La Direttiva (EU) 2016/943 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 giugno 2016 sulla protezione delknow-howriservato e delle informazioni commerciali riservate (di qui in avanti anche Direttiva o Direttiva sulla protezione dei segreti commerciali) fornisce anzitutto una definizione di segreti commerciali, stabilendo al contempo le modalità di acquisizione, utilizzo e divulgazione leciti ed illeciti delle informazioni suddette.
L'impatto dell'intervento armonizzatore, tuttavia, è destinato ad essere avvertito principalmente nell'ambito delle regole procedurali e rimediali recate dalla Direttiva. A tal riguardo il presente contributo rimarca la sostanziale conformità dell'ordinamento italiano rispetto all'impianto generale della Direttiva sulla protezione dei segreti commerciali.
Il sistema italiano, anzi, per taluni versi appronta una tutela più avanzata rispetto a quella divisata dalla normativa comunitaria. Non mancano, tuttavia, manchevolezze o difformità della normativa italiana in confronto con le disposizioni previste dalla Direttiva. Il presente contributo intende porre in luce ciascuno di tali punti di contrasto, suggerendo gli interventi normativi più opportuni.
Uno spazio non minimo è altresì dedicato ai principali problemi interpretativi legati alla nozione di segreti commerciali rispetto ai quale è ragionevole attendere un intervento della Corte di Giustizia.
The Directive (EU) 2016/943 of the European Parliament and of the Council of 8 June 2016 on the protection of undisclosed know-how and business information (hereinafter the Directive or Directive on the protection of trade secrets) provides for a definition of the trade secrets eligible for protection at the same time describing both lawful and unlawful ways of acquisition, use and disclosure of trade secrets. The harmonization impact though is mostly to be found in the procedural and remedial framework set forth by the same Directive.
The Italian legal system is largely compliant with the provisions introduced by the Directive and, to a certain extent, provides for a more far-reaching protection, nonetheless some contrasts with the provisions of the Directive emerge.
The present Article aims at pointing out the differences between the Italian system and the legal framework of the Directive, suggesting the appropriate amendments and integrations.
Attention is also devoted to the interpretative issues regarding the definition of trade secrets that could be the subject of judicial interventions by the Court of Justice of the European Union.
CONTENUTI CORRELATI: proprietà intelletuale - segreti commerciali - segreti aziendali - reverse engineering - enforcement
1. Introduzione e piano dell’indagine. - 2. Gli obiettivi e le caratteristiche fondamentali della Direttiva. - 3. La disciplina sostanziale prevista dalla Direttiva. La definizione di segreto commerciale. - 3. 1 I mezzi leciti di acquisizione dei segreti commerciali. L’utilizzo e la divulgazione leciti dei segreti commerciali. - 3. 2 I mezzi illeciti di acquisizione, utilizzo e divulgazione di segreti commerciali. - 4. Le disposizioni in tema di tutela giurisdizionale. Note introduttive. - 4. 1 Le disposizioni di tutela giurisdizionale non previste dalla Direttiva sui segreti commerciali. - 4. 2 La disciplina della prescrizione. - 4. 3 La disciplina della protezione della riservatezza dei segreti commerciali durante e dopo i procedimenti giudiziari a tutela dei segreti. - 4. 4 L’impianto rimediale. I criteri di scelta delle misure cautelari e definitive alla luce del principio di proporzionalità. - 4. 5 Le misure alternative a quelle inibitorie e correttive. Rimedi obbligatori in luogo di rimedi reali. - 4. 6 Le disposizioni opzionali. - NOTE
La Direttiva (EU) 2016/943 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 giugno 2016 sulla protezione delknow-how riservato e delle informazioni commerciali riservate (segreti commerciali) contro l'acquisizione, l'utilizzo e la divulgazione illeciti (di qui in avanti anche Direttiva o Direttiva sulla protezione dei segreti commerciali), punta ad una armonizzazione dell'impianto procedurale e rimediale applicabile in ciascuno Stato membro a protezione dei segreti industriali. A tal fine la Direttiva procede altresì ad una previa definizione della nozione di segreto industriale e commerciale proteggibile, stabilendo talune regole in materia di liceità ed illiceità di acquisizione, utilizzo e divulgazione delle informazioni segrete.
La Direttiva, invece, non ha l'obiettivo di armonizzare le norme degli Stati membri riguardanti la protezione dei dati «relativi a prove o altri dati segreti … alla cui presentazione sia subordinata l'autorizzazione dell'immissione in commercio di prodotti chimici, farmaceutici o agricoli implicanti l'uso di nuove sostanze chimiche» (v. art. 98, secondo comma, del codice della proprietà industriale, di qui in avanti anche c.p.i., sulla scorta delle disposizioni di cui all'art. 39.3 TRIPS)[1]. L'impatto della Direttiva su tale serie di disposizioni non formerà pertanto oggetto di analisi[2].
Il presente contributo si prefigge di individuare gli eventuali punti di difformità dell'ordinamento italiano rispetto alle norme recate dalla Direttiva, proponendo i necessari interventi di adattamento al dettato comunitario. Poiché, peraltro, la portata armonizzatrice della Direttiva riguarda principalmente la tutela giurisdizionale, su di essa ci si dovrà in particolar modo soffermare al fine di circoscrivere gli ambiti in cui è necessario od opportuno intervenire.
Sotto l'angolo visuale prescelto, occorre inoltre prestare attenzione ai rapporti tra la disciplina dettata dalla Direttiva sulla protezione dei segreti commerciali e la normativa recata dalla Direttiva 2005/48/CE (di qui in avanti anche DirettivaEnforcement). Quest'ultima disamina è vieppiù necessaria giacché l'ordinamento italiano, come noto, protegge i segreti industriali nell'ambito del codice della proprietà industriale che, a sua volta, per mezzo del d. lgs. 16 marzo 2006, n. 140, ha recepito la DirettivaEnforcementcon efficacia estesa a tutti i diritti di proprietà industriale titolati e non titolati e, pertanto, per quanto qui interessa, anche alla protezione dei segreti commerciali. Tale scelta legislativa, come avrà modo di dirsi, era non solo ammessa ma, se così può dirsi, incoraggiata dai considerando della DirettivaEnforcement. Occorrerà pertanto verificare se la Direttiva sulla protezione dei segreti commerciali imponga o renda opportuno un mutamento delle scelte di fondo della legislazione italiana.
Nell'ottica del presente contributo dovranno peraltro esaminarsi gli obiettivi e l'esatta portata dell'armonizzazione richiesta dalla Direttiva. Dovrà inoltre darsi conto delle norme di diritto sostanziale previste dal suddetto strumento normativo rispetto alle quali, anticipando i risultati della presente indagine, dovrà constatarsi la conformità della legge italiana nella sua formulazione attuale. È inoltre sembrato opportuno segnalare, suggerendo le interpretazioni preferibili, gli aspetti interpretativi più delicati sui quali la Corte di giustizia potrebbe essere chiamata ad intervenire al fine di presidiare l'interpretazione uniforme delle disposizioni previste dalla Direttiva sulla protezione dei segreti commerciali.
La Direttiva si colloca nel quadro della strategia sulla protezione della proprietà intellettuale delineata dalla Comunicazione della Commissione COM(2011)287[3] ed approva, con modificazioni, la proposta di Direttiva COM(2013)813[4]. Le regole di protezione dei segreti commerciali sono divenute oggetto di attenzione da parte della Commissione dell'Unione Europea poiché percepite come momento normativo importante, ed ancillare alla disciplina degli altri diritti di proprietà industriale, ai fini del mantenimento di un elevato livello di investimenti in innovazione nell'Unione[5]. I segreti commerciali, infatti, costituiscono, come noto, un importante (ed a volte cruciale) strumento competitivo per le imprese le quali, «a prescindere dalle loro dimensioni, attribuiscono ai segreti commerciali lo stesso valore attribuito ai brevetti e alle altre forme di diritti di proprietà intellettuale»[6].
Non è chi non veda, invero, come lo sviluppo di trovati e metodi industriali innovativi, che in una fase matura possono formare oggetto di domanda di brevetto, non può che avvenire in regime di segreto. In questi casi la protezione del segreto costituisce anzi premessa necessaria alla protezione mediante brevetto per invenzione (o mediante privativa per disegni e modelli)[7]. In altri casi, invece, taluni tipi di conoscenze tecniche ed ilknow-how, pur indispensabili per la competitività delle imprese che li detengono, e frutto di notevoli investimenti, sono proteggibili esclusivamente in regime di segreto. Similmente altre informazioni che, pur non recando innovazioni di carattere tecnico, sono di cruciale importanza per le imprese che le detengono, possono essere tutelate soltanto in regime di segreto. Fra queste ultime, il considerando n. 2 della Direttiva cita espressamente i «dati commerciali» contenenti informazioni su «clienti o fornitori, i piani aziendali, le strategie di mercato».
Proprio per tali ragioni all'interno dei negoziati dell'Uruguay Round è stata avvertita l'esigenza di inserire norme specificamente dedicate ai segreti commerciali (nonché alla protezione dei dati riservati sottoposti a pubbliche autorità). In questa direzione si è provveduto all'inserimento dell'art. 39 TRIPS il quale, come noto, fornisce la definizione di segreti commerciali e stabilisce il livello minimo di tutela giurisdizionale che ciascuno Stato membro deve accordare a protezione di dette informazioni[8]. Al di là della definizione, tuttavia, l'art. 39.1 TRIPS impone di apprestare una tutela efficace nel quadro dell'art. 10bis della Convenzione dell'Unione di Parigi in materia di repressione degli atti di concorrenza sleale[9]. Lo stesso peraltro è accaduto nell'ambito degli altri Accordi di libero scambio stipulati successivamente all'Accordo TRIPS. L'estrema laconicità del dettato normativo internazionale, pertanto, ha propiziato lo sviluppo di prassi giudiziali e di normative molto diversificate con livelli di protezione marcatamente disomogenei, a differenza di quanto avvenuto per altri diritti di proprietà industriale per i quali la normativa TRIPS ha dettato norme di maggior dettaglio, anche in materia di enforcement[10].
La direzione impressa dalla Commissione, nel quadro di una rinnovata attenzione verso la tutela del segreto commerciale, si inserisce in una cornice comparatistica coerente. In tempi recenti, infatti, i segreti commerciali sono stati fatti oggetto di importanti interventi normativi nel quadro dell'ordinamento federale statunitense[11] o, a livello internazionale, nell'ambito del Trattato Trans-Pacific-Partenership (di qui in avanti anche TTP)[12]. Basti pensare all'introduzione di una disciplina penalistica di contrasto all'acquisizione, utilizzo e divulgazione illeciti di segreti commerciali all'art. 18.78 dell'Accordo TTP[13]. Si pensi, inoltre, alla recentissima legislazione federale statunitense di protezione dei segreti commerciali, destinata ad affiancarsi a quella prevista dalle diverse normative statali, ove si prevede, fra l'altro, la possibilità di agire in via cautelare,inaudita altera parte, anche per preservare le prove riguardanti la sottrazione illecita di segreti commerciali.
Nell'ottica del diritto comunitario, peraltro, un intervento in materia può giustificarsi solo qualora le diverse regole in vigore negli Stati membri creino ostacoli significativi ed irragionevoli al funzionamento del mercato unico. A tal proposito la proposta di Direttiva è stata preceduta da due studi, commissionati dall'organo titolare dell'iniziativa legislativa comunitaria, specificamente dedicati alla valutazione del livello di protezione dei segreti commerciali nei diversi Stati membri e volti, al contempo, all'individuazione delle eventuali manchevolezze presenti nei sistemi nazionali di tutela giurisdizionale[14]. Da essi è emersa una notevole disomogeneità degli strumenti e, soprattutto, del livello di protezione garantito da ciascuno Stato membro[15].
L'adozione di una Direttiva in materia di protezione dei segreti commerciali viene pertanto giustificata in ragione dell'impatto negativo sulla «ricerca in collaborazione, compresa la cooperazione transfrontaliera» nonché lo «scambio di conoscenze» fra imprese[16] e, di conseguenza, sul funzionamento del mercato unico, dipendente dalla diversità e, soprattutto, dalla disomogenea efficacia delle regole degli Stati membri in materia di (definizione e) tutela giurisdizionale dei segreti commerciali[17].
Benché, inoltre, una tale disomogeneità di protezione sia riscontrabile tanto sul piano della tutela penalistica quanto della tutela civilistica, la Direttiva (a differenza dell'art. 18.78 TTP) concerne unicamente quest'ultimo livello di protezione.
La base legale della Direttiva è costituita dall'art. 114 del TFUE sul ravvicinamento delle legislazioni che influiscano sul funzionamento del mercato interno[18]. Ciò rende evidente pertanto che gli organi comunitari e, anzitutto, la Commissione, non abbiano inteso creare un titolo unitario di proprietà intellettuale uniformemente valido sull'intero territorio dell'UE, poiché, in tal caso avrebbe dovuto adoperarsi l'art. 118 TFUE[19].
Anzi, proprio la scelta dello strumento normativo della Direttiva, in luogo, ad esempio, di un Regolamento recante norme opzionali, rende evidente che il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri è stato ritenuto sufficiente per la promozione di una più intensa attività innovativa transfrontaliera nel territorio dell'Unione. Consegue che la protezione dei segreti industriali, sia pur entro certi limiti armonizzata, continuerà ad essere diversamente regolata secondo il diritto vigente in ciascuno Stato membro[20].
Tale perdurante frammentazione normativa è vieppiù accentuata grazie all'adozione del principio dell'armonizzazione minimaespressamente sancito all'art. 1, sottopar. 1 della Direttiva a mente del quale «[g]li Stati membri possono, nel rispetto delle disposizioni del TFUE, fornire un livello più ampio di protezione contro l'acquisizione, l'utilizzo o la divulgazione illeciti dei segreti commerciali rispetto a quello previsto dalla presente direttiva».
Siffatta impostazione è stata oggetto di critiche in dottrina la quale ha osservato come una Direttiva di armonizzazione minima rischi di mettere a repentaglio una reale armonizzazione a livello comunitario e di interferire con il bilanciamento di interessi che la Direttiva medesima intende perseguire[21]. Il testo definitivo, invero, mostra di aver tenuto conto di tali rilievi collocandosi in una posizione intermedia tra l'approccio dell'armonizzazione minima e quello dell'armonizzazione massima giacché, pur mantenendo il principio dell'armonizzazione minima come regola generale, punta a salvaguardare talune norme da interventi dei legislatori nazionali che rischierebbero di stravolgere il disegno complessivo e, con esso, i delicati punti di equilibrio che tali previsioni cristallizzano. Il medesimo art. 1 della Direttiva prevede, infatti, che alcune disposizioni e, in particolare, quelle contenute agli Artt. 3, 5, 6, 7 par. 1, 8, 9 par. 1 co. 2 e parr. 3 e 4, 10 par. 2, 11, 13, 15 par. 3, contengono norme di armonizzazione massima che, come tali, non possano essere vanificate da norme maggiormente protettive da parte degli Stati membri. Tali previsioni normative comprendenti tanto profili riguardanti l'oggetto della tutela, quanto questioni procedurali e dienforcement, saranno di volta in volta segnalate nel corso del presente contributo.
Si prevede, inoltre, che la trasposizione della Direttiva nel diritto degli Stati membri non possa pregiudicare l'applicazione di norme nazionali o comunitarie volte al perseguimento di interessi pubblici prevalenti ivi indicati (par. 3 dell'art. 1) o costituire ragione per imporre restrizioni aggiuntive alla libera mobilità dei lavoratori (par. 4 dell'art. 1). La portata di tali previsioni, tuttavia, sarà indagata in occasione dell'esame dei mezzi leciti ed illeciti di acquisizione, utilizzo e divulgazione di segreti commerciali.
La Direttiva di protezione dei segreti commerciali prevede tanto una definizione dei segreti commerciali tutelabili (art. 2) quanto le fattispecie di acquisizione, utilizzo e divulgazione che debbano considerarsi leciti e illeciti (Artt. 3 e 4).
Principiando con l'esame della definizione di segreti commerciali recata dalla Direttiva, deve costatarsi come essa corrisponda sostanzialmente a quella stabilita dall'art. 39 TRIPS.
L'art. 98 c.p.i., a sua volta, sostanzialmente ripropone il dettato dell'art. 6-bisdella legge invenzioni, introdotto dal d. lgs. 19 marzo 1996, n. 198, il quale ha provveduto ad adeguare il nostro ordinamento alle previsioni dell'Accordo TRIPS [22]. A tutela delle informazioni che risultino carenti dell'uno o dell'altro requisito stabilito dall'art. 98 c.p.i., invece, rimane ferma la possibilità di invocare l'art. 2598 c.c., come peraltro può evincersi dal dettato dell'art. 99 c.p.i.[23]. Poiché, inoltre, la definizione contenuta all'art. 98 c.p.i., in tema di "informazioni aziendali" tutelabili, a sua volta corrisponde, nella sostanza, a quella fissata dalla normativa TRIPS, può affermarsi senza tema di smentita che la legislazione italiana, sotto questo profilo, è già in linea con quanto richiesto dalla Direttiva.
<In senso contrario non ha alcun pregio opporre l'estrema latitudine del termine "information" contenuta all'art. 39 TRIPS e del termine «informazioni» della versione italiana della Direttiva. A ben vedere, la fattispecie oggetto di tutela ai sensi dell'art. 98 c.p.i., consistente nelle «informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali», copre per intero l'area delle informazioni tutelabili ai sensi dell'Art. 10bisdella Convenzione dell'Unione di Parigi così come richiesto dall'Art. 39.1 TRIPS. Né, invero, appare significativa la differenza lessicale tra la lett. b) dell'art. 98 c.p.i. che si riferisce al «valore economico» derivante dalla segretezza delle informazioni e la lett. b) del n. 1 dell'art. 2 della Direttiva che richiama, al pari dell'art. 39 TRIPS, il «valore commerciale».
Ciò posto, può semmai osservarsi come i giudici nazionali potrebbero senz'altro sollevare questioni interpretative pregiudiziali dinanzi ai giudici di Lussemburgo onde ottenere chiarimenti vincolanti circa la portata della fattispecie descritta dall'art. 2, n. 1 della Direttiva.
Poiché, peraltro, l'art. 2, n. 1 della Direttiva riproduce nella sostanza le disposizioni dell'art. 39.2 TRIPS, potrà ricorrersi alle interpretazioni non contestate (o prevalenti) di queste ultime onde trarre lumi circa il significato di talune delle espressioni adoprate dalla Direttiva. Non può non ricordarsi, tuttavia, la diversità delle regole di interpretazione cui sottostanno le disposizioni contenute nell'Accordo TRIPS e nella Direttiva in ragione dell'appartenenza, rispettivamente, all'ordinamento internazionale ed a quello comunitario. Altro possibile ausilio interpretativo è costituito dai considerando i quali, ancorché non vincolanti, costituiscono utili punti di riferimento (tanto per il giudice nazionale e comunitario quanto per il legislatore nazionale) laddove esplicitino obiettivi e rationesdelle disposizioni comunitarie, prestandosi a chiarire espressioni ambigue[24]. Non possono inoltre essere trascurate le indicazioni provenienti dal panorama comparatistico, specie ove quest'ultimo abbia costituito il modello per la redazione dell'art. 39.2 TRIPS[25].
Poste le coordinate interpretative rilevanti, può anzitutto affermarsi che la nozione di «information» di cui all'art. 39.2 TRIPS è stata fin qui interpretata in modo amplissimo in conformità con la lettera e l'intento delle Parti emergente dalla drafting history[26]. Il medesimo approccio è riscontrabile dalla lettera dell'art. 2 della Direttiva e dai considerando n. 14 e 16. Secondo l'interpretazione offerta dal considerando n. 16 le informazioni tutelate ricomprendono «il know-how, le informazioni commerciali e le informazioni tecnologiche» che abbiano «valore commerciale»[27]. A ben vedere il requisito del "valore commerciale" appare decisivo; esso, a sua volta, è costruito in modo ampio dal considerando n. 16 alla cui stregua esso può essere «effettivo o potenziale» e sussiste ogniqualvolta «l'acquisizione, l'utilizzo o la divulgazione non autorizzati degli stessi rischino di recare danno agli interessi della persona che li controlla lecitamente, poiché pregiudicano il potenziale scientifico e tecnico, gli interessi commerciali o finanziari, le posizioni strategiche o la capacità di competere di detta persona»[28].
Dall'impiego dell'aggettivo "commerciale" si evince, anzitutto, che le informazioni in questione non possano essere invocate da soggetti che non svolgono (o che non si accingano a svolgere) attività di impresa ed, inoltre, che le informazioni in questione devono essere direttamenteutilizzabili nello svolgimento di tale attività[29]. In secondo luogo, secondo l'interpretazione offerta nei considerando, il "valore commerciale" non è costituito dal valore di scambio delle informazioni segrete bensì dal vantaggio concorrenziale che esse attribuiscono a chi le detiene[30]. In terzo luogo, deve osservarsi come il considerando n. 16 - ma non il testo normativo - riecheggia analoghe previsioni contenute dall'Uniform Trade Secrets Act del 1985 (di qui in avanti anche UTSA) ove si richiede il possesso di un «independent actual or potential economic value» derivante dalla segretezza delle informazioni in questione e dall'art. 1711 del North America Free Trade Agreement del 1994 (di qui in avanti anche NAFTA) ove, ai fini della proteggibilità come trade secret, si richiede che l'informazione abbia «actual or potential commercial value because it is secret»[31]. Nell'ordinamento statunitense il riferimento al valore "potenziale" è stato adoperato al fine di superare la disposizione contenuta nelRestatement of Tort (First) il quale, ai fini della protezione delle informazioni segrete, esigeva che queste ultime fossero «continuously used in one's business». Stando al commento ufficiale che accompagna l'UTSA, il riferimento al valore attuale o potenziale delle informazioni serve a chiarire come, ancorché il legittimo detentore non abbia ancora avuto l'opportunità o acquisito i mezzi per utilizzare le informazioni segrete, queste ultime debbano comunque considerarsi segreti aziendali proteggibili.
Il testo dell'art. 39 TRIPS - così come l'art. 2 della Direttiva - non contiene alcuna specificazione in merito al rilievo del valore potenziale derivante dalla segretezza dell'informazione[32]. Ciò, tuttavia, secondo l'opinione largamente prevalente, non avrebbe alcun peso poiché nell'ambito della nozione di "valore commerciale" deve a rigore essere ricondotto tanto il valore attuale quanto quello potenziale atteso che quest'ultimo rappresenta pur sempre un valore per il legittimo detentore[33]. Secondo l'interpretazione dominante, pertanto, i segreti commerciali provvisti di valore economico potenziale sono parimenti oggetto di protezione ai sensi dell'art. 39.2 TRIPS[34].
Da quanto detto discende che l'interpretazione preferibile dell'art. 2 par. 1, n.1, lett. b) include anche il valore "potenziale" delle informazioni detenute in regime di segreto. Altro logico corollario è che il legislatore italiano non è tenuto a modificare il dettato dell'art. 98, lett. b) onde inserire la precisazione che il "valore economico" derivante dalla segretezza delle informazioni in questione possa essere attuale o potenziale.
Può semmai osservarsi come l'interpretazione amplissima fin qui offerta del termine "information" di cui all'art. 39 TRIPS e le indicazioni provenienti dai considerando della Direttiva in merito alla portata dell'art. 2, n. 1, invitano ad indagare la proteggibilità come segreti aziendali delle informazioni negativeriguardanti, ad esempio, il difettoso (o mancato) funzionamento di determinati metodi industriali o commerciali, giacché anche dette informazioni sono provviste di un (a volte notevole) valore commerciale[35]. Trattasi peraltro di uno dei punti maggiormente controversi, soprattutto in ragione del difficile coordinamento con il confliggente principio della libera mobilità dei lavoratori e della libera utilizzabilità da parte di questi ultimi dell'esperienza e delle capacità acquisite nel corso della loro attività lavorativa[36]. La questione è assai complessa e, dati i limiti del presente contributo, non può essere ulteriormente indagata[37].
Altro delicato profilo è costituito dall'interpretazione uniforme dell'art. 2, n. 1, lett. c) della Direttiva che corrisponde testualmente al requisito di cui all'art. 98, lett. c) c.p.i. Ambedue le disposizioni esigono che le informazioni «siano sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete».
Il problema, nell'ordinamento italiano, ha avuto modo di emergere in merito alla protezione delle liste della clientela. Tali dati, infatti, non sono «nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi generalmente not[i] o facilmente accessibili agli esperti ed agli operatori del settore» allorquando non si limitino ad un mero elenco ma siano corredate da informazioni aggiuntive rilevanti[38]. Il vantaggio competitivo di dette informazioni, peraltro, è altrettanto evidente ed è destinato a permanere solo a condizione che detti dati rimangano confidenziali, di guisa che, in linea di principio, anche il requisito di cui alla lett. b) dell'art. 98 c.p.i. è di solito presente. Il problema interpretativo, in questi casi, concerne, come annunciato, l'individuazione delle misure necessarie ad integrare il requisitosub lett. c) dell'art. 98 c.p.i.
Secondo una giurisprudenza formatasi nel vigore della disciplina italiana anteriore all'adeguamento ai TRIPS, detti dati sono, per loro natura, riservati e non è necessaria la prova dell'adozione di misure specifiche a protezione della loro segretezza[39]. Questa giurisprudenza, tuttavia, secondo una parte della dottrina, dovrebbe ritenersi superata a seguito dell'introduzione della nozione corrispondente all'art. 39 TRIPS all'interno dell'ordinamento italiano[40]. In questa sede può senz'altro ricordarsi come l'apprezzamento della ragionevole adeguatezza delle misure (atte a mantenere la riservatezza dei dati) presenta notevoli margini di elasticità e dipende dalle specificità del fatto concreto, tenuto conto del settore, dell'evoluzione tecnologica dei mezzi tecnici di protezione nonché del costo delle misure tecnicamente possibili in relazione alla loro efficacia e al valore delle informazioni da proteggere[41].
Tenendo a mente, tuttavia, che il requisito di cui all'art. 2, n. 1, lett. c) così come dell'art. 98 lett. c) c.p.i. è volto a rendere percepibile il vincolo di segretezza all'esterno come all'interno dell'organizzazione aziendale, tenendo altresì presente che, sia pure in altro luogo e per altri fini, il considerando n. 23 richiama il «dovere di diligenza» che «i legittimi detentori dei segreti commerciali» dovrebbero esercitare avuto riguardo «alla tutela della riservatezza dei loro preziosi segreti commerciali e il controllo del loro utilizzo», sembra ragionevole concludere per la necessaria adozione da parte del legittimo detentore delle liste dei clienti, di misure atte a preservare la segretezza delle medesime; dette misure dovrebbero quantomeno consistere nell'esplicita indicazione della condizione di riservatezza di detti dati nonché nella limitazione dell'accesso a dette informazioni al solo personale che ha necessità di utilizzare tali dati ai fini dello svolgimento della mansione lavorativa assegnata[42].
Altro profilo sul quale è ragionevole attendere interventi interpretativi da parte della Corte di giustizia riguarda il requisito di cui all'art. 2, n. 1, lett. a) corrispondente, anche testualmente, all'art. 98, lett. a) c.p.i.
Dal contesto dell'art. 39 TRIPS, così come dal sistema della Direttiva, emerge in modo pacifico che la facile accessibilità ai dati cui si richiamano detti testi normativi debba avvenire a seguito dell'impiego di mezzi leciti di accesso[43]. Di qui, pertanto, la necessità della lettura congiunta di tale requisito con gli Artt. 3 e 4 della Direttiva, ad esempio, in tema di osservazione, analisi scompositiva ereverse engineering.
Controversa è, tuttavia, l'interpretazione del requisito che esige che le informazioni non debbano essere "generalmente note". Secondo una lettura oltremodo estensiva, formatasi sul testo dell'art. 39.2 TRIPS, le informazioni non sono generalmente note fino a quando sussista anche solo un concorrente che ne sia privo[44]. Altri, tuttavia, adottano un'interpretazione più restrittiva e suggeriscono una valutazione caso per caso che tenga in considerazione la crescente riduzione del vantaggio competitivo per il legittimo detentore a misura che altri concorrenti (in modo indipendente o comunque lecito) vengano a detenere il medesimo bagaglio informativo [45].
L'art. 3, par. 1, della Direttiva stabilisce, mediante norme di armonizzazione massima, quali siano i mezzi di acquisizione dei segreti commerciali che devono senz'altro essere considerati leciti. Ai sensi della Direttiva costituiscono mezzi leciti di acquisizione la «scoperta o creazione indipendente» nonché l'«osservazione», lo «studio», lo «smontaggio o prova di un prodotto o di un oggetto messo a disposizione del pubblico o lecitamente in possesso del soggetto che acquisisce le informazioni, il quale è libero da qualsiasi obbligo giuridicamente valido di imporre restrizioni all'acquisizione del segreto commerciale» oltre, naturalmente, a «qualsiasi altra pratica che, secondo le circostanze, è conforme a leali pratiche commerciali».
Le suddette norme, pertanto, in linea di principio ammettono ilreverse engineeringcome mezzo lecito di acquisizione di segreti commerciali. Ciò peraltro non significa che i segreti lecitamente acquisiti mediante analisi scompositiva oreverse engineeringpossano parimenti essere utilizzati o divulgati liberamente. La libertà di utilizzo e di divulgazione può, in linea di massima, essere affermata rispetto ai terzi che abbiano in tal modo acquisito i segreti commerciali di un concorrente [arg.exart. 4, par. 3, lett. a)] e coloro cui i primi abbiano comunicato le informazioni suddette; qualora si tratti, invece, di soggetto legato da un rapporto contrattuale con il legittimo detentore dei segreti, quest'ultimo può senz'altro imporre al primo limiti di utilizzo e di divulgazione dei segreti pur legittimamente acquisiti, ad esempio, in virtù di un contratto di licenza [arg. exart. 4, par. 3, lett. b) e c)].
Occorre inoltre osservare che le disposizioni di cui all'art. 3, par. 1, lett. b) stabiliscono la liceità del reverse engineeringcome mezzo di acquisizione dei segreti commerciali solo se il soggetto che acquisisce in tal modo le informazioni «è libero da qualsiasi obbligo giuridicamente valido [che] impo[ne] restrizioni all'acquisizione del segreto commerciale». Anche in tal caso il pensiero corre ai contratti di licenza. La dottrina che ha avuto modo di occuparsi delle disposizioni in questione ha rimarcato come la Direttiva non stabilisca limiti di validità di siffatti accordi né criteri alla stregua dei quali valutarne la liceità[46]. Consegue che uno dei temi maggiormente controversi, e per i quali sarebbe stato oltremodo utile un intervento di armonizzazione, è interamente consegnato ai diritti nazionali salvo che si tratti di accordi contrattuali che limitano la concorrenza in modo contrario alle disposizioni del TFUE[47].
L'art. 3 par. 1 prevede inoltre che fra i mezzi di acquisto leciti vi sia l'«esercizio del diritto all'informazione e alla consultazione da parte di lavoratori o rappresentanti dei lavoratori, in conformità del diritto e delle prassi dell'Unione e nazionali». Per quanto si dirà appresso, tuttavia, non può non osservarsi come la collocazione più consona di tale fattispecie è all'interno del par. 2 dell'art. 3 della Direttiva il quale a sua volta dispone, mediante norme di armonizzazione massima, che «l'acquisizione, l'utilizzo o la divulgazione di un segreto commerciale sono da considerarsi leciti nella misura in cui siano richiesti o autorizzati dal diritto dell'Unione o dal diritto nazionale»[48].
La formulazione testuale di queste ultime disposizioni rende evidente come esse istituiscano un rinvio "mobile" alla normativa nazionale o comunitaria che, di volta in volta, stabilisce fattispecie di acquisto, uso e divulgazione leciti di informazioni detenute in regime di segreto.
Alcune esemplificazioni sono contenute nei considerando n. 18, 19 e 20: da essi si evince che dette ipotesi di acquisizione, utilizzo e divulgazione sono imposte od autorizzate da norme del diritto nazionale (o dell'Unione) in vista di interessi pubblici considerati preminenti[49]. L'art. 3, par. 2 della Direttiva, tuttavia, acquisisce contorni ancor più precisi se letto unitamente a quanto disposto dall'art. 1, par. 2 della Direttiva, che ha l'obiettivo di stabilire determinati limiti di operatività alle norme da essa fissate, le quali, pertanto, «non» possono «pregiudica[re]: a) l'esercizio del diritto alla libertà di espressione e d'informazione sancito dalla Carta, compreso il rispetto della libertà e del pluralismo dei media; b) l'applicazione delle norme dell'Unione o nazionali che impongono al detentore del segreto commerciale di rivelare, per motivi di interesse pubblico, informazioni, compresi segreti commerciali, alle autorità pubbliche o amministrative o giudiziarie nell'espletamento delle loro funzioni; c) l'applicazione delle norme dell'Unione o nazionali che impongono o consentono alle istituzioni e agli organi dell'Unione o alle autorità pubbliche nazionali di divulgare informazioni fornite da imprese di cui tali istituzioni, organi o autorità dispongono in conformità e nel rispetto degli obblighi e delle prerogative stabiliti nel diritto dell'Unione o nel diritto nazionale; d) l'autonomia delle parti sociali e il loro diritto a stipulare contratti collettivi in conformità del diritto e delle prassi dell'Unione e nazionali».
A sua volta, sotto il profilo processuale, siffatte disposizioni sono confermate dall'art. 5 della Direttiva che - sulla scorta di norme di armonizzazione massima - impone alle autorità giudiziarie di respingere la richiesta di tutela dell'attore «qualora la presunta acquisizione, il presunto utilizzo o la presunta divulgazione del segreto commerciale siano avvenuti in uno dei casi seguenti: a) nell'esercizio del diritto alla libertà di espressione e d'informazione come previsto dalla Carta, compreso il rispetto della libertà e del pluralismo dei media; b) per rivelare una condotta scorretta, un'irregolarità o un'attività illecita, a condizione che il convenuto abbia agito per proteggere l'interesse pubblico generale; c) con la divulgazione dai lavoratori ai loro rappresentanti nell'ambito del legittimo esercizio delle funzioni di questi ultimi, conformemente al diritto dell'Unione o al diritto nazionale, a condizione che la divulgazione fosse necessaria per tale esercizio; d) al fine di tutelare un legittimo interesse riconosciuto dal diritto dell'Unione o dal diritto nazionale».
Gli Artt. 1, par. 3, 3, par. 2 e 5 della Direttiva costituiscono pertanto un microsistema di norme di armonizzazione massima che punta a rafforzare la posizione di chi - pubblica autorità o privato cittadino - svolga attività di primario interesse che secondo il diritto nazionale o dell'Unione debba essere tutelato contro le azioni che il legittimo detentore di segreti industriali possa intentare. L'art. 5, anzi, specifica come la sussistenza dell'interesse pubblico all'acquisizione, utilizzazione o divulgazione delle informazioni costituisca questione preliminare rispetto all'esame circa la sussistenza di un segreto industriale. Al ricorrere delle condizioni stabilite dall'art. 5 la domanda di tutela dell'attore è respinta a prescindere dall'esistenza o meno di segreti industriali.
A mente dell'art. 3, par. 2, pertanto, la Direttiva, per un verso, consente agli Stati membri un consistente spazio di manovra nel regolare il dosaggio ottimale tra protezione dei segreti commerciali ed esercizio di pubblici poteri finalizzati al soddisfacimento di rilevanti interessi pubblici e, per altro verso, sgombra ogni possibile dubbio in merito alla prevalenza, in caso di conflitto con la protezione dei segreti commerciali, dell'esercizio della libertà di espressione e di informazione, dell'attività diwhistleblowing, dell'esercizio efficace degli strumenti di rappresentanza collettiva degli interessi dei lavoratori. Anche in questi ultimi casi, peraltro, la prevalenza non è assoluta ma sussiste solo al ricorrere di un preminente interesse pubblico che punti, ad esempio, alla scoperta ed alla punizione di irregolarità amministrative o penali oppure alla diffusione di fatti di preminente interesse per il pubblico.
Volgendo lo sguardo al diritto italiano, può dirsi che l'adeguamento dell'ordinamento interno all'art. 3 della Direttiva non necessita interventi normativi specifici poiché il tenore testuale dell'art. 99 c.p.i. è già conforme alle indicazioni della Direttiva in quanto in linea con il dettato dell'art. 39 TRIPS.
Così non era all'indomani dell'introduzione del codice di proprietà industriale che sembrava tutelare i segreti commerciali quale che fosse il mezzo di acquisizione dei medesimi, apprestando in tal senso una tutela "reale" simile a quella prevista per i trovati brevettabili[50]. Alcuni autori avevano segnalato l'incostituzionalità delle disposizioni allora recate dall'art. 99 c.p.i. per eccesso di delega[51]. Altri avevano proposto letture correttive fondate ora su una interpretazione conforme alla normativa internazionale[52] ora sull'applicazione delle norme concernenti l'acquisto di buona fede di cose mobili[53]. Il decreto legislativo 13 agosto 2010, n. 131 recante «modifiche al decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30», all'art. 48, ha infine provveduto a conformare il dettato dell'art. 99 c.p.i. alle indicazioni provenienti dall'art. 39 TRIPS.
Ai sensi dell'art. 99 c.p.i. nella formulazione attuale, «il legittimo detentore delle informazioni e delle esperienze aziendali di cui all'art. 98, ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di acquisire, rivelare a terzi od utilizzare, in modo abusivo, tali informazioni ed esperienze, salvo il caso in cui esse siano state conseguite in modo indipendente dal terzo». Benché la formulazione letterale non sia delle migliori[54], gli interpreti sono concordi nel ritenere che fra le ipotesi di conseguimento indipendente debba essere ricondotta anche quella avvenuta a seguito di analisi scompositiva del prodotto o reverse engineering[55]. Rimane fermo, tuttavia, che se l'osservazione, l'analisi chimica o l'esame scompositivo di prodotti meccanici siano agevoli per «gli esperti o gli operatori del settore», non sussista a rigore un segreto proteggibile in quanto siffatte informazioni sarebbero «facilmente accessibili» alle «persone che normalmente si occupano del tipo di informazioni in questione» [arg. ex art. 2, par. 1, n. 1, lett. c) della Direttiva][56].
Secondo l'interpretazione prevalente, inoltre, la locuzione «in modo abusivo» recata dall'art. 99 c.p.i. deve essere interpretata alla luce dell'art. 39 TRIPS atteso che, come esplicitato dalla relazione introduttiva al decreto correttivo n. 131/2010, quest'ultimo intervento normativo ha avuto l'obiettivo di rendere conforme l'ordinamento italiano alla disciplina TRIPS[57]. Consegue che «in modo abusivo» sia espressione equivalente a «in modo contrario a leali pratiche commerciali» di cui all'art. 39 TRIPS[58]. La Direttiva semmai si presta a rafforzare tale interpretazione contenendo essa agli Artt. 3 e 4 un espresso riferimento alle «leali pratiche commerciali»[59].
Quanto alle disposizioni contenute all'art. 3, par. 2 della Direttiva, esse, a ben vedere, sanciscono la salvezza delle pertinenti norme nazionali e delle altre normative europee che consentono o impongono l'acquisizione, l'utilizzo o la divulgazione di segreti commerciali (in vista del perseguimenti di finalità di interesse pubblico). Deve pertanto dedursi che non sia necessaria una specifica normativa di recepimento da parte degli Stati membri.
Gli Artt. 1, par. 3 e 5 della Direttiva, inoltre, cristallizzano la prevalenza di taluni diritti ed interessi pubblici, al ricorrere di determinate condizioni, sulla protezione dei segreti industriali. Anche in tal caso, se non ci si inganna, la Direttiva impone un bilanciamento di interessi che deve essere più propriamente operato in sede interpretativa da parte dei giudici degli Stati membri.
Che non occorra un apposito provvedimento legislativo di recepimento emerge altresì dalla circostanza che l'art. 1, par. 3 della Direttiva punta a precisare come le norme dalla stessa recate non possano "pregiudicare" i diritti fondamentali di rango primario e gli interessi pubblici ivi elencati. Dette disposizioni non erano originariamente presenti nel testo della proposta di Direttiva ma, anche a seguito delle preoccupazioni emerse nel corso delle consultazioni pubbliche, sono state successivamente inserite ad opera del Parlamento europeo al fine di rispondere alle critiche provenienti dagli organi di stampa circa il rischio che la protezione "rafforzata" dei segreti industriali potesse pregiudicare, fra l'altro, il giornalismo d'inchiesta e scoraggiare le denunce di irregolarità alle pubbliche autorità. A ben vedere, tuttavia, la prevalenza degli interessi pubblici e delle libertà fondamentali appare patrimonio comune alla luce della normativa di rango costituzionale degli Stati membri e della Carta europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. A rigore, quindi, la normativa italiana di recepimento dell'art. 1, par. 3 della Direttiva esiste già ed è rinvenibile all'interno delle disposizioni costituzionali così come interpretate dal nostro giudice delle leggi.
L'art. 5 della Direttiva, d'altro canto, costituisce la proiezione processuale delle norme di cui agli artt. 1, par. 3 e 3, par. 2 della Direttiva, stabilendo, sul piano processuale, che la questione agitata dal convenuto che opponga l'esercizio di diritti fondamentali o l'esercizio di pubblici poteri, costituisca questione preliminare di merito rispetto all'accertamento della sussistenza e della violazione del segreto.
L'art. 4 della Direttiva si occupa di individuare i mezzi illeciti di acquisizione, utilizzo e divulgazione di segreti commerciali. Le disposizioni in esso contenute devono peraltro essere lette congiuntamente a quelle recate dall'art. 3 della Direttiva.
L'art. 4, par. 2 delimita le ipotesi di acquisizione illecita di segreti commerciali. Esso stabilisce che «[l]'acquisizione di un segreto commerciale senza il consenso del detentore è da considerarsi illecita qualora compiuta in uno dei seguenti modi: a) con l'accesso non autorizzato, l'appropriazione o la copia non autorizzate di documenti, oggetti, materiali, sostanze o file elettronici sottoposti al lecito controllo del detentore del segreto commerciale, che contengono il segreto commerciale o dai quali il segreto commerciale può essere desunto; b) con qualsiasi altra condotta che, secondo le circostanze, è considerata contraria a leali pratiche commerciali».
Inizialmente il par. 1 dell'attuale art. 4 (art. 3 nella Proposta di Direttiva) faceva riferimento ad attività, quelle di «furto» e «corruzione», che non hanno il medesimo significato secondo la legge penale di ciascuno Stato membro e, per tale ragione, è stato alla fine preferito l'impiego di una terminologia più neutra all'interno della quale rientra certamente l'attività di spionaggio industriale[60]. Alla luce dell'art. 3, par. 1, inoltre, l'analisi chimica, l'esame scompositivo e ilreverse engineering non possono considerarsi mezzi di acquisizione di segreti commerciali contrari «a leali pratiche commerciali» ai sensi della lett. b) del par. 2 dell'art. 4 della Direttiva.
L'art. 4, par. 3 stabilisce che «[l]'utilizzo o la divulgazione di un segreto commerciale sono da considerarsi illeciti se posti in essere senza il consenso del detentore del segreto commerciale da una persona che soddisfa una delle seguenti condizioni: a) ha acquisito il segreto commerciale illecitamente; b) viola un accordo di riservatezza o qualsiasi altro obbligo di non divulgare il segreto commerciale; c) viola un obbligo contrattuale o di altra natura che impone limiti all'utilizzo del segreto commerciale».
A tal proposito può senz'altro affermarsi che l'esistenza e/o la validità di accordi di riservatezza, obblighi di non divulgazione, così come di obblighi contrattuali o di altra natura che limitino l'utilizzo del segreto commerciale sono soggetti alla normativa nazionale pertinente che regola la materia contrattuale o lavoristica[61]. Logico corollario è che nessun intervento interpretativo della Corte di giustizia può spingersi fino a delineare il contenuto minimo degli obblighi, contrattuali e non, la cui violazione comporta la violazione dei diritti spettanti al legittimo detentore dei segreti commerciali. Trattasi, come detto, di materia interamente devoluta agli ordinamenti nazionali.
Ciò posto, tuttavia, deve ancora considerarsi la portata dell'art. 1, par. 3 della Direttiva, a mente della quale «[n]essuna disposizione della presente direttiva è da intendersi come giustificazione per limitare la mobilità dei dipendenti. In particolare, in relazione all'esercizio di tale mobilità, la presente direttiva non offre giustificazioni per: a) limitare l'utilizzo, da parte dei dipendenti, di informazioni che non costituiscono un segreto commerciale quale definito all'articolo 2, punto 1); b) limitare l'utilizzo, da parte dei dipendenti, di esperienze e competenze acquisite in maniera onesta nel normale svolgimento del loro lavoro; c) imporre ai dipendenti, nei loro contratti di lavoro, restrizioni aggiuntive rispetto a quelle imposte a norma del diritto dell'Unione o del diritto nazionale».
A ben vedere, la lett a) dell'art. 1, par 3 si limita a ribadire l'ovvio. L'art. 1, par. 3 lett. c), d'altronde, non incide sulle normative giuslavoristiche in vigore nei diversi Stati membri, limitandosi a stabilire che la Direttiva non impone "restrizioni aggiuntive" rispetto a quelle già vigenti. La disposizione più significativa sembra essere quella di cui alla lett. b) dell'art. 1, par. 3, la quale esprime la regola (anch'essa di contenuto negativo) in base alla quale la Direttiva «non offre giustificazioni per … limitare l'utilizzo, da parte dei dipendenti, di esperienze e competenze acquisite in maniera onesta nel normale svolgimento del loro lavoro". Se non ci si inganna, tuttavia, da tale disposizione può evincersi un vincolo interpretativo per le autorità giudiziarie operanti all'interno dei diversi ordinamenti domestici consistente nella libera utilizzabilità "da parte dei dipendenti, di esperienze e competenze acquisite in maniera onesta nel normale svolgimento del loro lavoro». La condizione per la liceità dell'utilizzo di tali esperienze e competenze è peraltro legata all'acquisizione delle stesse in maniera legittima e, pertanto, nel rispetto del dettato dell'art. 4, par. 2 della Direttiva.
Fin qui, tuttavia, l'ordinamento italiano è certamente conforme a quanto richiesto dai parr. 2 e 3 della Direttiva. Maggiormente delicata appare, invece, come si avrà modo di appurare, la valutazione della conformità dell'ordinamento italiano a quanto disposto dai successivi paragrafi del medesimo articolo della Direttiva.
I parr. 4 e 5 dell'art. 4 della Direttiva estendono la portata soggettiva dei potenziali legittimati passivi oltre la cerchia di coloro che hanno violato obblighi legali o contrattuali di acquisizione, utilizzo o divulgazione di segreti. Ai sensi del par. 4 dell'art. 4, «[l]'acquisizione, l'utilizzo o la divulgazione di un segreto commerciale si considerano altresì illeciti qualora un soggetto, al momento dell'acquisizione, dell'utilizzo o della divulgazione, fosse a conoscenza o, secondo le circostanze, avrebbe dovuto essere a conoscenza del fatto che il segreto commerciale era stato ottenuto direttamente o indirettamente da un terzo che illecitamente lo utilizzava o lo divulgava ai sensi del paragrafo 3». Il par. 5 dell'art. 4 inoltre aggiunge che «la produzione, l'offerta o la commercializzazione di merci costituenti violazione oppure l'importazione, l'esportazione o lo stoccaggio di merci costituenti violazione a tali fini si considerano un utilizzo illecito di un segreto commerciale anche quando il soggetto che svolgeva tali attività era a conoscenza o, secondo le circostanze, avrebbe dovuto essere a conoscenza del fatto che il segreto commerciale era stato utilizzato illecitamente ai sensi del paragrafo 3».
Dette disposizioni sono certamente più severe rispetto a quanto imposto dalla nota 10 all'art. 39 TRIPS, secondo la quale la contrarietà alle leali pratiche commerciali «comprende l'acquisizione di informazioni segrete da parte di terzi che sapevano, o sono stati gravemente negligenti nel non sapere, che l'acquisizione implicava tali pratiche». Anzitutto, infatti, nel corpo dei parr. 4 e 5 dell'art. 4 non si richiede che la negligenza sia «grave». Consegue che anche una negligenza lieve è sufficiente ad attivare la tutela prevista dalla Direttiva. Si precisa, inoltre, che la conoscenza o la negligenza rilevante sia quella risalente al momento «dell'acquisizione, dell'utilizzo o della divulgazione» ma anche della «produzione», «offerta», «commercializzazione di merci costituenti violazione oppure» della «importazione», «esportazione», «stoccaggio di merci costituenti violazione a tali fini». Queste ultime condotte, infatti, compresa l'«esportazione», costituiscono violazione dei diritti del legittimo detentore dei segreti, a differenza di quanto indicato dalla nota 10 dell'art. 39 TRIPS, ove si menziona solo l'acquisizione. A ben vedere, tuttavia, anche alla stregua dell'art. 39 TRIPS, l'utilizzo o la divulgazione conseguenti ad una acquisizione illecita non possono che ritenersi parimenti illeciti. La nozione di utilizzo, inoltre, può essere intesa in senso ampio fino a comprendere la produzione, offerta, commercializzazione di merci che utilizzano segreti industriali, come pure l'importazione, l'esportazione e lo stoccaggio a tali fini.
Ai sensi della Direttiva, ma non dell'art. 39 TRIPS, è inoltre rilevante l'ottenimento del segreto avvenuto «direttamente o indirettamente» da un terzo che illecitamente li utilizzava o li divulgava[62].
Le disposizioni della Direttiva, tuttavia, per certi versi si prestano a specificare e cristallizzare in norme specifiche quanto emerge dalla Risoluzione del Comitato esecutivo dell'AIPPI del giugno 1994 a Copenhagen in merito alla protezione efficace contro la concorrenza sleale ai sensi dell'art. 10bisdella Convenzione dell'Unione di Parigi ove non si rinviene alcun riferimento alla negligenza "grave". La Risoluzione, infatti, stabilisce che costituisce un atto di concorrenza sleale «the use or disclosure of a trade secret whithout consent of its proprietor, which was received from a person to whom it was entrusted or who obtained it improperly, if the user knew or should have been aware of this fact»[63]. Tale posizione è stata successivamente ribadita dal Comitato esecutivo dell'AIPPI nel 2010[64]. Tali prese di posizione, pur non essendo vincolanti, esprimono il consenso raggiunto a livello internazionale dagli studiosi della materia in merito all'interpretazione delle disposizioni di cui all'art. 10bis della Convenzione. Esse, pertanto, per quanto qui interessa, rispecchiano l'interpretazione preferibile in merito agli atti illeciti di acquisizione, utilizzo, divulgazione di segreti commerciali da parte di terzi che non hanno rapporti di alcun tipo con il legittimo detentore dei segreti commerciali.
Se così è, pertanto, la legislazione italiana deve senz'altro reputarsi conforme a quanto previsto dalla Direttiva, dal momento che l'art. 99 c.p.i. sancisce, come detto, il diritto del legittimo detentore «di vietare a terzi, salvo proprio consenso, di acquisire, rivelare a terzi od utilizzare, in modo abusivo» i segreti commerciali sotto il suo controllo. In questo quadro si inserisce l'ottenimento di provvedimenti inibitori, anche in via cautelare, che vietino «produzione», «offerta», «commercializzazione di merci costituenti violazione oppure … importazione», «esportazione», «stoccaggio di merci costituenti violazione a tali fini» purché si accerti che «il soggetto che svolgeva tali attività era a conoscenza o, secondo le circostanze, avrebbe dovuto essere a conoscenza del fatto che il segreto commerciale era stato utilizzato illecitamente».
La conformità dell'ordinamento italiano alle disposizioni recate dai parr. 4 e 5 dell'art. 4 della Direttiva si apprezza anche sotto il profilo del vincolo dell'interpretazione filocomunitaria delle disposizioni domestiche in virtù del quale, come noto, il giudice nazionale, fra le diverse possibili interpretazioni della disposizione interna, deve scegliere quella maggiormente conforme alla normativa comunitaria. L'art. 99 c.p.i., in virtù della sua laconicità, ben si presta ad essere interpretato in modo conforme al dettato dell'art. 4 della Direttiva nella sua interezza.
La Direttiva sui segreti commerciali, al capo III, presenta disposizioni su «misure, procedure e strumenti di tutela» che in molti casi (ma, come si vedrà, non in tutti) ricalcano quelle recate dalla Direttiva 2004/48/CE (di qui in avanti anche "DirettivaEnforcement")in materia di protezione dei diritti di proprietà intellettuale.
Come noto, tuttavia, secondo interpretazione ricevuta, una tale convergenza non è imposta dall'adesione all'Accordo TRIPS[65]. L'art. 39 TRIPS prevede infatti che i segreti commerciali debbano essere tutelati «in the course of ensuring effective protection against unfair competition as provided in art. 10bis of the Paris Convention (1967)». In tal senso, pertanto, gli Stati partecipanti all'Accordo hanno assunto l'obbligo di prestare una tutela efficace dei segreti commerciali nel quadro della protezione contro gli atti di concorrenza sleale di cui all'art. 10bis della Convenzione dell'Unione di Parigi[66]; essi, viceversa, non si sono obbligati all'applicazione della normativa in materia di enforcement prevista agli Artt. 41 e ss. TRIPS anche in merito alla protezione dei segreti commerciali[67]. Anche recenti Accordi definiti TRIPS-plus come il TTP o, ancora, gli Accordi DCFTA (Deep and Comprehensive Free Trade Area) stipulati con l'Unione Europea, confermano una sostanziale separatezza tra l'impianto rimediale previsto per i diritti di proprietà intellettuale, da un lato, e la protezione dei segreti commerciali, dall'altro.
Detto altrimenti, benché ai sensi dell'art. 1 TRIPS i segreti commerciali siano diritti di proprietà intellettuale, gli Stati membri non sono obbligati a tutelare i medesimi comediritti di proprietà intellettuale[68]. È questa la ragione per la quale la tutela dei segreti d'impresa, fatte salve talune eccezioni, è rimasta soggetta alla normativa, dettata in ciascun Paese, in materia di protezione contro gli atti di concorrenza sleale o, più in generale, in materia di responsabilità da atto illecito. E ciò, peraltro, in coerenza con quanto prescritto dall'art. 10ter della Convenzione dell'Unione di Parigi. Di qui la notevole diversità dei regimi di responsabilità derivante dalla sottrazione, utilizzo e divulgazione illeciti di segreti commerciali[69].
Poiché, tuttavia, l'art. 39 TRIPS dispone obblighi minimi, non si ravvisano ostacoli all'applicazione delle norme processuali e rimediali previste per gli altri diritti di proprietà intellettuale anche in funzione della protezione dei segreti industriali. È questa peraltro la scelta effettuata dall'ordinamento italiano sin dall'introduzione del codice della proprietà industriale, successivamente confermata nel corso delle revisioni del medesimo testo legislativo. In tal senso, pertanto, se la Direttiva innalza in modo consistente il livello minimo di protezione dei segreti commerciali attualmente in vigore in diversi Paesi dell'Unione Europea, ciò, tuttavia, non può dirsi avvenga anche per il sistema italiano il quale, invece, con il codice di proprietà industriale, aveva già provveduto ad estendere il sistema di protezione dei diritti di proprietà industriale ai segreti commerciali considerati parte integrante del sistema medesimo in qualità di diritti non titolati di proprietà industriale.
È in questa direzione, peraltro, che le modifiche al codice della proprietà industriale, propiziate dall'entrata in vigore della DirettivaEnforcement, sono divenute, come tali, parimenti applicabili ai fini della protezione dei segreti commerciali. Ciò, oltretutto, non è avvenuto in contrasto con lo spirito della Direttiva 2004/48/CE, la quale, al contrario, al considerando n. 13, prefigura (ed anzi auspica) l'estensione da parte degli Stati membri del campo di applicazione delle norme recate dalla Direttiva medesima a fattispecie tradizionalmente oggetto del divieto di concorrenza sleale.
Un approccio simile è stato altresì seguito da alcuni fra i più significativi Accordi DCFTA (Deep and Comprehensive Free Trade Area) quale quello siglato fra Unione Europea ed Ucraina[70]. Alla stregua di quest'ultimo Accordo, infatti, i segreti commerciali sono citati, accanto alla materia della concorrenza sleale, fra i diritti di proprietà intellettuale (v. art. 158, par. 2 dell'Accordo). Al contempo, ai fini dell'applicabilità delle norme riguardanti misure, procedure e rimedi a tutela dei diritti di proprietà intellettuale, la nota 1 all'art. 230, par. 1, dell'Accordo, stabilisce un elenco minimo e non tassativo di diritti di proprietà intellettuale all'interno del quale non figurano i segreti commerciali. La formulazione della nota, tuttavia, non vieta agli Stati membri l'adozione delle misure, procedure e rimedi previsti dall'Accordo - e che in sostanza ricalcano quelli stabiliti dalla Direttiva Enforcement - anche in funzione della protezione dei segreti commerciali. Il tenore di quest'ultima disposizione segnala anzi l'apertura verso un ampliamento del novero dei diritti (di proprietà intellettuale) soggetti alle norme di enforcement previste dall'Accordo[71].
L'orientamento di fondo della normativa internazionale e comunitaria non è messo in discussione dalle considerazioni espresse dalla Relazione di accompagnamento alla proposta di Direttiva[72] e dalla Valutazione di Impatto[73]. A ben vedere, infatti, quanto esposto in detti documenti, e confermato dai considerando n. 10 della Direttiva medesima, si colloca su un diverso livello e non incide sulla legittimità dell'opzione del sistema italiano in tema di protezione dei segreti commerciali.
Ciò che tali documenti si premurano di precisare è che la protezione dei segreti commerciali stabilita dalla Direttiva non intende creare alcun "diritto esclusivo", concernendo disposizioni pur sempre riconducibili alla repressione della concorrenza sleale[74]. Secondo la Commissione, infatti, la creazione di diritti esclusivi in materia di segreti commerciali rischia di incidere negativamente sul funzionamento del mercato interno[75]. Da ciò discende, inoltre, sempre ad avviso della Commissione, che gli atti di acquisizione, utilizzo e divulgazione illeciti di segreti commerciali, ai fini della determinazione della giurisdizione e della legge applicabile, debbono essere considerati come atti di concorrenza sleale[76].
Da quanto esposto emerge, pertanto, come la protezione dei segreti commerciali mediante l'applicazione delle misure, delle procedure e dei rimedi applicabili per gli altri diritti di proprietà intellettuale è in linea, non solo con i vincoli derivanti dall'ordinamento internazionale di protezione dei diritti di proprietà intellettuale, ma, al contempo, con i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario. Logico corollario di ciò è che non occorre che l'ordinamento italiano recepisca le disposizioni della Direttiva mediante una legge appositamente dedicata alla protezione dei segreti commerciali ma, al più, ove necessario, per mezzo delle opportune modifiche alle regole già contenute nel codice della proprietà industriale.
Ciò posto, taluni profili meritano di essere attentamente vagliati nella prospettiva dell'attuazione della Direttiva sui segreti commerciali nell'ordinamento italiano.
Come avrà modo di osservarsi, infatti, la Direttiva sui segreti commerciali in diversi punti si discosta dalle disposizioni recate dalla DirettivaEnforcemente dall'Accordo TRIPS. Detto disallineamento avviene in una triplice direzione: a) per un verso, ed in primo luogo, la Direttiva sui segreti commerciali prevede disposizioni normative peculiari, non contenute nella DirettivaEnforcementné, invero, (se non in alcuni casi mediante norme di principio) nell'Accordo TRIPS; b) allo stesso tempo, ed in secondo luogo, la Direttiva in discorso impone talune regole la cui adozione è, invece, semplicemente consentita dalla normativa TRIPS e dalla DirettivaEnforcement; c) d'altro canto, ed in terzo luogo, diverse disposizioni contenute nell'Accordo TRIPS e, in particolare ma non solo, quelle riguardanti le prove (discovery, descrizione, sequestro), sono riprodotte dalla DirettivaEnforcementma non dalla Direttiva sulla protezione dei segreti d'impresa.
Dal quadro normativo sopra sommariamente tratteggiato emerge la necessità di un'analisi che si prefigga l'obiettivo di verificare, nella triplice direzione indicata, se l'ordinamento italiano sia in linea con l'ordinamento comunitario di protezione dei segreti d'impresa e, qualora così non fosse, individuare i punti di contrasto proponendo i necessari adeguamenti all'interno della disciplina recata dal codice di proprietà industriale. Per far ciò è peraltro indispensabile il reperimento di criteri ordinanti che consentano di svolgere siffatta operazione.
A tal proposito può anzitutto dirsi che, sia pur per ragioni opposte, le disposizioni classificabilisuba) e c) non pongono particolari problemi per l'ordinamento italiano. Le disposizioni della Direttivasuba), infatti, purché non contrastino con le norme o gli obiettivi di fondo della DirettivaEnforcemente della normativa TRIPS, devono essere senz'altro trasposte nell'ordinamento italiano. Le disposizionisubc), invece, sono già presenti nell'ordinamento italiano in attuazione dell'Accordo TRIPS e/o della DirettivaEnforcemente, nella misura in cui non contrastino con le norme o gli obiettivi di fondo della Direttiva sui segreti commerciali, possono legittimamente rimanere in vigore.
È la serie di disposizioni subb) a porre la questione dell'adeguamento dell'ordinamento italiano al dettato della Direttiva, tenuto conto che il sistema domestico tutela i segreti d'impresa apprestando le stesse misure, procedure e rimedi posti a protezione degli altri diritti di proprietà industriale, nel solco della Direttiva Enforcemente della normativa TRIPS. Il problema riguarda segnatamente alcune disposizioni in tema di misure alternative (alle misure cautelari o definitive): la possibilità per le autorità giudiziarie dello Stato membro di disporre misure alternative a quelle cautelari o correttive è oggetto di una semplice "facoltà" nell'ambito della Direttiva Enforcement(e della normativa TRIPS), non così nell'ambito della Direttiva sui segreti commerciali, ove ciascuno Stato membro è soggetto ad un vero e proprio "obbligo" in tal senso, mercé l'impiego della tecnica dell'armonizzazione massima prevista per le disposizioni in questione. Trattasi, a ben vedere, di norme giuridiche - quelle contenute dalla Direttiva sui segreti commerciali e quelle previste dalla Direttiva Enforcement- di pari livello il cui contrasto va risolto mediante l'impiego dei criteri cronologico e di specialità. Alla stregua dell'operare congiunto di ambedue i criteri, peraltro, va senz'altro assegnata prevalenza alle disposizioni della Direttiva limitatamente alla materia della protezione dei segreti commerciali. Di qui la necessità dell'ordinamento italiano di prestare attuazione a queste ultime, opportunamente modificando le disposizioni interne che siano incompatibili[77].
I due criteri sopra enunciati, tuttavia, non potrebbero entrare in gioco nel caso in cui l'ordinamento italiano fosse obbligato a dare attuazione alla confliggente normativa TRIPS. È sicuro, infatti, così come riconosciuto dalla medesima Direttiva al considerando n. 5, che i vincoli discendenti dalla normativa TRIPS debbano essere rispettati tanto dagli Stati membri quanto dall'Unione Europea.
L'esistenza di detto contrasto, tuttavia, è recisamente da escludere per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, come già ricordato, dai TRIPS non discende alcun obbligo di tutelare i segreti commerciali come diritti di proprietà intellettuale: la scelta in tal senso operata dall'Italia non è in alcun modo necessitata sul piano del diritto internazionale. In secondo luogo, anche ipotizzando che la disciplina italiana sia internazionalmente vincolata, non sussisterebbe alcun contrasto tra disciplina comunitaria e normativa internazionale quanto, piuttosto, tra normativa comunitaria e normativa nazionale, con conseguente prevalenza della prima sulla seconda.
Come sopra ricordato, infatti, la normativa TRIPS rilevante consente alle Parti dell'Accordo di avvalersi di talune opzioni. Qualora l'Unione Europea con una propria Direttiva si avvalga di taluna di dette opzioni, al contempo rendendola vincolante per gli Stati membri, non può dirsi che ciò avvenga in violazione della normativa TRIPS. Oltretutto, purché la normativa comunitaria sia valida e ricada sugli ambiti per i quali l'Unione è legittimata ad intervenire normativamente, sorge senz'altro l'obbligo degli Stati membri di adeguare la propria normativa interna onde rendere quest'ultima compatibile con il dettato comunitario (il quale, a sua volta, come detto, è conforme alla normativa internazionale rilevante).
In merito alle disposizionisubb) si conferma, pertanto, la necessità di adeguare l'ordinamento interno alle disposizioni della Direttiva sui segreti commerciali provvedendo, se del caso, alle opportune modifiche normative.
Nel merito, peraltro, come si avrà modo di verificare, ciò non mette a repentaglio l'impianto di fondo del nostro sistema di enforcementdei segreti commerciali[78] e, semmai, potrebbe fornire lo spunto per modifiche normative di più ampio respiro, potenzialmente estese all'intero sistema dienforcement dei diritti di proprietà industriale. Le disposizioni previste dalla normativa TRIPS in tema di tutela giurisdizionale saranno pertanto citate, non perché vincolanti in materia di protezione di segreti commerciali, bensì nella loro qualità di modello ideale al quale il nostro legislatore ha inteso richiamarsi nella regolamentazione della materia considerata.
Di seguito si accenna anzitutto alle disposizioni precedentemente classificatesubc) per poi offrire l'indicazione delle disposizioni contenute nella Direttiva di protezione dei segreti commerciali che ricadono fra le previsionisuba) e b) e che, pertanto, necessitano di trasposizione nell'ordinamento italiano. Ciascuna delle disposizioni rilevanti sarà fatta oggetto di esame onde proporre le modifiche necessarie o opportune alla luce dei criteri di orientamento sopra tratteggiati.
Come anticipato, molteplici sono le disposizioni e gli istituti afferenti la tutela giurisdizionale disciplinati dal codice di proprietà industriale al capo III i quali, tuttavia, non sono contemplati dal capo III della Direttiva (UE) 2016/943 recante «misure, procedure e strumenti di tutela» contro l'acquisizione, l'utilizzo e la divulgazione illeciti di segreti commerciali. A tal proposito deve rimarcarsi che, se si eccettuano le previsioni normative riguardanti i diritti titolati di proprietà industriale, le rimanenti norme nazionali in materia dienforcementrecate dal codice sono senz'altro applicabili anche ai fini della protezione dei segreti commerciali, contro gli atti abusivi di acquisizione, utilizzo e divulgazione dei medesimi.
Come detto, siffatte disposizioni sono in linea con l'ordinamento comunitario (oltre che con l'ordinamento internazionale rilevante) poiché volte ad attuare una protezione avanzata ed efficace (anche) contro la sottrazione, utilizzo e divulgazione abusivi di segreti commerciali: così, ad esempio, le disposizioni che, anche sulla scorta della normativa TRIPS e della disciplina recata dalla Direttiva Enforcement, prevedono l'ordine del ritiro definitivo dal commercio emesso contro intermediari, parte del giudizio, i cui servizi siano utilizzati per violare un diritto di proprietà industriale (124, primo comma, c.p.i.)[79]; nonché il diritto di informazione (121 bis c.p.i.), ladiscovery(art. 121, commi secondo e secondo bis, c.p.i.), la descrizione ed il sequestro (artt. 129 e 130 c.p.i.) come pure la consulenza tecnica preventiva (art. 128 c.p.i.). Dall'art. 1, par. 1, della Direttiva, infatti, come ricordato, si evince, in linea generale, la facoltà degli Stati membri di stabilire misure, procedure e rimedi più efficaci di quelli previsti dalla Direttiva medesima ai fini della repressione degli atti di acquisizione, utilizzo e divulgazione illeciti di segreti commerciali.
Può semmai osservarsi come l'impiego di strumenti efficaci di raccolta delle prove sia, secondo l'OCSE, uno degli elementi cruciali da considerare nella valutazione dell'effettività della tutela apprestata da ciascun ordinamento contro la sottrazione illecita dei segreti commerciali e, in tale quadro, l'ordinamento italiano certamente si distingue sul piano internazionale[80].
Alla luce di ciò può anzi affermarsi che la scelta, operata a livello comunitario, di lasciar fuori dal campo di applicazione della Direttiva gli aspetti legati all'acquisizione probatoria, non appare soddisfacente sul piano della politica del diritto e non può certo essere giustificata dall'opzione di tutelare i segreti commerciali sul piano della repressione della concorrenza sleale[81]. Come già messo in luce, infatti, le norme della DirettivaEnfocerment risultano potenzialmente applicabili anche ai fini della repressione di atti di concorrenza sleale.
Fra le norme presenti nel codice di proprietà industriale ma non contemplate dalla Direttiva, meritano di essere segnalate quelle recate dall'art. 132, terzo comma, c.p.i. le quali pongono dubbi di compatibilità rispetto al dettato della DisciplinaEnforcement.
Le disposizioni recate da quest'ultimo articolo prevedono, come noto, che il giudizio di merito non debba essere necessariamente promosso dalla parte vittoriosa in sede cautelare se quest'ultima abbia ottenuto «provvedimenti di urgenza emessi ai sensi dell'articolo 700 del codice di procedura civile» e/o «altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito», benché, naturalmente, «ciascuna parte p[ossa] iniziare il giudizio di merito».
Dette disposizioni, come noto, dispongono l'ultrattività delle misure cautelari a carattere anticipatorio e sono particolarmente apprezzate in funzione deflattiva del contenzioso. Rispetto ad esse sono stati sollevati dubbi di compatibilità avuto riguardo al dettato della DirettivaEnforcement(e della normativa TRIPS). Poiché, tuttavia, i segreti commerciali non sono oggetto di tutela alla stregua della DirettivaEnforcemente poiché, peraltro, la tutela dei segreti commercialicomediritti di proprietà industriale non è imposta dalla normativa TRIPS né da altre norme appartenenti all'ordinamento internazionale, la Direttiva sui segreti commerciali non apporta alcun elemento nuovo (né, tantomeno, dirimente) in ordine alla valutazione della compatibilità con l'ordinamento comunitario delle disposizioni nazionali appena ricordate e pertanto la questione non sarà indagata oltre in questa sede. Può soltanto segnalarsi come, pur in presenza di autorevoli voci di dissenso, presso gli interpreti prevalga l'opinione che propende per la conformità al diritto comunitario delle disposizioni nazionali suddette.
Seguendo l'ordine sopra delineato, deve a questo punto darsi conto della presenza nella Direttiva di previsioni normative che danno luogo ad istituti non contemplati dalla Direttiva Enforcement né (o almeno non sulla base di disposizioni dettagliate[82]) dalla normativa TRIPS e che, per conseguenza, non sono presenti nel tessuto normativo dell'ordinamento nazionale. Trattasi, per un verso, delle disposizioni in materia di «riservatezza dei segreti commerciali nel corso dei procedimenti giudiziari» (art. 9 della Direttiva) e, per altro verso, della disciplina in tema di «prescrizione dei diritti e delle azioni per chiedere l'applicazione delle misure, delle procedure e degli strumenti di tutela previsti» dalla "Direttiva" (art. 8 della Direttiva).
Per quanto concerne la normativa in tema di prescrizione dei diritti e delle azioni a tutela dei segreti commerciali, la Direttiva prevede che ciascuno Stato membro debba stabilire il termine iniziale di decorrenza della prescrizione nonché la durata, le cause di interruzione e di sospensione di detto periodo, stabilendo che quest'ultimo non possa comunque essere superiore a sei anni [v. art. 8 (1) e (2) Direttiva]. Trattasi di disposizioni soggette ad armonizzazione massima e come tali insuscettibili di deroghe da parte degli Stati membri in favore degli aventi diritto [v. art. 1 Direttiva].
In origine, peraltro, la Proposta di Direttiva conteneva - sul modello dell'UTSA statunitense - una disciplina ben più stringente di quella attuale, prevedendo un periodo di prescrizione molto più breve e compreso tra uno e due anni dalla data in cui l'avente diritto fosse venuto a conoscenza, o avesse avuto modo di venire a conoscenza, dell'ultimo fatto a base dell'azione. Quest'ultima previsione è stata profondamente modificata fino ad assumere la formulazione attuale[83].
Può peraltro osservarsi come le Direttive comunitarie concernenti diritti di proprietà intellettuale non hanno fin qui inciso sulla disciplina della prescrizione dei diritti[84]. La circostanza dell'assenza di disposizioni in materia di prescrizione all'interno della Direttiva Enforcement non appare casuale e si spiega in ragione della particolare natura della materia regolata che consiglia la presenza di una disciplina della prescrizione che tuteli, in assenza di un titolo di protezione, la certezza dei traffici giuridici. È questa, peraltro, la prospettiva adottata dagli estensori della Direttiva la quale, al considerando n. 23, invoca espressamente l'«interesse della certezza del diritto». I diritti di proprietà industriale "titolati", infatti, godono di un termine di protezione stabilito in via generale dalla legge, scaduto il quale viene meno il regime di esclusiva con conseguente caduta in pubblico dominio dell'invenzione o del trovato. Analogamente i diritti d'autore sorgono con la creazione o comunque con un atto percepibile dal pubblico e la legge stabilisce un termine finale di protezione[85]. Nessun termine finale è previsto per la tutela dei segreti d'impresa i quali rimangono suscettibili di protezione fino a quando essi posseggano i requisiti previsti a tal fine.
In presenza di acquisizione, utilizzazione o rivelazione illeciti, l'avente diritto è pertanto soggetto alle regole in tema di prescrizione dei diritti. Di qui l'applicabilità del termine decennale di prescrizione stabilito, in via generale, dall'art. 2946 c.c. e, qualora sia proposta domanda di risarcimento danni, del termine quinquennaleexart. 2947 c.c. decorrente «dal giorno in cui il fatto si è verificato». Nessuna disposizione contenuta nel Codice di proprietà industriale, infatti, stabilisce deroghe alle regole stabilite dal codice civile in tema di prescrizione.
Occorre peraltro precisare che la disciplina contenuta all'art. 8 della Direttiva non contrasta con quanto previsto dalla Direttiva Enforcementné, tantomeno, con la normativa TRIPS atteso che quest'ultima - al pari della Direttiva Enforcement- tace del tutto in merito alla prescrizione delle misure e delle azioni a tutela dei diritti di proprietà intellettuale; né può trarsi alcuna indicazione di senso contrario dalle disposizioni che concernono eccezioni ed usi ammessi in tema di brevetti, marchi e diritti d'autore poiché, a tacer d'altro, tali prescrizioni non riguardano la protezione dei segreti d'impresa. Semmai la disciplina di cui all'art. 8 della Direttiva può leggersi, in controluce, sullo sfondo dei principi generali recati dall'art. 7 TRIPS secondo il quale la protezione e la tutela dei diritti di proprietà intellettuale deve, fra l'altro, contribuire ad un equilibrio di diritti ed obblighi[86]. Il considerando n. 23 della Direttiva, infatti, non solo chiarisce che la disciplina della prescrizione delle azioni a tutela dei segreti di impresa ha per obiettivo quello di garantire la «certezza del diritto», esso rimarca altresì come una tale disciplina appaia ragionevole alla luce del dovere di controllo sui segreti da esercitarsi a cura dei legittimi detentori i quali sono tenuti a tutelare la segretezza delle informazioni riservate ed a controllarne secondo diligenza l'utilizzo.
Le disposizioni recate dall'art. 8 della Direttiva perseguono pertanto l'obiettivo di attuare un equilibrato rapporto tra la protezione degli aventi diritto, degli interessi dei terzi e, più in generale, del mercato. Di qui la conclusione che una tale disciplina (non solo non contrasta ma, a dirittura,) si presenta in sintonia con le indicazioni di principio provenienti dalla normativa TRIPS. Ciò appare significativo sotto l'angolo visuale del sistema italiano il quale, con la previsione di una disciplinaad hocin tema di prescrizione dei diritti che discendono dalla violazione di segreti commerciali, non si allontana dalle scelte di fondo già operate con l'introduzione del codice di proprietà industriale.
Da quanto esposto consegue che lo Stato italiano è senz'altro tenuto a prestare attuazione alle norme contenute nella Direttiva introducendo specifiche disposizioni a ciò deputate.
Nessuna esigenza di adeguamento sussiste avuto riguardo all'azione di risarcimento del danno derivante dalla violazione dei segreti commerciali che, anche in caso di contraffazione, è soggetta al termine di prescrizione di cinque anni: tale azione, infatti, benché presenti talune non secondarie peculiarità, è comunemente ricondotta all'ambito della responsabilità aquiliana, con le note conseguenze in punto di prescrizione. Al contrario, per quanto riguarda le rimanenti azioni e, in particolare, per le azioni cautelari, inibitorie e correttive, sussiste una specifica necessità adeguamento. Un'opzione ragionevole sarebbe quella di stabilire, anche per tali misure e rimedi, il termine quinquennale di prescrizione, lasciando per il resto immutata la disciplina generale, contenuta nel codice civile, riguardante il momento iniziale di decorrenza nonché le cause di interruzione e sospensione. Una scelta legislativa di tal fatta consentirebbe inoltre di equiparare i termini di prescrizione dei diversi rimedi a disposizione del legittimo detentore del segreto. Potrebbe inoltre prevedersi espressamente che il periodo di prescrizione inizi a decorrere dall'ultimo fatto costituente acquisizione, utilizzo o rivelazione illecita. Quest'ultima previsione, tuttavia, non appare strettamente necessaria ai fini dell'attuazione della Direttiva, atteso che a soluzione non diversa si perverrebbe anche per via interpretativa. Potrebbe, in alternativa, preferirsi un termine più ridotto e, in tal guisa, accordare prevalenza all'interesse pubblico primario della libertà di concorrenza in regime di pubblico dominio.
Per esigenze di coerenza sistematica, sarebbe inoltre consigliabile prevedere il medesimo termine di prescrizione anche per l'esperimento dei mezzi probatori ante causam che, pur non previsti dalla Direttiva, sono previsti dalla legislazione nazionale[87].
L'art. 9 della Direttiva è di cruciale importanza nell'ambito dell'impianto divisato dalla Direttiva. Il rilievo di tali disposizioni è testimoniato, fra l'altro, dall'attenzione ad esse dedicata nel Memorandume nella Valutazione di Impatto allegate alla Proposta di Direttiva presentata dalla Commissione. La tutela della riservatezza dei segreti commerciali nell'ambito dei processi che li riguardino è inoltre segnalata da taluni studi pubblicati dall'OCSE ed è tenuta in considerazione fra i fattori rilevanti ai fini della misurazione dell'effettività della tutela dei segreti commerciali[88].
I considerando della Direttiva, d'altro canto, rimarcano l'importanza della salvaguardia della riservatezza dei segreti commerciali al fine di rendere effettiva la possibilità dei legittimi detentori dei segreti medesimi di ricorrere alle misure ed alle procedure stabilite a tutela delle informazioni segrete. Secondo il considerando n. 24 della Direttiva, infatti, la prospettiva della perdita di riservatezza delle informazioni a seguito dell'instaurazione di un procedimento giudiziario, scoraggia i legittimi detentori di queste ultime dall'intentare azioni giudiziarie a tutela delle medesime. La confidenzialità delle informazioni, inoltre, sempre secondo il considerando citato, deve essere salvaguardata anche dopo il termine del processo e fin quando le informazioni non abbiano perduto la loro caratteristica di segretezza. Al contempo il medesimo considerando stabilisce che debbano comunque osservarsi misure atte a garantire il diritto delle parti ad un processo equo.
Secondo la valutazione di impatto condotta dalla Commissione, la necessità di una specifica disciplina in materia è dipesa dall'esiguità degli Stati membri attualmente in grado di garantire un livello adeguato di riservatezza dei segreti commerciali durante ed al termine del processo.
Disposizioni generali in materia di salvaguardia della riservatezza delle informazioni confidenziali nell'ambito dei processi riguardanti la protezione di diritti di proprietà intellettuale sono prescritte dagli artt. 42 e 43 TRIPS i quali dispongono, rispettivamente, in generale, che le norme di procedura debbano provvedere affinché le informazioni riservate siano identificate e protette[89] nonché, più specificamente, nell'ambito della raccolta delle prove, che queste ultime debbano essere sottoposte, nei casi in cui ciò risulti appropriato, alle misure che assicurino la protezione delle informazioni confidenziali[90].
Da quanto detto appare peraltro evidente come, al fine di apprestare idonea tutela ai segreti commerciali di cui all'art. 39 TRIPS, occorre senz'altro che le autorità giudiziarie dispongano dei poteri necessari per tutelare le informazioni segrete nel processo, e successivamente alla celebrazione dello stesso, pena la vanificazione della tutela "efficace" dei segreti commerciali richiesta dalle norme TRIPS (e dall'Art. 10terdella Convenzione dell'Unione di Parigi)[91].
Volgendo lo sguardo al diritto italiano, tralasciando le norme specifiche riguardanti la tutela della riservatezza nell'ambito della discovery, della descrizione e del sequestro[92], ed avuto riguardo alle regole processuali generali, occorre osservare come i consulenti tecnici d'ufficio o di parte sono senz'altro tenuti a serbare il segreto circa le informazioni apprese in conseguenza dell'esercizio della loro professione e/o del loro ufficio e, in caso di violazione, sono soggetti alle conseguenti responsabilità civili e penali. È inoltre certamente predicabile un dovere di riserbo dei difensori delle parti circa le informazioni apprese nel corso del processo ancorché non riguardanti la parte assistita. A tacer d'altro, infatti, le informazioni ricevute sono utilizzabili solo ai fini della predisposizione di adeguata "difesa" e non certo ai fini di uso (commerciale) in proprio o, peggio, di propalazione presso terzi (dietro remunerazione o meno).
Quanto alle cautele necessarie per preservare la divulgazione delle informazioni riservate, il giudice può senz'altro - alla luce delle norme vigenti - disporre le misure idonee, anche in vista della necessità di evitare che abbia luogo una diffusione delle informazioni in questione in epoca posteriore alla celebrazione del processo in conseguenza della pubblicazione della sentenza. A tal fine, ad esempio, può senz'altro disporsi l'omissione delle parti della sentenza che si presterebbero alla propalazione delle informazioni coperte da segreto. Qualche dubbio può forse porsi in merito alla possibilità da parte del giudice di ordinare la celebrazione delle udienze di merito in camera di consiglio, con accesso solo ai legali delle parti o, peggio, ad alcuni soltanto dei legali delle parti.
Una volta delineato il quadro della normativa internazionale e nazionale di riferimento è d'uopo soffermarsi sul contenuto dell'art. 9 (e dell'art. 15, par. 2) della Direttiva sui segreti d'impresa onde appurare se l'ordinamento interno sia o meno già in linea con le prescrizioni della Direttiva sui segreti commerciali. Com'è stato già rimarcato, la Direttiva non prevede alcuna norma in tema di acquisizione delle prove nei processi che riguardano la protezione dei segreti commerciali contro l'acquisizione, l'utilizzo o la divulgazione illeciti. Di conseguenza la Direttiva non stabilisce alcuna regola in merito alla tutela della riservatezza delle informazioni segrete nell'acquisizione delle prove, come, ad esempio, nell'esecuzione delladiscovery, della descrizione o del sequestro. Questi aspetti, invece, sono disciplinati dalla normativa italiana anche in merito alla tutela giurisdizionale dei segreti commerciali.
Il contenuto dell'art. 9 della Direttiva sui segreti commerciali può essere a sua volta scomposto in due serie di norme: la prima concerne i doveri a carico delle parti, così come a carico di coloro che a vario titolo partecipino al processo (legali; consulenti, testimoni, etc.) a tutela della riservatezza dei segreti commerciali; la seconda riguarda le misure che le autorità giudiziarie sono all'occorrenza autorizzate a disporre al fine di salvaguardare le informazioni segrete.
Soffermandosi sulla prima serie di norme, il par. 1 dell'art. 9 della Direttiva prevede che il divieto di utilizzo e di divulgazione a carico delle «parti», dei «loro avvocati» o «altri rappresentanti», del «personale giudiziario», dei «testimoni» ed «esperti» e, in generale, di tutti coloro «che partecipano ai procedimenti giudiziari in materia di acquisizione, utilizzo o divulgazione illeciti di un segreto commerciale, o che hanno accesso alla relativa documentazione processuale», sia condizionata ad una espressa indicazione circa la segretezza delle informazioni in questione da parte dell'autorità giudiziaria, su richiesta «debitamente motivata» della parte interessata, ancorché la Direttiva autorizzi gli Stati membri a prevedere che l'indicazione delle informazioni soggette al vincolo di segreto possa avvenire d'ufficio da parte dell'autorità giudiziaria medesima. Il medesimo par. 1, art. 9 prevede altresì che il divieto di utilizzo e di divulgazione a carico dei medesimi soggetti resti «in vigore» anche «dopo la conclusione del procedimento giudiziario», a meno che «una decisione definitiva» abbia «accertato che il presunto segreto commerciale non soddisfa i requisiti» previsti ai fini della sua protezione o, ancora, «se, nel tempo, le informazioni in questione diventano generalmente note o facilmente accessibili a persone che normalmente si occupano di questo tipo di informazioni».
Il par. 2 dell'art. 9 della Direttiva si occupa, invece, della seconda serie di norme sopra indicate e, cioè, delle misure atte a tutelare la riservatezza che possono essere disposte dall'autorità giudiziaria su richiesta di parte o, se così previsto dallo Stato membro, anche d'ufficio. Tali misure devono, quantomeno, contemplare la possibilità per le autorità giudiziarie di disporre: a) la limitazione all'«accesso, totale o parziale, a qualsiasi documento contenente segreti commerciali o presunti segreti commerciali, prodotto dalle parti o da terzi, ad un numero ristretto di persone»; b) la limitazione all'«accesso alle udienze e alle relative registrazioni o trascrizioni, quando sussiste la possibilità di divulgazione di segreti commerciali o presunti segreti commerciali, ad un numero ristretto di persone»; c) la messa a disposizione «a qualsiasi persona diversa da quelle incluse nel numero ristretto di persone di cui alle lettere a) e b), le decisioni giudiziarie in una versione non riservata, nella quale i punti contenenti segreti commerciali siano stati eliminati o oscurati». Si precisa inoltre che il numero delle persone di cui alle lettere a) e b) non debba essere «superiore a quanto necessario al fine di assicurare il rispetto del diritto delle parti del procedimento giudiziario a una tutela effettiva e a un processo equo e comprende almeno una persona fisica di ciascuna parte in causa, nonché i rispettivi avvocati o altri rappresentanti di tali parti del procedimento giudiziario».
A chiusura, oltre a ribadire la necessità del rispetto della normativa comunitaria a tutela del trattamento dei dati personali (par. 4, art. 9 della Direttiva), si stabilisce che, nella valutazione del rispetto del principio di proporzionalità nella concessione delle misure a tutela della riservatezza dei segreti commerciali, «le competenti autorità giudiziarie tengono conto della necessità di assicurare il diritto a una tutela effettiva e a un processo equo, dei legittimi interessi delle parti e, se del caso, di terzi, nonché dei potenziali danni a carico di una delle parti e, se del caso, di terzi, derivanti dall'accoglimento o dal rigetto di tali misure» (par. 3, art. 9 della Direttiva).
L'art. 15, par. 2, della Direttiva si lega al dettato dell'art. 9, in quanto stabilisce che la pubblicazione della sentenza cautelare o di merito debba avvenire con modalità tali da garantire «la riservatezza dei segreti commerciali come previsto all'articolo 9».
Ai fini dell'attuazione del dettato dell'art. 9 della Direttiva sui segreti commerciali nell'ordinamento italiano, giova rimarcare come, ai sensi dell'art. 1 della Direttiva, l'art. 9, par. 1, secondo comma, nonché i parr. 3 e 4 del medesimo art. 9, costituiscono regole di armonizzazione massima poiché considerati contrappesi necessari alle previsioni (di armonizzazione minima) contenute nel medesimo Articolo. Siffatte norme, infatti, come già ricordato, stabiliscono le ipotesi in cui il divieto di utilizzo e di divulgazione debba venir meno come pure i criteri cui l'autorità giudiziaria deve ispirarsi nell'accordare (o meno) le misure a tutela della riservatezza su richiesta della parte (o, se così previsto dalla legge dello Stato membro, anche d'ufficio).
Alla stregua dell'ordinamento processuale italiano non sussiste alcuna previsione espressa e specifica che autorizzi l'autorità giudiziaria a limitare l'accesso pieno ai documenti o alle attività di udienza ad alcuni soggetti soltanto, nonché a creare una versione "secretata" dei documenti e dei verbali d'udienza accessibile alle persone non autorizzate, come invece previsto dall'art. 9 par. 2 della Direttiva.
Da questo punto di vista, ancorché forse non strettamente necessitata in punto di diritto, potrebbe essere opportuna l'introduzione di norme corrispondenti a quelle dettate dal par. 2 dell'art. 9 e ciò, quantomeno, al fine di meglio chiarire l'estensione dei poteri giudiziali in punto di tutela della riservatezza dei segreti commerciali all'interno del processo in materia di diritti di proprietà industriale. La trasposizione di tali norme, inoltre, costituirebbe un sicuro punto di riferimento in grado di orientare la prassi giudiziale.
Sotto quest'angolo visuale, anzi, potrebbe non essere del tutto irragionevole l'introduzione, nel corpo del codice di proprietà industriale, di disposizioni di tenore corrispondente a quelle previste dalla Direttiva con un campo di applicazione più ampio, non circoscritto ai soli casi in cui la controversia verta in tema di acquisizione, utilizzo o divulgazione illeciti di segreti commerciali, come previsto dalla Direttiva, ma con applicazione estesa alla fase cautelare e di merito di qualsivoglia controversia concernenti diritti di proprietà industriale, purché venga in questione l'esigenza di proteggere i segreti commerciali di una delle parti in giudizio e, pertanto, anche del convenuto, con la salvezza, tuttavia, delle disposizioni specifiche concernenti la tutela della riservatezza nella fase di acquisizione probatoria. Le disposizioni della Direttiva, infatti, prevedono norme che contemperano in modo sufficientemente equilibrato il rispetto del principio del contraddittorio con la salvaguardia della riservatezza dei segreti commerciali in una fase diversa da quella dell'esperimento di mezzi di prova (se del caso ante causam) ove, a ben vedere, il diritto al contraddittorio risulta affievolito[93].
L'attuazione delle disposizioni di cui all'art. 9, parr. 1 e 2, non può pertanto refluire sulle norme attualmente in vigore in materia di discovery, sequestro e descrizione, dal momento che, in quell'ambito, le misure per la salvaguardia dei segreti commerciali (non solo possono, in punto di diritto, ma) devono (ragionevolmente) essere diverse da quelle previste dalla Direttiva che, invece, attengono al contatto (con i segreti commerciali) che avviene in udienza o mediante l'accesso ai documenti e, quindi, in una fase successiva o, comunque, diversa, rispetto a quella di acquisizione o esperimento dei mezzi probatori ove si pone innanzitutto un problema di modalità esecutive. Può anzi osservarsi come in tale fase la protezione della riservatezza dei segreti commerciali può senz'altro essere più incisiva. Come noto, ad esempio, nell'ambito dell'esecuzione delle misure di descrizione e sequestro, il giudice, già a norme vigenti, può autorizzare l'accesso alle sole persone tenute al vincolo di segreto (come i consulenti) e/o può disporre la secretazione dei documenti[94]. Anzi, proprio qualora si controverta di sottrazione di informazioni segrete, parte della dottrina propone di limitare l'accesso ai luoghi in cui detti dati sono conservati «al solo ufficiale giudiziario e al perito nominato dal giudice e precludendolo al ricorrente e ai suoi consulenti»[95].
A ciò deve aggiungersi che la prospettiva regolatoria delle due serie di norme appare certamente diversa. Le disposizioni di cui all'art. 9 della Direttiva puntano a salvaguardare la riservatezza delle informazioni segrete detenute da chi agisce in giudizio lamentando una loro violazione; le disposizioni previste dal codice di proprietà industriale in tema didiscovery, sequestro e descrizione prevedono, viceversa, la protezione delle informazioni riservate di colui che subisce la misura cautelare (se del casoante causam) e riguardano, pertanto, la sfera delle informazioni riservate del convenuto.
Da quanto detto, pertanto, si evince l'opportunità che le due serie di norme - quelle riguardanti la tutela della riservatezza nel processo e quelle concernenti la tutela della riservatezza nell'ambito dell'acquisizione probatoria - rimangano distinte anche a seguito del recepimento della Direttiva nell'ordinamento interno.
Quanto, poi, alla questione se le misure previste dal par. 2 dell'art. 9 debbano essere necessariamente accordate su domanda di parte o possano essere disposte anche d'ufficio, come anche consente la Direttiva, può forse seguirsi il medesimo principio che vige nel processo in materia di diritti di proprietà industriale avuto riguardo all'esperimento dei mezzi di prova. In tal senso sembra consigliabile che il legislatore italiano si avvalga dell'opzione consentita dalla Direttiva e preveda l'adozione delle misure in questione anche su iniziativa dell'autorità giudiziaria (cfr. art. 121, terzo comma, in materia di ordini di informazioni ed esibizione; art. 129 c.p.i. in materia di descrizione e sequestro).
In merito alle norme recate dal par. 1 dell'art. 9, se può dirsi che consulenti tecnici, avvocati e cancellieri sono senz'altro tenuti a far uso delle informazioni ai soli fini di giustizia, lo stesso non può dirsi per le parti ed i testimoni i quali, tuttavia, sono pur sempre soggetti alle norme che, in generale, vietano l'utilizzo e la divulgazione delle informazioni commerciali segrete. Anche tali disposizioni, tuttavia, ad avviso di chi scrive, possono (ma non debbono) essere utilmente trasposte all'interno del codice di proprietà industriale, anche perché esse ragionevolmente prevedono, a garanzia degli obbligati, che l'autorità giudiziaria abbia l'onere di indicare quali informazioni debbano considerarsi coperte da segreto. Tale dichiarazione, per le ragioni già esposte, potrebbe essere effettuata dall'autorità giudiziaria anche d'ufficio.
Siffatte disposizioni, inoltre, come quelle previste dal par. 2 del medesimo art. 9, dovrebbero essere trasposte nel nostro ordinamento interno con una portata più ampia di quella prevista dalla Direttiva e riguardare, più in generale, tutti i casi in cui, in una controversia industrialistica, sorga l'esigenza di salvaguardare i segreti industriali di una delle parti. L'interpretazione qui caldeggiata a riguardo della portata delle disposizioni dettate dall'artt. 9 della Direttiva all'atto della trasposizione interna, appare in linea con quanto indicato dall'art. 41 TRIPS il quale mette capo ad un precetto generale, come tale estensibile a tutti i casi in cui si ponga il problema di salvaguardare le informazioni segrete di taluna delle parti del giudizio. Se finora tale generale precetto è stato attuato senza la necessaria presenza di disposizioni di dettaglio, nel momento in cui il legislatore nazionale decida di intervenire su una fattispecie specifica, ancorché certamente la più importante, per ragioni di coerenza sistematica, sarebbe consigliabile che l'intervento abbia la medesima ampiezza divisata dall'art. 41 TRIPS, ponendosi, in caso contrario, un problema di disparità di trattamento da colmare in via interpretativa secondo il canone di ragionevolezza (imposto, come noto, dall'interpretazione ricevuta dell'art. 3 Cost.).
Passando all'esame delle misure cautelari e di merito, la Direttiva, come detto, ricalca in larga parte la disciplina prevista dalla DirettivaEnforcement. La Direttiva sui segreti commerciali, tuttavia, presenta talune non secondarie differenze: per un verso, emerge l'assenza di regole presenti nella DirettivaEnforcement, per altro verso, al contrario, deve constatarsi la presenza di regole nuove o diverse rispetto a quelle contenute dalla Direttiva 2004/48/CE.
Fra queste ultime deve ricordarsi anzitutto la precisa elencazione, contenuta all'art. 11, par. 2 e all'art. 13, par. 1, degli elementi rilevanti ai fini della decisione, rispettivamente, circa l'accoglimento ed il rigetto della domanda di misure cautelari, ingiunzioni e misure correttive, nonché ai fini della scelta della misura più idonea alla luce del principio di proporzionalità. Tali elementi sono: «il valore e le caratteristiche specifiche del segreto commerciale; le misure adottate per proteggere il segreto commerciale; la condotta del convenuto nell'acquisire, utilizzare o divulgare il segreto commerciale; l'impatto dell'utilizzo o della divulgazione illeciti del segreto commerciale; i legittimi interessi delle parti e l'impatto che l'accoglimento o il rigetto delle misure potrebbe avere per le parti; i legittimi interessi dei terzi; l'interesse pubblico; e la tutela dei diritti fondamentali».
Nulla di simile è previsto dalla Direttiva Enforcementla quale, invece, si limita a richiamare il principio di proporzionalità di cui l'autorità giudiziaria deve tener conto nel concedere o meno le misure richieste. Il silenzio in merito agli elementi alla cui stregua valutare il rispetto del principio di proporzionalità è stato, tuttavia, colmato da interventi interpretativi della Corte di giustizia[96].
Poiché, peraltro, le previsioni contenute all'art. 11, par. 2 della Direttiva sui segreti commerciali non sono previste dalle norme TRIPS, né dalla DirettivaEnforcemented inoltre, poiché non in contrasto con queste ultime, l'ordinamento italiano deve senz'altro adeguarsi al loro dettato.
A tal proposito può essere opportuno un inserimento di disposizioni di tenore corrispondente nel corpo del codice di proprietà industriale. Per convincersene basti pensare al dettato dell'art. 124, co. 6, c.p.i., in materia di misure correttive e sanzioni civili, il quale, pur prevedendo, nel solco della DirettivaEnforcement, che «[n]ell'applicazione delle sanzioni l'autorità giudiziaria tiene conto della necessaria proporzione tra la gravità delle violazioni e le sanzioni, nonché dell'interesse dei terzi», non menziona "l'interesse pubblico" né "la tutela dei diritti fondamentali" i quali, invece, sono espressamente considerati dalla Direttiva. Uno fra i possibili interessi pubblici che possono venire in rilievo è peraltro tenuto presente dal medesimo art. 124, terzo comma, c.p.i., il quale dispone che non possa «essere ordinata la distruzione della cosa, e l'avente diritto può conseguire solo il risarcimento dei danni, se la distruzione della cosa è di pregiudizio all'economia nazionale». Com'è evidente, tuttavia, siffatta disposizione non considera altri possibili interessi pubblici eventualmente coinvolti che ai sensi della Direttiva devono essere soppesati nel rigetto o nella concessione della misura e, fra questi, «la pubblica sicurezza …, la sanità pubblica e la protezione dell'ambiente» (v. considerando n. 21 della Direttiva).
Per quanto concerne la pubblicazione (rectius: divulgazione) delle decisioni - cautelari o definitive - in materia di protezione dei segreti commerciali, l'ordinamento italiano - all'art. 126 c.p.i. - prevede che «[l]'autorità giudiziaria p[ossa] ordinare che l'ordinanza cautelare o la sentenza che accerta la violazione dei diritti di proprietà industriale sia pubblicata integralmente o in sunto o nella sola parte dispositiva, tenuto conto della gravità dei fatti, in uno o più giornali» indicati dall'autorità giudiziaria che intenda in tal senso provvedere, «a spese del soccombente». Gli interpreti hanno peraltro chiarito come il potere discrezionale di disporre la pubblicazione debba avvenire su domanda di parte. Nell'esercizio di tale potere discrezionale, peraltro, il giudice, secondo le norme vigenti, deve tener conto della «gravità dei fatti» (così come previsto dalla formulazione attuale dell'art. 124, sesto comma, c.p.i.).
L'art. 15, par. 3 prevede, al primo comma, che «[n]el decidere se ordinare o meno una misura di cui al paragrafo 1 e nel valutarne la proporzionalità, le competenti autorità giudiziarie considerano, se del caso, il valore del segreto commerciale, la condotta dell'autore della violazione nell'acquisire, utilizzare o divulgare il segreto commerciale, l'impatto dell'utilizzo o della divulgazione illeciti di detto segreto, nonché il rischio di ulteriore utilizzo o divulgazione illeciti del segreto commerciale da parte dell'autore della violazione». Il secondo comma del medesimo art. 15, par. 3, prevede che «[l]e competenti autorità giudiziarie» debbano «considera[re] altresì se le informazioni sull'autore della violazione siano tali da consentire l'identificazione di una persona fisica e, in tal caso, se la pubblicazione di tali informazioni sia giustificata, in particolare alla luce degli eventuali danni che tale misura può provocare alla vita privata e alla reputazione dell'autore della violazione».
Se non ci si inganna, tuttavia, tali principi e criteri direttivi che l'autorità giudiziaria è chiamata a seguire nell'applicazione della misura della divulgazione delle sentenze, per un verso, specifica in relazione alla materia della violazione dei segreti commerciali, i parametri di riferimento già racchiusi nella formula «gravità del fatto» ed altresì desumibili dalla funzione comunemente della misura della divulgazione delle decisioni in materia di tutela dei diritti di proprietà industriale, e, per altro verso, richiama la necessità del rispetto della vita privata e della reputazione della persona che costituiscono senz'altro interessi meritevoli di essere considerati già alla luce della normativa vigente. Consegue, ad avviso di chi scrive, che l'ordinamento italiano è, sotto questo profilo, già conforme al dettato dell'art. 15 della Direttiva.
La Direttiva sui segreti commerciali - a differenza della DirettivaEnforcement- contiene elementi di flessibilità, nell'applicazione delle misure cautelari nonché delle misure definitive, che sono vincolanti e non meramente opzionali per gli Stati membri.
Le disposizioni in questione sono contenute, per le misure cautelari, all'art. 10, par. 2, e, per quanto concerne le misure definitive, all'art. 13, par. 3 della Direttiva. Esse ricalcano analoghe disposizioni della disciplina TRIPS e della DirettivaEnforcement(v. art. 9, par. 6 ed art. 13 Dir.Enforcement),salvo, come anticipato, per la circostanza che esse non contengono regimi opzionali per gli Stati membri bensì norme di armonizzazione massima.
L'art. 10, par. 2 prevede che gli Stati membri debbano assicurare «che le autorità giudiziarie possano, in alternativa» alle misure cautelari già previste dal nostro ordinamento «subordinare il proseguimento del presunto utilizzo illecito di un segreto commerciale alla costituzione di garanzie intese ad assicurare il risarcimento in favore del detentore del segreto commerciale», fermo restando che tale rimedio non possa operare per consentire la «divulgazione di un segreto commerciale». Quest'ultima disposizione sembrerebbe legarsi, costituendone l'anticipazione in sede cautelare, a quella di cui all'art. 13, par. 3 il quale stabilisce che «[g]li Stati membri provvedono affinché, su richiesta del soggetto cui potrebbero essere applicate le misure» inibitorie e correttive stabilite dalla Direttiva, «la competente autorità giudiziaria possa ordinare il pagamento di un indennizzo alla parte lesainvecedell'applicazione di dette misure, se sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni: a) il soggetto interessato, al momento dell'utilizzo o della divulgazione, non era a conoscenza né, secondo le circostanze, avrebbe dovuto essere a conoscenza del fatto che il segreto commerciale era stato ottenuto da un altro soggetto che lo aveva ottenuto o stava divulgando illecitamente; b) l'esecuzione delle misure in questione può provocare un danno sproporzionato al soggetto interessato; e c) l'indennizzo alla parte lesa appare ragionevolmente soddisfacente». A sua volta il considerando n. 29 esemplifica il caso tipico in cui è soddisfatta la condizionesuba) del par. 3 dell'art. 13 della Direttiva e consistente nella circostanza dell'originario acquisto «in buona fede» del segreto commerciale da parte di una persona che «abbia appreso solo in un momento successivo, ad esempio all'atto della notifica da parte del detentore originario del segreto commerciale, che la sua conoscenza del segreto in questione proveniva da fonti che stavano utilizzando o divulgando il segreto in questione in modo illecito». Il medesimo considerando ha cura peraltro di precisare che «qualora l'utilizzo illecito del segreto commerciale costituis[ca] una violazione della legge diversa da quella prevista nella presente direttiva o [sia] tale da poter recare danno ai consumatori, tale utilizzo illecito non dovrebbe essere consentito».
Il comma secondo della disposizione in questione stabilisce peraltro che l'indennizzo «non supera l'importo dei diritti dovuti se il soggetto interessato avrebbe richiesto l'autorizzazione ad utilizzare il segreto commerciale in questione per il periodo di tempo per il quale l'utilizzo del segreto commerciale avrebbe potuto essere vietato», qualora il soggetto interessato sarebbe stato altrimenti soggetto a misure inibitorie[97].
Al di là dell'utilizzo del termine risarcimento nel considerando n. 29 e di indennizzo all'art. 13, par. 3 della Direttiva, tali disposizioni, ancorché non adottate dal sistema italiano di tutela giurisdizionale dei diritti di proprietà industriale, sono state fatte oggetto di commento in quanto già contenute (come regime opzionale) all'art. 44 TRIPS e all'art. 12 della Direttiva Enforcement. Ben noto è inoltre il dibattito sviluppatosi in merito alla desiderabilità, in termini di politica del diritto, di rimedi obbligatori in sostituzione di rimedi reali nel quadro della protezione dei diritti di proprietà intellettuale. In questa sede, peraltro, tali aspetti non possono che essere oggetto di un rapido cenno. Può solo osservarsi come le disposizioni di cui all'art. 13, par. 3, della Direttiva, una volta che siano state recepite nell'ordinamento italiano, disvelano discrete possibilità d'impiego atteso che, nel quadro della protezione dei segreti commerciali, ed in assenza di registri pubblici, appare tutt'altro che infrequente il verificarsi di ipotesi di innocent infringements[98].
Fra le disposizioni opzionali contenute dalla Direttiva vanno viceversa annoverate quelle contenute dall'art. 14, par. 1, secondo comma, il quale prevede che «[g]li Stati membri poss[a]no limitare la responsabilità a carico dei dipendenti nei confronti del datore di lavoro per l'acquisizione, l'utilizzo o la divulgazione illeciti di un segreto commerciale del datore di lavoro, in caso di danni causati involontariamente».
Tali disposizioni si distanziano da quanto previsto dalla DirettivaEnforcemento dalle norme TRIPS. In tal senso, pertanto, qualora lo Stato italiano decidesse di trasporre tali previsioni normative, ciò dovrebbe fare in vista della tutela giurisdizionale dei segreti commerciali soltanto.
1) V. N. Pires de Carvalho, The TRIPS Regime of Patents and Test Data4, Kluwer Law International, 2014, 519, nt. 1214.