Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeISSN 2282-667X
G. Giappichelli Editore

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Norme, principi e clausole generali nel diritto commerciale: un'analisi funzionale (di Francesco Denozza)


Il presente lavoro si inserisce nell'ambito dell'ampio dibattito relativo al tema delle clausole generali e, dopo essersi soffermato sulla contrapposizione, propria dell'elaborazione giuridica anglosassone, trarulesestandardse delle ragioni per le quali il legislatore potrebbe preferire costruire una norma come unarulepiuttosto che come unostandarde viceversa, si propone di segnalare alcuni strumenti logici a disposizione degli interpreti per dare un concreto significato a norme contenenti termini e/o riferimenti generici. In particolare, la domanda a cui si cerca di rispondere è cosa possa fare l'interprete di fronte ad una norma che contiene un termine vago, un concetto suscettibile di diverse concezioni e così via, evidenziando come il medesimo, mediante la valorizzazione di una ratio, la possibilità di procedere a bilanciamenti e la valorizzazione della pluralità di concezioni dello stesso concetto, possa arricchire il novero dei criteri di giudizio rilevanti e gli strumenti di ragionamento a disposizione dell'interprete.

Alla luce delle considerazioni svolte con riguardo ai predetti temi, il lavoro prosegue proponendosi di rispondere a un ulteriore, ancor più importante, quesito: qual è la funzione dei principi e delle clausole generali e qual è il loro rapporto con gli interessi sottostanti?

Nell'ultima parte dell'articolo si svolgono quindi alcune osservazioni in merito alla funzione delle clausole e norme generali - e allo sforzo dell'interprete di sfruttare le stesse in direzione di una maggior apertura valutativa - confrontando il modo tradizionale di concepire le clausole generali come strumenti di apertura del diritto ai valori della società con quello proprio dell'analisi economica del diritto.

The paper deals with the vast debate concerning the general clauses' theme. After focusing on the relationship between rules and standards, which characterizes the debate among Anglo-Saxon jurists, and on the reasons that could induce a legislator to prefer a rule instead of a standard (and vice versa), the paper proposes some rational instruments for giving concrete meaning to rules containing general terms and definitions. In particular, the question to answer is what a jurist or a practitioner of law can do in the presence of rules containing vague terms or concepts subject to various interpretations. With regard to this question, the author highlights that jurists and practitioners, by attaching importance to theratioof a rule or to different concepts of the same term, or by means of possible trade-offs, could increase the evaluation standards and the rational instruments at their disposal.

In light of the arguments put forward as regards the abovementioned themes, the paper goes on to answer to another, more important, question: what is the scope of the general clauses and principles and their relationship with the underlying interests?

In the last part of the paper, therefore, some arguments relevant to the scope of the general clauses and rules - and the attempt of jurists and practitioners of law to use them towards greater judgment openness - are carried out. In particular, the author compares the traditional way to define general clauses as instruments for adapting the regulation to society's values with that used by the law and economics.

CONTENUTI CORRELATI: diritto commerciale

Sommario/Summary:

1. Diversi livelli di elasticità delle norme: rules, standards e clausole generali - 2. Rigidità ed elasticità: i fattori che governano la scelta. - 3. L’apertura valutativa: vaghezza, bilanciamenti, concezioni. - 4. Apertura valutativa e interessi sottostanti - NOTE


1. Diversi livelli di elasticità delle norme: rules, standards e clausole generali

Come è ben noto il terreno di coltura della nozione di clausola generale è il pensiero giuridico continentale(1). I giuristi anglosassoni preferiscono lavorare con un apparato concettuale che si limita per lo più ad utilizzare la bipartizione generale tra rules e standards. Nel proporre il tema del nostro prossimo convegno il nostro riferimento culturale era probabilmente più vicino all'impostazione anglosassone che non a quella continentale. Lo scopo è infatti quello di raccogliere contributi che si occupino non tanto di fare una mappa delle clausole generali presenti nel diritto commerciale (impresa resa tra l'altro difficilissima dalla assenza di una precisa definizione di clausola generale universalmente riconosciuta(2) quanto di analizzare l'evoluzione, nei singoli settori della disciplina, verso una maggiore specificità normativa oppure verso un maggior ricorso a concetti generali. Il riferimento a rules v. standards sarebbe stato perciò appropriato. Lo abbiamo evitato prima di tutto per rivendicare un richiamo ad una tradizione -la nostra - che in tanto può sviluppare un utile confronto con quella che oggi è la cultura dominante a livello mondiale, proprio in quanto riesca ad evitare il totale appiattimento del proprio apparato concettuale (che, tra l'altro, anche il dominio linguistico contribuisce a veicolare). Ma anche per più specifiche ragioni che attengono all' eccesso di semplificazione implicato dal ricorso alla coppia concettuale rule- standard. Chiunque abbia avuto qualche contatto con la letteratura in materia(3) difficilmente è sfuggito alla noia di un elenco lungo, ma sostanzialmente sempre uguale a se stesso, di fattori che militano pro o contro l'uso di norme del tipo " agli incroci ci si deve fermare" oppure di norme del tipo " gli incroci vanno attraversati con cautela". Con questo non si vuole negare l'importanza di un'analisi volta a stabilire quando è meglio ricorrere all'una o all'altra formula (anzi, una simile ricognizione con riferimento ai problemi attuali del diritto commerciale sarebbe una importante acquisizione del nostro convegno di febbraio). Si vuole solo sottolineare che esistono come vedremo altri problemi che non sembrano catturati adeguatamente dal dibattito sull'opportunità di ricorrere all'una o all'altra delle due tecniche normative. Se il dibattito anglosassone sembra soffrire di un certa semplicità e [...]


2. Rigidità ed elasticità: i fattori che governano la scelta.

Come è ben noto, la contrapposizione tra rules e standards non è netta, ma di grado. Non ci sono tipi puri, ma solo norme che assomigliano più a rules e norme che assomigliano più a standards. Ciò premesso, le variabili principali emerse nel dibattito americano con riferimento alla utilizzazione dell'una o dell'altra tecnica, mi sembrano le seguenti: La quantità e varietà dei fatti da cui dipende l'applicazione della norma (i "triggers") - è ovvio che se il legislatore vuole che una certa regola si applichi solo in presenza di alcuni fatti molto precisi, è più adatto il ricorso alla rule; se i fatti sono imprevedibili e variabili il ricorso allo standard si impone. Ciò vale in particolare per i fatti futuri ( notoriamente uno standard di diligenza consente di coprire anche le ipotesi di misure di prevenzione che non esistevano al momento della emanazione della norma e che non potevano essere per definizione contemplate dalla norma stessa). I costi dell'analisi preventiva dei "triggers"- per tracciare con precisione i confini di una regola il legislatore deve essere sicuro di avere preso in considerazione tutti i fatti possibili per stabilire a quali fatti attribuire la funzione di "interruttori" che determinano l'applicazione o la non applicazione della regola ( es. la regola che pone il limite di velocità a 50 all'ora: occorre essere sicuri che il limite non sia troppo alto nei giorni di pioggia o troppo basso nei giorni di bel tempo). A volte lasciare ai giudici la valutazione di ciascuna delle possibili variabili che possono incidere sulla qualificazione di una situazione è molto più economico. L'importanza attribuita (nell' ambito considerato) alla certezza applicativa - è ovvio che uno standard è di applicazione più incerta (almeno fino a quando non si sia consolidata una certa interpretazione  giurisprudenziale) di una rule ( sempre che la rule non contenga troppe qualificazioni ed eccezioni: si pensi al dibattito sull'opportunità di ricorrere a una disciplina dei mercati finanziari(6) per principi o per regole, dove l' apparente vantaggio della disciplina per regole è vanificato dalla necessità di concretizzare una minuziosa casistica di regole ed eccezioni ). Ciò può rilevare ovviamente sotto diversi profili; tra i meno tradizionalmente scontati il profilo dell' incentivo [...]


3. L’apertura valutativa: vaghezza, bilanciamenti, concezioni.

Ricorrendo a tre esempi, vorrei brevemente illustrare, i fenomeni cui mi riferisco con il termine apertura (chiusura) valutativa. Un primo esempio è fornito dalla possibilità di lavorare su una prima distinzione, quella tra generalità e vaghezza(9). La generalità attiene alla quantità di enti cui un termine è in grado di riferirsi, mentre la vaghezza attiene invece alla quantità di casi, c.d. borderline(10), per i quali vi è un'oggettiva incertezza circa la riferibilità a loro del predicato in questione. Così il termine "insetto" è molto generale ma relativamente poco vago. Il termine "calvo" è meno generale (le persone calve comunque definite sono sicuramente meno degli insetti) ma molto più vago (i confini del predicato calvo sono molto più incerti dei confini del predicato insetto). Si tratta ovviamente di una differenza di grado. Possono esistere incertezze anche relativamente alla veridicità dell'enunciato x è un insetto, ma in genere di portata molto inferiore alle incertezze che sorgono quando si tratta di stabilire se è vero che il sig. y è calvo. Dal punto di vista giuridico mi sembra che la differenza rilevi soprattutto con riferimento alla rilevanza della ratio della norma, che come si sa è lo strumento principale utilizzato dai giuristi per ridurre l'estensione della vaghezza (è una certa concezione della ratio della norma che può permettere di escludere che un'automobile a pedali sia un veicolo- termine affetto qui da c.d. vaghezza combinatoria- ai fini dell'applicazione della norma che vieta l'ingresso dei veicoli nei parchi). La mia tesi è che l'interprete spesso può decidere se valorizzare la generalità o la vaghezza di un termine. Per esempio, il riferimento alle pratiche ingannevoli contenuto nella direttiva sulle pratiche scorrette e nel codice del consumo può essere interpretato come un'aspirazione alla generalità, nel senso che il legislatore avrebbe inteso ricomprendere tutto e solo il genere delle pratiche comunemente classificabili come ingannevoli, genere peraltro troppo ricco per ricorrere ad un elenco completo. In alternativa, il ricorso a un termine generale che si aggiunge alla elencazione di casi specifici può essere interpretato come volontà di introdurre elementi di vaghezza. In questa seconda prospettiva si potrebbe aprire per [...]


4. Apertura valutativa e interessi sottostanti

Veniamo all'ultima questione, quella relativa alla funzione delle clausole generali e al loro rapporto con gli interessi sottostanti. Siamo ora in grado di apprezzare il fatto che questioni analoghe si pongono non solo con riferimento alle clausole generali in senso stretto, ma in tutti i casi in cui l'interprete dispone di una ragionevole alternativa tra ampliare o restringere l' apertura valutativa di una norma. Ci si può allora domandare quale sia il senso della tendenza a favorire (scoraggiare) questo processo. La risposta a questa domanda coinvolge una serie di problemi fondamentali (il ruolo dell'interprete, la completezza dell'ordinamento, il rapporto tra diritto e morale, ecc.) stancamente familiari a tutti i giuristi sin dai primi anni di studio. Non è perciò questo il luogo per affrontare questi quesiti e problemi in tutta la loro complessità. Qui vorrei limitarmi a qualche osservazione confrontando il modo tradizionale e un po' retorico di concepire le clausole generali come strumenti di apertura del diritto ai valori della società (se non addirittura come strumenti di progresso morale e politico del sistema giuridico) con il modo di concepirle proprio dell'analisi economica del diritto, che è l'unico movimento di pensiero che negli ultimi decenni abbia saputo coagulare un consenso vasto e qualificato (nel senso di consenso motivato dall'adesione a precisi assunti e canoni interpretativi). Ho già accennato al fatto che l'analisi economica concepisce la funzione delle clausole generali ( e del diritto in genere o, almeno, di gran parte di esso) come semplice ausilio rispetto alla razionalità limitata degli agenti e come possibile rimedio ai c.d. fallimenti del mercato(16). Essa spiega in tal modo sia la ragione del ricorso a clausole generali (la razionalità limitata del legislatore, incapace di prevedere tutte le manifestazioni che può assumere un fallimento del mercato) sia la funzione delle medesime (l'occasionale correzione dei risultati inefficienti che possono essere prodotti da qualche imperfezione del mercato). Ci si può chiedere, allora, in quale rapporto questa prospettiva, indubbiamente efficace e coerente, stia con le diverse impostazioni alternative che in variegata maniera fanno generico riferimento a valori presunti superiori (rispetto all'efficienza(17)) ma spesso, in realtà, molto mal definiti(18). La mia opinione è nel senso che queste [...]


NOTE