"), per il quale"èriconosciuta la libertà d'impresa, conformemente al diritto dell'Unione e alle legislazioni e prassi nazionali".Questa formula del "riconoscimento (condizionato) della libertà d'impresa", che riecheggia sinteticamente il tono dell'art. 41 Cost., non ci dice nulla sul tipo di impresa che l'Unione europea vuole tutelare; ci dice però, chiaramente, che la libertà d'impresa è comunque una libertà regolata (ciò che pochi hanno ricordato, nel superficiale dibattito sulla riforma dell'art. 41 animatosi per qualche tempo, a cominciare dalla primavera del 2010, per iniziativa del Governo allora in carica). Inoltre, l'art. 16 della C.D.F.U.E. tutela chiaramente l'impresa come formazione sociale, e non pone l'impresa come oggetto di un diritto fondamentale della persona (basta confrontare il dato testuale dell'art. 16 con quello di altre disposizioni, a cominciare dallo stesso art. 17, riguardante il diritto di proprietà).
Il fatto che la libertà d'impresa sia riconosciuta, nel Trattato di Lisbona come nell'art. 41 Cost., come una libertà non tutelata come diritto fondamentale della persona, e sia necessariamente circondata da limiti e regolazioni, nonché destinata a cedere nel bilanciamento con valori costituzionali di rango superiore, non significa però che, nei principi della costituzione economica in vigore, vi sia già un implicito riconoscimento della dottrina della responsabilità sociale d'impresa[66]: l'art. 41 Cost. afferma - secondo un'attendibile interpretazione del comma 2° - la cedevolezza della libertà d'impresa in caso di conflitti con diritti fondamentali della persona umana, ma ciò è ben lungi dall'imporre all'impresa di perseguire scelte "socialmente responsabili" in situazioni in cui essa possa discrezionalmente indirizzare la sua attività in un senso o in un altro. Per il resto l'art. 41 della Costituzione e l'art. 16 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'U.E. rimettono al legislatore nazionale la determinazione dei limiti e dei vincoli a cui l'impresa è sottoposta e non impongono al legislatore determinate scelte in direziona della R.S.I.
Più significativa può essere, a mio avviso, la riflessione sul nuovo art. 3 del Trattato dell'Unione Europea, che sancisce espressamente che obiettivo fondamentale dell'Unione è quello di realizzare uno "sviluppo sostenibile basato su.. un'economia sociale di mercato altamente competitiva".
Se si tiene ferma l'idea che i testi normativi debbano essere presi sul serio, tanto più quando contengano disposizioni di principio, deve anche riconoscersi che la formula usata nel Trattato non può essere considerata come una semplice declamazione o come una mera dichiarazione di sensibilità verso vaghe esigenze "sociali". Il termine "economia sociale di mercato" (ESM) ha una propria, forte identità, nella storia delle dottrine politiche in Europa (ed è divenuto anche dottrina ufficiale, nella formazione e nello sviluppo della Repubblica Federale Tedesca). Si deve dunque riconoscere che il legislatore europeo abbia voluto "costituzionalizzare" almeno i punti fondamentali di tale dottrina[67].
Si deve allora subito riconoscere che il modello ideale di ESM non è codificato in alcun "testo sacro", ma rappresenta un filone di pensiero, storicamente ben definito, ma anche, come tutti i fenomeni culturali, in qualche modo mutevole nel tempo.
La ricostruzione del significato di ESM, che qui può essere riproposta, è dunque, in qualche misura, frutto di elaborazione personale; anche se confido che possa essere giudicata fedele al significato storicamente definito della dottrina.
In questa prospettiva, credo che la teoria dell'ESM possa essere sintetizzata in quattro punti fondamentali[68]:
(i) l'idea, che sta alla base del pensiero ordoliberale e dalla dottrina dell'ESM, è quella per cui l'economia di mercato, caratterizzata dalla concorrenza fra imprese, selezionate dalla libera scelta dei consumatori, costituisce il sistema migliore che l'umanità abbia mai sperimentato, sulla via del benessere economico e della libertà delle persone; tuttavia, l'economia di mercato concorrenziale, presenta - secondo l'ESM - due limiti strutturali e funzionali [v. i successivi punti (ii) e (iii)];
(ii) questa idea di base è, tuttavia, immediatamente corretta da un'altra idea (che distacca la teoria dell'ESM dalle filosofie liberistiche estreme): la concorrenza fra imprese è un meccanismo che tende ad essere autodistruttivo, nel senso che i meccanismi di mercato, lasciati alle libere negoziazioni, tendono ad irrigidire le posizioni acquisite, mediante la creazione di cartelli e monopoli: nel momento in cui la concorrenza si irrigidisce ed il potere di mercato si rafforza con le sue alleanze sociali, la macchina meravigliosa del mercato perde la sua funzione essenziale di progresso ed anche la sua legittimazione democratica; da qui la necessità che il potere pubblico riesca a porre in essere una efficace politica antitrust, volta a garantire il buon funzionamento dei mercati nel tempo e il controllo del potere economico privato;
(iii) la terza idea fondamentale dell'ESM è quella per cui il mercato è lo strumento principale per assicurare alle persone i beni e i servizi di cui sentono effettivamente il bisogno; tuttavia, esso non è in grado di assicurare alle persone tutti i beni di cui esse hanno bisogno per una elevata qualità della vita: alcuni di questi beni (compresi in un elenco che può andare dall'aria pulita alla sicurezza materiale e sociale, o magari anche alla sanità e all'istruzione di base, e che non potrà essere mai definito in modo tassativo) dovranno essere pur sempre assicurati dal potere pubblico, in forma di beni o di servizi pubblici, perché il mercato non è in grado di produrli sotto forma di merce acquistabile individualmente da tutti a prezzo equo;
(iv) la quarta idea fondamentale riguarda il ruolo dello Stato (rectius,oggi: del potere pubblico istituzionale): l'ESM postula l'esistenza di un potere pubblico forte ed efficiente, e non condizionato dagli interessi privati organizzati, anzi da essi indipendente e neutrale; in altri termini, l'ESM postula sì un ruolo forte dello Stato, ma un ruolo completamente diverso da quello degli Stati dirigistici: compito dello Stato non è quello di proteggere e di guidare questa o quella impresa (anzi deve astenersi del tutto dal fare ciò), bensì quello di far funzionare bene i mercati e di garantire un alto livello di offerta di beni e di servizi pubblici, secondo un criterio di sussidiarietà orizzontale.
Con una formula riassuntiva potrebbe dirsi che, mentre il dirigismo protegge le imprese ma non i mercati, l'ESM protegge i mercati ma non le imprese.
E' giusto segnalare che il tratto originale dell'ESM non sta tanto nei punti (i) e (iii): in linea di principio questi sono comuni a tutte le varianti del pensiero liberale (escluse le frange fanatiche anarcolibertarie) e - in tale contesto - l'ESM si caratterizza solo per un'ispirazione tendenzialmente favorevole ad ammettere con una certa larghezza il ruolo suppletivo dello Stato, in una prospettiva di sussidiarietà "orizzontale" rispetto al mercato (per esempio: nessuna difficoltà a concepire come servizi pubblici essenziali anche la sanità e l'istruzione)[69].
Il tratto di maggiore originalità sta invece nei punti (ii) e (iv): la macchina meravigliosa del mercato può funzionare bene solo attraverso un insieme di regole che devono essere pensate, costruite e imposte dal potere politico. Il mercato efficiente non è locus naturalis, ma dev'essere piuttosto concepito come un luogo artificiale, le cui regole di buon funzionamento devono essere fissate da un potere politico responsabile (si tratta di un'idea che, attraverso l'elaborazione di Natalino Irti, è ben nota ai giuristi italiani[70], ma che, nel pensiero ordoliberale, ha forse una valenza politica più netta).
Questo fondamentale assunto porta con sé l'esigenza - già sopra ricordata - che il decisore politico-amministrativo non sia condizionato da gruppi d'interesse precostituiti. Perciò l'ESM teorizza la presenza di uno Stato forte ma non dirigista: uno Stato che tuteli i mercati (i.e. il buon funzionamento dei mercati) e non le imprese esistenti in quanto tali, senza interferire nelle scelte di investimento delle imprese e senza entrare in competizione con le imprese private (l'impresa pubblica si giustifica, nella prospettiva dell'ESM, solo in presenza di monopoli naturali)[71].
Questa fondamentale esigenza di un potere decisionale pubblico non condizionato dai poteri privati ha un duplice risvolto: uno è di teoria della democrazia rappresentativa (e su questo l'ESM non ha espresso proposte particolarmente significative); l'altro, che riguarda il profilo della divisione dei poteri, ha invece avuto più precise formulazioni ed è anche divenuto un elemento portante della tradizione "tecnocratica" europea. L'idea di fondo è quella per cui il potere politico che stabilisce le regole deve limitarsi a fissare i principi fondamentali, senza immergere le proprie decisioni nei conflitti di interesse quotidiani, che pongono forti rischi di condizionamento (di "cattura", per usare un termine che è stato coniato in ben altri contesti culturali).
Da qui l'idea per cui i soggetti a cui deve essere attribuito il potere di regolare i mercati, affinché funzionino bene, devono essere soggetti il più possibile non condizionati dal gioco elettorale e dal gioco degli interessi quotidiani. Ciò vale per la Magistratura come per la Banca centrale, come anche per le Autorità speciali chiamate a controllare o regolare il funzionamento dei mercati. In tal modo si può assicurare la competenza tecnica dei decisori e l'efficienza della loro azione[72].
Chi scrive ritiene che la teoria dell'ESM fornisca una ideologia chiara, forte ed eticamente fondata, su cui - anche a seguito dell'espresso riconoscimento ad essa dato dal Trattato di Lisbona - sarebbe doveroso impegnarsi, come giuristi, in un approfondito lavoro critico e costruttivo.
In effetti, ciò che sta avvenendo attorno a noi non sembra affatto riflettere questo scenario.
Da un lato, riemergono, dall'osservazione della crisi e dall'osservazione della crescita economica di paesi ad economia dirigistica (in primo luogo, ovviamente, la Cina) rivalutazioni dell'efficienza dei sistemi di "capitalismo di Stato"[73]; ciò che, peraltro, è sempre stato per le fasi di crescita originaria dei sistemi economici, ma non può riproporsi come modello per le situazioni di capitalismo maturo.
Dall'altro, e più significativamente, la teoria dell'ESM appare a molti più un retaggio del passato che un'ideologia valida per il futuro. In Germania (cioè nella patria della dottrina dell'ESM), c'è chi parla di "crisi di fiducia"[74], o anche di "fine" dell'ESM[75].
Le ragioni delle critiche stanno, in primo luogo, in una sensazione di inadeguatezza della dottrina dell'ESM (in quanto costruita avendo in mente la presenza di Stati nazionali sovrani) ad affrontare i problemi che nascono in un mondo globalizzato[76]; e, in secondo luogo, da una sensazione di inadeguatezza della dottrina a realizzare effettivamente i suoi scopi dichiarati. Inoltre, alcuni rimproverano alla teoria una pretesa contraddittorietà, o comunque elevata vaghezza, dei suoi contenuti: ciò che la renderebbe sostanzialmente priva di valore[77].
Queste critiche mi lasciano molto perplesso, per le seguenti ragioni:
I) La dottrina dell'ESM, come tutte le dottrine, se riguardate al livello dell'indicazione di principi, presenta ampi profili di indeterminatezza (qual è il tipo di concorrenza che dev'essere protetto dalle autorità antitrust? Quali sono i servizi essenziali ai quali lo Stato deve provvedere, in attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale? e via discorrendo); ma questa non è una buona ragione di critica, perché potrebbe valere per qualsiasi testo costituzionale; e penso che nessuno, al giorno d'oggi, voglia proporre l'abolizione del - o prendere poco sul serio il - livello costituzionale dell'ordinamento.
II) La realizzazione parziale o insufficiente degli scopi dichiarati non è una buona critica, finché non si dimostra che il modello di società e di economia, che la dottrina propone, è ingiusto o inefficiente o irrealizzabile (utopistico, in senso deteriore); questa dimostrazione, a mia conoscenza, non è stata data. Ne consegue che l'adesione valutativa al modello dovrebbe spingere ad impegnarsi nell'opera di costruzione degli strumenti giuridici ed istituzionali adeguati per realizzarlo.
III) L'insufficienza della dimensione statale a realizzare tutti gli scopi che si vorrebbero perseguiti dall'azione pubblica in un mondo globalizzato è una realtà innegabile, ma ciò fornisce solo una ragione per spostare l'esigenza di un'efficace azione pubblica ad un livello più elevato (Unione Europea, O.N.U., comunità internazionale), sempre in coerenza con il principio di sussidiarietà. Non c'è alcuna valida ragione logica a fondamento della diffusa opinione secondo cui, in un mondo globalizzato, l'ordine giuridico globale può venire solo dalle consuetudini e, in primo luogo, dagli accordi fra privati.
IV) Le critiche alla dottrina dell'ESM non si accompagnano ad alcuna proposta di una ideologia politica (e politico-economica) migliore[78]. Il liberismo assoluto, che sembrava dominante alcuni anni fa, ha fatto riscoprire i suoi limiti (che erano stati irresponsabilmente dimenticati per un quarto di secolo) con la crisi finanziaria iniziata nel 2008 e ancora in corso. Da ogni parte si è riproposta la necessità di interventi pubblici correttivi e di un'efficace regolazione, quanto meno dei mercati finanziari (si è assistito anche alla sensazionale, onesta conversione di R. Posner[79]). Manca però un'ideologia politico-economica idonea ad inquadrare queste esperienze. L'unica alternativa che vedo alla dottrina dell'ESM è l'attuale, dilagante "pensiero debole"[80]. Qualcuno potrà guardare con favore (e fede) alla possibile formazione di un nuovo "ordine spontaneo". A me sembra una prospettiva assai pericolosa.
La verità è che la dottrina dell'ESM, da nessuno criticata nel merito come portatrice di soluzioni ingiuste o inefficienti, mette a nudo un nervo scoperto della società occidentale contemporanea: quello del deterioramento della qualità della rappresentanza politica e, più in generale, quello delle disfunzioni crescenti all'interno dei sistemi democratici e degli apparati amministrativi.
L'ESM postula invece uno Stato di dimensioni ridotte, ma forte ed efficiente, ed un'amministrazione tecnicamente preparata e indipendente. La costruzione di queste precondizioni richiederebbe un profondo ripensamento delle regole di selezione del ceto dirigente politico ed amministrativo, con drastiche alterazioni degli equilibri relazionali e delle prassi relazionali attuali.
Perciò la teoria dell'ESM appare inattuale e si preferisce "vivere alla giornata" (i.e. mantenere in vita, nello svolgimento dell'azione pubblica e nel governo dell'economia, tante regole consuetudinarie non trasparenti).
Perciò ritengo preferibile, per contro, valorizzare la dottrina dell'ESM, fino a quando non sarà sostituita da una più convincente.
Perciò ritengo preferibile prendere sul serio il "Manifesto di Jena per il rinnovamento dell'economia sociale di mercato" della Fondazione Adenauer[81], piuttosto che gli annunci di fine dell'ESM e le teorie distruttive intorno ad essa. E ciò non perché il Manifesto sia necessariamente valido e condivisibile in tutti i suoi contenuti, ma perché presenta un programma articolato in un discorso razionale, fondato su valori condivisi, e consente di sviluppare critiche e integrazioni con argomenti altrettanto razionali e con espliciti giudizi di valore.
Se si accetta la ricostruzione della dottrina dell'ESM esposta nel § 7, deve giungersi alla conclusione che essa non pone un preciso vincolo, a carico delle imprese, di perseguire obiettivi socialmente responsabili. La socialità del sistema dev'essere piuttosto garantita dall'azione regolatoria e, all'occorrenza, suppletiva dello Stato, mentre il compito essenziale delle imprese è quello di farsi lealmente concorrenza nel rispetto delle leggi.
In altri termini, potrebbe confermarsi che, nel Trattato di Lisbona, non c'è una scelta espressa a favore di un certo tipo di impresa, né di una qualche forma di responsabilità d'impresa. Per contro, il riferimento alla dottrina dell'ESM potrebbe leggersi piuttosto nella direzione della diversità e complementarietà di ruoli fra pubblico e privato.
Questa conclusione però dev'essere subito ridimensionata dalla circostanza che la disposizione di principio dell'art. 3 del Trattato UE richiama la dottrina dell'ESM come base per la realizzazione di uno "sviluppo sostenibile", così richiamando un principio di tutela ambientale che, per quanto ormai da tempo inglobato nella dottrina dell'ESM, è sorto in un contesto culturale diverso, costituente anche terreno di coltura della teoria della responsabilità sociale d'impresa.
D'altra parte, non può dimenticarsi che il pensiero ordoliberale, che sta alla radice della dottrina dell'ESM, è stato costruito da autori generalmente molto sensibili ai profili etico-religiosi e costantemente volti a sottolineare l'insufficienza delle regole giuridiche a realizzare una "buona società" senza il sostegno di una cultura condivisa, permeata da principi di solidarietà sociale (nella storia del pensiero politico italiano, le affinità con il pensiero ordoliberale possono trovarsi non tanto nel filone di pensiero liberalsocialista, quanto piuttosto in Luigi Einaudi).
La conclusione a cui può giungersi è dunque che le disposizioni di principio del Trattato di Lisbona, se da un lato non impongono nell'immediato alle imprese europee di perseguire obiettivi di CSR, per altro verso certamente non sono ostili a che le imprese si muovano in questa direzione (come è del resto auspicato e programmato nelle sopra citate prese di posizione della Commissione europea).
Se poi si condivide l'idea che la traduzione normativa del dibattito sulla CSR si traduce essenzialmente nell'affermazione di principi dilong-termismnella gestione delle imprese, può ragionevolmente auspicarsi e prevedersi che, se il movimento di pensiero a favore della CSR continuerà a svilupparsi come è avvenuto negli ultimi decenni, si potrà assistere nei prossimi anni ad uno sviluppo di normativa europea secondaria volta a sostenere più decisamente il lungo termine come criterio di corretta gestione societaria e imprenditoriale.
Quanto detto non deve però fare smarrire il peso relativo dei diversi temi, sui quali si è tentato di riflettere in queste note. Tenterei di riassumere tali temi nelle seguenti conclusioni:
a)il problema più grave del nostro tempo è costituito dalla crisi di rappresentatività e di efficienza dei sistemi politici democratici e dal progressivo decadimento delle pubbliche amministrazioni (e non dall'esistenza di regole cattive o inefficienti di governo delle imprese);
b)la dottrina dell'economia sociale di mercato - che postula mercati concorrenziali efficienti e poteri pubblici altrettanto efficienti, e indipendenti dai poteri privati - costituisce una valida base per costruire in modo giusto ed efficiente il rapporto fra azione pubblica e sistema delle imprese nel mondo contemporaneo; inoltre, questa scelta corrisponde alle indicazioni di principio contenute nei Trattati dell'Unione Europea;
c)l'idea che la responsabilità sociale delle imprese possa supplire alle carenze crescenti dell'azione pubblica costituisce un gravissimo errore;
d)l'affermazione di criteri di gestione socialmente responsabili da parte delle imprese è comunque auspicabile, come strumento complementare per il raggiungimento di obiettivi di giustizia sociale e per la tutela di valori condivisi;
e) l'affermazione di criteri di gestione socialmente responsabili da parte delle imprese sarà tanto più efficace quanto più sarà sostenuta da adeguati incentivi di carattere normativo ed istituzionale[82].
1) Come punto di partenza del dibattito in materia viene spesso indicato J.M. Clark, The Changing Basis of Economic Responsibility, in 24 J. Polit. Econ., 1916, 209 ss., che a sua volta sottolinea come l'idea della responsabilità sociale dell'impresa abbia ampie radici nella cultura dei secoli precedenti e sia stata solo apparentemente superata dalla rivoluzione liberista.
Una accurata rassegna critica delle teorie statunitensi sulla responsabilità sociale dell'impresa, a partire da Bowen e fino ad oggi, è in A.B. Carroll,A History of Corporate Social Responsibility.Concepts and Practices,inTheOxford Handbook of Corporate Social Responsibility,Oxford University Press, Oxford, 2008. In questa ricostruzione, il merito di avere per primo teorizzato la possibilità di convertire le scelte di responsabilità sociale in opportunità aziendali è attribuito a P. Drucker (1984).
- soggetti che hanno realizzato investimenti propri - e ne corrono i relativi rischi - per entrare in contatto con l'impresa (per esempio: subfornitori, lavoratori che hanno acquisito una preparazione professionalead hoc,consumatori che si sono vincolati per un certo periodo di tempo all'uso di un certo prodotto, etc.);
- soggetti che, pur non avendo realizzato investimenti propri e funzionali all'attività dell'impresa principale, subiscono esternalità positive o negative a seconda delle scelte gestionali che l'impresa principale realizza;
- soggetti che hanno solo un interesse indiretto, che può essere anche solo di ordine morale, in relazione alle scelte gestionali dell'impresa.
Malgrado l'importanza di queste distinzioni, nel discorso svolto nel testo non se ne terrà conto, perché si ritiene che esse non incidono sul livello generale del discorso stesso, ma debbano essere prese in considerazione solo in una fase più avanzata di costruzione di regole di CSR, di cui non ci si occupa in questa sede.
Per un'analisi approfondita delle diverse categorie tipiche distakeholder(con distinzioni neanche richiamate nella breve sintesi sopra riportata), v. R.K. Mitchell, B.A. Agle, D.J. Wood,Verso una teoria dell'identificazione e della rilevanza degli stakeholder: definizione del principio di chi e cosa veramente conta,inE.R.Freeman,G.Rusconi,M.Dorigatti(a cura di),Teoria degli stakeholder,FrancoAngeli, Milano, 2007, 108 ss.; nonché R. Phillips,La legittimità degli stakeholder,ivi, 167 ss.
Un filone di ricerca di grande interesse, a cui si può solo fugacemente accennare in questa sede, è quello che analizza i conflitti di interesse frastakeholdere il peso chestakeholderdotati di forte potere negoziale nei confronti dell'impresa possono avere nelle scelte gestionali, dando luogo ad inefficienze a danno degli altristakeholdere degli azionisti. V. in proposito L. Vilanova,Neither Shareholder not Stakeholder Management. What Happens When Firms are Run for their Short-term Salient Stakeholder?,in 25Eur.Manage. J.,2007,146 ss.
In Italia questo orientamento si ritrova, per esempio, in L. Sacconi,Introduzione. CSR: contesto, definizione e mappa per orientarsi,inGuida critica,(nt. 12), 11 ss.
Nella teoria americana della CSR c'è anche chi arriva a contrastare l'idea che i principi della CSR siano tradotti in norme giuridiche perché ciò indebolirebbe l'impegno morale delle imprese ad operare autonomamente secondo tali principi (D. Lea, The Imperfect Nature of Corporate Responsibilities to Stakeholders, in 14 Bus. Ethics Q., 2004, 201 ss.).(i) teorie strumentali [sostanzialmente corrispondenti alla categoria (iv) della classificazione riportata nel testo];
(ii) teorie politiche (che muovono dal riconoscimento dell'inevitabile ruolo politico delle grandi imprese nella società contemporanea e dalla conseguente responsabilità politica connessa a questo ruolo; questa categoria non trova corrispondenza nella classificazione riportata nel testo);
(iii) teorie integrative [sostanzialmente corrispondenti alla categoria (iii) della classificazione riportata nel testo];
(iv) teorie etiche [sostanzialmente corrispondenti alla categoria (i) della classificazione riportata nel testo].
Nel testo ho preferito dare evidenza alla classificazione di Porter/Kramer, sia perché questa mette in luce il ruolo svolto dalla tematica ambientale nell'affermarsi delle teorie contemporanee della CSR (ruolo fondamentale, come rilevano gli stessi T. Clarke, M. de la Rama, Fundamentals of Corporate Governance [saggio introduttivo del volume in cui è pubblicato lo scritto di Garriga-Melé]), sia perché l'idea della grande impresa come "attore politico" sembra legata ad una retorica neocorporativa, che fu di moda qualche decennio fa, ma che non sembra più attuale (cfr. P. Zumbansen, [nt. 13], 7), sia perché tale idea non corrisponde, sul piano normativo, al ruolo che alle imprese sembra giusto affidare in una prospettiva di economia sociale di mercato (v. infra, §§ 8, 9).Il tema è ripreso nell'enciclicaCaritas in veritatedi Benedetto XVI (29 giugno 2009), ove si legge (§ 37): "Forse un tempo era pensabile affidare dapprima all'economia la produzione di ricchezza per assegnare poi alla politica il compito di distribuirla. Oggi tutto ciò risulta più difficile, dato che le attività economiche non sono costrette entro limiti territoriali, mentre l'autorità dei governi continua ad essere soprattutto locale. Per questo, i canoni della giustizia devono essere rispettati sin dall'inizio, mentre si svolge il processo economico, e non già dopo o lateralmente. Inoltre, occorre che nel mercato si aprano spazi per attività economiche realizzate da soggetti che liberamente scelgono di informare il proprio agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza per ciò stesso rinunciare a produrre valore economico".
Il tema, che l'enciclica affronta in prospettiva normativa, si intreccia con il dato empirico riguardante l'effettivo comportamento delle imprese transnazionali in un'economia globalizzata. La maggior parte degli osservatori notano una progressiva omogeneizzazione culturale e quindi l'adozione di standard gestionali e di cultura d'impresa sempre più simili (con relativo progresso dei temi della CSR); altri ritengono che questo fenomeno sia solo di facciata e che i caratteri nazionali rimangano dominanti. Il dibattito è riassunto in C. Marquis, M.W. Toffel, The Globalization of Corporate Environmental Disclosure: Accountability or Greenwashing?, Harvard Business School Working Paper, 11-115 (2011), ove anche una interessante ricerca empirica in argomento.La nuova Comunicazione contiene un programma di iniziative più incisivo, da parte della Commissione, comprendente incentivi per le pratiche virtuose in materia di CSR, norme più severe sulle pratiche commerciali scorrette in materia di pubblicità "verde", la proposizione di codici di condotta - tipo, un sistema di monitoraggio delle iniziative nazionali in materia, etc.
Esistono però numerosi altri casi [per es.Smith v. Barlow(1953);Shlensky v. Wrigley(1968)] in cui la discrezionalità degli amministratori viene riconosciuta, con il risultato di legittimare scelte gestionali ispirate a principi di CSR. E' questa, anzi, una tra le più significative ricadute dellabusiness judgment rule.
Per un'ampia rassegna critica (e citazioni complete dei casi) v. L.M. Fairfax (supra). Nello stesso senso v. anche l'ampia indagine di J.E. Kerr,Sustainability Meets Profitability: The Convenient Truth of How the Business Judgment Rule Protects a Board's Decision to Engage in Social Entrepreneurship, 29Cardozo L. Rev.,2007,623 ss., nonché R. Marens, A. Wicks,Getting Real: Stakeholder Theory Managerial Practice, and the General Irrelevance of Fiduciary Duties Owed to Shareholders,in 9Bus. Ethics Q.,1999,273 ss.
Continuo a ritenere tuttavia - come è ribadito nel testo - che gli incentivi spontanei del mercato dovrebbero essere rafforzati da incentivi legali (per es. premi fiscali alle imprese che siano in grado di presentare i migliori bilanci sociali od ambientali), per potere suscitare un forte ed efficace impegno delle imprese nella politica ambientale.
Per una impostazione diversa v. F. Denozza,Responsabilità sociale d'impresa e "contratto sociale". Una critica,inDiritto, mercato ed etica. Dopo la crisi - Omaggio a Piergaetano Marchetti,Università Bocconi Editore, Milano, 2010, 269 ss., secondo cui "la tesi per cui gli amministratori dovrebbero tener conto di un interesse (alla ottimizzazione della collaborazione con tutti gli stakeholder) comune anche ai soci non è in astratto assolutamente incompatibile né con le norme del nostro ordinamento, né con le caratteristiche fondamentali di tutti gli ordinamenti principali";tuttavia, secondo D., "il verosimile risultato dell'accoglimento della tesi in esame sarebbe.. un enorme allargamento dei poteri discrezionali degli amministratori senza alcuna garanzia che tali accresciuti poteri vengano utilizzati per proteggere gli stakeholder";D. propone invece,de iure condendo,l'introduzione di un principio generale di correttezza, che imponga agli amministratori un "divieto generalizzato di abuso delle situazioni di fallimento del mercato".
Questa opinione di D. non mi convince, né nella tesi secondo cui un riconoscimento di maggiore discrezionalità in capo agli amministratori favorirebbe l'esercizio incontrollato dei relativi poteri (la discrezionalità è uno strumento giuridico atto a favorire il controllo giurisdizionale del potere, non a renderne l'esercizio incontrollabile), né nella parte in cui propone una principio di divieto di abuso dei fallimenti del mercato (obiettivamente assai difficile da tradurre in regole operative). In ogni caso, non si vede perché debba essere rifiutata in modo assoluto l'ipotesi che le imprese possano farsi concorrenza "virtuosa" anche sul terreno delle migliori pratiche sociali ed ambientali e che le norme giuridiche possano creare incentivi per rendere più incisiva ed efficace questa modalità competitiva.Questa linea di pensiero è da tempo presente ed è stata rappresentata, per esempio, da N. Luhmann,Capitalisme et Utopie,inArchives de philosphie du droit,1997, 483 ss., che criticava la teoria come utopistica sintesi di capitalismo e di socialismo (il che, peraltro, non rappresenta neanche correttamente il contenuto della dottrina).
E' opportuno citare i punti principali del "Manifesto" (più precisamente i titoli dei singoli paragrafi):
Successivamente, il tema della responsabilità sociale d'impresa si è ulteriormente sviluppato sul piano istituzionale, sia a livello nazionale (v. ilPiano d'azione nazionale sulla responsabilità sociale d'impresa 2012/2014,adottato congiuntamente dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dal Ministero dello Sviluppo economico) sia a livello europeo (v. laRisoluzione del Parlamento europeosulla responsabilità sociale delle imprese: comportamento commerciale trasparente e responsabile e crescita sostenibile,del 28 gennaio 2013).
Anche sul piano dottrinale il dibattito continua ad essere molto vivace (anche se non molto costruttivo). Per limitarsi alla produzione italiana, nel corso del presente anno sono state pubblicate alcune insignificanti monografie che tentano di descrivere la rilevanza della CSR a livello di diritto positivo; nel dibattito politico generale può essere segnalato (ma non in positivo) S. Zamagni,Impresa responsabile e mercato civile,Il Mulino, Bologna, 2013, che - nel tentativo di teorizzare una pretesa realtà avanzante di imprese "civilmente" (e non solo "socialmente") responsabili - mi sembra fornire un esempio spinto diwishful thinking.